martedì 29 maggio 2018

Scommessa persa



Non è la prima volta che un Presidente della Repubblica pone il proprio veto su uno dei nomi che un Presidente del Consiglio incaricato di formare il Governo gli ha proposto per la nomina a ministro. Sappiamo cosa è accaduto in passato, ma solo per i pochi casi di cui siamo venuti a conoscenza, comunque sempre dopo (talvolta anche molto dopo): il veto risultava efficace, e quel nome scompariva dalla lista dei ministri (Gratteri) o veniva spostato a un altro dicastero (Previti).
Ci sono stati casi in cui il parere contrario del Presidente della Repubblica non sia riuscito a sostanziarsi in veto? Non lo sappiamo. Possiamo ritenerlo improbabile, anche assai improbabile, ma non possiamo escluderlo del tutto. Non possiamo escludere, infatti, che un Presidente del Consiglio incaricato possa aver trovato buoni argomenti per far cambiare idea a un Presidente della Repubblica inizialmente contrario a firmare un decreto di nomina dei Ministri nel quale figurasse un nome a lui non gradito, né possiamo escludere che fra questi argomenti vi fosse il legare a quel nome le sorti del Governo. Possiamo ritenerlo improbabile, anche assai improbabile, ma non possiamo escluderlo del tutto.
Nella pure assai improbabile eventualità che questo sia accaduto, è tuttavia evidente che sia potuto accadere solo in virtù del fatto che tutto era protetto dalla massima riservatezza, al riparo di unattenzione pubblica che avrebbe potuto facilmente travisare in braccio di ferro un momento di dialettica istituzionale: se è accaduto, la riservatezza ha efficacemente protetto il Presidente della Repubblica dal poter apparire come il perdente in quel braccio di ferro.

Di inedito, allora, cosa è accaduto stavolta? È accaduto che Mattarella abbia voluto rendere pubblicamente noto per tempo che avrebbe posto il proprio veto sul nome di Savona al Ministero delle Finanze, con ciò dichiarandosi pubblicamente indisponibile a considerare ogni argomento che nelle pur illusorie speranze del Presidente del Consiglio incaricato potesse essere considerato efficace a fargli cambiare idea: la dialettica istituzionale ha così perso il terreno sul quale avrebbe potuto dare un risultato, non importa quale, per lasciare spazio solo al conflitto, con una vera e propria sfida, peraltro subito raccolta dalle forze politiche che in Parlamento avevano i numeri per far nascere un Governo, che così non nasce.
Potevano non raccoglierla, certo, potevano accettare lalternativa offerta dal Capo dello Stato (Giorgetti al posto di Savona), ma così avrebbero accettato di apparire come perdenti in quello che Mattarella aveva intenzionalmente voluto presentare come scontro, e questo a fronte di un consenso elettorale che le aveva più o meno ragionevolmente convinte di poter governare, in forza del mandato popolare, senza condizionamenti di natura extra-politica: come recitano i manuali di Diritto Costituzionale, al Presidente del Consiglio il compito di esprimere la linea politica della maggioranza parlamentare e al Presidente della Repubblica quello di garante della costituzionalità dei passaggi istituzionali. Il loro errore – se errore vogliamo considerarlo – è stato quello di non capire che avevano di fronte un Presidente della Repubblica che fra gli oneri di garanzia costituzionale di cui si sente carico contempla pure quelli di assicurare allItalia una continuità della linea politica costruita dai passati esecutivi: nella Costituzione che si sente chiamato a difendere, Mattarella legge pure vincoli di natura sovranazionale che non sarebbe lecito neppure mettere in discussione.
Sospendendo la questione se si tratti di una lettura legittima o meno, cè da comprendere non possa essere accettata da chi si dichiara sovranista proprio perché non riconosce in quei vincoli dei vantaggi superiori agli svantaggi.
Con tali premesse era del tutto prevedibile che il conflitto si sarebbe spostato in piazza, con un Paese per poco più della metà a favore del cosiddetto Governo del Cambiamento, quindi nelle migliori condizioni per disporsi a considerare Mattarella come un «nemico del popolo», e per poco meno della metà contrario, pronto a prenderne le difese come estremo rimedio alla discesa dei «barbari».
Molte erano (e in fin dei conti restano) le questioni controverse sollevate dall’eventualità di un Governo a guida di Lega e M5S, quindi era prevedibile che un problema di natura schiettamente istituzionale diventasse terreno di scontro tra fazioni politiche irriducibili: di qua, lasse di saldatura tra due movimenti populisti che alle ultime elezioni politiche hanno incrementato enormemente il consenso in loro favore rispetto alle prestazioni di cinque anni prima; di là, il resto, con in testa un Renzi e un Berlusconi che il responso delle urne ha fotografato in caduta libera.

Era difficile che sulle prerogative del Presidente della Repubblica – perché di questo in fondo si trattava – si potesse discutere con serenità, e di fatto è stato impossibile: da un lato, cera chi voleva leggere nellart. 92 della Costituzione un ruolo attivamente politico del Capo dello Stato nella formazione di un Governo (perché cosaltro è il pretendere di avere voce sulla linea economica di un esecutivo?), quasi a voler dare rilievo di legittimità costituzionale ad una posizione ostile agli intendimenti di una maggioranza parlamentare; dall’altro, invece, c’era chi assegnava al Quirinale una funzione di mera vidima delle scelte della politica.
Ne abbiamo visto delle belle, comprese le patenti contraddizioni in seno a posizioni che potremmo definire «storiche»: così, tra chi ha sempre sostenuto il primato della politica, inteso come pieno potere in mano a chi riesca ad ottenere il consenso della maggioranza del «popolo» o della «gente», abbiamo scorto degli strenui difensori dei bastioni che la Costituzione erge a difesa dell’arbitrio di chi, forte dei numeri, voglia stravolgerla (si pensi a chi voleva maciullarla a colpi di pur risicatissime maggioranze parlamentari e che oggi la ritiene perfetta così com’è); all’altro estremo, tra chi ha sempre sostenuto che la Costituzione fosse da leggere e rispettare alla lettera, ecco sortire i sostanzialisti del «popolo sovrano», libero dai vincoli posti dall’art. 81 («Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», anche se poi, «previa autorizzazione delle Camere», senza specificare se rosse, azzurre o giallo-verdi, «il ricorso all’indebitamento è consentito»).
Mi sono già intrattenuto su cosa, a mio modesto avviso, significhi quel «nomina» che compare nell’art. 92 della Costituzione, e qui non ci tornerò sopra, limitandomi a rammentare che, per la stragrande maggioranza dei costituzionalisti, al Capo dello Stato non è data alcuna facoltà di scegliere il titolare di questo o quel dicastero, potendo al più esercitare un potere di dissuasione, che non è assolutamente detto possa o debba avere efficacia (che in qualche caso labbia avuta non fa argomento dottrinario): quel «nomina» fa riferimento all’apposito decreto (di nomina, per l’appunto, che non a caso i Padri costituenti vollero disgiunto da quello di nomina del Presidente del Consiglio).
Parimenti, ho già cercato di spiegarmi, più che spiegare al mio lettore, perché Mattarella sia convinto che un Presidente della Repubblica possa efficacemente esercitare un vero e proprio veto in situazioni del genere: da giovane è stato assistente universitario di Virga, uno dei pochi costituzionalisti a dare a quel «nomina» il significato di «decide»; nella Commissione bicamerale per le riforme costituzionali del 1997-1998 era a favore di una Repubblica semipresidenziale nella quale un Capo dello Stato avrebbe avuto fra le sue prerogative anche quella di assicurare il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali e sovranazionali (prerogativa che la Costituzione oggi in vigore non gli riconosce), ma soprattutto un ruolo assai più forte nella nascita e nella vita di un Governo, grazie al fatto che l’elezione diretta gli conferiva anche un profilo politico oltre a quello di garante della Costituzione.
Direi che, tutto sommato, ha agito in buona fede, dando dell’art. 92 un’interpretazione che per molti costituzionalisti (uno per tutti, Onida) è «impropria» (nell’idioletto dei costituzionalisti sta per «scorretta»), ma che ha l’indiscutibile merito di essere coerente con la sua formazione accademica e compatibile il più possibile al modo in cui il II Titolo della II Parte della Costituzione andava, secondo lui, riformato. Di fatto, non è stato riformato a quel modo.

Di là dal merito della questione in oggetto, che come spesso accade con quelle di natura giuridica rifugge da soluzioni unanimemente accolte, c’è da porsi il problema del se fosse necessario (rectius: inevitabile) portare il problema alle dimensioni del dramma che oggi ha assunto. Le responsabilità vanno equamente ripartite, ma come ignorare che tutto ha avuto inizio con la decisione del Quirinale di rendere pubblico il veto sul nome di Savona prima che glielo si fosse formalmente proposto? Il casus belli è in quella decisione, che probabilmente scommetteva su un cedimento di Lega e M5S che Mattarella avrebbe potuto offrire a garanzia di controllo sulla loro azione di governo a quanti ne paventavano iatture.  Probabilmente è in questo modo che Mattarella contava di rappresentare al meglio l’unità nazionale.
Scommessa persa, che rischia di provocare a mesi una valanga giallo-verde. Mattarella ne sarà stato il maggiore responsabile.

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