sabato 13 aprile 2019

Vi invitassero al Colosseo...


Ricordate la Giornata del Perdono? Fu celebrata nel corso del Grande Giubileo del 2000 e voleva dar da credere che Wojtyla intendesse ammettere le colpe che la Chiesa aveva cumulato fino ad allora lungo secoli e secoli di scempi ed efferatezze. In realtà, la Chiesa chiedeva perdono a Dio, non alle vittime dei suoi crimini, e di avere quel perdono era sicura, sicché chiederlo poteva ben ridursi a una formalità.
Si sarebbe pure chiuso un occhio – cosa pretendere da quel monumento allipocrisia che è la Chiesa? – se non fosse che Wojtyla esordì a questo modo: «Perdoniamo e chiediamo perdono!». Proprio così: prima «perdoniamo» e poi «chiediamo perdono». In quanto al pentimento, tutto si riduceva a questo insuperabile esercizio di eufemismo: «Chiediamo perdono per le divisioni che sono intervenute tra i cristiani, per luso della violenza che alcuni di essi hanno fatto nel servizio alla verità, e per gli atteggiamenti di diffidenza e di ostilità assunti talora nei confronti dei seguaci di altre religioni». I dieci volumi della Storia criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner sintetizzati in cinque righe.
Altre responsabilità? Non essere stati in grado di imporre il proprio credo a tutti in cambio di unostia ai sazi e di una ciotola di minestra ai morti di fame: «Dinanzi allateismo, allindifferenza religiosa, al secolarismo, al relativismo etico, alle violazioni del diritto alla vita, al disinteresse verso la povertà di molti Paesi, non possiamo non chiederci quali sono le nostre responsabilità».
Vi invitassero al Colosseo per guardare come i leoni sbranano un tal mascalzone, rifiutereste?

Troppo impegnato a scendere da un aereo per salire su un altro, Wojtyla non aveva tempo per scriversi i discorsi. Chi era il suo ghostwriter? Non si sapesse, basterebbe una scorsa al testo che Ratzinger ha di recente firmato per Klerusblatt per riconoscerlo come autore del discorso tenuto da Wojtyla diciannove anni fa: il modulo è lo stesso, la pedofilia di tanti preti pare più unoffesa a Dio che un crimine ai danni dei minori affidati loro; straziante sofferenza per ciò che il clero ha patito e patisce da imputato di abuso, favoreggiamento, connivenza, mentre alle vittime va a stento un pigro sospiro di rincrescimento, quasi fossero stati complici, in solido con chi ne ha devastato corpo e mente, nell’arrecare offesa al Sesto Comandamento.
Ripeto: vi invitassero al Colosseo per guardare come i leoni sbranano un tal mascalzone, rifiutereste?

[...]

[Non so se tornerò su questo testo: molto altro ancora andrebbe detto, ma in fondo Ratzinger è sempre uguale a se stesso, e su di lui ho detto tanto, per anni. Nel caso non ci tornassi più, vorrei segnalare un dettaglio che mi pare sia sfuggito a tutti: si firma «Benedetto XVI», come se ancora fosse assiso in trono. Dunque lasciate perdere quellipotesi di invito al Colosseo, le mancava una solida base: i leoni non mangiano merda.]

venerdì 12 aprile 2019

L’alito del coccodrillo


Se questa mia Le sembrerà fluviale, gentile Li Ruiyu, sappia che è solo perché in ossequio alla saggezza che trabocca da un proverbio delle Sue parti, quello che recita: «在告诉鳄鱼他的呼吸发臭之前你必须过河» («Devi attraversare il fiume prima di dire al coccodrillo che gli puzza l’alito»). In sostanza, vorrei intrattenerla su quel che accadde in Polonia tra il XVI e il XVII secolo, per mettere in guardia, tramite Lei, chi in Cina pensa di poter trarre qualche vantaggio da un accordo con la Santa Sede: se mi dà modo di illustrarLe quel che accadde, comprenderà quanto imprudenti siano stati i passi finora fatti dal Suo paese in tal senso. Tanto imprudenti da sollevare un dubbio: dov’è andata a finire la leggendaria lungimiranza del politico cinese che da come scoreggia il bruco – si dice – sa prevedere quali colori avrà la farfalla? E dunque.
Nei primi decenni del XVI secolo, la piccola e media nobiltà terriera polacca godeva di un’invidiabile condizione rispetto a quella del resto d’Europa, che invece già da qualche tempo pativa i primi effetti di quello che di lì a poco avrebbe preso piena forma di Stato assoluto. L’avanguardia di questo processo aveva testa d’ariete nella cattolicissima dinastia asburgica, che non aveva mai fatto mistero delle sue mire sulla Corona polacca. In difesa dei privilegi che fin lì erano riusciti a conquistare, i signorotti del latifondo polacco trovarono nella Riforma protestante il più naturale sbocco alla loro avversione agli Asburgo e al Papato che li spalleggiava, e così, intorno alla metà del XVI secolo, la Polonia divenne per tre quinti luterana.
Tutta sovrastruttura, Lei capirà, compagno Li Ruiyu, fatto sta che, nei venti, trent’anni successivi, col montare del sentimento di identità e di indipendenza nazionale, la cosa divenne sempre più marcata, convertendo al Protestantesimo anche la stragrande maggioranza dell’aristocrazia polacca, e appendicolare plebe tardo-feudale (o popolino pre-borghese che dir si voglia) a seguire.
Abituati, come oggi siamo, a considerare quello polacco un popolo che il cattolicesimo ce l’ha nel sangue, e da sempre, dà un poco di vertigine pensare a una Polonia che a quei tempi avrebbe di gusto impiccato il Papa con le budella dell’Asburgo, e tuttavia questa era la situazione: a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, i polacchi rimasti fedeli a Roma erano tre gatti, mentre nella vicina Ungheria, per ragioni in tutto simili a quelle fin qui descritte per la Polonia, per il cattolicesimo le cose andavano anche peggio, con qualche vescovo sgozzato e monaci a cagarsi addosso sotto il saio.
Robe brutte, gentile ambasciatore, ma proprio brutte brutte. Così brutte che, al confronto, le vostre robette ai tempi della Rivoluzione culturale possono essere tranquillamente rubricate come innocenti intemperanze.
Bene, Lei cosa si sarebbe aspettato da parte del Papato? Le do un aiutino? Il piano fu in tutto simile a quello che da qualche tempo è messo in atto con le autorità della Repubblica Popolare Cinese. Al momento Lei ne può vedere solo le premesse, per sapere come butterà in futuro ci tocca tornare alla Polonia di cinquecentoedispari anni fa.
Semplifico la cosa dando viva voce alla posizione della Santa Sede nei confronti della Corona polacca: «Vabbè, Maestà, è andata come è andata, la Polonia è protestante e rinunciamo alla pretesa del primato spirituale sul popolo polacco. Però, Maestà, noi siamo pure un’entità statuale: un minimo di relazioni diplomatiche dobbiamo averle, eccheccazzo! Faremo in questo modo, se Lei consente: daremo insegne di ambasciatore a quello che chiamavamo “nunzio apostolico” e che fino all’altrieri aveva la funzione di esattore per la riscossione delle decime dal gregge che ora ci è scappato per sei settimi dall’ovile; continueremo a chiamarlo “nunzio apostolico”, giusto per evitare le spese che ci comporterebbe cambiargli la carta intestata...».
No, vabbè, qui m’ingarbugliavo nel parallelismo, sarà il caso di continuare fuori dalle virgolette.
La richiesta fu accettata, d’altra parte che fastidio poteva dare un legato del Papa in un paese in cui il Trono era arrivato addirittura ad assumere il controllo sulla nomina dei vescovi? E qui viene il bello, perché da quel momento il Papa affida il da farsi in terra polacca alla Compagnia di Gesù. Tanto per intenderci, sono gli stessi anni in cui a Pechino cominciano a vedersi in giro «gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming». Quelli che sul finire del 1564 arrivano in Polonia sono vestiti da addetti di ambasciata, però, si sa, quando l’entità statuale sta in mano al capo di una confessione religiosa, va’ a capire dove finisce il temporale e dove inizia lo spirituale nel maneggio dei suoi funzionari. Puoi negare al signor ambasciatore di avere una biblioteca? Se glielo concedi, puoi negargli di averci dentro il personale che ordina, cataloga, copia, studia? E che differenza c’è tra un siffatto cenacolo culturale e una vera e propria scuola? Se c’è chi trova interessante le materie di studio, perché negare ai dotti chierici di strutturarsi in corpo docente e darsi assetto in collegio? E se non c’è nulla di male nell’avere un collegio di gesuiti tra un castello e l’altro, che male c’è nell’averne due? Ma poi che differenza c’è tra l’averne due e l’averne tre, o cinque, o sette, o undici?
Il bordo dell’unghia, l’unghia con tutta la falange, e il dito, e la mano, e il braccio – con la pazienza che il ragno mette nel tessere la sua tela, ecco che nel giro di dieci o quindici anni sulla Polonia si stende una rete di scuole che copre tutti i gradi d’istruzione presenti nella società del tempo. Scuole che ovviamente sono ad appannaggio dei rampolli della nobiltà, ma è quello il terreno più fertile in cui piantare idee che possono rivoltarti come un guanto il comune sentire di un popolo, almeno nel XVII secolo.
La faccio breve, gentile Li Ruiyu, ché ormai vedo il coccodrillo a una distanza di poche bracciate, e l’alito si sente: lo dico? Lo dico: in breve fu monopolio dell’istruzione e, nel giro di una generazione, la società polacca tornò più cattolica di quanto fosse stata un secolo prima, e sorvolo sulla fine che fecero i protestanti. Ha presente quella simpatica ambiguità della doppia fedeltà al Trono e all’Altare che dalla Lettera ai Romani, passando per la Lettera a Diogneto, ti trasforma un devotissimo a Maria, mosso da ardente amore per Gesù crocifisso, in un sindacalista di Solidarnosc, che con una mano sgrana il rosario e con l’altra piglia la mesata da monsignor Marcinkus? Ma sì che l’ha presente, via.
Chiudo con una domanda: ma voi cinesi siete sicuri-sicuri-sicuri di essere più previdenti dei polacchi? Non sia precipitoso nel darmi una risposta affermativa, ché nulla ci dà fretta.
Cordialmente, Suo


giovedì 11 aprile 2019

«Certi pregiudizi, diventati nazionali...»


«In Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», scrive Michele Serra (la Repubblica, 9.4.2019), sicché «eventuali eredi del vecchio Adolf avrebbero certamente provveduto a cambiare cognome», mentre «in Italia, si sa, le cose sono molto diverse», e il fatto che qualcuno, che di cognome fa Mussolini, non soltanto non abbia provveduto a cambiarlo, ma addirittura ne faccia motivo di vanto, al punto da servirsene per far politica senza altro merito da offrire (il riferimento, qui, è a un Caio Giulio Cesare Mussolini, che le cronache di questi giorni danno candidato alle prossime Europee nelle liste di Fratelli dItalia), è il più emblematico dei segni che qui da noi «i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de Lamica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dellorrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».

Due pregiudizi sono evidenti in questa analisi.
Il primo è relativo a quel carattere italiano che a ogni tentativo di definizione rivela essere mera invenzione letteraria, ma che secondo molti sarebbe il primum movens della nostra storia patria, le cui origini sarebbero di almeno sei secoli antecedenti all’Unità dItalia. Nel variegato spettro dei suoi tratti peculiari spiccherebbe un connaturato deficit di responsabilità individuale e collettiva, e allora ecco spiegata quellincapacità di fare i conti col passato che rimuove di ogni senso di colpa, rendendoci insensibili a tutto ciò che la evoca.
Tanto più deprecabile, questirresponsabilità, se si fa proprio anche il secondo pregiudizio, quello che nel fascismo vede «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» (Umberto Eco): tratti peculari anchessi del carattere italiano, se è in Italia che per la prima volta sono stati in grado di dar vita ad un regime politico.

[Nellepoca in cui la lotta ai pregiudizi metteva in discussione tutto, un illuminista ammoniva: «Certi pregiudizi, diventati nazionali, devono essere risparmiati da ogni uomo retto», e aggiungeva: «Chi si cura più del bene degli uomini che della propria gloria non farà trapelare la propria opinione su questi pregiudizi» (Moses Mendelssohn). Sulla pagina trovo un tratto di matita a sottolineare il «diventati nazionali» nella prima frase e, a fianco, un punto esclamativo: puoi anche staccar dal muro il crocifisso, ma non tazzardare a toccare lautopercezione di un popolo, soprattutto quando espressa da un moralista. Un punto interrogativo, invece, trovo a fianco alla seconda frase: che gloria ci si procura a mettere in discussione le convinzioni che non hanno saldo fondamento, ma che pure sono care a tanti? Lodio, piuttosto, o, peggio, il ludibrio. Proseguiamo, dunque, ma consci del rischio che si corre col mettere in discussione Michele Serra. I suoi sono pregiudizi «diventati nazionali», anzi, per meglio dire, sono pregiudizi già da tempo cari alla parte più qualificata della nazione, quella che al carattere italiano ha da tempo offerto occasione di riscatto con la sua «protezione paterna e padreternale» (Antonio Gramsci) alternando, alla bisogna, pietà e disprezzo, esortazione e biasimo. Proseguiamo con cautela, perché a voler proporre una tesi alternativa alla ragione per la quale in Italia i conti col passato non si sono fatti come in Germania, e a provarci suggerendo che nazismo e fascismo sono due cose assai differenti, il pericolo è grosso.]

Perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero»? La differenza sta tutta nella diversità caratteriale tra tedeschi e italiani? Non è possibile, invece, che la ragione stia in quella «profonda differenza» che Renzo De Felice segnala tra fascismo e nazismo, e che al netto di tutto ciò che li accomuna sul piano storico, destinando entrambi a una condanna senza possibilità di appello (sottolineo e risottolineo: condanna senza possibilità di appello), è innegabile sul piano culturale, su quello ideologico e soprattutto su quello psicologico? Non è possibile che proprio questa differenza possa spiegare quel che altrimenti si spiega solo facendo propri i pregiudizi paternamente e padreternalmente offertici da Michele Serra?
Rileggendo Intervista sul fascismo, più che possibile, pare necessario: fascismo e nazismo nascono da condizioni diverse, servono istanze diverse, e hanno diversa visione delluomo e del mondo, diversa rappresentazione della società e della storia, diversa dimensione psicologica in cui si muovono; diversa è la natura del rapporto che Duce e Führer mirano a stabilire con le masse, diverse le liturgie che allestiscono, diverso il disegno totalitario cui mirano; c’è più differenza tra nazismo e fascismo di quanto ce ne sia tra tedeschi e italiani, perché in ultima analisi il nazismo fu un tentativo di uscire dalla storia, in parte riuscito, mentre il fascismo fu un tentativo di progresso, platealmente fallito. Non è difficile capire cosa possa far più paura, dopo aver tentato, ed è questo che spiega perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «non sono stati mai fatti per davvero».


domenica 7 aprile 2019

Il lemma trendy





«I comunisti che stanno in carcere?
Sarebbero peggio dei fascisti. Perché almeno questi
sono dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa
le fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi
e le bestialità le fanno bene»

Vitaliano Brancati, Il bellAntonio



Anche se il nostro patrimonio lessicale comprende un numero di voci che il computo dei linguisti stima tra le 215.000 e le 270.000, raramente ci si imbatte in chi correntemente ne impiega più di 7.500, mentre in media se ne usano poco più di un migliaio, e il dato è in calo, perché negli ultimi decenni è considerevolmente aumentato il numero di quanti riescono a farsene bastare 300, a dispetto del tanto digitare sulle tastiere di pc, tablet e smartphone, da cui ci si poteva attendere che gli italiani traessero un arricchimento del lemmario personale, come solitamente accade quando la comunicazione si amplia e diventa più frequente. Attesa vana: si scrive assai più di un tempo, ma in una lingua sempre più povera, refrattaria alla scelta del più appropriato sinonimo di cosa, del verbo che dia precisione al vago fare, dell’aggettivo che chiarisca se con grande sia da intendere voluminoso o rilevante, abbondante o importante.
Ai lemmi d’uso più comune, ridotto a numero tanto esiguo, si aggiungono, però, di tanto in tanto dei termini che godono di un’improvvisa ed estesissima ancorché effimera fortuna, per riaffondare di lì a poco, più o meno lentamente, nelle profondità dell’inconsueto o del desueto dal quale erano stati pescati. In questo modo accade che in un discorso pubblico sempre più piatto e opaco, anonimo e incolore, caschi un termine che fin lì aveva avuto incidenza solo episodica, per giunta assai datata.
Si prenda fuffa, per esempio. Fino a vent’anni fa, era ignorata perfino dal Treccani e dal Sabatini-Coletti. La si trovava sul Devoto-Oli, dove però se ne contemplavano solo le accezioni di «merce dozzinale, ciarpame, paccottiglia» e di «chiacchiera senza alcun fondamento o significato», considerandola «voce onomatopeica di origine lombarda», con ciò disconoscendo il significato originario di «ingarbugliamento dei fili di una matassa» dal toscano «fuffigno», come correttamente segnalato solo dal De Mauro. Poi, d’un tratto, il termine appare in ogni dove, e così per due o tre lustri, mentre oggi, invece, s’usa assai meno. Diremmo stia lentamente scivolando nel démodé.
Démodé? Possiamo sussumere nelle leggi della moda il processo che traccia la parabola di popolarità di questi termini? Se sì, non è difficile capire cosa ne decreti il declino: il lemma non ha le caratteristiche necessarie per diventare un classico e, al pari del capo di vestiario che non riesce a diventare un must nel guardaroba, viene dismesso appena ha smesso di esser trendy. Ma cosa ne decreta il successo? Qui le leggi della moda sono imperscrutabili, consentono solo di essere intuite. Per fuffa, restando al nostro esempio, deve aver senza dubbio avuto un peso il fatto che il lemma suona bene, è insieme buffo e incisivo, dà efficace colore al suo significato. In tal senso si apparenta alla locuzione francese à gogo, che ebbe grande popolarità nei primi anni Settanta, basta sfogliare i quotidiani e le riviste dell’epoca per ritrovarsela dovunque. Ma cosa decreta il successo di termini che non hanno queste caratteristiche? Perché d’un tratto escono dall’ombra per vivere la loro breve stagione di gloria? Se mi si fa passare la metafora, accade che dal baule degli abiti sotto naftalina ne venga tirato fuori uno preconfezionato che riserva la piacevole sorpresa della vestibilità di quello su misura. Fuor di metafora: è la costellazione dei tratti che fanno il significato a cercare un significante, e a trovarlo, quasi per caso, scoprendolo sorprendentemente aderente. In altri termini, la realtà produce un evento, dà vita a un modello, si struttura in una situazione, che non riescono a farsi bastare nemmeno in perifrasi i 300 o i 1.000 lemmi più comunemente usati per darsi un’adeguata definizione; poi, all’improvviso, dal dizionario spunta il lemma che in due o tre sillabe riesce a darne la sostanza per intero.
Anche qui non sarà inutile ricorrere a un esempio. Prenderemo il termine cialtrone che da alcuni mesi furoreggia dappertutto.

Nella persona del cialtrone confluiscono ben sei caratteri, e tutti ben distinti, come è reso evidente dallimpossibilità di trovare sovrapposizione o interscambialità tra i relativi sinomini:
- è innanzitutto persona che mostra assai poca correttezza nei confronti del prossimo, e senza farsi scrupolo di arrivare al dolo (è imbroglione, mascalzone, furfante, lestofante, ecc.);
- né si dà cura nel conferire almeno un minimo di plausibilità all’impostura, che è lo strumento di cui fa più frequente uso (è impudente, volgare, sfacciato, villano, ecc.);
- impostura che è quasi interamente affidata alla sua ciarla (è linguacciuto, parolaio, vaniloquente, ecc.);
- un ciarlare che per lo più è un millantare (è spaccone, pallista, borioso, spocchioso, ecc.), e che si rivela tale nella vistosità di due difetti:
- il cialtrone è sciatto, trasandato, pasticcione, abborracciatore, ciabattone, ecc.;
-  ed è indolente, fannullone, poltrone, scansafatiche, ecc.
Detimo incerto, cè chi ipotizza sia un incrocio tra ciarlone e poltrone (De Mauro, Devoto-Oli, Casalegno-Goffi), ma è evidente che la sua persona non possa esaurirsi in questi due soli aspetti, sicché, se fosse esatta lipotesi, si dovrebbe supporre che la persona del cialtrone sia venuta a costruirsi attorno a quel nucleo. Cosa le avrebbe conferito il resto? Dar carriera a quei due vizi morali: da ciarlone farsi ciarlatano, riscoprire in poltrone la variante di paltone (accattone), diventare impostura ambulante per il mondo, tra immeritate fortune e rovinosi rovesci, per guadagnare linfamia della persona «di volgarità sudicia e moralmente vile» (Tommaseo), «volgare e spregevole, priva di serietà e correttezza nei rapporti umani o che manca di parola negli affari» (Devoto-Oli), che «ricorre a trucchi scoperti per giustificarsi» (Sabatini-Coletti).
Tanto scoperti, i suoi trucchi, da rendere di regola la sua impostura assai irritante, ma talvolta anche divertente. Nel primo caso, il cialtrone è sentito come minaccia sociale, perché della risma dei gabbapopoli (un esempio ne Il viaggio di un ignorante di Giovanni Rajberti, del 1854, dove il cialtrone è per la prima volta accostato al populista, ovviamente ante litteram); nel secondo, la maldestrezza dei suoi mezzucci muove a una sorta di tenerezza (si pensi al «sofisticato cialtrone» affibbiato a Vincino nel necrologio de Il Foglio). Diremmo che labiezione che bolla il cialtrone mira a condannare innanzitutto loffesa che ci fa col ritenere di poterci abbindolare con eccessiva facilità: è un impostore che sottovaluta le nostre capacità di difesa allimpostura, e dunque merita due volte il nostro disprezzo.

Qui possiamo richiamare lassunto relativo alle ragioni che decretano limprovviso ed enorme successo che un termine inconsueto o desueto viene a riscuotere in un determinato momento, chiedendoci quale sia levento, il modello, la situazione che trovano in cialtrone la felice soluzione lessicale. Domanda superflua, basta considerare in quale contesto si registra la più frequente ricorrenza del termine: cialtroni sono i grillini: imbroglioni e villani, parolai e spacconi, fannulloni e pasticcioni.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrà dare un senso al brano tratto da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati posto in esergo, chiedersi se la soluzione lessicale, di cui qui si è cercato di spiegare la ragione, non esprima nel profondo un bisogno di «bestialità fatte bene»