giovedì 7 marzo 2019

«... se solo si racconta…»


[Oggi questo blog compie 15 anni. Avrei voluto festeggiare ripubblicando qualcuna delle prime pagine di quel marzo del 2004, ma nessuna mi è parsa degna di essere riproposta al lettore. Così mi son deciso per un ritratto, quello di Enrico Pea. Doveva inaugurare un blog che, nelle intenzioni, voleva avere il composto sussiego dellelzeviro. Intenzioni subito tradite, per la polemica. Tanto stia a rimpianto e a rimorso.]



«Ha dei momenti che ti sorprendono per densità, proprietà, violenza, vastità di azzurro, per un’umanità intagliata in una parola tutt’ancora umida di terra, e brillante di rugiada, come un’erba spuntata a ridere nel sole, una mattina bella», scriveva Giuseppe Ungaretti in una lettera a Giovanni Papini nel 1916, dalla sua trincea. Scriveva di Enrico Pea, nato a Serravezza, in quel di Lucca, nel 1881, e conosciuto poco più d’un lustro prima, ad Alessandria d’Egitto. Ma nella stessa lettera avvisava che, «se si mette in testa di essere prelibato, fa il mistico da strapazzo, ed è un affare brutto; ma quando è quello che è, senza pretese, senza intellettualismi, e se solo si racconta…».
Ne aveva da raccontare, Enrico Pea. Ancora analfabeta a quindici anni, in un’Italia dove tanti rimanevano tali a vita, Pea va via dal paesino a fare il guardiano di greggi, e poi il mozzo, per poi emigrare in Egitto, a fare il domestico, il meccanico, il ferroviere, l’importatore di vini, saponi, motori e marmi pregiati, fino alla malattia che lo costringe a lungo in un letto, con una Bibbia del Diodati in mano, ad imparare a leggere e a scrivere, infine, quasi folgorato. Come una specie di Ignazio a Pamplona, lo avvampa la passione, che però è letteraria, grossa d’un entusiasmo da scalpellino e disordinata come un’officina, non senza qualche rovinoso inciampo d’autodidatta.
Per interessamento di Ungaretti che n’è incantato come della riuscita d’un innesto, nel 1910 esce la sua prima stampa, Fole, racconti di vita marinara, come declama il sottotitolo. Ma la scrittura, al momento, pare soltanto accidente, pur negli incubati bagliori d’una lingua avvampante. La passion predominante è, al momento, politica, anzi, come si direbbe oggi, prepolitica, e perciò totalizzante. A quella scrittura, per il momento, crede solo Ungaretti, che continuerà a crederci, con le dette riserve, fino ad impegnarsi sulla parola con Gherardo Marone, direttore della Diana, per la causa del romanzo Moscardino che uscirà nel 1922: «Sarà l’opera più bella che pubblicherai». Sarà senza dubbio il capolavoro di Pea.
Il Pea che nel settembre del 1950 scriverà un terribile «sono al caffè solo solo solo» in una delle sue cartoline postali a Leone Piccioni, massimo studioso della sua penna, al momento è preso invece dal turbine mondano. Crea la Baracca rossa, che è un ritrovo e un caffè letterario e una comune e una sezione ereticissima e un bivacco d’esuli e un falansterio amoroso: insomma un covo di anarchici, ex galeotti e bizzarri promiscui. È lì che Pea affina le sue stregonesche virtù di empatia; penetra nelle altrui confessioni e vi rimesta; raccoglie sfoghi, rassetta umori; impara l’arte inutile ed eccellente dell’incantar l’eterno femminino. Questa magica aria di guru gli resterà appiccicata per tutta la vita e ad ogni tavolino di caffè, ad ogni panchina, la sua parola avrà credito inarrivabile. È di buona statura, con gradevoli tratti del volto, incorniciato da una importante barba nera, occhi da spiritato con dolcezze di furbizia afroditico-mediterranea; ha mobilità di faina, naso per gli affari, che conduce con a volte spregiudicata e sofistica astuzia, probabilmente con qualche facile rudezza.
Alla Baracca rossa fermentano idee, spesso innaffiate di ottimi vinelli della Versilia, in un crepitare confuso e vivissimo di lingue e umori. Né a questo si limita la cosa cui Enrico Pea dà i suoi anni africani: vi si discute di attentati dinamitardi, di azioni di sabotaggio, di solidarietà a lontani fratelli. Vi aleggiano tentazioni evocative, in primis i Demoni di Dostoevski, con esaltatissime blasfemie da poveri anticristi bakuniani e peggio.
Poi torna in Italia, Enrico Pea, e si fa conoscere. È «quello lì» che nel 1918 ha scritto una pièce teatrale dedicata a Giuda, un inno appassionato e allucinato al traditore di Cristo; la cosa ha sollevato scandalo, anche se non sommo, ma neppure senza qualche strascicuccio molesto. Eppure, in quelle battute di scena serpeggia un mezzo motivo borgesiano, per quanto rovinato da un becero anticlericalismo di appennino. È appena nel mezzo del cammin, come si dice, morirà nel 1958, a settantasette anni. Prima di finire i suoi giorni a Forte dei Marmi, avrà un’altra mezza vita da riempire di vagabondaggi, amicizie, rovesci finanziari, nipoti, bronchiti, conversione, decine di libri.
Tra questi, primo d’una trilogia (con Il Volto Santo del 1924 e Il servitore del diavolo del 1929), che alcuni dicono tetralogia (aggiungendo Macoometto del 1942), è il Moscardino che esce nel 1922, ma al quale Pea ha lavorato per almeno un lustro. Del breve romanzo autobiografico, che resta la sua opera maggiore e che Ezra Pound crederà utile tradurre in inglese, Italo Svevo scrive in una lettera a Benjamin Crémieux, nel marzo del 1927, che è «un libro veramente strano e mirabile, certe sue pagine sono di una forza e di unevidenza che fanno invidia».
Ma cos’ha la scrittura di Pea per emanare tanto fascino? È la scrittura del dilettante sublime, sarebbe la più tentatrice delle ipotesi. La parola, in effetti, vi si stende, al contempo, plebea e nobile, in una stravolta dissipazione che è l’ordine suo. Parrebbe asciutta, la parola di Pea, come un rizoma sradicato per essere piantato in aria, come l’epifania d’una edicola votiva in terra di lavoro, apparentemente sorretta dalle vanghe e dalle zappe lì poggiate. Ma è lo stesso Pea che tenta, riuscendovi, di darle il fascino della cosa appena dissotterrata da un amoroso ingenuo.
«Imparare a fare bene qualunque qualcosa è difficile noviziato», scrive in Rosalia; e parla dello scrivere come di uno «stendere le parole sulla carta». Già non è più il Pea africano, ora ha una scrittura linda e solida, ma stralunata e seduttoria; vi risuona l’eco della confidenza mercantile, dell’apostrofe domestica. Cecchi, Bo, Montale, Pratolini e cent’altri ne dicono un gran bene. La barba con gli anni gli si imbianca e arruffa. Sempre in giacca, anche d’estate, anche in groppa alla sua pesante bicicletta, la vecchiaia lo raggiunge a Forte dei Marmi, dove morirà.
Se una fotografia può dire tutto di un uomo, il creatore di Moscardino è dentro una che lo ritrae al Caffè Roma in ottima compagnia. È al centro della foto, seduto tra una ventina di persone, in maggioranza signore, coll’indice levato in aria, non si capisce bene se per un monito; poco oltre Giuseppe De Robertis, Carlo Carrà, Roberto Longhi ed Eugenio Montale. Sarà forse pura suggestione, ma per chi ha letto Moscardino quell’indice levato non è diverso da quello del San Tommaso di Caravaggio che ha finalmente capito Cristo. Il dito è ossuto e quella piaga è irreparabilmente vulva.

8 commenti:

  1. Per me quattordici anni di lettura di puro piacere. Grazie. E lunga vita a Malvino!

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  2. Congratulazioni e l'augurio di moltiplicare i tre lustri (almeno) per due.

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  3. buon compleanno e altri 10.000 di questi post

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  4. Congratulazioni. Buon Compleanno!! Saluti, Muzio

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  5. Oh, che bella notizia: qualcosa di buono che dura negli anni.
    Il suo blog, intendo.
    Stia bene e prosegua.
    Cari saluti.
    Ghino La Ganga

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  6. Malvino, la incateneremo a queste pagine.

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  7. Augurissimi - e se fai un volumone con tutto lo stampato dal 2004 a oggi - commenti compresi, beninteso - e lo metti in vendita a un prezzo non altissimo mi fiondo a comprarlo.

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