lunedì 11 gennaio 2016

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Col cartello che recita «vietato fumare» siamo dinanzi al caso in cui la norma dichiara circoscritta la sua sfera dazione indicandone i limiti: il divieto vige entro il perimetro del locale nel quale è affisso il cartello. Solo apparentemente le cose stanno in altro modo con limperativo «non uccidere» che leggiamo sulle tavole mosaiche: qui sembrerebbe che il divieto valga sempre e dappertutto, e tuttavia a dettarlo è lo stesso Dio che poi comanda siano uccisi gli idolatri, gli apostati, le adultere, i sodomiti, quanti non abbiano rispettato lo Shabbat, quanti abbiano contravvenuto agli ordini paterni, ecc.
Si sarebbe autorizzati a credere che ogni divieto abbia dei limiti, tanto meno precisabili quanto meno sembrerebbe che la norma intenda darsene, comè nel caso di quella morale, che ha sempre in sé la vocazione a dichiararsi universale e inderogabile, ma che immancabilmente è costretta a concedere eccezioni, anche quando sembrerebbe non ammetterne: «ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 39), va bene, ma allora a che ti serve la spada (Mt 10, 34)?
Se è così per ogni norma, pare inevitabile che questo accada anche nel caso della massima, che è sì il principio che intende regolare una condotta, ma pure la sentenza, il motto, il brocardo attraverso cui questo si esprime: più lapidaria sarà la frase, meno il principio che essa espone si rivelerà inviolabile, perché è proprio la brevitas in cui essa si dà a lasciar spazio per le note a pie di pagina, nelle quali anche la più «dura lex» fa i conti con riserve, dispense e strappi. In fondo, è proprio su questo paradosso che laforistica ha costruito la propria fortuna: apodittica per statuto, esaurisce tutta la sua cogenza precettistica nello spazio di una frase, non di rado compiacendosi di contraddizioni interne.
Lunico ambito in cui la norma parrebbe farsi legge inviolabile è quello della logica, ma pure qui, immancabilmente, si piega alle necessità del suo più comune impiego, che è quello della persuasione. [Qui evito ulteriori considerazioni rimandando altrove, ai punti III e V.]

Quando Ludwig Wittgenstein dice: «Lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui», sembra volerci dare un consiglio buono sempre. In realtà troviamo questa frase tra quei Pensieri diversi che Georg Heinrik von Wright raccolse qua e là nei suoi manoscritti, dove erano appuntati come annotazioni a margine della pagina. Così contestualizzato, il monito è rivolto a sé solo, e per quella sola pagina, sennò non si capisce che senso avrebbe nel suo Tractatus logico-philosophicus il punto 1.1 («Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose»), dopo averci già detto che «il mondo è tutto ciò che accade» (1) e dovendo poi affermare che «ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose» (2). Per meglio dire: avrebbe senso solo per esplicitare un passaggio implicito, ma da chiunque agevolmente desumibile.
E tuttavia «lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui» sta in esergo o a conclusione di questo o quel manuale di retorica, come tacita ammissione dellinevitabilità del vulnus che la logica argomentativa deve subire nel foro in cui luditorio sia gravemente incapace: per quanto si possa render conto nel dettaglio di ogni più minuto passaggio . Che mi pare sia la dolente ammissione che una norma dinanzi alla quale siamo tutti eguali sostanzialmente non esiste. E passi per quella giuridica, passi pure per quella morale, ma doverlo ammettere pure per quella che dalla logica informa largomentazione, da un lato, costringe allapparentamento della democrazia con la pedagogia (non è un refuso per demagogia: proprio pedagogia) e, dall’altro, impone che la prima esaurisca ogni suo fine in ciò che è dato dai mezzi della seconda. Come ai maestri è dato constatare con i propri allievi, non viceversa. 

8 commenti:

  1. Ho qualche dubbio che la logica trovi la sua applicazione elettiva nella persuasione: la sua normatività assoluta mi pare che si giochi più sul terreno della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche. Senza una robusta infrastruttura logica, poco potrebbe reggersi non solo delle scienze teoriche, ma anche della tecnologia dell'informazione e della comunicazione, per dirne una.
    Detto questo, per quanto riguarda il discorso pubblico, la centralità dell'argomentazione ben formata è pensabile solo in un contesto nel quale a decidere sia un'assemblea di persone ben raziocinanti e interessate solo al bene comune, a partire da un insieme assiologico esplicitamente condiviso; mi pare, però, che questo caso, per quanto affascinante, non si sia mai dato in alcun contesto reale. Con ciò, non credo però che la persuasione, intendendo, come mi pare faccia Castaldi, come un insieme di stratagemmi che, pur dotati di un nocciolo logico, ne sono informati più per la definizione della strategia da parte del persuasore che nella loro forma argomentativa, che la persuasione retorica insomma sia poi così centrale per la formazione della volontà pubblica.
    Più che la capacità di farsi abbindolare, o più che la carenza di capacità analitiche da parte del pubblico, mi pare infatti che giochino gli interessi particolari e i vincoli che effettivamente si pongono al discorso pubblico e, ancor più, alla sua azione. Se, infatti, vogliamo davvero scendere dall'empireo della logica ben formata per arrivare al mondo reale, ciò che maggiormente conta non è, a mio avviso, l'enjeu tra logica e persuasione, quanto la difformità degli interessi, che porta ognuno a valutare in modo difforme le questioni, e la limitazione del dibattito nelle forme socialmente accettate e politicamente agibili in un dato contesto.

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    1. Urzidil: "Ho qualche dubbio che la logica trovi la sua applicazione elettiva nella persuasione: la sua normatività assoluta mi pare che si giochi più sul terreno della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche".

      A parer mio è un dubbio rimuovibile. Secondo alcune interpretazioni la logica nasce dalla retorica e poi la scienza dalla logica (spero che il mio non sia un travisamento). La logica sarebbe la retorica spogliata delle deduzioni aleatorie, e poi formalizzata. La logica formalizzata consente il passaggio alle scienze esatte tramite soprattutto la matematica (che un tempo era un tutt'uno con la scienza). Ma se la logica in origine è nata dentro alla retorica, vuole dire che può essere parte di qualunque discorso pubblico.

      Oggi ci siamo abituati a legare logica e matematica un po' all'inverso, cioè a pensare alla logica come una branca della matematica ed al tempo stesso (insieme alla matematica) uno strumento della scienza e della tecnologia. Nulla da eccepire sul fatto che la scienza e la tecnologia siano possibili solo grazie a costrutti logici ben saldi, ma questo non implica a mio parere che i primi siano l'unico campo di applicazione dei secondi ed anzi, come dicevo, forse ne sono storicamente conseguenti. Si sopravvive lo stesso, senza usare la logica quando apriamo bocca? Certo, del resto nemmeno gli animali hanno mai mandato qualcuno sulla Luna eppure sono ancora vivi.

      In fondo, lo stesso Aristotele non è che fosse un gran fulmine nelle scienze dure e non credo nemmeno che fu così pignolo nel suo applicare alle sue proposte scientifiche le ferree regole della logica. Eppure le aveva formalizzate benissimo. Come fece? Da dove le avrà pescate? Magari parlando e ascoltando, no?

      Tra le altre cose, il mio parere personale è che l'uso esclusivo della logica e persino del metodo scientifico -esclusivo perché inteso come limitato ad un campo dell'indagine umana- sia un alibi ben costruito per chi nella vita si occupa d'altro. In realtà nessuno ci vieterebbe di adottare nel discorso comune un principio di falsificabilità opportunamente adattatato. Il fatto è che è sconveniente, principalmente perché faticoso, e preferiamo proferir sentenze. Quando un politico dice che se passa una certa legge un domani aumenteranno questi o quei reati, non ci dovrebbe essere bisogno di rispondere argomentando, ma dovrebbe bastare spiattellargli in faccia un foglio con le statistiche dei paesi dove eventualmente è accaduto il contrario. Non è che non si possano usare queste regole, è solo che non lo si vuole fare.

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    2. Mi pare che siano in gioco due questioni. La prima sarebbe quella del significato della logica: lei sostiene che essa si sia originata dalle pratiche discorsive correnti (e nella fattispecie nel discorso pubblico del mondo greco a partire dal VI secolo a.C.),il che è certo storicamente vero, ma non credo sia dirimente. Mi spiego, rimandando a una robinsonata di Husserl (nella Crisi delle scienza europee), in cui si riportava l'origine della geometria alla pratica dell'agrimensura, e si sosteneva che, per via di successive elaborazioni e generalizzazioni, si erano ricavate le regole di base per il calcolo di aree e perimetri. Ora, il punto è che gli oggetti della geometria, indipendentemente dalla sua origine storica, non sono le figure tracciate sulla pianta a partire dalla misurazione dei campi, ma figure ideali, suscettibili di una descrizione analitica completa e universalmente valida, e che è proprio in questo scarto tra l'intuizione concreta e la costruzione ideale che si costruirebbe, sempre stando a Husserl, il pensiero scientifico.
      Un triangolo isoscele non è il triangolo che disegno sul foglio ma una certa figura geometrica, descrivibile a partire da certe caratteristiche (l'identità di due lati tra loro e non con il terzo). Lo stesso vale per la logica formale, che non ha a che fare con le istanza del discorso corrente ma con proposizioni pure, e le sue leggi valgono, necessariamente, solo per esse e solo in maniera traslata per quelle del discorso ordinario. La maggiore affidabilità degli oggetti ideali consente di sviluppare leggi formalmente valide, le quali sono traslabili al mondo reale soltanto attraverso una mediazione: è per questo che tra una teoria scientifica e un'applicazione tecnologica c'è in genere di mezzo un ingegnere.
      Detto questo, sono ovviamente d'accordo con lei sull'opportunità di un maggiore ricorso alla logica nel discorso pubblico. Posto che, come lei ricorda, si riesce comunque a campare e a discorrere senza seguire rigorosamente le prescrizioni logiche, il problema non riguarda tanto le leggi logiche quanto le istanze di legittimazione del discorso: in una società migliore il politico che dice una cazzata viene sbugiardato, dalla stampa, dai suoi avversari o dai cittadini, e perde il cadreghino. Ripeto, sono convinto che una società così sarebbe migliore della nostra, e che la qualità del discorso pubblico sia uno dei fattori determinanti della tasso di democrazia reale di un sistema; continuo però a pensare che tutto ciò non riguardi la legittimità, e nemmeno l'applicabilità delle leggi logiche per se.

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    3. Poniamo che mi vada bene il discorso di Husserl, sul quale a parte mi piacerebbe disquisire: beh, le regole analitiche e quelle astratte continuano a funzionare benissimo quando io torno ad applicarle all'agrimensura. Il fatto che gli oggetti siano diventati ideali non comporta che poi il contadino debba buttare a mare la geometria, che debba farlo perché ora la geometria vive di vita propria. Allo stesso modo, se anche la logica formale ha trovato nella matematica, nella scienza e nell'ingegneria il massimo potenziale applicativo, anche inteso in estensione e versatilità, non vuole dire che essa non sia ancora perfettamente utilizzabile nell'arte del disquisire e del convincere, onde è scaturita.

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  2. L'agrimensore usa le regole geometriche per calcolare le dimensioni del campo, e magari capire quanti quintali di grano seminare, ma nel fare questo opera degli aggiustamenti di calcolo, degli adattamenti che segnano il passaggio dal regno dell'esattezza geometrica al pressappoco del reale: un campo non è mai un quadrato perfetto, gli angoli non sono mai esattamente retti, eppure si applicano le formule geometriche sapendo che vi è una certa tolleranza di errore, senza che ciò renda meno esatta l'esattezza della geometria.
    Allo stesso modo, l'ingegnere aeronautico, per progettare un aereo che voli, calcola sempre un po' più di spinta, un po' più di portanza, un po' più di spessore dei materiali e così via, rispetto a quanto sarebbe necessario sulla carta, proprio perché non si può avere la stessa esattezza.
    Credo che il punto di innesto tra la logica e la retorica funzioni allo stesso modo: come un quadrato della geometria non è un campo quadrato, così una dimostrazione analitica non è un discorso persuasivo.

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    1. Vorrei chiarire un punto: il mio primo commento è nato dall'assimilazione, nel post malviniano, tra legge logica e legge pratica. Il punto è che la prima definisce una legalità ideale, che è tale perché analiticamente vera, la seconda prescrive (o vieta) dei comportamenti, ed è valida in misura della sua efficacia, vale a dire della sua applicabilità.
      Quello che mi pare di vedere è che il passaggio dalle legalità della logica a quelle della matematica, e da queste alle fisiche, e da queste ultime alle applicazioni tecnologiche, passa per una serie di adattamenti applicativi: dalle legalità pure alle varietà numeriche, da queste agli oggetti spaziotemporali, e infine ai materiali e alle condizioni reali. Questi passaggi, fino all'ultimo, sono compiutamente descrivibili, mentre l'ultimo lo è con qualche concessione. Il passaggio dalle legalità logiche alle forme discorsive è enormemente più complicato.

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    2. Provo a capire. La possibilità del passaggio dalle legalità logiche alle forme discorsive non sarebbe stato messo più di tanto in discussione da Malvino. Per quanto complicato, a me sembra praticabile e soprattutto praticato. Il problema poi si porrebbe (se interpreto bene Malvino) nel successivo passaggio alla persuasione attraverso quelle forme discorsive logicamente solide: persuasione intesa come rivolta alla massa. Mi sembrerebbe un po' il passaggio dalla dialettica alla retorica. Io personalmente non vedo un grosso problema nel passare dalle legalità logiche alle forme discorsive: per quanto sia difficile e periglioso, sarà sufficiente che gli interlocutori riconoscano alcuni principi cardine della logica come veritieri. In fondo si può sbagliare anche una dimostrazione matematica e si troverà un altro matematico a farlo rilevare (è bene non idealizzare troppo le attività umane e notare che questo avviene quotidianamente in qualunque pratica): così accade nella dialettica. Il fatto di potersi sbagliare non è che metta in pericolo tutto il castello, l'importante è che tutti siano d'accordo con le modalità di discorso e prima o poi l'errore verrà sottolineato e risolto. Mano a mano l'errore sarà sempre più raro fino virtualmente a sparire da parte di chi sviluppi un notevole allenamento (come accade per il matematico sopraffino).

      Successivamente il problema diventa quello di convincere il pubblico con un proprio discorso. Qui serve che quelle regole siano accettate o almeno riconosciute da parte di un gran numero di interlocutori. Se non ho capito male, è in questa fase che secondo Malvino sorge il problema. Nella metafora saremmo in presenza dell'insegnante che spiega alcuni teoremi di matematica a degli studenti. All'inizio le obiezioni di questi ultimi saranno presumibilmente spesso logicamente infondate, e qualche volta invece fondate ma risolvibili, raramente metteranno infine in discussione la teoria. Sono d'accordo a questo punto che gli studenti di quella classe debbano aver accettato le regole della matematica, e così secondo me varrebbe per la retorica. Mi direi d'accordo con Malvino quindi che questa condivisione delle regole del gioco non possa avvenire senza che le regole generali siano state spiegate ed accettate, tuttavia non vedo limitazioni di principio ma solo problemi pratici. Come in una classe di studenti che affrontano la matematica, ci sarà una minoranza che andrà avanti senza avere del tutto compreso le regole generali, ma la maggioranza le avrà alla fine accettate. Al più convivremo col fatto che molti non sapranno dimostrare teoremi, ma a noi serve che sappiano riconoscere alla fine degli studi quando un procedimento per risolvere un problema è corretto e quando no, sapendone risolvere di nuovi.

      Prima parlavo di problema pratico. So che un problema pratico può essere insormontabile, anche se solo pratico, e quindi non avrei risolto nulla. Però sinceramente io mi chiedo se a monte uno dei fattori critici non sia proprio l'impostare tutta l'istruzione scolare esattamente sull'assunto che i campi di applicazione della logica formale si esauriscano con la matematica, le scienze e la tecnologia.

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  3. Sono ovviamente d'accordo sulla possibilità e sull'auspicabilità di una maggiore attenzione alla struttura del ragionamento e alle sue regole nel discorso quotidiano, e ancor più quando esso sia pubblico, dall'arena parlamentare alla fila alle poste.
    Detto questo, quando osservo la scarsa qualità degli argomenti normalmente utilizzati, e i danni che questo argomentare retorico (in senso deteriore) e approssimativo produce nella sfera pubblica, trovo che vi siano tre aspetti, tra loro eterogenei ma convergenti nell'effetto: (i) la scarsa qualità delle informazioni: in mancanza di dati solidi e ben strutturati, non è possibile giudicare correttamente alcuno stato di fatto, e la disponibilità di questi dati non ha nulla a che vedere con la logica ma, appunto, con ciò che attiene all'empiria; (ii) il peso degli interessi, diretti o indiretti, dello spirito di parte e di ogni pregiudizio, e ciò non ha a che fare né con la logica né con l'informazione, ma con una dimensione etica, di dovere dell'equanimità di giudizio, (iii) certo, la scarsa cogenza, quando non le vere e proprie fallacie dell'argomentare: se il modus ponens, per dirne una, fosse applicato con il necessario rigore, scomparirebbero un bel po' di concatenazioni farlocche e sesquipedali pretese di dimostrazione.
    Credo poi che oggi si sia aggiunto un altro fattore: quello che io chiamo il dovere di opinione, per cui tutti dobbiamo avere le idee chiare su qualsiasi cosa faccia notizia, dalle riforme istituzionali alla lotta al terrorismo, dall'ultimo caso di cronaca alla nuova ricerca sulla correlazione tra geni e obesità. Questa necessità di avere qualcosa da dire aumenta a dismisura le castronerie, a tutti i livelli e da qualsiasi parte, se non altro per effetto del punto (i), che a queste condizioni mi pare il più urgente.

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