lunedì 7 aprile 2014

Parrucconi


Giovanni Casalegno e Guido Goffi sono gli autori di un lemmario che raccoglie gli epiteti ingiuriosi di cui è straordinariamente ricca la lingua italiana fornendo per ogni termine almeno una fonte, fino a un massimo di cinque, poi indicizzate in coda all’opera in un’appendice bibliografica di oltre 60 pagine che da sola, a mio modesto avviso, vale il prezzo del volume (Brutti, fessi e cattivi – Utet, 2005). Deliziosa la prefazione di Giordano Bruno Guerri, ma è su un passaggio dell’introduzione che vorrei soffermare l’attenzione: «Insulti, ingiurie, maldicenze, invettive, improperi, epiteti, contumelie – scrive Giovanni Casalegno – non sono soltanto semplici “parolacce” o strumenti di aggressione verbale, ma lo specchio profondo di una intera civiltà, della sua mentalità, delle sua cultura, del suo sistema di valori, dei suoi codici di giudizio, delle sue paure e delle sue difese». Se è così, a quale «sistema di valori» possiamo riferire l’uso di un termine spregiativo come «parruccone»?
Conviene partire proprio dalla definizione che ci offre questo singolare dizionario, ma prima è doveroso chiarire che questa riflessione prende spunto dalla ricorrenza che il termine trova su Il Foglio di Giuliano Ferrara: «parrucconi», ieri, erano gli inquirenti che indagavano su eventuali reati di Silvio Berlusconi nell’ambito delle «cene eleganti» che questi offriva, fra gli altri, a faccendieri, puttane e trafficanti di cocaina, e «parrucconi», oggi, sono  Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Salvatore Settis, perché contrari alla riforma del Senato cui pensa Matteo Renzi. E dunque cos’è, chi è, un «parruccone»?


Per puntare al cuore della questione, che è quella di individuare un «codice di giudizio» nell’uso del termine, stralcerei dalla nostra riflessione due questioni tutto sommato marginali, anche se di stretta attinenza al contesto.
La prima è relativa al fatto che, in quanto a idee retrive, per giunta sostenute sempre con gran sussiego e a petto gonfio, Il Foglio non è secondo ad alcun giornale (basti pensare alle invettive contro l’evoluzionismo  e la psicoanalisi, contro il Concilio Vaticano II e il Sessantotto, contro ogni pratica contraccettiva e il divorzio, fino agli sperticati elogi alla Controriforma e al Sillabo). Questo rilievo, tuttavia, non ci è utile per il fine che ci siamo posti e al più potrebbe essere speso sul piano polemico per rimarcare  l’incoerenza della vacca che dice al mulo: «Ti puzza il culo». Argumentum ad hominem, peraltro, dunque da evitare.
La seconda questione, invece, è relativa all’uso strumentale del termine nel tentativo di dare una continuità di posizione tra lo smettere di leccare il culo a Silvio Berlusconi, che ormai è andato, e il cominciare a leccarlo a Matteo Renzi, come a dire: «Non facciamo differenze, lo lecchiamo a chiunque sia contro i parrucconi, il fatto che si tratti del potente del momento è del tutto occasionale». Anche qui, però, saremmo a un rilievo spendibile solo sul piano polemico (per giunta con un possibile rimpallo di argumentum ad consequentiam), mentre a noi interessa – dicevamo – definire quel particolare «sistema di valori» entro il quale chi sia contrario, non già alla possibilità di revisionare la Costituzione, che d’altronde la stessa Costituzione prevede, ma a una revisione pensata a cazzo di cane, e alla quale per giunta si intende procedere forzando modi e tempi, sia un «parruccone».
Prima di procede oltre, però, è necessario chiarire il perché di tanta attenzione proprio a questo epiteto. È presto detto: ricorre, anche se in forma attenuata, nell’uso del termine «professorone» che nelle ultime settimane abbiamo sentito in più occasioni sulle labbra di Matteo Renzi e dei suoi. Direi che siamo, dunque, in quel «sistema di valori» in cui «professorone» e «parruccone» sono sinonimi di quell’«intellettuale dei miei stivali» col quale Bettino Craxi ritenne di poter liquidare Norberto Bobbio: in buona sostanza, come ho già scritto su queste pagine, siamo dinanzi al disprezzo per la cultura accademica cui il sedicente  «uomo del fare», talvolta cedendo al beffardo, più spesso ostentando fastidio, non può fare a meno di esibire quando scende nella piazza a raccogliere consensi tra gli incolti. Tra i tratti distintivi del demagogo populista, infatti, spicca quello di offrirsi come demiurgo che semplifica e che non perde tempo a cercare di sciogliere i nodi complessi che gli capitano sotto mano, ma li recide di netto.
In questo senso, «parruccone» è insulto che mira più dei suoi sinonimi a ridicolizzare l’avversario che sollevi obiezioni argomentate in punto di diritto: lo si rappresenta con una parrucca in testa, desueto orpello di un sapere e di un potere che sarebbero fuori dal tempo, tanto più detestabili, dunque, quanto più di impiccio a quei cambiamenti che non di rado invocano l’urgenza per meglio dissimulare il colpo di mano. Anche per questo occorre prestare massima attenzione al lessico renziano, perché quando sentiremo Matteo Renzi o uno dei suoi usare il termine «parruccone», e a mio modesto avviso non ci vuole molto, lAllerwertspartei teorizzato da Otto Kirchheimer sarà cosa fatta e allora vorrà dire che berlusconismo e  antiberlusconismo avranno trovato una sintesi, e potremo chiamarla renzismo.   

2 commenti:

  1. Ma siamo già alla sintesi. Almeno questa è la mia sensazione.

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  2. Sottoscrivo tutto.
    Siamo messi molto male, purtroppo.
    Forse anche peggio di quanto noi stessi si possa immaginare e prevedere.

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