mercoledì 5 novembre 2014

E così va bene

Non sapevo che Mario Adinolfi scrivesse su Il Mattino, d’altronde leggo raramente il quotidiano di via Chiatamone, e quasi esclusivamente per consultare la pagina degli spettacoli, le rare volte che mi prende l’uzzolo di andare al cinema o al teatro. La sorpresa, tuttavia, non è stata quella di trovarvi un articolo di Mario Adinolfi, ma di dover constatare una significativa metamorfosi stilistica nella sua scrittura, tanto più sorprendente perché repentina e inattesa. Mario Adinolfi sembra aver messo da parte il suo patognomonico becerume e mostra un tratto fine, perfino colto, da professorino di liceo classico. È sempre lui, sia chiaro, le idee son sempre quelle, però bisogna dire che ora le argomenta senza scoreggiare rumorosamente, flautando quasi, e con un sorvegliato e affabile impiego della formula dubitativa che direi quasi maieutico. Nel fondo, insomma, rimane il troglodita dal marcato profilo comunitarista e organicista, ma occorre dire che i modi si sono sensibilmente ingentiliti e l’utensileria retorica ha perso la volgare grossolanità che lo ha sempre caratterizzato, peraltro accentuandosi proprio negli ultimi mesi, come non potrà aver evitato di constatare chi abbia letto il suo Voglio la mamma, pamphlet che sembra quasi essere stato dettato dal cardinal Ruini, sì, ma a un villico gradasso che si è concesso notevoli licenze.
Non so se questo articolo – segnalatomi da F.M., che ringrazio – debba essere considerato un’eccezione, semmai dovuta al fatto che il lettore de Il Mattino è per lo più un borghesuccio strafottente, pusillanime e conformista, che è meglio non turbare troppo con eccessi di liberalismo o di illiberalismo, tenendolo a bagnomaria in un rassicurante paternalismo, sennò arriva alle pagine sportive tutto imbarazzato, e non so nemmeno se a Mario Adinolfi potrà tornare utile la svolta che questo articolo potrebbe voler annunciare, di fatto c’è che, a leggere La dolce morte non è una performance, il chiattone ferocemente ostile ai più elementari diritti civili sembra morto e seppellito.
Parla di Brittany Maynard, Mario Adinolfi, e con notevole furbizia non spara il solito no all’eutanasia perché la vita appartiene a Dio, ma insinua il dubbio sul «come bilanciare le determinazioni dell’individuo, la sua libertà e autonomia, con la responsabilità e l’interesse della società, che non può rimanere indifferente – se e finché è una società umana – al modo in cui i suoi membri muoiono», dando per scontato che il modo in cui un suo membro muore son pure cazzi suoi – della società, intendo dire  ed è dunque in diritto di metterci becco. Contrario, quindi, ad una legge che consenta a ciascuno di decidere quando e come morire, perché «non sarebbe nel perimetro della legge che troverebbe soluzione il problema del significato che ha la morte per l’uomo [visto che] quel significato, come del resto ogni significato, ogni parola, ogni concetto non è affatto nella disponibilità di ciascuno», e qui io aggiungerei – perché Mario Adinolfi ha la tutta nuova delicatezza di non dirlo – che non può essere nella disponibilità di ciascuno se è alla società che spetta dare un senso a vita, morte, eccetera, mentre a chi non vuole far la figuraccia di asociale spetta conformarvisi, giacché «la costruzione del senso umano di una vita richiede qualcosa di più di un impegno meramente individuale».
Ce n’è quanto basta per negare all’individuo la libertà e la responsabilità di scegliere, ma in nome di un valore nobile – la socialità – e chi vorrà mai essere così bestia da calpestarlo? Giusto chi è segnato da una tara psicologica. Perché Mario Adinolfi, qui, non fa uso della sua solita arroganza dando della cretina a  Brittany Maynard – e questo ci fa quasi dimenticare tutte le sue sparate omofobe e antiabortiste – ma con l’acuminato strumento del sofista solleva il dubbio se ella «abbia voluto o no [dare pubblicità al suo gesto] per far avanzare la coscienza del problema dei malati terminali e dei loro diritti» o per soddisfare un suo malsano esibizionismo con quella «spettacolarità che richiede necessariamente un pubblico».
Roba da sputargli in faccia, se non fosse graziosamente offerta in forma di dilemma etico. E qui il capolavoro: «È giusto naturalmente che il legislatore cerchi la misura, insegua il problema morale, si interroghi circa il modo di non perdere definitivamente di vista il destino dell’uomo, ma è un inseguimento su un terreno sul quale non può più riuscire, avendo rinunciato ad ogni fondazione religiosa e non avendo altra legittimazione, in sede politica, che quella individuale, a cui però non appartiene, non può appartenere qualcosa come un senso».
Dio, insomma, può darsi non esista, ma cazzarola quanto tornerebbe comodo in questi casi. Fatto sta che, invece, il legislatore ha rinunciato a farsi ispirare dai preti, non è riuscito a costruire un edificio etico in cui stipare a forza, volenti o nolenti, gli individui e tutto va in vacca, puttana Eva. Non c’è che dire: sempre lo stesso Mario Adinolfi, ma assai più figlio di puttana.


Aggiornamento A pochi minuti dalla pubblicazione di questo post, mi arriva un’altra email da F.M., il quale, costernato per avermi inviato il testo dell’articolo che qui ho commentato aggiungendo solo «leggi un po’ che dice Adinolfi», si affretta a farmi presente che il pezzo non è firmato «Mario Adinolfi», ma «Massimo Adinolfi». Gli rispondo da qui: non ti preoccupare, ormai è fatta, e in più non cambia niente, perché prima di scrivere il post sono andato a controllare il testo originale, e avevo letto chi fosse l’autore dell’articolo, ma è proprio grazie al fatto che avevi omesso il nome, citando solo il cognome, che ho potuto costruire il commento nel modo in cui poi l’ho steso. E così va bene.

16 commenti:

  1. ma non eravate amici tu e massimo?

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    1. Plato amicus, sed magis amica veritas.

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    2. ma massimo starà sicuramente ridendo a crepapelle, come Totò nel famoso sketch: "Embé? Che so' Pasquale, io?"

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  2. vabbè, in ogni caso dare addosso a Mario Adinolfi anche quando non è lui l'autore, va bene lo stesso. Una forma di medicina preventiva, diciamo.

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  3. imperdibile: http://www.bioetiche.blogspot.it/2014/11/la-civilta-dellargomentazione.html

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  4. Carissimo Luigi, per amore di veritas: tu hai letto benissimo la firma dell'autore, ma purtroppo non altrettanto bene il contenuto dell'articolo. Però la tua utensileria retorica rimane straordinaria, per cui va bene così

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    1. «È giusto naturalmente che il legislatore cerchi la misura, insegua il problema morale, si interroghi circa il modo di non perdere definitivamente di vista il destino dell’uomo, ma è un inseguimento su un terreno sul quale non può più riuscire, avendo rinunciato ad ogni fondazione religiosa e non avendo altra legittimazione, in sede politica, che quella individuale, a cui però non appartiene, non può appartenere qualcosa come un senso». Non mi pare sia sottinteso un "evviva!".

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    2. Mi permetto un commento a questa citazione: è evidente che con questa affermazione l'autore dichiara l'inadeguatezza dello stato laico e suggerisce che l'unico stato veramente degno di decidere sia quello che si basa su una "fondazione religiosa"(teocrazia?).
      E' anche evidente che l'Adinolfi dimentica che uno Stato che ha rinunciato alla fondazione religiosa potrebbe (dovrebbe) essere spinto a lasciare all'individuo la massima libertà sulle scelte individuali quando queste non danneggiano nessuno se non l'individuo stesso.

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    3. Mah. Tu mi fai dire che io sarei contrario a una legge che consenta a ciascuno di decidere quando e come morire, mentre io non lo dico (né lo penso). Questo, sempre per la veritas. In generale, l'articolo distingue la questione del diritto dalla questione del senso, e si occupa di quest'ultimo: può parerti ipocrita, ma a te pare ipocrita la filosofia tutta quanta, quindi non ho motivo per preoccuparmi del caso specifico.

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    4. @ il nano
      Ah, ecco, non sono solo io a leggere male.

      @ azione parallela
      Se la filosofia mette in discussione la libertà è la responsabilità dell'individuo con la scusa che c'è da trovare un senso alle sue scelte che sia condiviso con la società, anche quando le sue scelte non limitano l'altrui libertà e non chiamano in causa l'altrui responsabilità, fanculo alla filosofia e ai filosofi. Però so che ne esistono anche di quelli che non mettono al centro la società e in un angolo l'individuo.

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  5. Luigi perdonami ma con questa storia della moderazione a me viene difficile discutere. Ad ogni modo. La filosofia mette in discussione tutto: l'esistenza di Dio, del mondo, di qualunque cosa, non vedo perché non dovrebbe mettere in discussione la libertà e la responsabilità dell'individuo. Naturalmente, uno è liberissimo di non mettere in discussione questo o quello, e si chiama visione del mondo. Quanto poi alla questione del senso, io la penso così: se io dico che per me 'p' significa questo e quello, non chiudo affatto la partita su ciò che 'p' significa, ed è di questo che parla l'articolo. Tu probabilmente non hai dificoltà a concedere che, facciamo un esempio, la psicanalisi dirà qualcosa circa le mie scelte individuali; discuterne, non significa negare che possa e debba compierle io, qualunque cosa significhi 'io'. Allo stesso modo, se io ragiono su ciò che significa la scelta di Brittany, o su come cambi il senso del morire, non nego affatto a Brittany il diritto di morire come lei ritiene. Posso anche farlo, ma sarebbe un'altra cosa, di cui almeno io nell'articolo non parlo. Però capisco che se devo stare dietro a chiunque veda a ogni passo teocrazie, beh viene difficile spiegarsi anche sulla più elementare distinzione concettuale.

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    1. Sapessi cosa leggeresti in queste pagine dei commenti, se non ci fosse la moderazione, e coi tempi che corrono, col blogger che è responsabile anche di ciò che scrivono i commentatori, non è sadismo nei confronti del lettore.
      Tornando al merito, il post è volutamente impostato in modo provocatorio, e mi auguro che questo tu l'abbia capito. E però intendeva palesare il confine assai sfumato che esiste tra la ricerca di un senso che possa essere universalmente valido e il tentativo di imporlo, con le buone o con le cattive, a tutti: in quanto filosoficamente testato, è ovvio, mica per cazzimma. Ora, io voglio benignamente concederti che il tuo articolo su Il Mattino non andasse oltre l'interrogarsi su questo senso, e tuttavia dovrai benignamente concedermi che, ogni riflessione che cerca il moralmente giusto (perché la filosofia si interessa anche di questo, è vero?) è fondamento di una norma, che cerca di farsi rispettare. Tu mi dirai che, quand'anche la tua ricerca ti portasse a concludere che chiudere i propri giorni come e quando paia giusto all'individuo sia ingiusto per la società, mai muoveresti un dito per aiutare lei, la società, a imporre all'individuo una norma che recepisca i risultati della tua ricerca. Ci credo, ma capirai - e qui siamo alla filosofia che mette in discussione anche la libertà e la responsabilità dell'individuo - che all'individuo possano girare le palle. Mai si sognerebbe di vietarti la ricerca, l'individuo, ma ti porrebbe una banale questione di opportunità: scrivile su una rivista di filosofia, 'ste cose, e non su un giornalaccio letto da cani e porci (senza offesa per il giornalaccio, ovviamente, e col massimo rispetto per i cani e i porci).

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    2. Mi interessa il dibattito, ma non sono sicuro di avere capito il testo. L’articolo dice che la società non può essere indifferente al modo in cui i suoi membri muoiono ma che un diritto che non sia ancorato alla dimensione religiosa, e che si basi su presupposti laici ed individualisti non può normare il fine-vita. Né l’individuo può dare senso alla propria vita decidendo sulla propria morte.

      Se l’articolo dice queste cose, io deduco che la scelta dell'individuo di anticipare la morte sarebbe una scelta senza senso. Né il senso a questa scelta lo può dare un diritto laicamente inteso. Insomma si sottolinea la drammaticità di certe decisioni in cui la società ed il senso vanno a farsi benedire.

      Se è così, non capisco una cosa. Nell’articolo c'è una velata critica all’esposizione mediatica che la giovane donna ha voluto in questo suo percorso. Non capisco la critica. A mio parare in questo modo (la condivisione on-line) la ragazza stava cercando di recuperare quella dimensione sociale e quel senso di cui l’articolo stesso sottolinea la drammatica assenza. Forse questa critica deriva dal pessimismo dell’articolo, per cui società e senso nelle decisioni del fine-vita non si possono in alcun modo ritrovare? Si dà un giudizio negativo su questo tentativo perché lo si considera inutile o dannoso? E se sì in che senso sarebbe dannoso? Il fatto che io non parteciperei come spettatore passivo al percorso di fine-vita di una sconosciuta, può essere una risposta seria a questa mia domanda?

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  6. la libertà dell'individuo è un'invenzione di comodo, come lo è Dio. Personalmente credo sia conveniente credere che l'individuo abbia libertà e responsabilità e non credere in Dio, ma bisogna ammettere che i diritti individuali non sono dati oggettivi, non ci sono diritti inalienabili. Possiamo metterci d'accordo e fare finta che ci siano per convenienza reciproca, oppure si può - ed è quello che di solito si fa - accumulare armi e impedire che la mia illusione venga incrinata da qualcuno che sostiene un'illusione diversa.

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    1. Concordo, ma dobbiamo indossare casacche riconoscibili.

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  7. Una considerazione sul concetto di "performance".
    Se vivessimo in una società in cui ciascuno ha il diritto di scegliere e di dare il proprio "senso" alla propria vita e morte, allora non sarebbe necessaria una "performance" come questa.
    Invece è necessario che qualcuno testimoni in favore di questo diritto e faccia della propria morte una "performance". D'altronde molte religioni, specie quelle che danno "fondazione" ai legislatori, inneggiano e santificano i martiri che hanno fatto della propria morte una "performance".

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