domenica 25 maggio 2014

«Giudaica perfidia»


Non ho ancora letto «Giudaica perfidia» di Daniele Menozzi (Il Mulino 2014), provvederò al più presto, e tuttavia, dando per certo che la recensione di Sergio Luzzatto (La radice dell’antisemitismo Domenica de Il Sole-24 Ore, 25.5.2014) dia fedele esposizione di quanto vi è contenuto, non riesco a trattenermi dal sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta di accreditare.
Prima di passare a esporla, però, vorrei aprire un inciso sull’espressione che ho usato poc’anzi – «fedele esposizione» – e chiedere al mio lettore di cercare ogni possibile locuzione alternativa ad essa. Fatto? Bene, per «fedele» avete trovato altro che «onesto», «leale», «sincero», ecc.? Sono certo che non siete riusciti ad andare oltre tali sinonimi, e che comunque tutti avete cercato tra quelli relativi a «fedeltà», intesa come «correttezza», «attendibilità», «esattezza», ecc., piuttosto che tra quelli relativi a «fede», nelle accezioni che la connotano come virtù teologale del cristiano. È questo, infatti, uno di quei casi in cui si rende manifesta l’erosione di senso che fin dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo ha prodotto a danno di quei termini, per lo più greci o latini, che gli è tornato utile parassitare: con «fedele» il parassitamento non è riuscito a impossessarsi interamente del termine, ed ecco, allora, che l’aggettivo non smette del tutto di rievocare la dea Fides, che fece la sua comparsa nel Pantheon romano più di trecento anni prima che nascesse Cristo, per andare a personificare la sacralità della parola data come fondamento dell’ordine sociale (cfr. Mario Pani e Elisabetta Todisco, Società e istituzioni di Roma antica, Carocci 2005). Bisogna aspettare il IV secolo dell’era volgare perché «fides» cominci a significare «credo» e perché per «fidelis» si cominci a intendere «credente», ma anche allora «fidus» non smetterà di significare «onesto», «leale», «sincero», ecc., come fin lì d’altronde era sempre stato.
Il perché di questo inciso è presto spiegato: Daniele Minozzi sembra far sue le conclusioni degli studi condotti intorno alla metà degli anni Trenta dello scorso secolo da Erik Peterson, «un oscuro professore di teologia» che «muovendo da un’ampia raccolta di testi antichi e medievali» arrivò a sostenere che «l’aggettivo latino perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione di perfido, mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di infedele». Tesi che senza dubbio fu fatta propria da Jacques Maritain, il quale senza dubbio riuscì a convincere Pio XII, prima, e Paolo VI, poi, lungo il faticoso itinere che portò a una traduzione del Messale del Venerdì Santo di Pio V nella quale gli ebrei non fossero più dichiarati «perfidi», ma «increduli» (cfr. Andrea Nicolotti, Erik Peterson, Libreria Editrice Vaticana 2012), e che tuttavia è tesi palesemente infondata, come fu ampiamente argomentato da chi scrisse che di «lodevole» in essa vi fosse «solo la buona intenzione» (cfr. Bernhard Blumenkranz, Perfidia, Archivium Latinitatis Medii Aevi 22/2-1952): com’era possibile dare a «perfidi» un significato diverso da quello che papa Gelasio (cfr. Gelasio, Deprecatio, 10), di poco posteriore alla primigenia tradizione scritta dell’«oremus et pro perfidis judaeis», allegava alla «judaica falsitas» nel solco di una tradizione che risaliva alle Omelie contro i giudei di San Giovanni Crisostomo? La perfidia judaeorum è da subito, e sarà sempre, per oltre quindici secoli, non già l’incredulità riguardo al fatto che Cristo sia il figlio di Dio e il Messia, ma il vizio morale che li condanna ad essere inaffidabili e sleali, dunque socialmente pericolosi. 
Ciò detto, dunque, il libro di Daniele Menozzi trova incidente fin dal sottotitolo, che è Uno stereotipo antisemita tra liturgia e storia, e prim’ancora di leggerlo mi costringe a storcere il muso: non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia cristiana e, se l’intenzione di Erik Peterson può benevolmente essere considerata benevola, resta di fatto che il suo lavoro sia un falso storiografico. Accreditarlo come attendibile è un ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede» che piega l’evidenza a un interesse di parte. 

6 commenti:

  1. Le parole con connotazione negativa tendono a dipartirsi, nei secoli, dall'accezione originaria. Stupido, infame, imbecille, volgare sono esempi che vengono subito alla mente. Ora, è vero che perfidus è termine latino, e quindi non nell'uso comune: ma l'espressione "perfido giudeo" era, quella sì, entrata nell'uso comune, e veniva rimpallata nei discorsi dell'uomo della strada esattamente col significato che tutti gli attribuiamo. Ciò con la connivenza della Chiesa. Poi, a un certo punto, la Chiesa cambia idea, e toglie il perfidus: e, immancabilmente, arriva qualcuno a spiegarci che perfidus non voleva dire perfido. Ma se non voleva dire perfido, perché l'hanno tolto?

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  2. Capito casualmente su questa pagina cercando recensioni del libro in questione. Mi sembra che le riflessioni che lei conduce non entrino, in realtà, nel merito dei contenuti del testo. La questione dello slittamento semantico della "perfidia" è, per la verità, piuttosto estrinseca all'argomentazione dell'Autore, che parte dalla constatazione che il lemma, in età contemporanea, è insultante e da subito percepito come tale da coloro ai quali è rivolto. (Quello dell'età contemporanea, d'altra parte, è l'orizzonte cronologico entro il quale lo studio si muove - il che non emerge dal titolo, ma è chiaro a chiunque conosca la produzione storiografica di Daniele Menozzi.) Il testo, dunque, si propone di tracciare una storia del lungo e tortuoso percorso che, dalla fine del Settecento, ha condotto alla presa di coscienza della necessità di un aggiornamento del testo della liturgia.
    L'incidente che lei ravvisa nel sottotitolo del libro, peraltro, mi sembra un suo marchiano - mi permetta - fraintendimento. Lo stereotipo in questione non è certo - la cito - "che la radice dell’antigiudaismo sia cristiana". (Immagino che lei intenda parlare di "antisemitismo" e non di "antigiudaismo": che l'antigiudaismo abbia matrice cristiana è evidentemente una tautologia.) Lo stereotipo la cui storia si racconta è proprio quello della "giudaica perfidia", ossia della depravazione morale del popolo ebraico. Che si tratti di uno stereotipo credo sia chiaro a tutti. Forse che l'oltraggio alla dea Fides lo commette lei, quando si azzarda a discutere i contenuti di un libro che per sua stessa ammissione non ha letto?

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    1. 1) Ho aperto il post dicendo: "Non ho ancora letto «Giudaica perfidia» di Daniele Menozzi", e premettendo che ogni considerazione sarebbe stata relativa a quanto ne aveva scritto Sergio Luzzatto. Nessun "azzardo", dunque, nel discutere i contenuti di un libro non letto, ma un corretto premettere che essi mi giungevano di seconda mano. In realtà, le mie obiezioni erano alla tesi di Erik Peterson e che Daniele Menozzi la faccia propria o no mi è del tutto indifferente.
      2) Lei afferma che "la questione dello slittamento semantico della 'perfidia' è, per la verità, piuttosto estrinseca all'argomentazione dell'Autore, che parte dalla constatazione che il lemma, in età contemporanea, è insultante e da subito percepito come tale da coloro ai quali è rivolto". E' osservazione che potrebbe essere liquidata con l'obiezione posta dal lettore che l'ha preceduta in questa pagina dei commenti: "Immancabilmente, arriva qualcuno a spiegarci che perfidus non voleva dire perfido. Ma se non voleva dire perfido, perché l'hanno tolto?". In realtà la questione è tutta relativa all'uso di un termine latino e al suo significato sulla base dell'uso fattone fino al momento in cui esso viene incluso nell'"Oremus" del Venerdì Santo.
      3) Sul mio - non le permetto - "fraintendimento", mi limito a rammentarle che è più che dimostrato che l'antisemitismo sia un derivato razzista dell'antigiudaismo teologico e lo stereotipo della depravazione morale del "perfido giudeo" nasce in San Giovanni Crisostomo, alle Omelie del quale la rimando.
      Saluti.

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    2. 1) Lei afferma di "sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta di accreditare", quindi non le è forse "del tutto indifferente" che tali tesi siano o meno fatte proprie dall'Autore, tanto che poi scrive che "accreditarlo [il lavoro di Peterson] come attendibile è un’ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede» che piega l’evidenza a un interesse di parte". Sull'opportunità di intervenire sull'uscita di un libro che non si è letto, mi rassicura vedere che la pensiamo diversamente.
      2) Quanto lei cita del Lettore qui sopra - che è Lettore del suo blog, non del libro di cui si discute, che è uscito oggi - mi sembra in realtà poco appropriato. La invito nuovamente a notare come il libro di Daniele Menozzi verta su vicende d'età contemporanea, e assuma dunque in partenza il dato che, al tempo della Rivoluzione francese, la perfidia indicava la depravazione morale. Cosa significasse quando lo si è introdotto nella liturgia, al tempo della riforma tridentina del messale, o nei primi secoli del cristianesimo, è senz'altro una questione interessante, ma non è oggetto del libro di cui stiamo discutendo, che parla d'altro.
      3) Lei ha scritto che "non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia cristiana". Se ha chiara - come mi sembra - la differenza tra antigiudaismo e antisemitismo, si renderà conto che si tratta di una tautologia affermare quanto lei afferma. Mi lasci credere che volesse scrivere che "non è affatto uno stereotipo che la radice dell'antisemitismo sia [anche] cristiana", come peraltro ha scritto in risposta al mio messaggio.
      Da ultimo la esorto - come d'altra parte lei ha scritto di voler fare - a leggere il libro di cui stiamo parlando, e a dare un'occhiata, se ne avrà tempo e voglia, alla sterminata bibliografia che vi è segnalata. Si renderà conto che i processi storici - sottratti alla foga dei polemisti e degli apologeti e alla in-intelligente banalizzazione mediatica, e restituiti alla loro affascinante complessità - ci appaiono molto più ricchi, vari e contraddittori di quanto lei suggerisce. L'antisemitismo non è "il derivato" dell'antigiudaismo, e tuttavia senza l'antigiudaismo non sarebbe mai esistito: fare storia è leggere questi processi nella loro irriducibile complessità, non ridurli a formule e slogan. Altrimenti, meglio leggere Indro Montanelli o Bruno Vespa che Daniele Menozzi.

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    3. Lei si ostina non voler capire che il post era centrato sulla tesi del Peterson così come raccolta e fatta propria dal Menozzi in un libro recensito da Luzzatto. Se il Luzzatto ha scritto una recensione fedele al contenuto del volume del Menozzi, e se il Menozzi fa veramente propria la tesi del Peterson, mi pare sia lecito inferire che leggere il libro del Menozzi è del tutto inutile. Innanzitutto, perché trascura il dato più rilevante, e cioè il reale significato del termine perfidus quando fu inserito nell'"Oremus" del Venerdì Santo. Lei, che deve aver già letto il libro uscito solo oggi o più probabilmente l'ha scritto, mi dice che lì si fa a meno di considerare una questione di tale rilevanza. Le credo sulla parola, ma suppongo voglia convenire, allora, sul fatto che il volume in questione nasce zoppo. Perché nell'affrontare le questioni relative alla tesi del Peterson dovrebbe essere di piana evidenza la sua natura strumentale (quella che benevolmente il Blumenkranz rubrica alla voce "buone intenzioni") e la sua argomentazione surrettizia. In realtà, a pensarci bene, ed è lei che me lo suggerisce, sembrerebbe che proprio questo modo di analizzare l'uso dell'aggettivo perfidus, sorvolando sul suo reale significato originario, rammenti il metodo storiografico di Montanelli. Ero intenzionato a comprare il libro, me ne ha fatto passare la voglia.
      Addio.

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  3. L’insistenza con la quale l’anonimo commentatore ritorna sulla limitazione all’era contemporanea come “orizzonte cronologico entro il quale lo studio si muove” è assai curiosa. Tutto per lui comincia nel 1789, ma il messale nel 1789 è già lì. Il “lungo e tortuoso percorso che, dalla fine del Settecento, ha condotto alla presa di coscienza della necessità di un aggiornamento del testo della liturgia” ha avuto luogo perché il messale era lì: e non come una scoperta archeologica, ma perché era in vigore. Come è possibile separare la necessità di aggiornamento del testo dal significato che il testo aveva “quando lo si è introdotto nella liturgia, al tempo della riforma tridentina”? Se lo aggiorno, vuol dire che ne ho esaminato il significato, e ho valutato che non è aggiornato.
    Non voglio citare altri casi analoghi, perché mi toccherebbe partire da Galileo. Troppo banale: e chi la schiva, poi, l’accusa di montanellismo? Rilevo soltanto che lo stesso autore –pardon, l’Autore- non riesce proprio a evitare gli aggettivi “lungo e tortuoso”. E qui siamo proprio d'accordo.

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