lunedì 13 settembre 2010

“Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza”


Troviamo la conscientia in molti autori precristiani e già ha il significato di tribunale interno all’individuo: come con pietas e con caritas, i cristiani si sono limitati ad appropriarsi del termine e a riformarlo. Nella conscientia precristiana il giudice del tribunale interno condensa in sé il patrimonio di norme che regolano il sociale in senso lato e, dunque, c’è una conscientia di padre e una di figlio, una conscientia di padrone e una di servo, e al suo cospetto l’imputato è chiamato a rispondere in quanto padre o figlio, padrone o servo; nella conscientia cristiana, giudice e imputato sono entrambi “a immagine di Dio” e lo statuto morale è inscritto nella triangolazione col trascendente che sta prima e sopra del sociale.
La cum-scientia precristiana dà agli individui una consapevolezza che è nella loro storia ed essi sono cum-scientes in essa e per essa; quando Dio irrompe in essa, facendosi Uomo, il cum- che le era intraneo si fa estraneo ad essa: la promessa dell’eternità pone ogni scire e ogni cum-scire nell’inamovibile del rivelato.
In Quintiliano, per esempio, la coscienza vale quanto il parere di un’assemblea (conscientia mille testes); col cristianesimo, invece, Dio basta e avanza come testimone. Cosa è accaduto all’individuo? Quello che è già accaduto all’assemblea: l’ecclesia (un altro termine di cui i cristiani si sono appropriati, riformandolo da corpo sociale a corpo mistico, da società a chiesa) non ha più norma umana, ma divina. La legge sta sopra l’individuo, come prima, ma adesso il patto che la fonda non sta più nella consuetudine fatta sacra in forza di un vincolo che impegna l’uomo all’uomo: è il sacro che si fa consuetudine, e il vincolo che impegna l’uomo all’uomo è in forza della fondazione trascendente della legge. Così per l’anima: quella precristiana è mero spirito vitale, ma col cristianesimo viene da Dio e a Dio va, salvo a perdersi (e tuttavia in eterno).
Ecco perché bisogna fare molta attenzione quando i cristiani parlano di coscienza e di libertà di coscienza. Se la loro libertà è possibile solo nella loro verità, l’unica possibile libertà di coscienza sta nell’obbedienza alla verità della legge divina, rivelata alla chiesa e tramandata da essa: ogni altra libertà è falsa. In questo corpo mistico c’è un capo, vicario di Cristo, che alla legge dà una dimensione magisteriale, sicché per un cattolico come si deve la libertà di coscienza non può portare lontano da ciò che ordina il papa.

Poco più di quarant’anni fa, Joseph Ratzinger scriveva: “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica” (Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134 –Herder and Herder, 1967-1969). Franca è l’eco della celeberrima frase di John Henry Newman: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo, brinderò, se volete, al papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al papa” [Lettera a William Ewart Gladstone]. Ma le richieste dell’autorità ecclesiastica possono essere disattese, se rettamente ispirate alla verità? E chi può dire quando non lo siano?
Vent’anni dopo, intrattenendosi sulla dottrina della coscienza in Newman, che vent’anni dopo avrebbe fatto santo, Ratzinger rispondeva a queste domande: “Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del papa: la libertà di coscienza non si identifica affatto col diritto di «dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili» [Lettera al Duca di Norfolk]. In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del papa. Infatti la sua forza viene dalla rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e «la sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e dellacoscienza» [ibidem]. […] Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza”. Lo sapevamo, ma è bello sentirselo ripetere.

3 commenti:

  1. obbedienti quindi alla coscienza, ma "illuminata" da quella papale, cioè dall'autorità, come se fossimo docili strumenti incline all'errore, incapaci di per sé ... pecorelle.

    come se la coscienza fosse qualche cosa di metastorico, e quella dello schiavo fosse la stessa del suo padrone (ma poi quella di quest'ultimo, guarda caso, è sempre più affine a quella del papa, grande padrone lui stesso)

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  2. Di molti anni dopo, ma ancora da cardinale, Ratzinger è tornato sull'argomento, con maggiore precisione; anche se contestabile nella tesi di fondo, il ragionamento risulta aricolato e approfondito. Vale la pena leggerlo.
    http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=16

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  3. Così com'è bello leggere un simile argomentare.

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