martedì 19 febbraio 2019

Persuadere e convincere


Anche se sono considerati sinonimi, c’è un’enorme differenza tra persuadere e convincere, come d’altronde è evidente fin dall’etimo: per-, infatti, esprime l’attuazione di un fine, che qui è il -suadere, cioè l’indurre a fare, con quanto di suavis sta nell’induzione di chi induce, ma anche nel fare cui si è indotti (in altri termini, la soavità del persuasore riesce a rendere soave il da fare che spetta al persuaso); con-, invece, esprime la comune vittoria che premia chi ha cercato di convincere e chi infine si è convinto (nel convincimento, anche se solo a posteriori, si scopre che il fine – riconoscere la validità di quanto si intendeva dimostrare valido – era comune a entrambi). Diremmo che, nel primo caso, dopo che si è ottenuta la persuasione, persistono un persuasore e un persuaso, mentre nel secondo, dopo che si è ottenuto il convincimento, viene meno ogni distinzione tra vincitore e vinto.
Se tuttavia persuadere e convincere sono sinonimi, una ragione c’è, anzi, ce ne sono tre: chi cerca di persuadere e chi cerca di convincere hanno medesimo fine nell’ottenere il consenso dell’uditorio; le rappresentazioni del persuadere e del convincere si tengono sulla stessa scena e le parti interpretate sono sovrapponibili; chi è persuaso e chi è convinto fanno quanto consegue dalla persuasione e dal convincimento senza che da quanto fanno, né da come lo fanno, si possa desumere con certezza alcunché di specifico del persuadere o del convincere che lo ha determinato. Se non dal movente, se non dall’azione, se non dagli effetti, da cosa possiamo desumere, allora, quanto fa la differenza che sta nell’etimo?
La tentazione sarebbe quella di appuntare l’attenzione sugli strumenti utilizzati, dando in premessa che la persuasione abbia miglior presa su individui più sensibili alla suavitas di pseudo-argomenti che fanno leva su istinti e fantasie, mentre il convincimento possa ottenere successo solo su individui inclini a far vincere, sempre e comunque, la ragione, contro ogni cedimento a passioni e a pregiudizi. Così facendo, tuttavia, c’è il rischio di incorrere nell’errore di credere che persuasione e convincimento abbiano cogente specificità di strumento, il che non è, come dimostra il fatto che non di rado la persuasione fa appello alla ragione, mentre il convincimento non esclude affatto il richiamo alle emozioni.
Si potrà obiettare che la ragione cui fa appello chi persuade finisce sempre per rivelare la sua aleatorietà in un processo logico che in ultima analisi è dimostrabilmente erroneo; parimenti, sarà sempre possibile dimostrare che le emozioni messe in gioco da chi cerca di convincere non muovono il processo logico, ma ne sono mosse. Obiezioni sostanzialmente valide, ma si concederà che dimostrare l’una e l’altra cosa non sarà sempre facile, e dunque non potrà avere saldo valore dirimente. Nulla, allora, ci consente di distinguere in modo agevole e immediato un tentativo di persuasione da un tentativo di convincimento?
Per Perelman si deve fare attenzione a chi è indirizzato il tentativo: «Il discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere, mentre quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere», perché «un discorso convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da tutti i membri dell’uditorio universale», dacché conseguirebbe – questo non lo dice, ma penso sia lecito inferirlo – che quello persuasivo abbia efficacia solo laddove la particolarità dell’uditorio sia data da una specifica tendenza ad assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di pregiudizi. Diremmo, dunque, che quanto più il discorso sembra rivolgersi a chiunque tanto più alta è la probabilità che siamo dinanzi a un tentativo di convincimento, mentre quanto più sembra rivolgersi a qualcuno tanto più è probabile che siamo dinanzi a un tentativo di persuasione.
Ma questo regge come regola generale? Potrebbe anche reggere, se non fosse che «uditorio da convincere» è concetto assai più astratto di «uditorio da persuadere», perché identificare qualcuno è assai più facile che identificare chiunque, e qui identificare è da intendere in senso letterale: riconoscere un’identità, cioè l’unicamente idem a se stesso, che nell’«uditorio particolare» ha tratti concreti, agevolmente riconoscibili, ma che nell’«uditorio universale» assume forma di idealtipo. Poi c’è che, se il convincimento tende ad annullare le differenze tra individuo e individuo (universalizzandoli) mentre la persuasione tende a rimarcarle (ripartendoli), dopo aver convinto una parte dell’uditorio, una differenza si sarà comunque realizzata rispetto a quella che non si è riusciti a convincere, dando comunque all’«universale» qualcosa di «particolare»: i convinti faranno «partito» non meno dei persuasi.
Sul punto, dunque, neanche Perelman sa darci una regola generale che possa dirsi affidabile, il che, per il rispetto che gli si deve, ci fa disperare possa essercene una: non resta che giudicare caso per caso, senza peraltro poter escludere la possibilità che persuasione e convincimento siano compresenti. Riprendendo, infatti, il noto adagio di Chaignet, secondo cui «a persuadermi è sempre un altro, a convincermi solo me stesso», cè il caso in cui «altro» e «me stesso» coincidono: è quello in cui lindividuo si fa massa.

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