venerdì 16 luglio 2010

Non ci siamo, non ci siamo ancora


La Crimen sollicitationis fu licenziata solo in latino dal Sant’Uffizio, sia nella prima edizione (1922) che nella seconda (1962), ma soprattutto era “servanda diligenter in archivo secreto curiae” “non pubblicanda nec ullis commentariis augenda”. Guai a farne sapere qualcosa ai laici, insomma, e infatti siamo venuti a sapere della sua esistenza solo nel 2001. La si citava nella De delictis gravioribus, licenziata proprio quell’anno dal Sant’Uffizio (intanto divenuto Congregazione per la Dottrina per la Fede), anche stavolta solo in latino, indirizzata esclusivamente agli “interesse habentes”.
Prima di ogni altra differenza con le Normae de gravioribus delictis, licenziate ieri, e col Regolamento del 2003 (reso pubblico solo nel marzo di quest’anno), c’è che stavolta dalla Santa Sede è licenziata versione anche in italiano. In più, le Normae sono strombazzate urbi et orbi, subito, mentre il Regolamento ha dovuto aspettare 7 anni e la Crimen sollicitationis ne ha dovuti aspettare 79. Potremmo dire che la riservatezza sulle circolari interne va drasticamente riducendosi, col tempo.
Rimane, invece, la consegna di quel segreto pontificio – qui, nelle Normae, all’art. 30, §1 – che da sempre è raccomandato sulle cause ecclesiastiche riguardanti chierici che hanno commesso abusi su minori, ma negli ultimi tempi con qualche pur vano sforzo di dimostrarlo a tutela della vittima, che nella Crimen sollicitationis e nella De delictis gravioribus neanche era dichiarato. Come dire che una certa filosofia di vita è conservata.

Tutti in queste ore stanno sottolineando le novità introdotte, che sarebbe ingeneroso negare, ma ingenuo credere possano risolvere il problema per come lo affrontano. Lo affrontano malissimo, come sempre è stato fatto, perché anche in queste Normae stuprare un bambino rimane “delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni” (art. 6, §1, 1°): il delitto non è “contro il minore”, ma “contro il sesto comandamento”; il chierico non lo commette “contro il minore”, ma “con” lui.
La parte lesa è il bambino solo in quanto occasione del delitto contro il Decalogo. Può sembrare niente, ma è tutto: è come chiedere perdono a Dio dei crimini commessi contro gli ebrei, ma non agli ebrei (e infatti così è stato nel 2000).
Nel fondo della sua filosofia di vita, il chierico continua a far fatica ad ammettere che debba dar conto al laico del danno che ha procurato al laico, ma pensa che, regolata la faccenda con Dio, il più è fatto. Diciamo che non ammette penitenza laica, se non come forma degradata della Penitenza.
Nel reato commesso da un chierico, Dio è chiamato a triangolare, cosa che risulta utile al chierico, perché ministro di Dio. È tutto un altro modo di accettare il giudizio, e però il solito, quello cui il chierico è convinto di aver diritto. Non ci siamo, non ci siamo ancora.

2 commenti:

  1. eh no, hai ragione, non ci siamo ancora e poi mai.
    contemplano il delitto contro la legge di dio (il dio dei preti, la legge di cui essi sono e si diachiarano unici interpreti e gerenti).

    per i delitti penali vale solo una legge, tranne che per ... i criminali. i quali hanno una legge loro, come la mafia, la 'ndragheta, le quali hanno, come la chiesa, dei propri codici.

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  2. Fumo neglio occhi, aria fritta; lo scopo è solo quello di instillare nelle menti dei semplici che è giusto che sia la Chiesa e solo la Chiesa a occuparsi dei delitti commessi dai preti, e non invece la giustiza degli Stati laici. Ma che diavolo, un prete è anzitutto un cittadino e deve rispondere alla giustizia dello Stato come tutti gli altri cittadini. Poi, se è iscritto alla Chiesa XYZ o alla Bocciofila o ai Boy Scout, sono affari suoi.
    Estiqaatsi ha parlato.

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