sabato 6 ottobre 2018

Una scienza dei fini?


1. Ho un debito di gratitudine nei confronti dellanonimo che a commento di ciò che ho scritto in Per tempo (Malvino, 2.10.2018) mi ha accusato di essere – forse oltre le mie intenzioni, ha tenuto a precisare – uno dei tanti mistificatori di Marx, dove è evidente che «oltre le mie intenzioni» stava a concedermi l’attenuante di essere più fesso che cattivo, mentre «forse» mavvertiva che questa concessione potrebbe essermi ritirata in caso di recidiva. Tanto più amabile, questa indulgenza, e tanto più preziosa, perché mi faceva la gentilezza di chiarirmi dove sia in radice quella che in me, al momento, resta sospesa tra fessaggine e cattiveria: è che io rigetto la dialettica di Hegel, come daltronde incontestabilmente emerge dal fatto, documentalmente provato, che su di lui, in passato, ho espresso «un giudizio assai negativo». Impossibile negarlo: lho fatto. Bene, questa imputazione mi ha sciolto il rovello in cui mi dibattevo da molti mesi: di qui il debito di gratitudine cui facevo cenno in apertura, che però mi chiama a dare spiegazione di quale fosse il rovello, e di come vero finito dentro.
Uno dei motivi – non il preponderante, ma tra i più rilevanti – che mi hanno tenuto lontano da queste pagine per quasi un anno è stato il cominciare a rileggere Marx – Lideologia tedesca e Il Capitale – cui non mettevo mano da oltre trentanni (di tanto in tanto ero tornato sul 18 Brumaio, il Manifesto e i Manoscritti del 44, ma solo en passant). Bene, come chi sa chi è cascato in quello teologico o in quello psicoanalitico, ogni riduzionismo ha un suo fascino. Quello costruito da Marx è irresistibile, cattura, convince della sostanziale irrilevanza della penultima, della terzultima, della quartultima istanza di tutto ciò che strenuamente resiste a rivelarne l’ultima in un dato di natura economica.
D’un tratto, tutto mi si è spostato sullo sfondo, sfocato, privo di ogni interesse che non mi si rivelasse colpevolmente frivolo, fuorviante rispetto al problema dei problemi, l’unico degno di seria attenzione, e di studio: i meccanismi con cui il capitalismo si dà statuto di sfruttamento, le contraddizioni che ne rivelano l’intrinseca tendenza all’autofagia, la necessità di combatterlo e annientarlo che nasce dalla stessa analisi della sua natura opprimente e alienante. In forza del suo stringente argomentare, Marx mi ha preso per intero, o quasi. Quasi, perché comunque non riuscivo ad abbandonare una resistenza: ero costretto a concedere che la pars destruens è ineccepibile, ma il dopo? Dovera il progetto della società finalmente liberata dalla schiavitù capitalistica?
Parlandone in privato con chi ha ruminato Marx per decenni, apprendevo che non cè, né può darsi in condizioni, quelle presenti, che non consentono neppure di ipotizzarlo, perché esse stesse d’ostacolo a farne avere la pur pallida idea. E le forme di socialismo fin qui storicamente realizzate? Imputare il loro fallimento a Marx è blasfemia (tutte letture errate, mistificazioni, traveggole, abissi di vertigine): Purgatorio, forse, rispetto allInferno del capitalismo, ma il Paradiso si apriva come ipotesi da costruire solo dopo aver fatto piazza pulita di Inferno e Purgatorio.
Qui trasalivo, per la singolare analogia con la piena esperienza di Dio, possibile solo dopo la morte, e solo ad essere riusciti a guadagnarsene merito in vita. E come sentire Dio, in vita? Come tensione. In analogia? «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente».
Impossibile ogni obiezione: accettando qui lineccepibile scienza e lì lindefettibile fede, il no a Marx o a Dio può nascere solo da una ottusa resistenza ad accettare la scommessa offerta da Pascal (e prima di lui da Agostino), dove, se perdi, non perdi nulla, ma, se vinci, vinci tutto. Daltronde, dopo aver capito come e quanto il capitalismo ci mortifica e degrada, come si può rinunciare a porsi come fine il suo abbattimento e darsi interamente come mezzo? Solo un fondo di malvagità – il peccato originario dessere borghesi e di essere istintivamente portati a difendere gli interessi di classe – può impedire di abbracciare la causa comunista dopo aver dato ragione a Marx. Più ci pensavo, più mi immalinconivo. E più mi immalinconivo, più cercavo nelle equazioni di Marx lerrore di passaggio che rivelasse linfondatezza delle conclusioni. E non lo trovavo.
In questa miserevole condizione di resistenza a una verità che, dopo essersi affermata come scienza esatta, esigeva la dignità di fede, vagolavo nel vuoto della mia vita borghese come un peccatore che gelosamente cela in petto il marchio a fuoco del suo peccato. Questo fino alla rivelazione, di cui devo esser grato allanonimo commentatore: resistevo a Hegel, non a Marx. In sostanza: non gli cedevo interamente perché nel suo procedere cera il vizio della dialettica. Rigettando la dialettica, non riuscivo a dare continuità allanalisi in ciò che essa dava come necessitato. Ribaltamento della prospettiva: quello che mi consentiva di apprezzare il genio di Marx, ma non mi permetteva di dargli cogenza, era il sentire come ossimoro il suo materialismo dialettico.
Sono tenuto a spiegarmi meglio, ovviamente. Ci provo, ma avverto che tratto una questione che in me, al momento, è solo approssimativamente delineata. Per questo parlavo di rivelazione: ho chiara la visione, ma forse non sono ancora in grado di ridarla con nitidezza. Con tutti i rischi del caso, ci provo.

2. Voglio partire dallo sgombrare il campo da una possibile fonte di fraintendimento: giacché la formula «materialismo dialettico» non è stata coniata da Marx (ci pensò Plechanov, ma quando a Marx non era più possibile rigettarla, perché già morto da qualche anno), possiamo ritenerla adeguata a esprimere fedelmente il significato della dottrina di Marx? Direi di sì. Se è vero, infatti, che il progetto di Marx ed Engels dichiara di voler operare un rovesciamento della dialettica hegeliana, questo rovesciamento è da intendere solo nel tentativo di spostarla dal piano di una realtà idealizzata a quello della natura e della storia: dialettica rimane, dunque, pur agendo nella materia. Ed è qui che sorge il problema, credo, perché, per sua natura, la dialettica è ascendente e progressiva: mira a un fine.
Ora cè da chiedersi: una visione scientifica del mondo può conferire alla realtà un senso nella sua duplice accezione di significato e direzione? Per Kant, ad esempio, no. In lui una metafisica che faccia sintesi tra scienza ed etica è impossibile, come lo è, di conseguenza, una razionale dimostrazione della razionalità del mondo. Per Hegel, invece, è il contrario: «Tutto ciò che è razionale è reale [ciò che è ragionevole si realizza], tutto ciò che è reale è razionale [ciò che è realizzato ha una sua ragione]»; e Marx gli va appresso, nella pretesa di fondare una conoscenza che insieme sia materialistica e dialettica, sostanzialmente consistente in una scienza dei fini. È per questo che possiamo considerarlo assolto dagli incubi totalitari che sono stati costruiti in suo nome: non erano previsti, il comunismo si sarebbe realizzato «con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura».
Ma può esistere una scienza dei fini, la cui ratio sia necessariamente agita da un moto dialettico tendente alla lisi delle contraddizioni che caratterizzano la condizione umana? Direi non possa esistere. Se è veramente scienza, ha carattere avalutativo e natura eminentemente congetturale: procede per ipotesi, rigetta considerazioni di valore, nega vettori teleologici, dà a ogni verità il tratto di una conoscenza relativa.
Non per Marx, che spesso sembra voler fare della sua scienza uno strumento di controllo della realtà per piegarla alla leggi del pensiero, attribuendo alla storia un connotato che potremmo definire animistico. Più che a una scienza, tutto ciò non è più simile a una religione, ancorché senza Dio?

Non mi aspetto di aver chiarito a dovere perché sia Hegel il vero problema di Marx, ma probabilmente ci tornerò sopra. Per lintanto ancora un grazie a chi mi ha aperto gli occhi sulla natura di un disagio di cui non sapevo darmi ragione.

[segue]

25 commenti:

  1. Mi fa venire in mente una celebre frase attribuita ingiustamente a Mike Buongiorno e avente per oggetto la mitica signora Longari. Lei sta cadendo a piè pari nell’idealismo. Non prenda la cosa come una mancanza di stima o di riguardo nei suoi confronti, ma solo come una constatazione. Se vuole, nobilito l’esempio e passiamo da Buongiorno alla scuola di Copenaghen, alla quale infine aderì la maggioranza dei fisici teorici di tutto il mondo, laddove, ad esempio, Bohr interpretava l’indeterminismo della meccanica quantistica come un limite delle nostre possibilità conoscitive.

    Alla fine della fiera, per non farla troppo lunga e forse troppo sofisticata per i suoi pur attenti lettori, le domande che Lei e tutti noi (fiducia e grande generosità nel prossimo nostro) ci poniamo sono le seguenti: in che misura il futuro del genere umano è determinato già oggi? Se non si può dire quando arriveranno a conclusione i grandi processi di trasformazione del nostro mondo, si potrà tuttavia già sapere che essi procederanno incondizionatamente in una direzione riconoscibile?

    Per venire a noi, al Suo rovello, che io credo Lei abbia tutt’altro che risolto, le domande sono: il comunismo è il destino inevitabile dell’umanità? Basta aspettare con pazienza, finché un giorno ci sarà il comunismo? Si può affidare la sua attuazione al destino, o può darsi che esso non diventi mai realtà, nonostante tutti gli sforzi?

    Il suo post, del quale apprezzo lo sforzo di ricostruzione, chiude con un [segue]. Ebbene resto in attesa che Lei sciolga i punti interrogativi, e poi deciderò quanto la simpatia nei Suoi riguardi mi spinga oltre. Mi permetta a tale riguardo una considerazione: se continuerà sulla strada intrapresa (non mi riferisco solo all’accuratezza della ricostruzione), non potrà trarsi in salvo dalle sabbie mobilissime dell’idealismo.

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    1. Guardi che a me sembra di aver scoperto in Marx l’idealista, dove per idealismo si intenda il primato del pensiero sulla realtà. Ciò che rende eccezionale Marx è il suo dare statuto di scienza alla proiezione della teodicea hegeliana sul divenire storico. Ma anche della teologia si dice che sia scienza, sa? Almeno così sostengono i teologi.

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    2. Dimenticavo: so bene che non basta aspettare che il capitalismo rotoli lungo la sua caduta tenziale, ma che bisogna dargli una spinta.quo ci vedo calvinismo: tutto è destino, ma sforzati per realizzarlo.

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    3. Esco dal seminato delle vostre godibilissime argomentazioni (tue e dell'Anonimo), per chiedere: tu, oggi, a che cosa o a chi daresti la spinta (dato che gli attuali demoni di Gerasa non si butteranno giù dal precipizio da soli)?

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    4. Su Marx ne sono state dette e scritte di ogni colore, ma che fosse un idealista, pur nel senso da Lei espresso, anzi proprio in quel senso, non avevo mai letto e udito nulla.

      Lei si riferisce spesso alla critica marxiana (dell’economia politica) come a pars destruens. Il che è solo un lato del suo lavoro. L’altro lato Lei non vuole coglierlo, non per incapacità, non per “fessaggine” e “cattiveria”. L’ideologia opera in profondità nelle nostre coscienze e spesso ben oltre le nostre intenzioni. Tutto qua.

      “Dov’era il progetto della società finalmente liberata dalla schiavitù capitalistica?”. Lei cerca in Marx qualcosa che non può esserci. E non può trovare nulla di ciò che Lei cerca poiché Marx non era un profeta ma uno scienziato, nell’accezione più alta del termine.

      Lei cita il “vizio della dialettica”, il “materialismo dialettico”, espressione quest’ultima che forse potrebbe essere stata coniata da Plekhanov, ma il medesimo non creò la teoria del materialismo storico! Né io, nel mio primo commento, ho fatto riferimento al “materialismo dialettico”, né semplicemente alla “dialettica”, bensì alla dialettica del caso-necessità. Che c’entra con Engels e Marx, ma non nel senso che Lei suppone. Anche perché, come credo, a Lei sfugge il significato della teoria della conoscenza basata sulla dialettica del caso-necessità, ossia sulla dialettica del possibile, del reale e del casuale.

      Lei non è realmente interessato a queste cose, assomiglia ad un agnostico con un gran bisogno di assoluto. L’assoluto, come Lei ben sa, è una cosa pensata, non reale, e che quindi, non essendo reale, non può essere dimostrato e misurato, ovvero non può essere oggetto di scienza. E figuriamoci se Marx non sapeva di queste e ben altre cose.

      Quanto al suo secondo commento, Lei dimostra molta superficialità e, permetta, supponenza, nel voler liquidare in tal modo il quesito.

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  2. direi di tenerci stretto il Marx scienziato sociale, che ha costruito un modello insuperabile e ancora validissimo per la descrizione del mondo economico, respingere con scherno e ingiurie varie il Marx filosofo della storia, guardare con un occhio di indulgenza il Marx pubblicista e politico quando pretendeva di spacciare lei sue legittime ma personali idea sull'attualità per conseguenze necessarie di una qualche tipo di scienza.

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  3. «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente».

    Bisogna dire che questa è una versione "edulcorata", un po' come quando Engels afferma che non bisogna dare soverchia importanza ai fattori economici. Di fatto, nella versione esoterica (cioè rivolta ai profani che si suppone non leggano) si dice o si lascia sempre intendere che il comunismo sarà qualcosa di simile al Bendegodi.
    Il problema è che senza la metafisica non ci si può difendere facilmente da questa definizione essoterica (rivolta ai pochi) di comunismo che implica sì un atto di fede ma un atto di fede nell'inesistenza di qualcosa che si sottrae al divenire del mondo. Cioè implica un atto di fede nell'inesistenza di una realtà metafisica. Perché è ovvio che lo stato di cose esistente (intendendo con tale espressione il mondo sociale empiricamente rilevabile) verrà "abolito" tra mille anni o 10.000 anni. Rimane da vedere se verrà abolito in meglio o in peggio ma, in ogni caso, presupporre in linea teorica che "tutto" può cambiare, tranne le leggi che regolano questo cambiamento, ci obbliga a cercare quali siano queste leggi per far in modo che questo cambiamento avvenga in meglio. Pur essendo leggi che regolano il cambiamento sociale c'è (nell'ottica engelsiana) un parallelismo perfetto e una (folle) continuità con le leggi della natura. Come noi conosciamo le leggi fisiche e ci serviamo di tale conoscenza per i nostri scopi così in linea di principio possiamo fare riguardo alle supposte leggi sociali. Certo possiamo negare che tali leggi esistano ma non è una negazione che si possa fare a cuor leggero, infatti se "tutto" (cioè tutto il mondo sociale) può cambiare e se non esistono leggi che regolano questo cambiamento, allora vuol dire che la nostra vita (cioè la vita della nostra specie in quanto specie sociale) è governata totalmente dal caso. Si badi: non solo influenzata (ché questo l'ammettono tutti) ma totalmente in balia del caso.
    A rendere problematica questa rassegnazione c'è la nostra coscienza di essere riusciti a dominare le forze della natura e il fatto che nella nostra vita individuale noi riusciamo generalmente a racchiudere entro certi limiti l'influenza del caso. Insomma, è mai possibile che come specie sociale non riusciamo a trovare una quadra ?
    Ma, d'altra parte, se noi guardiamo alla realtà storica in cerca di queste leggi e siamo degli empiristi non possiamo appellarci ad altro che alla genetica o all'economia. Darwin o Marx, non si scappa. Darwin meglio di no per ovvi motivi, resta Marx, che, tra l'altro, ha costruito un modello insuperato, quanto a capacità di spiegazione dei fatti economici. Ecco spiegato il largo fascino di Marx presso persone dei più vari riferimenti culturali e anche, purtroppo, la sua attuale irrilevanza politica. Se infatti noi cerchiamo in Marx una spiegazione della storia (ed eventualmente delle previsioni sul futuro) rimaniamo affascinati ma anche paralizzati, come se guardassimo il volto della medusa, mentre se noi guardassimo a Marx solo come scienziato sociale potremmo partire dal suo modello economico per cercare di cambiare politicamente la realtà economica. Per cambiare qualcosa nella sua totalità, infatti, bisogna prima ricavarne un modello. E questo modello ce lo può dare Marx.

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    1. Visto il tenore affine dei nostri commenti, ti muovo un appunto circa "la nostra coscienza di essere riusciti a dominare le forze della natura" e della storia potrebbe aggiungersi. Ebbene, non credo che possiamo vantarci di una cosa del genere senza fraintendere Marx. Non siamo noi come specie ad aver conseguito quel risultato. Quel dominio di cui parli ha come soggetto sovrano il capitale, non la specie umana. Si ricade altrimenti nell'autocelebrazione borghese. Il problema di Marx è proprio rompere quel dominio. Similmente, la società si è certamente emancipata dal potere politico a partire dalla metà del Settecento (da cui la nascita della sociologia come scienza autonoma). Ma attenzione a confondere l'emancipazione della società dalla liberazione dell'umanità. In questa confusione si annida l'ideologia borghese nella sua forma democratica. Marx offre proprio una teoria della società borghese che spiega come la sociazione segua le leggi dell'accumulazione capitalistica, non quelle della libera creatività umana. Anche perché di una specie umana indivisa è illusorio parlare in una società di classe.

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    2. distinguere i nettamente tra dominio della natura (natura non umana) e dominio della storia. Il primo è stato raggiunto dalla specie umana il secondo no. È proprio questa differenza che spiega il fascino di Marx presso persone di diverse provenienze culturali. Soprattutto in periodi di crisi economiche o nel caso di guerre, perché questi sono gli eventi che mettono in dubbio la pretesa di aver raggiunto anche l'altro tipo di dominio, quello sulla storia. Personalmente non ho di questi problemi perché penso che la storia sia illusoria, che non cambi mai niente di ciò che è veramente fondamentale. Ma forse hai frainteso la mia posizione, io sono per la metafisica, rifiuto pure il concetto di classe sociale. A me Marx serve solo per avere un modello del funzionamento economico della società. La mia è una posizione idealistica (Non nel senso di Hegel), ritengo i fatti economici del tutto subordinati e abbastanza dominabili. Non individualmente, ovviamente, ma collettivamente, tramite lo stato. Ma, come per curare il corpo umano c'è bisogno di sapere come funziona, allo stesso modo c'è bisogno di sapere come funziona il "corpo economico" della società.

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    3. e naturalmente ci sarebbe bisogno pure dell'afflato etico di Marx. È un vero peccato che si sia lasciato avvolgere in questo modo tra le spire del positivismo da un lato e di Hegel dall'altro.

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    4. Non mi pare un fraintendimento. Mi confermi anzi che divergiamo proprio su quel punto che dicevo. E infatti distingui storia e natura, scambi il Capitale per un manuale di economia, quando invece è una teoria della società borghese, credi che lo stato possa subordinare l'economia (sarebbe interessante sapere quale stato, dai fascisti ai socialdemocratici, ne sarebbe mai stato capace secondo te), e confondi infine l'anormatività della scienza sociale marxiana (e non solo) con l'assenza di afflato etico - come se un fisico o un medico non abbiano convinzioni morali perché ne prescindono nella ricerca e nella terapia - chiamando questo inoltre positivismo. È ovvio che non abbia inteso molto dell'economia politica marxiana sulla base di quanto elencato, tanto più se, come dici, "rifiuti" il concetto di classe sociale. Certo, pure io rifiuto il prog-rock britannico ma non almeno non dico che bisognerebbe ascoltare gli Yes perché sembrerei scemo. Siccome non ho tempo né mi pagano per spiegare Marx a uno che parla di metafisica e idealismo, mi limito a suggerirti sul punto dell'afflato etico, che è l'unico su cui puoi istruirti senza dover mettere in dubbio le tue corbellerie, il volume Michael J. Thompson (ed) Constructing Marxist Ethics. Critique, Normativity, Praxis, Leiden 2015, in particolare il saggio di Christoph Henning, Political Economy with Perfectionist Premises. Three Types of Criticism in Marx. Sempre di quest'ultimo autore, se sai il tedesco, Werte: Ein perfektionistischer Aufriss‘ in Ingo Elber and Sven Ellmers (eds) Die Moral in der Kritik: Ethik als Grundlage und Gegenstand kritischer Gesellschaftstheorie. Würzburg 2011: 65-85. Più vastamente il suo Freiheit, Gleichheit, Entfaltung: Die politische Philosophie des Perfektionismus, Frankfurt am Main, 2015.

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    5. veramente io ho detto che ci sarebbe bisogno dell'afflato etico di Marx quale soprattutto (a mio parere) traspare da certe pagine del Capitale. Forse hai inteso che il mio fosse sarcasmo, no, dicevo sul serio, dal mio punto di vista Marx è un grande spirito religioso.
      Per il resto, sì, penso che il Capitale vada letto come un manuale di economia politica. Se ci mettiamo sul terreno della "teoria della società" e se non distinguiamo tra storia e natura, allora ha in tutto e per tutto ragione Malvino. Però mi dispiace vedere il povero Marx ridotto a questo dai suoi discepoli, soprattutto perchè poi finisce per pagare colpe non sue ma di Engels. Dai, Engels è proprio terribile, non era quello che nell' Antiduring diceva che l'unica cosa reale è "il movimento" e che pretendeva di essere riuscito a dimostrare la continuita', sulla base di questo filosofema renziano, tra le leggi naturali e quelli sociali ? Vabbè ma se volete continuare a prendere sul serio un "filosofo" così (degnissima persona del resto, senza sarcasmo) fate pure. Io me ne tiro fuori. Ciao.

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    6. mi sembra importante chiarire la questione della subordinazione dei fatti economici. Capisco che questa frase ti fa trasalire, ma questo è colpa di Hegel che ha sputtanato per sempre la metafisica e l'idealismo. Tu leggi quella frase, ti viene in mente l'Assoluto di Hegel o magari l'Io di Fichte, e pensi: oddio ma questo cosa crede ? Di far crescere le patate con la forza del pensiero ? No, niente di tutto questo, che i fatti economici sono subordinati significa che essi si impongono a noi con la stessa forza con cui si impongono i fatti naturali, non di più. Ma noi dominiamoo le forze della natura quindi, se vogliamo, non si capisce perché non dovremmo dominare i fatti economici. La coñdizione è appunto quella però di distinguere natura e storia, economia e società , riconoscere la funzione insostituibile dello stato come produttore e come ispiratire della produzione nazionale, oltre che come regolatore. Non si può fare ? E perchè ? Solo perché Marx ha dedicato qualche pagina alla previsione dell' "inevitabile " estinzione dello stato ?

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    7. Non pensavo intendessi per idealismo il fatto che le patate crescano con la forza del pensiero. Non sembri pedanteria, ma non si tratta di fatti - lo dico a uno che si fa forte della retorica antipositivistica d'inizio secolo, quindi è forse indebita come precisazione. Si tratta di leggi. Noi non dominiamo le leggi della natura, possiamo arginare i fatti. Per esempio possiamo costruire edifici antisismici. Non è che dunque la natura funzioni secondo leggi alternative, significa che il funzionamento di quelle leggi non costa la vita a tanti giapponesi. Il punto di Marx sulle leggi dell'economia capitalistica è proprio quello. Individuare TEORICAMENTE (per tranquillizzare il Castaldi, lettore di Colletti) le leggi della valorizzazione serve proprio a non prendersela coi fatti. Perché se uno se la prende coi fatti, c'è il concreto rischio che le leggi (che permangono) fanno sì che le conseguenze siano catastrofiche. Mi pare di intuire, anzi sono certo che dovrei occuparmi più dei fascisti visto il sapore gentiliano dell'interlocutore, ma siccome questi non hanno dottrine economiche (essendo dei pagliacci), farò un esempio keynesiano. Per esempio, iniezioni monetarie volte a rafforzare la domanda, a differenza che nella mente di Keynes, tendono in realtà a provocare l'innalzamento dei tassi di interesse, cosa che impatta sul comportamento microeconomico nella misura in cui scoraggia gli investimenti a livello micro e aumenta l'indebitamento sul piano macroeconomico. Può dunque andar bene per un pochino, ma poi la crescita tracolla. E siamo fottuti. Questo perché il tentativo era di arginare i fatti, non le leggi. Non è l'unico problema che deriva dal sopravvalutare il ruolo dello stato (come della morale, dell'arte, o di quello che vi pare). Ad esempio, come Marx spiega sin dal suo primissimo scritto sulla censura prussiana, nel capitalismo la politica è una sfera separata dall'economia. Il politico affronta perciò la "questione sociale" POLITICAMENTE. Deriva da ciò ad esempio la ben nota idiozia che tende a spiegare i cataclismi economici come esiti di precedenti politiche d'intervento piuttosto invece che in termini economici. Marx scrive quella cosa mi pare nel 1841 addirittura. E questa cosa continua a succedere in ogni crisi economica, non ultima l'attuale. Il tema della logica interna alle diverse sfere sociali è stato poi approfondito da Weber, Luhmann e la sociologia americana funzionalista degli anni '50. Le pagine di Marx sulla necessaria estinzione dello stato, infine, le conosci solo tu, quindi non ne parlo nemmeno.

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    8. naturalmente hai ragione a correggermi sul fatto che noi non dominiamo le leggi ma i fatti economici. Nella fretta dello scrivere mi era sfuggita.
      Però il succo del discorso rimane e te lo ripropongo: se noi dominiamo i fatti naturali in virtù della conoscenza delle leggi naturali, non si
      vede perché non dovremmo poter dominare i fatti economici in virtù della conoscenza delle leggi economiche. Quanto al discorso sulla stato io non ho parlato di uno stato keynesiano ma di uno stato produttore e ispiratore della produzione nazionale. Quanto al discorso sull'estinzione dello stato, davvero non c'è traccia in Marx ? Chiedo con genuina curiosità.

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    9. Partiamo dalla seconda quistione, direbbe il Castaldi col suo vezzo demodé. Passami l'email che ti mando un saggio che è una buon punto di partenza per avvicinarsi alla teoria marxista dello Stato con accenni anche ai pochissimi riferimenti di Marx stesso al ruolo dello Stato. Negli schizzi di Marx sul piano definitivo dell'opera matura, un libro sarebbe dovuto essere dedicato a questo, ma Marx non ci arrivò mai. Senz'altro non aveva intenzione di preconizzare futuri con o senza Stato. Un'altra cosa sono le riflessioni sulla comune parigina.

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    10. Circa le leggi della valorizzazione. Le leggi del valore caratterizzano un modo di creazione, appropriazione e distribuzione del surplus, ossia un modo di produzione, quello capitalistico. Ora, tu proponi questo: teniamo le leggi e impediamogli di agire. Lasciamo da parte un lungo excursus epistemologico su cosa intendiamo per leggi e risolviamola, come avrebbe detto Marx, alla plebea. Perché? Le leggi capitalistiche del valore non sono eterne. Prima cosa, studiamoci ste leggi come ben dici tu. Ora ste leggi rimandano però al "concetto di classe sociale" in cui tu però non credi, anzi rifiuti (Dio sa perché e per carità non entriamoci). Ste leggi rimandano cioè al fatto che il profitto è parte del plusvalore, che viene dal pluslavoro, che viene dal lavoro salariato. Ora, come fai ad arginare i fatti che derivano da quelle leggi? Cosa può fare lo Stato, che opera nel pubblico, in un sistema, quello capitalistico, che è fondato sulla produzione privata? È essenziale alla legittimità dello Stato moderno (ossia borghese) quello di muovare da quella distinzione tra pubblico e privato (cioè politica ed economia). Quella distinzione è anzi la sua premessa. E, come dicono gli inglesi, un cane non morde la mano che lo nutre. O, come dicono i tedeschi, non seghi la gamba della sedia su cui sei seduto. Da cui l'idea che sì, lo Stato potrebbe effettivamente svanire con la fine del capitalismo. Cosa vuol dire uno stato ispiratore? Che decide lui cosa produrre? Come fa a decidere lo stato se i capitali sono in mano privata? O vuoi statalizzare INTERAMENTE la proprietà dei mezzi di produzione? E qui veniamo al problema del mercato globale. Come ti metti coi tuoi partner commerciali, laddove questi siano ancora capitalisti? In ogni caso, anche senza voler mettere di mezzo lo stato. Se tu argini i fatti economici ma le leggi permangono, le cose vanno male. Arginare i fatti economici significa se ti capisco bene "mettere i bastoni tra le ruote" alle leggi capitalistiche del valore. C'è il rischio di morire di fame. Un esempio davvero triviale anche qui. Fai conto che siccome si sente buono, un imprenditore decide di pagare i lavoratori il doppio di quello che vengono pagati dal concorrente (per estensione questo discorso può farsi per gli Stati). Vai in bancarotta nel giro di quindici giorni. C'erano idee affini a questa nel sindacato tedesco dei primi anni Cinquanta. Si chiamava "politica dei salari espansivi". La propose Viktor Agartz, uno importante. Scese in campo l'intelligentsia cattolica al completo, Agartz (che era stato il teorico di punta del movimento) fu estromesso. Il punto era appunto spingere sempre di più la lotta salariale di modo che la crescita dei salari ostacolasse l'accumulazione di capitale (interessante è qui per esempio che il marxismo orientale giudicava assolutamente sbagliata l'idea sulla base del fatto che salari e profitti appunto non stanno in relazione di proporzionalità inversa). Ma il punto è che se gli metti i bastoni tra le ruote è perché vuoi abrogarle quelle leggi, no? Dacché la differenza tra leggi e fatti non tiene più. Stai combattendo le leggi, non arginandole. Se conveniamo che il punto è interrompere il funzionamento di quelle leggi, il punto è capire come fare. E ti dò ragione. Studiare le leggi è il primo passo. Non a caso è il tema di Marx nel Capitale. Su come fare, boh. Che uno stato borghese, tanto più il cui personale è nominato per via elettorale, si metta a combattere il capitale, mah...non credo sia il modo. Lo so, è un delirio come scrivo. Ma è che di ste cose non è facile parlare così. Almeno non per me. In ogni caso, una cosa figa che ho letto ultimamente, scritta da giovanissimi studenti e dottorandi coi coglioni: https://gegen-kapital-und-nation.org/en/capital-money-2/ Hanno il merito di dirle davvero chiaramente certe cose. Dimmi che ne pensi. è forte davvero.

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    11. premessa: quando noi "dominiamo" i fatti naturali non lo facciamo per fare un dispetto alla natura o per dimostrare che siamo più più furbi di lei. Se vogliamo definire le cose in modo rigoroso diciamo che dominare i fatti naturali significa che esistono dei fenomeni fisici (come la costruzione del ponte antisismico di cui parlavi) la cui evenienza è riconducibile esclusivamente ad una intenzionalità umana sorretta dalla conoscenza scientifica. Ovviamente la classe dei fenomeni fisici che l'intenzionalità umana concretamente produce in un determinato frangente storico dipende dal grado di conoscenza tecno-scientifica raggiunta e dai fini che la società in quel frangente si pone. Su questo credo siamo d'accordo. Quello su cui che non siamo d'accordo è che io penso che l'intenzionalità umana può produrre dei fenomeni fisici per motivi "altri" cioè per motivi non deducibili in alcun modo dall'insieme dei fatti materiali di cui è fatto il mondo in un determinato momento. La stessa cosa sia per i fatti economici. Bene.
      Ora arginare i fatti economici non significa affatto "mettere i bastoni tra le ruote" alle leggi capitalistiche del valore o di altre leggi. Chi se ne frega! Significa produrre dei fatti economici per dei motivi non riconducibili all'insieme dei fatti economici che formano la realtà economica in un determinato momento. Il soggetto che produce questi fatti è lo stato e i fini sono quelli stabiliti dalla politica attraverso il dibattito democratico. Resta da vedere se lo stato sia concretamente in grado di produrre fatti economici "abbastanza rilevanti" senza ricorrere alla nazionalizzazione totale o cose del genere. Ma questo è ovvio! Come ? Stampando moneta! (vabbè potrei essere più rigoroso e parlare di socializzazione degli investimenti etc ma mi secca, non è che qui dobbiamo fare dei piani quinquennali, si parla in linea di principio ). Come si è sempre fatto, d'altronde, anche se nascostamente e per fini non stabiliti democraticamente. (vedi divorzio Tesoro-Banca d'Italia, quantitative easing, teoria endogena della moneta e roba del genere capire a cosa mi riferisco). Nel frattempo ovviamente le leggi del valore avrebbero piena vigenza ma il punto non è fare un dispetto alle leggi del valore, il punto è riuscire ad assicurare un'esistenza materiale "accettabile" a tutti i cittadini, dove per accettabile s'intende un livello compatibile con la capacità produttiva nazionale e stabilito autonomamente dalla politica (secondo il metodo democratico).
      In altre parole (e questo è un punto fondamentale) io penso che la scienza contenuta nel Capitale sia essenzialmente newtoniana. Non nel senso che sia predittiva, ma nel senso che il Capitale fornisce un preciso modello economico utilizzabile come qualsiasi altro modello economico classico. Forse Marx voleva fare altro ma nei fatti ha costruito un preciso modello economico "newtoniano" con degli agenti perfettamente identificati e con delle forze perfettamente definite dal punto di vista qualitativo. Avvertenza: la legge della caduta tendenziale della caduta del saggio del profitto è appunto tendenziale, non si può in nessun modo dedurre logicamente che essa non venga sempre bilanciata dalle "controtendenze". Nel passo, invero un po' ambiguo, in cui se ne parla si potrebbe pure sospettare la mano di Engels. Vedi Riccardo Bellofiore per i particolari tecnici.

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    12. Sono tutte cose ottime, secondo me, quelle che dici. Sono favorevole ad un'esistenza materiale accettabile per tutti. Suggerisco di includere livelli accettabili di pace, bellezza, felicità, eterna foltezza di capelli (c'è del biografico in questo elemento forse), salute, tolleranza e amore. È solo il fatto che sussistono guerra, bruttezza, tristezza, l'incombere dell'alopecia androgenetica dopo i 30 anni, malattia, intolleranza e odio che mi fanno pensare che 2500 anni di filosofia morale occidentale non centrano il punto di certe questioni. Appena uno va a cercare di capirle, queste questioni, si aprono due scenari: o i buoni contro i cattivi. O che questi fenomeni sono emergenze riconducibili a cause strutturali. Io sono felice innanzitutto che ci siano compagni di viaggio come te, attenti, curiosi, nobili d'animo e mossi da un sincero sentimento d'indivisa umanità. E naturalmente, se ci fosse da votare per condizioni di vita accettabili per tutti, la causa ci vedrebbe dalla stessa parte. E anzi ci vede già dalla stessa parte. Tra uno stato che fa politiche buone e uno che le fa cattive, sono per il primo anche io - fatta eccezione per un punto su cui concluderò. Sarei curiosissimo di saperne di più della tua interpretazione di Marx (sii in ogni caso meno duro con Engels, detto tra noi). Mi incuriosisce la capacità che hai di leggerlo in termini così poco strutturali. Se dovessi spiegare a mia figlia (e spero di non averne mai una) cosa dice Marx in una frase, gli direi che il punto è che crisi e sfruttamento sono fenomeni strutturali del capitalismo, non dunque incidenti, ma i fondamenti del funzionamento di questo modo di produzione. Ammiro in te la tenacia nel leggerlo altrimenti. Per analogia, io il tuo punto lo tradurrei così. Voglio poter uscire dalla finestra del terzo piano senza precipitare. Vediamo cosa si può fare mantenendo però l'interazione gravitazionale. Il punto di cui dicevo sopra: la tua antipatia per i piani quinquennali. Capisco l'esposizione alla propaganda antisovietica. I consigli d'amministrazione, però, non fanno altro che pianificare. E perché il tuo stato dei sogni non dovrebbe poterlo fare? Perché lasciare al privato il monopolio della pianificazione? E bada che è proprio qui che si riverberano echi lontani della tua comprensione intuitiva e esatta della società reale in cui viviamo. In fondo lo sai che la libertà (ossia il potere) vera stanno proprio in quella facoltà di pianificare. E ti stai confermando da solo che il capitale quella libertà/potere ce l'ha, lo stato no. E non solo non ce l'ha effettivamente. A conferma che la realtà è più forte di ogni fregnaccia, non ce l'ha nemmeno nei tuoi sogni di un mondo ideale.

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    13. Saremo inoltre d'accordo poi che 'lo Stato contro il capitale' è l'ortodossia dei partiti socialdemocratici da un secolo e oltre, sì? Ha funzionato talmente bene che l'idea quei partiti li ha portati con sé nella tomba.

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    14. grazie delle belle parole. Anche a me piacerebbe che fossimo dalla stessa parte, non solo idealmente, ma anche riguardo a certe questioni d'attualità come per esempio l'Euro. Provo a rispondere analiticamente:

      "Sarei curiosissimo di saperne di più della tua interpretazione di Marx"

      sono molto lontano dall'avanzare una mia interpretazione di Marx. Il fatto che io senta meno di te il senso del ridicolo non significa che ne sia del tutto immune. Nondimeno cito volentieri i riferimenti che fino ad ora mi hanno permesso di leggere Marx. Essi sono: Costanzo Preve, per le questioni storico-filosofiche generali, Riccardo Bellofiore per le questioni tecnico-economiche, Simone Weil per quanto riguarda l"atteggiamento" da tenere verso Marx. Inoltre sono stato molto suggestionato dai presupposti teorici del paradigma della decrescita, pur sostanzialmente non accettando nessuna delle conclusione concrete che questo paradigma ha finora partorito.

      "gli direi che il punto è che crisi e sfruttamento sono fenomeni strutturali del capitalismo, non dunque incidenti, ma i fondamenti del funzionamento di questo modo di produzione. "

      assolutamente sì. Io (fatto salvo sempre il senso del ridicolo) sottoscriverei ogni parola del Capitale (tranne un passo di cui poi dirò). Penso che il mondo economico vada e sia andato esattamente come lì è descritto e soprattutto che per descriverlo occorre fare proprio lo sforzo di Marx di afferrarne la totalità. Totalità però che non è sociale ma è totalità sempre e solo economica. Il passo che non sottoscriverei ( però non ricordo dove si trovi) è quello in cui sembra
      che Marx asserisca la necessità logica del passaggio al comunismo. Cioè
      sembra (la formulazione è ambigua) che Marx ponga il passaggio al comunismo come conseguenza necessaria (deducibile solo logicamente) delle leggi di funzionamento del capitalismo. Ma è una questione cruciale perché il modo in cui la si affronta può cambiare radicalmente l'atteggiamento che si tiene di fronte all'intero sistema.

      "Il punto di cui dicevo sopra: la tua antipatia per i piani quinquennali."

      più che altro è avversione verso l'idea che lo stato debba preoccuparsi della questione dello sviluppo delle forze produttive. Lo stato può ( in alcuni casi deve ) programmare ma non per determinare la totalità della realtà economica ma per assicurare a tutti i cittadini un insieme minimo (da determinarsi storicamente) di beni e servizi. Per il resto, che il mercato faccia cosa vuole e subisca tutte le inevitabili e strutturali crisi del caso.

      "Saremo inoltre d'accordo poi che 'lo Stato contro il capitale' è l'ortodossia dei partiti socialdemocratici da un secolo e oltre, sì? Ha funzionato talmente bene che l'idea quei partiti li ha portati con sé nella tomba."

      meritatamente e troppo tardi rispetto a quanto fosse desiderabile. Però non penso che il problema fondamentale fosse quello, penso che i problemi fossero altri due: riprodurre all'infinito una struttura almeno idealmente classista e preoccuparsi ad un tempo di due cose tendenzialmente inconciliabili: la giustizia sociale e la massima crescita economica.
      Grazie, ciao.

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  4. Non capisce perche Marx offrirebbe nel capitale solo una pars destruens. Non c'è in quel Lavoro solo una critica dell'ideologia (dell'economia politica classica). C'è anche Una teoria Della società borghese. È scienza in senso weberiano, come Ben scrivi. Oggettiva, non normativa. Teoria e pratica vanno distinte. Il fervore socialista non passa Nella teoria. Si puó trovare corretta la teoria Di Marx e essere tranquillamente liberali. È il vecchio problema Della self-application. Cioè a dire: ok, la società borghese funziona cosí. Che farne? Da qui derivano le innumerevoli reprimende del Marxismo occidentale a Marx, dichiarato troppo "oggettivistico". Croce racconta un aneddoto divertente al proposito, e proprio in relazione ai tuoi temi: "Quando cominciò
    a introdursi colà (in Russia sotto Nicola I), in quei poco preparati e poco critici intelletti, la filosofia hegeliana, allora parecchi degli
    intellettuali, che pure avevano nutrito spiriti rivoluzionari e cospirato coi decabristi, si dettero a ragionare
    così: « Tutto ciò che esiste è razionale. Ma il dispotismo di Nicola I esiste. Dunque, dobbiamo conciliarci con esso ». Detto fatto, o
    detto e tentato. La nullità di questo stravagante sillogismo è prestamente dimostrata dal potersi dire del pari: « Tutto ciò
    che esiste è razionale. Ma l'odio e lo spirito di ribellione contro il dispotismo di Nicola I esistono. Dunque, non bisogna conciliarsi
    con Nicola I ». Con che, praticamente, si resta al punto di prima. Il sofisma sta nel prendere la parola « razionale » in due sensi: di «
    ciò che ha la sua ragion d'essere », e di « ciò che a ciascuno di noi, nelle condizioni determinate in cui è posto, la coscienza morale
    comanda di fare ». Nel primo senso, razionale è tanto il dispotismo di Nicola I quanto l'azione del rivoluzionario; e se, così
    indagando e pensando, si è venuto a intendere nelle sue ragioni l'esistente, cioè la storia, non si è mosso alcun passo verso l'azione e
    non si è entrati nella sfera in cui regina è la coscienza morale. Nel secondo senso, equivocando cioè col primo e ragionando con una «
    quaternio terminorum », si è assunto un atteggiamento pratico non fondato sull'unica voce della coscienza morale; o, se mai questa
    voce ha avuto forza in colui che così parla, viene da lui falsamente presentata come una semplice adesione teorica: confusione e
    storditezza questa, sofisma in frode della moralità l'altro. Bisogna generalmente diffidare di coloro che, invece di addurre delle loro
    azioni e del loro comportamento una ragione intrinseca e morale, si appellano alla così detta « necessità storica », che troppo spesso,
    come sappiamo, è la necessità del comodo proprio". Il Punto è Che non puó dirtelo un trattato di teoria sociale perchè impegnarti per il socialismo. È l'aspettativa che è fallace. Il Che da Una parte chiarisce la critica Marxista occidentale Di cui sopra, specie mossa da gente Che si vanta continuamente Della propria 'eterodossia' e bullizza IL marxismo esteuropeo come 'dogmatico'. E dall'altra mi fa un po' dar ragione a Una Delle obiezioni Che Ti Hanno Mosso sopra, circa IL fatto Che sembri alla ricerca di una fede.

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  5. (Scusa il doppio post, il telefono fa le calze, cancella pure il precedente). Non vedo perché il Capitale offrirebbe solo una pars destruens. Non c’è solo critica dell’ideologia (economia politica precedente). C’è anche una teoria della società borghese. E hai ragione tu al proposito. Non vedo perché il Capitale offrirebbe solo una pars destruens. Non c’è solo critica dell’ideologia (economia politica precedente). C’è anche una teoria della società borghese. E hai ragione tu, è scienza in senso weberiano, oggettiva, non normativa (a differenza, ad esempio, dalla filosofia politica contemporanea, da Rawls a Habermas). Ebbene, pratica e teoria sono campi distinti. Come il fervore socialista di Marx non contamina lo sforzo teorico, uno può leggere il Capitale (o anche Madame Bovary) e derivarne una qualunque posizione politica. Da cui le obiezioni di tanto marxismo occidentale sul presunto “oggettivismo” tardo-marxiano. È il vecchio problema della self-application. Cioè a dire: va bene, la società borghese funziona come dice Marx. E ora? Che ne facciamo? È come se al Capitale mancasse il finale hollywoodiano, la morale insomma. C’è un aneddoto di Croce che mi pare pertinente, anche perché riguarda uno dei temi che tratti. L’aneddoto è “preso da quel che accadde in Russia, imperante Nicola I, quando cominciò
    a introdursi colà, in quei poco preparati e poco critici intelletti, la filosofia hegeliana. Allora parecchi degli
    intellettuali, che pure avevano nutrito spiriti rivoluzionari e cospirato coi decabristi, si dettero a ragionare
    così: ‘Tutto ciò che esiste è razionale. Ma il dispotismo di Nicola I esiste. Dunque, dobbiamo conciliarci con esso’. Detto fatto, o detto e tentato. La nullità di questo stravagante sillogismo è prestamente dimostrata dal potersi dire del pari: ‘Tutto ciò
    che esiste è razionale. Ma l'odio e lo spirito di ribellione contro il dispotismo di Nicola I esistono. Dunque, non bisogna conciliarsi con Nicola I’. Con che, praticamente, si resta al punto di prima. Il sofisma sta nel prendere la parola ‘razionale’ in due sensi: di ‘ciò che ha la sua ragion d'essere’, e di ‘ciò che a ciascuno di noi, nelle condizioni determinate in cui è posto, la coscienza morale comanda di fare’. Nel primo senso, razionale è tanto il dispotismo di Nicola I quanto l'azione del rivoluzionario; e se, così indagando e pensando, si è venuto a intendere nelle sue ragioni l'esistente, cioè la storia, non si è mosso alcun passo verso l'azione e non si è entrati nella sfera in cui regina è la coscienza morale. Nel secondo senso, equivocando cioè col primo e ragionando con una ‘quaternio terminorum’, si è assunto un atteggiamento pratico non fondato sull'unica voce della coscienza morale; o, se mai questa voce ha avuto forza in colui che così parla, viene da lui falsamente presentata come una semplice adesione teorica: confusione e storditezza questa, sofisma in frode della moralità l'altro. Bisogna generalmente diffidare di coloro che, invece di addurre delle loro azioni e del loro comportamento una ragione intrinseca e morale, si appellano alla così detta ‘necessità storica’, che troppo spesso, come sappiamo, è la necessità del comodo proprio”. Il che da una parte solleva la questione del feroce afflato ‘eterodosso’ rivendicato con orgoglio dal marxismo occidentale per bullizzare quello est-europeo, bollato invariabilmente come ‘dogmatico’. E dall’altra mi fa trovare una qualche ragionevolezza alla critica che ti è stata mossa sopra secondo cui la tua ricerca sembra un po’ quella di una fede. Sul perché Marx non butti giù dei canovacci di come sarà il socialismo, se ne può naturalmente discutere (e qui il pedigree hegeliano conta quanto la forte convinzione democratica di Marx), ma forse il tema non è poi così importante.

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