lunedì 20 dicembre 2010

Passa al cabaret

Luigi Ferrarella (1) e Michele Ainis (2) firmano due articoli che smerdano Maurizio Gasparri come merita. Massimo D’Alema (3) ci prova, ma si affida interamente a quel suo fare sprezzante che dà per superflua ogni argomentazione. Così, tutto sommato finisce per smerdarsi un poco pure lui, perché l’uomo politico, inteso come professionista della politica, è uno che deve produrre argomenti convincenti e qui D’Alema non ne produce: Gasparri sbaglia perché è Gasparri. D’Alema viene meno a un suo preciso dovere, quello di produrre argomenti convincenti perché la proposta di un avversario politico risulti insensata anche a chi non condivida il pregiudizio negativo sulla sua persona, e lo evade nell’intrattenimento dei fidelizzati.
Ritengo assai grave questa mancanza. Nello specifico penso che un professionista della politica avrebbe dovuto essere capace di sintetizzare gli argomenti di Ferrarella e di Ainis, spiegandoli in modo semplice e chiaro in non più di 45 secondi. Difficile? E allora rinuncia alla politica e passa al cabaret.

(1) “Prima il Guardasigilli mobilita gli ispettori quando non gli piacciono le sentenze, poi il titolare del Viminale immagina per i cortei un divieto come il Daspo agli ultrà, e ora il presidente dei senatori pdl rimpiange gli arresti preventivi Anni 70. Tra i danni collaterali delle gravi violenze del 14 dicembre nel centro di Roma, che non possono trovare giustificazioni e che meriteranno i rigori di legge a coloro che ne saranno accertati responsabili, il fine settimana appena trascorso segnala che una cortina fumogena di slogan sta annebbiando la percezione del principio di separazione tra poteri dello Stato. Un giorno il ministro della Giustizia Alfano, annunciando ispezioni ai giudici sgraditi, manifesta la propensione a voler decidere lui se una scarcerazione che non gli garba sia giusta o no. Un altro giorno il ministro dell’Interno Maroni accarezza l’idea di estendere i divieti Daspo dagli stadi di calcio alle piazze, e così di essere di fatto lui, tramite i Questori, a decidere chi non debba più partecipare a manifestazioni pubbliche. E ieri Gasparri chiude il trittico con il suo «qui ci vuole un 7 aprile, e mi riferisco al giorno del 1978 in cui furono arrestati tanti capi dell’estrema sinistra collusi con il terrorismo». Quest’ultimo vagheggiamento è arduo persino da prendere in considerazione, visto quanto lo vizia il concentrato di errori (era il 1979 e non 1978), confusioni di contesto (l’Autonomia Operaia negli anni delle Br), e scarsa memoria degli striminziti esiti giudiziari per molti dei 140 indagati. Per parte sua, il Guardasigilli sorvola sul fatto che, quand’anche siano erronei i presupposti della decisione dei giudici di confermare l’arresto dei 22 fermati dalla polizia ma di non trattenerli in carcere in vista del processo di giovedì, il rimedio previsto dalla legge non è l’ispezione ministeriale minacciata al Tribunale, ma l’appello della Procura contro le scarcerazioni innanzi al Tribunale del Riesame. Analogo stridore promette l’applicazione ai cortei dell’odierno «Divieto di Accedere a manifestazioni Sportive» (Daspo) da uno a 5 anni per chi in passato abbia preso parte o inneggiato a episodi di violenza. A imporlo, infatti, non è un giudice ma il Questore, cioè una emanazione del potere esecutivo; e come presupposto non c’è bisogno di una sentenza ma basta anche solo una semplice denuncia di polizia. Il destinatario può solo sottoporne i profili amministrativi al Tar, mentre il giudice penale interviene solo qualora il Questore imponga anche l’obbligo di firma (ammesso dalla Consulta nel 2002 proprio perché sottoposto a controllo giurisdizionale). Sembra poi sfuggire, se trapiantata nelle piazze, la delicatezza delle conseguenze per chi, colpito da un divieto amministrativo del Questore sulla base solo di una denuncia, non facesse altro che partecipare lo stesso a una manifestazione: arresto in flagranza, processo per direttissima, condanna da 1 a 3 anni e multa da 10 mila a 40 mila euro. Per capire che sarebbe un pericoloso corto circuito, prima ancora di doversi aggrappare agli articoli 16 e 21 della Costituzione su libertà di circolazione e di espressione, forse può bastare il buon senso. Irrobustito da una gestione dell’ordine pubblico più accorta nell’isolare nei cortei i violenti. E presidiato da sentenze che dalla magistratura bisogna pretendere non «esemplari» , ma pignole e sollecite: come per gli scontri tra estrema destra e centri sociali di sinistra antagonista che l’11 marzo 2006 devastarono il centro di Milano, e che già nel 2008 videro diventare definitive in Cassazione sentenze capaci di distinguere 15 pesanti condanne (a 4 anni nonostante lo sconto di un terzo per il rito abbreviato) da 11 assoluzioni” (Poteri dello Stato. Il cortocircuitoCorriere della Sera, 20.12.2010).

(2) “Calma e gesso, per favore. Anche perché di scalmanati in abito gessato ce n’è fin troppi in giro. A cominciare dall’onorevole Gasparri, che invoca arresti preventivi, retate di massa, e in conclusione un nuovo 7 aprile. Insomma la ricetta del 1979, benché Gasparri abbia citato il 1978. E allora proviamo a dare i numeri, di questi tempi non saremo i primi a farlo. Proviamo a misurare sui numeri della Costituzione non tanto la sparata di Gasparri (qui è più facile: zero), quanto piuttosto l’idea di Mantovano e di Maroni, quella d’esportare ai manifestanti il Daspo che s’applica ai tifosi. Ossia il divieto comminato dal questore - e dunque senza una pronuncia giudiziaria - a carico di persone che si ritengono pericolose, impedendo loro d’entrare in uno stadio, o per l’appunto in una piazza gremita da cortei. Sulle prime, parrebbe una misura di buon senso. Se il Daspo ha funzionato per i disordini sportivi, perché non dovrebbe rivelarsi altrettanto efficace per i disordini politici? Peccato tuttavia che non abbia senso equiparare il diritto di tifare per la Lazio al diritto di manifestare contro la Gelmini. Peccato che ai costituenti interessasse la regolarità delle elezioni, non la regolarità dei campionati. Peccato infine che il libero esercizio del diritto di voto è possibile soltanto a condizione che il voto venga espresso in un clima democratico, con un’informazione pluralista, con un dissenso garantito in Parlamento e nelle piazze. Insomma i diritti non sono tutti uguali: taluni hanno dignità costituzionale, altri s’esercitano sotto l’ombrello della legge. E a loro volta i diritti costituzionali non pesano sempre in modo eguale: come diceva Bobbio, i diritti politici sono strumentali a tutti gli altri, e dunque li precedono, e dunque vantano uno statuto superiore. Significa che subiscono soltanto restrizioni circoscritte, tassative, temporalmente limitate. Altrimenti, se la sicurezza fosse un passe-partout per scardinarli, tanto varrebbe vietare le manifestazioni. Faremmo prima, e con un risultato garantito. Tuttavia non è possibile, vi s’oppongono per l’appunto i numeri della Costituzione. Articolo 16: chiunque può circolare in ogni contrada del nostro territorio, salvo i limiti che la legge disponga in nome della sicurezza. Ma guarda caso tali limiti non possono mai venire ispirati da ragioni politiche. Articolo 17: la libertà di riunirsi può essere negata per motivi («comprovati») di sicurezza pubblica, ma non ai singoli, bensì all’intero gruppo che chiede di manifestare. Articolo 27: la responsabilità penale è personale, e c’è inoltre una presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva di condanna. Vuol dire che non è reato partecipare a un corteo dove altri commettono reati, e vuol dire inoltre che i reati sono tali solo quando lo dichiara un giudice, e nessun altro giudice possa rovesciare il suo verdetto. Al limite, se proprio vogliamo un Daspo politico dopo quello sportivo, se ne potrà forse discutere per chi ha subito una condanna, quantomeno in primo grado. E c’è in ultimo un risvolto politico di queste chiacchiere imprudenti, ben più saliente del profilo giuridico. Perché nessuno ha mai evocato misure preventive di polizia dopo i fatti di Genova, dopo altri disordini che pure hanno scandito gli anni Zero? Che c’entra Roma del 2010 con Padova del 1979, dove i professori insegnavano con un coltello alla gola? Risposta: niente, non c’è niente in comune. C’è solo una politica, una classe dirigente, una generazione di governo che ha bisticciato con la nuova generazione, e allora mostra i muscoli, non avendo altro da mostrare” (Ma i diritti non sono uguali per tuttiLa Stampa, 20.12.2010)

(3) “Non commento mai le dichiarazioni dell’onorevole Maurizio Gasparri” (Che tempo che faRaitre, 19.12.2010)


1 commento:

  1. rinunciare alla fatica di spiegare è (sempre) rinunciare alla fatica di pensare.

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