lunedì 27 maggio 2019

#Salviniscappa


Erano Europee, ma, almeno qui in Italia, in gioco era tesi che il leghismo fosse fascismo, e dunque in campo si scendeva da fascisti consapevoli, da fascisti inconsapevoli, da poverignavi che «il fascismo non lo vedo, dovè?» o da antifascisti comme il faut.
Erano solidi gli argomenti a sostegno della tesi? Qualunque fosse linterpretazione del fascismo presa a riferimento, la tesi non reggeva, al fascismo mancava sempre qualcosa di essenziale, senza la quale fascismo non era, ma ovviamente parlo delle interpretazioni serie, anzi seriose, quelle prodotte in sede storiografica.
Sul modello del «fascismo eterno», però, la tesi poteva reggere, perché, parafrasando Umberto Eco («il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista»), Mussolini era in Salvini già nel sentirlo dire «tanti nemici, tanto onore».
Assumendo il mandato allegato a questo modello («il nostro dovere è di smascherarlo [questo fascismo] e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme»), chi aveva a cuore la tesi che la storia si stesse ripetendo ha dato il meglio: «ha detto pure “chi si ferma è perduto”», «si è affacciato dallo stesso balcone da cui si affacciò Mussolini», «#lammerda non ha onorato il 25 aprile», ecc.
Dal canto suo, Salvini ha lasciato fare. Di più, ha offerto la sua sfacciata parodia di fascismo-movimento a un’altrettale parodia di Biennio Rosso («l’Italia di Giolitti è morta, largo al proletariato!», centri sociali in piazza e bottegai terrorizzati ad abbassare le serrande), alternandola a quella di fascismo-regime, che trovava pronta quella di Resistenza («fuori i 49 milioni dell’oro di Dongo, dove li hai messi?», «appendetelo a testa in giù, tra la Verdini e il Giorgetti!»).
Come nel ’19-’22 e nel 43’-45, non c’era alternativa, almeno per chi sosteneva la tesi: «[quel] modo di pensare e di sentire, [quella] serie di abitudini culturali, [quella] nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni», l’Ur-Fascismo di Umberto Eco, incorniciava a meraviglia la «dittatura terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario», il fascismo del compagno Dimitrov, quello che concedeva il bollino di antifascista doc solo a ogni sincero anticapitalista, sicché gli altri, i sedicenti antifascisti, gli antifascisti farlocchi perché non comunisti, sostanzialmente erano anch’essi «nemici», anche se il compagno Togliatti si erano limitato a definirli «avversari» (Corso sugli avversari, 1935).
Simul stabunt, simul cadent, era destino che alla crisi dell’egemonia culturale che accreditava ai comunisti il solo e vero antifascismo seguisse anche la crisi di quell’antifascismo tutto strumentale alla loro causa anticapitalista, mentre quello farlocco, quello di chiunque comunista non fosse, era già stato delegittimato per tempo, lungo decenni in cui «fascista» era l’epiteto affibbiato, senza pietà e senza distinguo, a missini e democristiani, a socialdemocratici e liberali, e poi ovviamente a Craxi, a Berlusconi e a Renzi. Si parva licet, una volta me lo beccai anch’io. Era il ’77, in un’assemblea m’ero azzardato a dire che il «27 politico» fosse una stronzata.  
E qui, a mo’ di intermezzo, penso caschi bene un inciso.

Chi ha l’add-content di Malvino nel suo feed-reader può legger lì per intero ogni mio post, è una decisione mai venuta meno in questi quindici anni di blogging, sei sul Cannocchiale (2004-2010) e nove qui, su Blogger (2010-2019), perché lasciare lì solo tre righe e tre puntini di sospensione mi è sempre parso fosse una forma di adescamento simile a quello della puttana che si sente principessa e confida che qualcuno raccolga il fazzoletto che ha lasciato cadere a terra dietro di sé sul marciapiedi.
Questa scelta, però, ha avuto un costo: nel feed-reader resta il testo licenziato al mio Invia, talvolta cliccato al posto di Salva, come è accaduto con O moesta senectus! (24.5.2019), che pensavo di aver lasciato in bozza. Poco male in casi come questi, ma poi ci sono quelli assai più imbarazzanti nei quali il feed-reader mi inchioda ad un refuso, ad una svista. Accade che ne accorga quasi subito, più spesso che me lo facciano notare, corregga il testo, ma ecco che due o tre giorni dopo, a volte anche una settimana dopo, arriva immancabile il commento di chi rimartella sul chiodo da cui pensavo d’essermi schiodato: «Guarda che a “populismo” manca la “s”». Che fare? Di solito pubblico il commento e ringrazio, ma dentro di me il permaloso protesta: «Eccheccazzo, sai come funzionano i feed-reader: visto che per lasciarmi questo commento hai giocoforza sotto il naso il post, vuoi controllare prima se per caso la “s” l’ho già messa?».
Ma poi c’è pure il caso in cui nel testo sul feed-reader resta il lapsus che rivela il non detto, quasi sempre indicibile. E questo è accaduto col post senza titolo del 19 maggio, dove all’ultimo capoverso m’è scappato un «traditori» che neanche un minuto dopo ho tolto per metterci un «nemici»: troppo tardi, sul feed-reader restava il «traditori», cui seguiva un «della classe operaia, in quanto liberaldemocratici».
Beccato: rigettavo l’imputazione di «nemico», «traditore» eventualmente sì, ma solo perché alle gloriose avanguardie della classe operaia rammentavo «la natura socialistoide del mussolinismo», a insinuare che certo socialismo è sempre un po’ fascista. Mi aspettavo di doverla pagar cara, ma Olympe de Gouges, che bacchetta sempre con affettuosa severità ogni mia bestemmia anticomunista, era insolitamente indulgente: «Fu immarcescibilmente anche questo, ideologicamente, ma sul piano sostanziale fu altro: senza i danè degli industriali e degli agrari, senza l’appoggio dell’establishment statuale e monarchico, dove sarebbe andato il Benito Amilcare?».
Il sollievo per l’essermela cavata a buon prezzo, m’ha fatto tacere, ma avrei voluto dirle: «Ancora con questa storia degli industriali e degli agrari? Il fascismo fu fenomeno di massa, reclutò un popolo intero: davvero pensi di poterlo liquidare come cane da guardia del capitale? Ma hai letto il Löwenthal?».
Ecco: «La concentrazione di tutti quelli che abbandonano i partiti e le organizzazioni, in primo luogo perché i loro interessi materiali per lo Stato superano o sostituiscono temporaneamente il loro interesse produttivo di classe, e poi perché le organizzazioni non sono più in grado di imporre l’interesse di classe stesso; la concentrazione dell’agricoltura contro l’industria, del trust dell’acciaio contro i sindacati industriali, dei debitori contro i creditori, dei disoccupati contro gli occupati, dei fautori dell’autarchia contro i fautori dell’economia mondiale – tutto questo si attua in un nuovo partito di massa, rivolto solo al potere politico: il partito fascista. Così si spiega come questo partito recluti i suoi aderenti in tutte le classi e come determinati ceti vi siano rappresentati e ne formino il nucleo, ceti che sono definiti con l’imbarazzato termine di ceti medi. La borghesia vi è rappresentata, ma si tratta della borghesia indebitata, bisognosa di sostegno; il ceto operaio vi è rappresentato, ma si tratta di disoccupati permanenti, incapaci di lotta, concentrati nelle zone povere; vi affluisce la piccola borghesia cittadina, ma quella andata in rovina; vi vengono inclusi i possidenti, ma solo quelli spossessati dall’inflazione; vi si trovano ufficiali e intellettuali, ma si tratta di ufficiali congedati e di intellettuali falliti. Questi sono i nuclei del movimento, che ha il carattere di una vera comunità di falliti, e questo gli permette anche di estendersi, parallelamente alla crisi e al di là di questi nuclei centrali, in tutte le classi, perché con tutte è socialmente concatenato. […] Basandosi su una corrente ideologica di massa, che di fatto trascina anche l’ala borghese reazionaria, senza essere compromesso dal suo aperto carattere di rappresentante di determinati interessi, diventando sempre più il punto su cui si concentrano tutte le speranze, sempre in grado di denunciare la politica d’interessi della borghesia e i resti dell’economia di partito nella coalizione [di governo] come le cause di insufficienti progressi, il partito fascista trova rapidamente la strada verso il colpo di stato, che rappresenta la vera rottura col sistema. A questo punto esso si impossessa senza riserve dell’apparato statale...».
Basta, cara Olympe, ad aprire gli occhi sul fatto che il fascismo ha le sue «ragioni» ben oltre «i danè degli industriali e degli agrari»? Un po’ in ritardo lo capì pure Togliatti e, a modo suo, cercò di metterci una toppa con l’Appello ai fratelli in camicia nera del ’36. Troppo tardi, le «ragioni» del fascismo dovevano essere comprese prima, quando la fregola dell’immancabile e imminente rivoluzione rossa obnubilava l’analisi dell’avanguardia della classe operaia, tant’è che ancora nel ’24 Gramsci dava il fascismo per morto e con lui «il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati». Ora come allora, ammesso e non concesso che il leghismo sia fascismo, stramaledetta la profezia che – insieme – non ci coglie, ma si autoinvera. Fine dell’intermezzo.

Hic stantibus rebus, non restava altro che attendere la risposta degli aventi diritto al voto a queste Europee, e quella – qui la frase suoni un po’ nasale, come da speaker dell’Eiar – all’alba di quest’oggi si è avuta schietta e fiera: il fascismo è al potere, la parodia ci ha preso gusto, chissà non provi a far sul serio.
Con ciò dovremmo rassegnarci al fatto che di conseguenza il paese è fascista? Non sia mai. Saldi nella convinzione che il capitalismo è all’ennesima crisi, anzi, è a una crisi che anche stavolta è quasi certamente quella fatale, e che, come sempre, quando è in crisi, anche stavolta stia dando fondo alla sua intrinseca malvagità, mandando sulla scena un demagogo bravo a stordire tanta brava gente, altrimenti pronta alla rivoluzione, ma che la storia non possa che volgere ineluttabilmente alla beata società senza classi e senza partiti, «ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni», e che chi non ci sta si autodenuncia come «nemico» dell’umanità, con cui non si può perder tempo a dialogare – saldi in questa articolatissima convinzione, metà purissima fede e metà indefettibile scienza – ce n’è da lottare, eccome.
Cominciare col cercare di capire dove si è sbagliato? Macché, l’avanguardia della classe operaia non sbaglia mai. 9.153.638 voti di coglioni? E che importa, c’è un 44% di astenuti che cela formidabili «riserve di energia politica», e che ci vuole a farla tutta nostra? Non vedi? Il leghismo è già morto, e #Salviniscappa, e dietro di lui scappano pure quei semileghisti di Bonino, Calenda, Zingaretti e Fratoianni. Prendi la mazza, infila il casco, ché andiamo in piazza a sfondare qualche vetrina e a farci manganellare dalla Polizia, vedrai che gli astenuti ci verranno dietro.

15 commenti:

  1. No, non ho letto Leo Löwenthal (ho studiato altro).
    Prova a togliere, storicamente parlando, a Berlusconi i danè e le sue televisioni,
    parleremo in tal caso del fenomeno di massa che ha interessato FI ?

    Le ragioni che portarono al governo Mussolini furono d’ordine politico ed economico-finanziario, non di massivo consenso. L’appoggio di cui godette il movimento fascista da parte della borghesia, degli agrari e da parte degli apparati statali, così come la rapidità con la quale esso prese piede, vanno visti, da un lato, come l’ultimo aspetto della crisi dello Stato e della società italiana, e, dall’altro, come crisi interna ai partiti della sinistra italiana.

    Se non si hanno presenti e in evidenza questi due fatti è inutile discutere. Ed è ciò che sta via via maturando nei nostri anni, e a ben poco serviranno le marcette contro l’antifascismo. Non questo neofascismo becero e antiquato bisogna temere (per quanto si debba affrontare con decisione), ma ciò che vi si nasconde dietro e fermenta da lunga, lunghissima pezza.

    I fascisti alle elezioni del 1919 non avevano preso nemmeno un seggio, perfino Mussolini era stato trombato a Milano. E nel 1921 ne avevano ottenuti pochi di seggi e solo nelle liste dei liberali di Giolitti (blocchi nazionali): 35 su 530. I fascisti dovettero attendere la truffa della legge Acerbo e il 1924 per entrare in massa a Montecitorio.

    Facciamo un passo indietro, anzi, più d’uno, ponendo attenzione alla scansione delle date. Il 20 febbraio 1919 si era raggiunto un accordo con l’Associazione industriali dei metalmeccanici che prevedeva la riduzione di orario a 8 ore giornaliere e 48 settimanali, il riconoscimento delle commissioni interne e la loro istituzione in ogni fabbrica; la nomina di una commissione per il miglioramento della legislazione sociale e di un’altra per studiare la riforma delle paghe e del carovita.

    L’ala più oltranzista del padronato comincia a cercare la prova di forza contro gli operai e il sindacato. La trova nell’agosto del 1920, quando la trattativa per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro dei metallurgici viene interrotta e cominciano le serrate. La risposta operaia è l’occupazione delle fabbriche che coinvolge più di 400mila metallurgici e altri 100.000 di altre categorie. Momenti di tensione, episodi di autentiche battaglie in cui si contano morti e feriti.

    Questi fatti precedono l’accordo del 19 settembre 1920. Le fabbriche tornano alla normalità nei giorni seguenti, avendo ottenuto il riconoscimento del controllo operaio nelle fabbriche, aumenti salariali, 6 giorni di ferie pagate, miglioramenti per gli straordinari e il lavoro notturno.

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  2. Non erano nati i soviet italiani, e su questo punto credo fossero in pochi a farsi illusioni. Erano stati ottenuti però dei miglioramenti significativi. La fase di lotta si chiudeva dunque nel settembre 1920. La marcia su Roma è della fine d’ottobre del 1922. Cos’era avvenuto nel frattempo? Assalti squadristi alle camere del lavoro, alle sedi del Partito socialista, alle redazioni dei giornali di opposizione, pestaggi, intimidazioni, omicidi, raid squadristici.

    I padroni, industriali e agrari, non ci stavano, volevano imporre il loro ordine. Fu la neonata Confindustria e i grandi proprietari agrari a finanziare il fascismo e segnatamente la marcia su Roma. Ben vista dal Vaticano per motivi prevalentemente finanziari. Furono queste forze che indussero il Re a non firmare lo stato d’assedio alla vigilia di quella che sarà chiamata, dai fascisti, la marcia su Roma.

    Scriveva nel 1963 Antonino Répaci nel suo La marcia su Roma, I, p. 338:
    «Sul finanziamento effettuato dagli industriali ai fascisti non è prevedibile la scoperta di fonti documentarie; nessuno si illude ovviamente di rinvenire le quietanze, che altrettanto ovviamente non vennero rilasciate».

    Commenta, nel 1955, Ernesto Rossi: «ancora oggi le banche svizzere sono la strada preferita dei Grandi Baroni, che desiderano far perdere ogni traccia della provenienza dei quattrini con i quali comprano gli uomini politici e finanziano giornali e partiti» [p. 79]. «Nelle due settimane precedenti la mobilitazione generale fascista, l’intero stato maggiore della Confindustria fu al fianco di Mussolini.

    Il 17 ottobre il prefetto di Milano scrisse al presidente del consiglio [Facta] una lettera in cui lo informava che una commissione di industriali (Targetti, Olivetti, Benni, Pirelli, Conti ed altri minori) gli avevano chiesto udienza per esporre le loro preoccupazioni sulla situazione finanziaria e sul fascismo, che ritenevano “dovesse essere subito incanalato”. Qualsiasi ritardo avrebbe provocato “una crisi gravissima di cui non si potevano calcolare le conseguenze”. Gli industriali avevano pregato il prefetto di far presente all’on. Facta il loro stato d’animo: essi volevano al governo “uomini forti che risollevassero la nazione dal marasma”» [p. 86].

    Nel giugno 1919 Francesco Saverio Nitti, già due volte ministro, assume l'incarico di presidente del consiglio. La sua vicenda governativa fu in seguito ricordata, da Amedeo Bordiga, con queste parole: «L’esperienza italiana insegna che il democraticissimo governo Nitti fu in sostanza quanto di meglio la borghesia italiana poteva esperire in sua difesa, e quindi quanto di più reazionario». Bordiga doveva sperimentare quanto fosse più reazionario il fascismo.

    Una delle questioni più sentite era quella di stabilire sulle spalle di quali ceti sociali sarebbe dovuto ricadere il peso maggiore delle spese sostenute per la guerra, e in tal senso Nitti si era adoperato per una rigida politica di controlli annonari, tentando di introdurre per decreto il prezzo politico del pane (decreto che gli costò le dimissioni, ma esso fu solo un pretesto per i gruppi organizzati del malaffare di Stato per screditarlo e indurlo a lasciare).

    Tuttavia fu grazie a Nitti (la cui opera come ministro del Tesoro dopo Caporetto fu rilevantissima sotto ogni profilo) che si cominciarono a mettere in ordine i conti pubblici e soprattutto a congedare una massa enorme di ufficiali (in pratica non c'era ancora stata sotto il gabinetto Orlando la smobilitazione), che erano 117.148 e dovevano essere ridotti dell'80%.

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  3. Tale smobilitazione e la questione di Fiume, portata avanti da gente senza scrupoli, strumentalizzata dai soliti affaristi di Stato che nella destabilizzazione avevano solo da guadagnarci, furono grane non lievi per il governo.

    Nitti riformò anche il sistema elettorale con il proporzionale (la prima volta di tale sistema in Italia, legge 1401 del 15 ago 1919), grazie al quale PSI e PPI si rafforzano alle elezioni del novembre successivo. Proveniva dal Partito Radicale storico, ed era considerato lo statista liberale di sinistra più qualificato per realizzare la prospettiva di una soluzione riformistica della crisi postbellica. Gli avvenimenti che portano, nel giugno 1920, alla caduta del suo governo, sono esemplificativi del ruolo che non di rado svolge la finanza e l’industria nell'"incanalare" la politica, tanto più in un paese come il nostro.

    Il gruppo Ansaldo costituiva la più grande impresa industriale italiana dell’epoca, con 100 fabbriche e 100.000 addetti. L’impresa, controllata dai fratelli Perrone, era enormemente esposta con le banche, in particolare con la Banca di Sconto (Bansconto). Inoltre, soffriva per la forte contrazione delle commesse statali a seguito della fine delle ostilità belliche. Era pertanto necessario procurarsi della liquidità e a tale scopo fu messo in atto il solito giochetto: acquisire il controllo di una società o di una banca con patrimonio da saccheggiare.

    Fu scelto di dare la scalata alla banca Commerciale Italiana (Comit). Le azioni della banca passarono in cinque giorni da 1.250 a 2.450 lire (la lira di quel tempo!), vale a dire che quasi raddoppiarono, non certo a vantaggio degli operai dell’Ansaldo. Per farla breve, la scalata non andò in porto per l’opposizione di Nitti, e i fratelli Perrone vendettero le 200.000 azioni in loro possesso ad una holding controllata dalla Comit.

    A quel punto la banca più potente d’Italia decise che doveva far pagare caro a Nitti il suo rifiuto di modificare la legge che avrebbe consentito ai Perrone il controllo della banca. Nelle sue memorie l’uomo politico racconta che due banchieri della Comit chiesero d’incontrarlo, prospettandogli la necessità di misure economiche drastiche per ristabilire la fiducia dei mercati finanziari interni ed esteri sulle finanze pubbliche italiane. Infatti, a Nitti erano stati già rifiutati ulteriori aiuti finanziari da parte inglese, rendendo precaria la posizione del suo governo in una situazione sociale assai seria. Tali misure consistevano essenzialmente nell’abolizione del prezzo politico del pane. In cambio, i due banchieri promisero di indurre i loro colleghi esteri a concedere nuovi prestiti.

    Nitti, come detto, rifiutò di modificare la legge in favore dei Perrone, presentò alla Camera un progetto di legge per l’abolizione del prezzo politico del pane (e in ciò Bordiga aveva ragione). Nitti fu però battuto, soprattutto perché a mancargli furono i voti decisivi del PPI, il partito cattolico. Secondo Nitti, la Comit si fece promotrice, in quell’occasione, con ogni sforzo, di raccogliere voti contrari alla proposta di legge.

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  4. La caduta di Nitti ridusse drasticamente la possibilità di una soluzione riformistica della crisi e aprì la strada a Giolitti, mentre si stava «formando uno “stato fascista nello Stato” in gran parte dell’Italia centro-settentrionale, con la connivenza delle autorità governative locali e centrali, incluso lo stesso Giolitti e il suo ministro della Guerra, Ivanoe Bonomi» (Douglas J. Forsyth, La crisi dell’Italia liberale, Corbaccio, pp. 275-76).

    Prima di passare la mano, Nitti chiese sostegno in Vaticano (aveva a suo tempo intrapreso colloqui segreti con il card. Gasparri in vista di una conciliazione sulla questione romana, anche se c’è da credere che il Vaticano cercasse contropartite decisamente più favorevoli di quelle prospettate dal governo italiano pro tempore), ma senza successo.

    I suoi successori, cioè Giolitti, Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e il «deficiente» Facta (feb. – ott. 1922), perseguirono una linea di politica economica essenzialmente tesa alla stabilizzazione finanziaria e monetaria ponendo in secondo piano la ricerca di un sostegno politico e parlamentare da parte dei partiti di massa (sinistra e partito popolare).

    Nitti nelle sue memorie (Rivelazioni, 1948) smentisce la propria connivenza con i gruppi bancari, sostenendo anzi che essi furono la causa della sua caduta: «... la lotta dei gruppi bancari che volevano l'uno contro l'altro il predominio dello Stato che io non volevo dare ad alcuno e che poi finirono per essere entrambi contro di me, turbava la vita dello Stato» (p. 543).

    Fu Giolitti a smantellare il sistema nittiano dei monopoli fiscali e dei controlli economici statali (in realtà poco efficienti), a frenare il ricorso delle amministrazioni locali (moltissime controllate da socialisti e partito popolare) al credito, a porre fine alla connivenza tra governo e il trust Ansaldo-Bansconto, mantenendo invece ottimi rapporti con la Comit.

    In tal modo, l’azione governativa di Giolitti, pur riportando decisi progressi verso il risanamento dei conti pubblici, venne a perdere soprattutto il sostegno cruciale del partito cattolico, guidato da Luigi Sturzo. Infatti, il salasso per le classi più deboli scontentò i partiti di massa senza guadagnare l’appoggio delle destre, come sempre accade in simili frangenti.

    Da sottolineare un altro fatto non secondario, ovvero l’approvazione della legge del luglio 1920, che doveva entrare in vigore nel luglio del 1921, sulla nominatività dei titoli e altre misure fiscali (Nitti, nel 1920, si era opposto alla nominatività dei titoli).

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  5. Oltre che dai soliti gruppi industriali e finanziari, la legge era molto temuta dal Vaticano, che aveva in Italia la quasi totalità dei suoi investimenti e possedeva a preferenza titoli al portatore, così com’era temutissima la norma fiscale sulle trasmissioni ereditarie tra persone non legate da vincoli di sangue. Fu questo il motivo che «obbligò – secondo Ernesto Rossi, testimone coevo – Giolitti a presentare le dimissioni». Poco prima, il 9 giugno 1921, il suo gabinetto aveva promulgato un decreto contenente norme per la registrazione dei titoli. Con il nuovo governo presieduto da Bonomi, tale norma fu subito sospesa, ma non abrogata. Entrambi i successori di Giolitti, Bonomi e poi Facta, non cancellarono del tutto il decreto giolittiano.

    Nella crisi che succedette alla caduta di Giolitti e fino all’avvento del fascismo, il Vaticano si oppose ad un possibile nuovo governo presieduto da Giolitti, innanzitutto con il veto imposto al Partito popolare di aderirvi.

    Il costo di questo atteggiamento fu la paralisi parlamentare e, infine, la crisi istituzionale. Successivamente, come rileva nel suo libro Ernesto Rossi, L’Osservatore Romano del 27-28 febbraio 1922 si rallegrò perché la più lunga crisi ministeriale che si fosse mai avuta in Italia era stata finalmente conclusa con la formazione di un governo di coalizione, presieduto dall’on. Facta, dal quale erano esclusi soltanto i socialisti.

    In risposta ai giornali che avevano accusato la Santa Sede di essere stata la principale responsabile della eccezionale lunghezza della crisi, col suo veto al ritorno di Giolitti al governo, il giornale del Vaticano ipocriticamente affermò che «la Santa Sede era, voleva e doveva rimanere completamente estranea alle questioni di politica italiana, sia estera che interna, come ad ogni partito di ogni colore».

    Scrisse nel 1947 Benedetto Croce:

    «L’azione della politica vaticana fu allora perniciosa per l’Italia e aprì le porte al fascismo impedendo ogni ritorno del Giolitti al potere. Su di che potrei aggiungere particolari, come d’un colloquio che l’on. Pozio, sottosegretario alla presidenza con Giolitti e a lui devotissimo, ebbe con il card. Gasparri, che rudemente respinse ogni approccio d’intesa: quel che più aveva inferocito la Chiesa era la legge giolittiana della nominatività dei titoli al portatore, nei quali molto denaro degli istituti ecclesiastici era investito».

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  6. Il 12 luglio 1922 le squadre fasciste, lasciate libere di agire, attaccarono il quartier generale delle organizzazioni cattoliche a Cremona. Il PPI si ritirò dal governo Facta, provocando l’ennesima crisi. L’ala riformista del Partito socialista, decise di opporsi al divieto della dirigenza socialista di formare coalizioni con formazioni non socialiste, annunciando l’appoggio ad un governo antifascista, mentre invece Giolitti scoraggiò il suo gruppo di partecipare ad un governo con popolari e socialisti in chiave antifascista. Giolitti e altri liberali preferivano un governo con i fascisti, per poi, credevano, poterli manovrare.

    Vi erano forze e interessi che preferivano una politica nettamente conservatrice con a capo Mussolini, un governo forte a una coalizione riformista. Il nuovo governo Facta ebbe vita difficile e breve, fino al colpo di mano di Mussolini, ovvero fino alla “marcia su Roma”. Il 29 ottobre anche il senatore Luigi Albertini, direttore del Corriere della sera, si trovava presso la prefettura di Milano, assieme ai capoccioni di Confindustria, per far pressioni sul re, affinché non indugiasse ad incaricare Mussolini di formare il nuovo governo.

    Sotto il titolo « La soddisfazione del Vaticano per la soluzione delle crisi », il Popolo d’Italia (giornale di Mussolini) del 2 novembre del 1922 pubblicò:

    «Durante i giorni del travaglio nazionale, che condussero all’avvento al potere dell’on. Mussolini, nessun allarme si ebbe nei circoli più vicini al Pontefice, il quale, quando gli avvenimenti si sono avviati verso il loro sbocco normale, non ha celato agli intimi il Suo compiacimento nel vedere l’Italia dirigersi verso una rivalorizzazione delle sue migliori energie».

    Il 10 Novembre, lo stesso giorno in cui Il Popolo d’Italia dava la notizia che il consiglio dei ministri avrebbe abrogato la legge sulla nominatività dei titoli, il suo corrispondente da Roma comunicava:

    «Per quanto le sfere responsabili del Vaticano mantengano il loro tradizionale riserbo intorno alla politica del nuovo gabinetto italiano, negli ambienti dei Palazzi Apostolici non si nasconde la simpatia e il senso di fiducia determinato dai primi atti dell’on. Mussolini».

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    1. 1) Il Löwenthal citato non è Leo, ma Richard, che pubblicò sotto lo pseudonimo di Paul Sering. Il brano è tratto da Der Faschismus, che è del 1935, citato da Renzo De Felice per lunghi passi ne Il Fascismo e per due o tre inserti ne Le interpretazioni del fascismo.

      2) Avevo già letto sul tuo blog quanto riporti nei sei commenti qui sopra, mi pare l'anno scorso. Cose che già sapevo da tempo, ma alle quali non fa mai male dare una ripassatina, soprattutto se la lectio è tenuta dall'amabilissima persona qual sei.

      3) Nel merito, chi nega che "senza i danè degli industriali e degli agrari, senza l’appoggio dell’establishment statuale e monarchico", il fascismo sarebbe miseramente abortito? Non io. Dai numerosi scambi avuti nel passato dovresti già sapere dov'è che con te sorge il contendere: sull'importanza di quelle che passano per sovrastrutture, e che nel caso del fascismo, a mio modesto avviso, sono notevoli, perché del fascismo sono ragion necessaria, anche se non sufficiente. Solo questo ti contesto, lo stramaledetto riduzionismo economicista dell'ortodossia marxiana, tanto spesso nel passato piegata allo strumento della praxis marxista: le cose che riscrivi qui sono sacrosantamente ineccepibili, ma spiegano il fascismo in toto? Spiegano perché nel volgere di pochi mesi quattro delinquenti esaltati riuscirono a trascinarsi dietro un popolo per condurlo alla rovina col suo pieno ed entusiastico consenso? Non credo. Mai come nel caso del fascismo le cosiddette sovrastrutture sono struttura portante del fenomeno, parte viva e non orpello. Più esplicitamente: sono irriducibili a fattori di mera natura economica. Mi azzarderei al punto da affermare che fu questo il limite che rese debole la resistenza al fascismo nascente: non si capì che il fascismo avesse le sue "ragioni", come ho scritto, e anche qui, come vedi, pago lo scotto del tabù antifascista costringendomi a mettere le virgolette a quello che non ne ha mai bisogno, perché ogni ragione ha sempre natura ultimativamente soggettiva. Mutatis mutandis, mi pare sia lo stesso errore che oggi si consuma nel calcare lo stampo del fascismo sul fenomeno leghista: si ignora - si vogliono ignorare - le ragioni di chi dà il proprio consenso a Salvini. Anche qui - se ad ogni costo vogliamo imbastire parallelismi - sono composite e contraddittorie, ma ci sono, e non possono essere liquidate come artefatti di paura ed ignoranza, di egoismo e malafede. Non senza il rischio di promuoverle così, in una tragica eterogenesi dei fini, a istanze di un sorgivo blocco sociale. Ed è questo il rischio che vedo correre da chi Twitter incorona ad avanguardia rivoluzionaria: anche se i termini hanno in gran parte perso aderenza a quel che cercano di definire, si trasfigurano i bisogni del "proletariato" e si rubricano a bestiali pulsioni quelli del "sottoproletariato" e della "piccola-borghesia".

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    2. P.S.: Ho letto che nelle prossime settimane dovresti passare per Napoli. Fammi sapere quando, mi auguro non capiti proprio in coincidenza di una mia settimana berlinese, programmata da tempo, mi darebbe enorme gioia conoscerti di persona.

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  7. http://www.centrostudilaruna.it/il-fascismo-in-america.html

    chiedo scusa, quella settimana non sarò a Berlino. Ho letto della letteratura fantastica o corrisponde al vero? Simpatie americane verso il fascismo. O si tratta di una bufala? O si tratta solo di empatia?

    "Ai tempi fecero scandalo, nel provinciale antifascismo nostrano, alcune riflessioni di Diggins sulla generale simpatia mostrata in America per l’avvento al potere di Mussolini, in virtù della sua politica sociale e, soprattutto, in virtù del suo rivoluzionario disegno antropologico di mutare gli Italiani da turba di straccioni emigranti, facili al coltello e al crimine – di cui negli USA si aveva sin dall’Ottocento una sprezzante opinione, venata di non secondarie inflessioni razziste – finalmente in un popolo serio, moderno e disciplinato."


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  8. Un appunto su questo tema. Un po' di tempo fa dopo che ho introdotto in una discussione il termine "comunitarismo" hai scritto un post sul fascismo e il movimento di Grillo. Non ti ho risposto perché è una cazzata, anche per lo storico Paolo Mieli
    (non ti sembra buffo il fatto che per un problema alla vasca vai dall'idraulico, per un problema alla psiche vai dallo psicologo ma per un problema storico non c'è bisogno di uscire di casa per via dell'innatismo? Conosci la storia meglio di me è solo un paradosso così per sorridere)

    Mi spiace che tu abbia male interpretato, fidandoti dell'intuizione sballata, ma in realtà io pensavo ad altro, pensavo seriamente ai welfare-state scandinavi che conosco abbastanza bene: in confronto a noi sono comunismo reale! Questo pensavo. Gli italiani che vivono lì lo possono confermare, è proprio un altro mondo. Ma io ho usato il termine comunitarismo per non creare le solite polemiche da tifosi

    in realtà poi esistono anche altri tipi di comunitarismi, di carattere cristiano

    (L'empatia.. d'accordo, ottima idea, ma empatia non è un farmaco sostitutivo: ci può essere comunitarismo con o senza empatia)

    Ma la cosa veramente buffa è che abbiamo un fascismo grosso davanti al naso e non lo vedi e non ne parli, o quasi, solo frasi sibilline degli sbotti tipo "Quest'Europa da schifo" come un moto improvviso della gamba dopo il colpo del martelletto. Dico questo perchè se dovessimo applicare tutti i santi crismi dell'antifascismo, beh, si tratta proprio di un fascistone grosso. Dal metodo terroristico lacrime e sangue, il governo della paura, dalla fobia del nemico, al "vincolo esterno" teorizzato e applicato. Nonostante Napolitano abbia poi ripudiato l'austerità (lasciando però lo sfregio in Costituzione, il pareggio di bilancio). Inoltre di alcune cose non si può parlare e hanno carattere religioso e fideistico: ad esempio, la corruzione esiste in tutti i Paesi, ma non esiste assolutamente in UE nonostante sia formata da tutti i Paesi corrotti. Eccetera

    Ecco mi viene in mente anche l'ignoranza sistemica in cui sono tenuti gli elettori, e questo è fascistissimo: nessuno sa come funziona l'Europa, dopo un ventennio. Colpa del popolino ignorante (l'idea ricorrente dei media di De Benedetti), certo, o colpa dei media e del loro istinto pedagogico... Però il fatto è che non lo sa nemmeno un lettore di Repubblica, e difficilmente lo può sapere poiché si tratta di un meccanismo complicato a piacere.

    Ciò che mi interessa a questo punto disperato è valutare se un fascismo può essere riformato o no, se ci sono spazi di miglioramento (peggioramento è la stessa cosa), o c'è una componente immutabile costante ed eterna e quindi siamo comunque nella merda

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    1. Troppe sciocchezze in un solo commento, appena ho un po' di tempo argomenterò al riguardo, cominciando da ciò che mi fai dire e non ho detto.

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    2. Va bene, tranquillo, nessun intento polemico. Ti leggerò con piacere come sempre

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  9. Aggiungo un paio di motivi che hanno portato all’introduzione del termine "comunitarismo" (ma in riferimento ad una probabile proiezione futura, non come preconcetto) e cioè la fine già scritta del cosiddetto capitalismo novecentesco se non vi saranno ulteriori rivoluzioni scientifiche

    Il liberismo ha continuamente bisogno di iniezioni di socialismo per sopravvivere alle continue distruzioni di ricchezza. Come l’odierna riscoperta di Keynes. E sappiamo benissimo che nell'occidente organizzato e governativo la pretesa di un mercato libero è un bellissimo film, per i polli: la deregolamentazione è semplicemente l'adozione di altre regole, di altri contratti, ma anche di altre implicazioni sociali e costi indiretti, ambientali o non subito calcolabili.
    Per distruggere ha continuamente bisogno di esercitare una concorrenza sleale. Il Portogallo e l'Irlanda, nazioni prima messe in crisi e poi obbligate a seguire determinate ricette, non sono esattamente "in ripresa": sul medio-lungo periodo il progetto è diverso perchè rubano risorse fiscali, sono un dumping sleale, l'obiettivo è la distruzione dei welfare, dei servizi, dei diritti delle altre aree europee. Una volta raggiunto quell'obiettivo, alla fine della rissa, finirà anche la "ripresa" e saranno tutti sistemicamente più poveri, tranne chi ha imposto quelle ricette. In Portogallo la situazione è particolarmente spiacevole perchè con l'azzeramento ridicolo delle tasse sono attrattivi per i pensionati del resto d'Europa, mentre i giovani scappano via. Ma i pensionati locali, europei come gli altri, non avranno gli stessi benefici e c'è il serio rischio che scoppi l'invidia e una bomba sociale. L'ennesimo film di Tarantino.

    Non uno scambio economico libero e volontario: slealtà e risse sono una costante, un metodo. Il mercato libero appunto è una cazzata, c'è sempre un mix di stato e mercato, sono mercati governativi che impongono regole ad altri tipo lo smantellamento di alcune regole in favore di altre regole. Sleale la pervicacia con cui Prodi ha sempre voluto distruggere le piccole imprese per adottare il modello francese “poche e grandi” (oggi fallimentare: vedi la grande distribuzione e Auchan in fallimento), pervicacia al limite della pazzia. Un furore ideologico devastante. E' una slealtà continua: la distruzione del modello IRI+PMI che è sempre stato il giusto equilibrio economico per l'Italia. E sai che ridere se in un prossimo futuro per salvare capra e cavoli (per un'altra iniezione di socialismo) obbligassero l'Italia a ritornare al vecchio modello funzionante, con qualche miglioria tipo il colore in 3D per dimostrare la bontà del nuovo motore. L'Italia ha conosciuto un trentennio di prosperità e produttività e un trentennio di decadenza e depressione, ma più della metà di questo tempo è stato governato da tecnici che hanno seguito pedissequamente determinate concezioni, in modo unidirezionale non prevedendo alcun contrappeso o esercizio del dubbio. Perfetti per essere usati come dei burattini. Mentalità tutto sommato infantili, col senno di poi, dei miserabili.

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  10. Sono delle bolle occidentali che periodicamente infestano il pianeta come pestilenze e difficili da debellare. Il capitalismo che conosciamo molto difficilmente verrà distrutto e molto difficilmente il capitalismo distruggerà l'intera Unamità, è come una costante dipendenza, semplicemente imploderà e per una ragione scientifica. Come dicevo in un altro commento, e ribadisco, il capitalismo che conosciamo poggia le sue fondamenta su un capitale non rinnovabile, tecnicamente non rinnovabile (ordini di grandezza incommensurabili, non umani). Non è solo una questione di distribuzione. Il valore reale di quelle risorse è fuori mercato poiché sono risorse del pianeta, non ha alcuna relazione con la proprietà terriera, sono profondità della Terra un bene comune dell'Umanità. E' uno scambio demenziale. Non può essere un gioco infantile: il primo che arriva se le piglia, perchè appunto è un ladro.

    La mia spiegazione è scientifica, non sto dicendo che è meglio un'altra moda a priori. Sto dicendo le cose che si possono o non si possono fare: ogni scelta deve prevedere pesi e contrappesi. Se un tizio vive di rendita, o per vivere di rendita ruba, non può dire che il suo modello funziona, è solo un povero idiota.

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