lunedì 13 aprile 2015

Suggerirei olanzapina e lamotrigina

Non starò ad annoiare il mio lettore, che d’altronde è coltissimo, citando gli autori che hanno descritto e analizzato la relazione funzionale che c’è tra aggressività e vittimismo in quel vasto dominio della psicopatologia che dalle algide vette del narcisismo digrada nei frastagliati fiordi del borderline: mi limiterò a illustrare un caso clinico che mi pare sia emblematico di quella relazione, per poi avanzare una diagnosi e infine suggerire una terapia. Per farlo, tuttavia, sarà necessario, almeno in breve, fornire gli estremi di quello che sul piano della narrazione clinica possiamo a buon ragione definire antefatto. [Per chi ha voglia di circostanziare in dettaglio questi estremi rimando a Er Cecato e la cecataggine (Malvino, 5.12.2014), Mondo di mezzo (Malvino, 8.12.2014) e «Carminati invoca giustizia» (Malvino,31.12.2014), dove si argomenta quanto qui la sintesi potrebbe far sembrare apodittico.]
In breve, dunque, diciamo che qualche mese fa scoppia lo scandalo di Mafia Capitale e – qui cito, poco oltre vedrete per quale ragione, Carlo Bonini (la Repubblica, 11.4.2015) – «Il Foglio di Giuliano Ferrara […] deci[de] di insufflare, per sbertucciare tra il semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri». Non è mafia, dice Giuliano Ferrara: la mafia ha la coppola e la lupara, spara e usa il tritolo, qui si tratta di una banda di cravattari, topi nel formaggio, millantatori di un potere criminale che si esauriva nel far scivolare una mazzetta nella tasca di chi poteva favorire un appalto.
Sembrava sfuggisse – ma come era possibile non sospettare volesse sfuggire? – che l’art. 416 bis del nostro Codice Penale non descrive un’organizzazione denominata Cosa Nostra (o ’Ndrangheta, o Camorra, o Sacra Corona Unita), ma un’organizzazione di «tipo» mafioso, ciò che sul piano pubblicistico ha trovato in «stampo» un sinonimo assai felice. E quali sono, per il legislatore, gli elementi che consentono di identificare in un’associazione a delinquere il suo carattere mafioso? «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», rimarcando che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».
Dopo aver letto le 1.228 pagine dell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati, si potevano aver dubbi che il «Mondo di mezzo» cui aveva dato vita Massimo Carminati non rispondesse alla fattispecie? D’altronde, qual era – peraltro neanche tanto occulto – il fine di «sbertucciare» l’ipotesi accusatoria basata sull’art. 416 bis? Negare la natura sistemica degli eventi delittuosi, astrarli dalla matrice che li rende strutturati in mosse di una strategia che va ben oltre l’arricchimento illecito, ma mira al controllo di un territorio, rendendo così l’associazione a delinquere un attore fattualmente politico, perché in grado di creare il luogo – e qui cito ancora Bonini (ibidem) – «dove gli appetiti del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e l’omertà, e dunque come ogni mafia degna di questo nome, non le forme, ma la sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica».
Direi che la polemica cui Il Foglio ha dato vita sulla questione di Mafia Capitale è solo uno degli episodi che ne caratterizzano il tratto scettico sulla sostanza della democrazia, nel solco dell’assunto che «un’oligarchia ben organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile» (Il Foglio, 22.5.2008): l’altra – quella della regolarità degli incanti pubblici, della trasparenza dell’agire amministrativo, della libertà nella formazione della volontà politica – sarebbe quella impossibile. Qual è, d’altra parte, il confine tra l’intimidazione, il ricatto e l’omertà dell’organizzazione di stampo mafioso e gli strumenti di cui si serve un’«oligarchia ben organizzata»? C’è senza dubbio, ma quanto è labile! Potremmo dire che si delinea solo nel rispetto delle mere forme della democrazia, che tuttavia non impedisce di svuotarne la sostanza.
Ecco il pericolo, dunque, nel riconoscere il metodo di tipo mafioso nella join venture tra ceto politico e delinquenza di strada: viene a crearsi un precedente che può tornare buono a incriminare l’«oligarchia ben organizzata» quando incorra in qualche sbavatura procedurale. In buona sostanza, dal ritratto di Carminati come quello di un delinquentello qualsiasi alla sua difesa come vittima di una tortura (sì, Il Foglio è arrivato pure a questo), non abbiamo assistito al solito esercizio di sofistico spirito di patata che manda in sollucchero gli amanti dell’eccentrico, ma un più subdolo tentativo di liquidare il «Mondo di mezzo» come versione grossolana, fin quasi patetica, di quella raffinata delinquenza che dà vita all’unica «democrazia possibile». Certo, c’è pure l’elemento ludico, quello che ha reso Il Foglio un’officina dal marchio inconfondibile, qui espresso nello spericolato garantismo in favore del fetente di turno, ma sul fondo era evidente una posta in gioco assai più consistente, per la quale valeva la pena farsi estremamente aggressivi.
Ma ora? Qual è l’atteggiamento da assumere, ora che «per la prima volta nella storia repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis, nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti ‘ndranghetisti, che sono e restano Mafi, ma che da ieri non la esauriscono» (Bonini, ibidem)? Quello della vittima: «la Cassazione ha dato ragione alla casta togata più influente, quella della Capitale, perché […] l’informazione massificata e orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e non procedurale, stravolge la realtà» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 13.4.2015). E la Cassazione ci casca? Evidentemente, d’altra parte «le pronunce giudiziarie hanno una loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante altre pronunce giudiziarie», dunque non è detto un domani… Poi c’è che «non funziona una indagine giudiziaria annunciata a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone; non funziona in ogni senso la sede dell’annuncio, un convegno del Partito democratico; non funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo». Inoltre, «la sentenza della Cassazione che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre obiezioni: non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e violenta di tipo mafioso; non ci sono delitti di mafia; c’è un’aria di malavita e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati, dell’accoglienza e del volontariato». Insomma, «accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste, scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli funzionari, [ma] mancano le famiglie, i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia, mancano gli arsenali, insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo mafioso».
E tuttavia la Cassazione non dice che la mancanza di arsenali non toglie tipologia mafiosa agli addebiti sollevati nei confronti di Carminati & c.? Come non l’avesse detto: s’è fatta buggerare dalla campagna mediatica e al momento – solo al momento, sia chiaro, ché aggressività e vittimismo stanno bene insieme solo nell’irriducibilità di protervia e risentimento – le tesi di Giuliano Ferrara vanno a farsi benedire. «Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame obiettivo delle sue tesi?». E chi lo tacita? D’altra parte, le sue tesi non sono in tutto simili a quelle avanzate dai difensori di Carminati e che sono state respinte dalla Cassazione? Non sono state esaminate? Sì, ma forse non in modo obiettivo. L’obiettività è una prerogativa di Giuliano Ferrara, si sa.
Suppongo sia superfluo sottolineare i tratti del delirio di onnipotenza che anche in questo caso affligge il narcisista, qui mortificato dall’impatto con la realtà, che sappiamo essere evento catastrofico sul piano clinico: gli elementi di natura clinica emergono in tutta l’emblematicità del quadro nosografico.
Resta la terapia, e qui vorrei tagliar corto perché mi sono pure dilungato troppo su un caso che sarà esemplare quanto si vuole, ma un caso resta: io suggerirei olanzapina e lamotrigina. Ma a dosi generose, e senza aspettarsi altro che una parziale remissione dei sintomi. Perché la patologia in questione – triste dirlo – è altrimenti incurabile. Peraltro alleviare la sofferenza del malato è un dovere inderogabile della buona medicina.

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