martedì 9 maggio 2017

Una pagina di Avvenire

Un «dibattito» – prendo la definizione che ne dà il De Mauro – dovrebbe essere una «discussione di più persone nella quale le diverse opinioni vengono discusse e vagliate». Avvenire parte male fin dallocchiello, dunque, nel presentare come «dibattito» i tre interventi pubblicati a pag. 3 del numero in edicola martedì 9 maggio, perché questi non esprimono affatto «opinioni diverse»: Lucio Romano (Disposizioni o dichiarazioni: la differenza è di sostanza), Gian Luigi Gigli (Ridurre la portata negativa di una legge nata male) e Carmelo Leotta (Se un pm afferma che una vita vale meno) hanno un dichiarato idem sentire sulle tematiche relative al «fine vita» e a tutti e tre non vanno affatto bene le Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento approvate alla Camera lo scorso 20 aprile.
Più che un «dibattito», insomma, Avvenire manda in pagina un monologo a tre voci, e a tanto, già di per sé irritante, aggiunge il carico, francamente insopportabile, di dar conto delle possibili «opinioni diverse» unicamente attraverso l’infedele esposizione che ne fanno i tre prestigiosi avanzi di sagrestia chiamati a intervenire sul tema. Un modo molto disonesto di procedere, perché neppure il fatto di essere un organo di partito – cosaltro è, la Cei? – solleva Avvenire dall’obbligo di dare una corretta informazione ai suoi lettori. Ma veniamo al merito.

«Le disposizioni anticipate di trattamento – scrive Lucio Romano – si rappresentano come estensione nel tempo di un consenso informato anticipato [ma] solo ad una lettura generica […] possono essere assimilate al consenso informato, [che] è accettazione libera, cosciente, attuale, revocabile e consapevole del paziente a sottoporsi ad un atto medico, con una informazione preliminare, adeguata e specifica, circa benefici, rischi, complicanze correlate o prevedibili».
Bene, tutto questo verrebbe meno col concedere ad un individuo il diritto di decidere per tempo sul proprio «fine vita», perché «le “disposizioni” esprimono volontà vincolanti da seguire quando non più in grado di esprimersi». In più, «non sono assimilabili al consenso informato perché, seppur stabilite in libertà e consapevolezza, non potranno essere mai attuali perché redatte “ora per allora”; dovranno essere prevalentemente generiche non potendo definire lo specifico; non sono informate in quanto formulate prima dell’insorgere della patologia, senza conoscenza di circostanze e modalità; non potranno essere più revocabili in situazione di irrecuperabile incapacità di intendere e di volere».
La natura capziosa di questargomentazione si rivela al solo controbattere che in questione è quello che comunemente è detto «biotestamento», e cioè un testamento relativo alla vita, inteso come bene personale del quale è lecito disporre come meglio di creda. Superfluo rammentare che, al pari di ogni testamento, anche quello relativo al «fine vita» può avere revisioni senza limiti.
Accogliendo le obiezioni di Lucio Romano, non dovrebbe esserci permesso di far testamento su alcun bene di nostra proprietà. Non dovremmo forse ritenere valide le disposizioni di quanti hanno lasciato i loro averi alla Chiesa? Certo, hanno deciso in libertà e consapevolezza, ma il loro testamento fu redatto “ora per allora”, senza poter essere più revocabile in situazione di irrecuperabile incapacità di intendere e di volere. Dovremmo ritenere nulle, perché illegittime, quelle disposizioni? Lo Stato dovrebbe procedere alla confisca di tutti quei beni che nel corso dei secoli tanti privati cittadini hanno lasciato alla Chiesa?
La fin troppo prevedibile controbiezione a questa che in realtà – confesso – è una provocazione (voleva provocare proprio una controbiezione del genere) è la seguente: la vita non è un bene di cui si possa liberamente disporre. Bene, ma allora, prima di contestare la legittimità di quanto viene concesso al cittadino nelle Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, si chieda al Parlamento di approvare una legge che sanzioni il tentato suicidio, anche quando non sia assistito. Per il suicida che riesca nel suo intento, infatti, sarà impossibile procedere (ci penserà Dio a ficcarlo nel girone dei violenti verso se stessi), ma a chi fallisce spetterebbe una pena, e severa. Vedete a cosa costringe, uno come Lucio Romano? A prenderlo sul serio, e con quanto ne consegue. 
E già accaduto, perché lho conosciuto personalmente. Era un assistente nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dove io facevo il praticantato di specializzando, e un giorno mi chiese di procurargli qualche immagine ecografica di embrione alla sesta o settima settimana di gestazione, ne doveva ricavare delle diapositive per i sermoni pro-life che a quei tempi – parlo degli anni a cavallo dei Settanta e degli Ottanta del secolo scorso – teneva per conto di Carlo Casini, lallora presidente del Movimento per la vita. Quando gliene diedi una mezza dozzina, le guardò deluso: «Non si poteva far di meglio? Sembrano solo fagiolini». Gli risposi: «Quello sono, Lucio, tutto il resto spetta allimmaginazione».
Ma divagavo, torniamo alla pagina di Avvenire.

Il secondo intervento, a firma di Gian Luigi Gigli, che di Carlo Casini ha preso il posto, mira a reclutare forze per impedire che la legge approvata alla Camera superi il vaglio del Senato.
«È giunto il momento – scrive – di chiedersi se c’era davvero bisogno di una simile legge». [Invece di «c’era», forse, andava meglio «ci fosse», ma possiamo chiudere un occhio, perché Gigli non è un grillino.] La risposta? «Certamente no, se l’intenzione era di evitare situazioni di ostinazione terapeutica. La medicina ha superato ogni tentazione in tal senso e, se non fosse bastato, le esigenze di controllo della spesa sanitaria e l’intervento degli ordini dei medici avrebbero potuto dissuadere qualunque nostalgia di accanimento».
Un brivido di orrore ci corre lungo tutto il rachide: sono le esigenze di controllo della spesa sanitaria tra i motivi a dissuadere dallaccanimento? Ma poi: chi potrebbe averne nostalgia? Insomma: chi è il nostalgico dellaccanimento terapeutico che si piega dinanzi a basse ragioni di natura economica quando è in gioco la vita, peraltro inteso come bene indisponibile a chi ne è titolare? La sensazione è che sarebbe difficile poter avere una risposta, quindi procediamo.
Inutile, la legge, «se si voleva garantire la possibilità di rifiutare l’avvio di trattamenti non desiderati. La redazione del consenso informato è obbligatoria negli ospedali e un medico non potrebbe imporre trattamenti senza ricorrere all’intervento dei carabinieri ed esponendosi a rischi e rivendicazioni». Certo, ma il concetto di «consenso informato» si è storicamente affermato a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti delluomo (1948), che la Santa Sede si è sempre rifiutata di riconoscere proprio per quanto in esse vi è affermato relativamente alla «libertà della propria persona» (art. 3).
Va inoltre rammentato che il Catechismo della Chiesa Cattolica recita che, «anche se la morte è considerata imminente, le cure che dordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte» (2279). È questo, infatti, il punto di caduta dellargomentazione di Gigli, per il quale «obiettivo reale [della legge sul biotestamento] era evidentemente un altro: permettere l’interruzione di qualunque trattamento», con riferimento alle «cure che [il Catechismo ritiene] d’ordinario dovute», come si esplicita col dire «assurdo» che una legge definisca «terapie» l’idratazione e la nutrizione assistite, «per renderle rifiutabili in qualunque momento».
E qui siamo di nuovo costretti alla provocazione. Sembrerebbe, infatti, che non si voglia tener conto di cosa esattamente si intenda per idratazione e nutrizione assistite. Perché queste possano essere messe in atto, occorre personale medico qualificato, con lespletamento di procedure relativamente complicate, e per mezzo di strumenti che sono propriamente clinici: come ci si può azzardare a non considerarle «terapie»? Parliamo di tubi e siringhe, non di acqua e pane. E perché un malato non avrebbe il diritto di rifiutare un sondino nasogastrico, se poi può rifiutare una qualsiasi infusione che anche lo stesso Gigli sarebbe disposto a concedere costituisca «accanimento terapeutico»?

Col terzo intervento mandato in pagina da Avvenire possiamo cavarcela più brevemente.
Carmelo Leotta se la prende col pm che ha fatto domanda di archiviazione per Marco Cappato, autodenunciatosi per aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, aiutandolo in tal modo ad esaudire la sua volontà di procedere ad un suicidio assistito, e scrive che «l’articolo 580 parla chiaro e stabilisce che “chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni”», mentre invece nelle motivazioni alla richiesta di archiviazione viene affermato un «principio di dignità [che] impone l’attribuzione a tutti coloro che vivono in condizioni gravissime o irreversibili, percepite dal malato come lesive del senso della propria dignità, “di un vero e proprio diritto al suicidio”, esigibile non solo in via indiretta con la rinunzia alla terapia ma anche in via diretta, con l’assunzione di una “terapia finalizzata allo scopo suicidario”», e questo gli pare scandaloso, perché così si affermerebbe una grave disparità di diritti, che in apparenza sarebbe in favore del soggetto ammalato e a scapito del soggetto sano, ma che in realtà farebbe passare il principio che «la vita del malato “vale” meno della vita del sano, visto che il primo ne può disporre, e il secondo no».
L’eleganza con la quale ci è presentato il sofisma non ci consente di liquidare anche qui l’argomentazione con una provocazione. Verrebbe, sì, di tagliar corto obiettando che, tanto per fare un esempio, anche nel caso della legittima difesa una vita (quella dell’aggressore) finisce col “valere” meno di un’altra (quella dell’aggredito), ma che al momento il Codice Penale (art. 52) continua a contemplarla come «legittima», così consumando quella che per Leotta sarebbe «una insanabile violazione del principio di uguaglianza». Verrebbe da esortarlo a portare l’art. 52 dinanzi alla Consulta, e subito, perché lì dentro passa un’intollerabile differenza di “valore” che ci sarebbe tra vita e vita. Verrebbe, ma rinunciamo.
Lasciamo che dinanzi alla Consulta vengano portati gli artt. 579 (Omicidio del consenziente) e 580 (Istigazione o aiuto al suicidio), ma poi non mettiamo cruccio al musetto se saranno dichiarati incostituzionali sulla base delle stesse motivazioni che il pm ha addotto in favore dell’archiviazione. Se ci si appella alla legge degli uomini, non sempre si ha risposta illuminata dalla legge di Dio. E siamo sicuri che Leotta non abbia bisogno di esempi. 

2 commenti:


  1. mi chiedo una cosa. Se io nel mio testamento scrivessi letteralmente: "lascio la casa a mio figlio a condizione che si sia comportato bene secondo il giudizio dell'esecutore testamentario", sarebbe una disposizione valida ?

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  2. Art. 631.
    Disposizioni rimesse all'arbitrio del terzo.

    È nulla ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall'arbitrio di un terzo l'indicazione dell'erede o del legatario, ovvero la determinazione della quota di eredità.

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