martedì 7 maggio 2019

Tanto va il peplo a Cesarino che gli tocca la corsa in quadriga





«... segna e depenna Ben Hur...»


La laudatio funebris tratta il morto da faraone. Comincia con l’eviscerarlo, lasciandogli solo il cuore, sempre straordinariamente grande. Poi, lo imbalsama con una lunga serie di procedimenti retorici che gli conferiscono una fissità assai poco naturale, ma in compenso lo rendono profumatissimo. Quindi, lo ficca in un sarcofago sul quale ne è dipinto il volto, tanto idealizzato da risultare spesso irriconoscibile. Sempre riconoscibilissima, invece, la mano del ritrattista, che in questo modo cerca di scroccare al morto un’oncia dell’eternità cui mira il trattamento.
Tutto nelle migliori intenzioni, sia chiaro, perché corpo e memoria, senza adeguata procedura di conservazione, sono parimenti oggetto di decomposizione. Dopo la laudatio funebris, tuttavia, di quello che fino a ieri era un uomo – con quanto di contraddittorio e ambiguo c’è sempre in ogni uomo, e insieme di ineffabile e scontato, e di tragico e comico, e di dio e bestia (ingredienti fissi, da uomo a uomo cambiano solo le proporzioni) – resta solo una carcassa vuota, chiusa nell’affettazione di un mummificatore, spesso seriale.
Con Massimo Bordin l’operazione è stata assai più semplice, perché già in vita, almeno ai più, si offriva eviscerato d’ogni intimità, lasciando dietro di sé una profumatissima scia di balsamiche virtù, bello d’una bellezza già idealizzata di suo. Direi che lavorasse alla sua laudatio funebris da almeno un quarto di secolo, ma «direi» sta a cerniera tra quanto ha fin qui fatto da premessa e ciò che segue, perché una volta mi capitò di dirglielo, più o meno come l’ho detto qui: «Bordin, lei si sta costruendo il monumento da vivo».

Eravamo al Ghetto, da Piperno, alla seconda grappa postprandiale, e al tavolo si avvicinò un tizio sulla settantina per chiedergli se potesse avere l’onore di stringergli la mano, e stringendogliela disse quello che hanno detto tutti in questi ultimi giorni: «Mi sveglio con la sua voce, lei è la preghiera laica del mattino, ecc.». Ringraziò schermendosi con la sua abituale ironia: «Mi pagano», rispose, e il tizio parve estasiato dalla risposta, perché il commento fu: «Sublime!».
«Bordin, lei si sta costruendo il monumento da vivo», dissi appena il tizio si fu allontanato, e lui: «Allora mi toccherà il guano dei piccioni», e io, imitando il tizio appena andato via, cercando di farlo imbestialire: «Sublime!». Inutilmente. Come sempre. Tutt’al più scrollava il capo, come a esprimermi il suo biasimo. «Bordin, ho come l’impressione che certi suoi colpi di tosse siano studiati, come a mettere la firma sotto un passaggio che intende sottolineare», e lui: «Non me ne rendo conto, ma sì, può darsi». Una volta sola – fu quando gli rammentai la sviolinata che aveva fatto a Scalfaro nel ’91 per quell’assegno da cinque milioni a Radio Radicale che ipotizzai potesse spiegare perché di lì a poco Pannella si fosse speso per mandarlo al Quirinale – al biasimo diede forma compiuta: «Castaldi, lei è molto più stronzo di quanto si dice».

Non venimmo mai meno alla regola di darci del lei, tacitamente stipulata fin dal primo incontro. Fu all’Hotel Ergige, sull’Aurelia, al I Congresso di Radicali Italiani del 2002, che quell’anno, a differenza dei successivi, si tenne a luglio. Da qualche tempo mandavo letterine a Il Foglio che riteneva degne di infilare nella sua rassegna stampa accompagnandole a qualche commento che trovai inspiegabilmente lusinghiero. Solo qualche tempo dopo venni a sapere che quelle letterine avevano goduto dell’anticipo di simpatia che ai suoi occhi avevo guadagnato nei miei scambi con Welby sulle pagine del forum di radicali.it.
Mi è d’obbligo premettere gli estremi di quel primo incontro. Ero arrivato al web appena un anno prima e intrattenere rapporti con perfetti sconosciuti, ancorché di sensibilità affine alla mia com’era per i frequentatori di quel forum, mi dava le vertigini. Quel congresso era l’occasione per conoscerli di persona. Mettendo in conto il rischio di un impatto che avrebbe potuto sconvolgere le impressioni così pazientemente, seppur molto arbitrariamente, costruite su di loro, avvisai che sarei stato lì, ero curioso di sapere che faccia, che voce avessero.
Fu meno traumatico di quanto avessi temuto. L’unica sorpresa fu sentire: «Bordin ha saputo che sei qui, mi ha chiesto se ti conoscessi di persona e se ti avessi visto», e poi: «Ah, ma eccolo lì... Bordin, qui c’è Castaldi!». Ci venimmo incontro e a due passi di distanza, quasi avessimo concordato, ci scappò in sincrono la parodia di un reverenziale inchino.
Ci appartammo in una saletta a fumare due o tre sigarette, tempestandoci a vicenda di domande. L’incidente probatorio incrociato fu interrotto da qualcuno che ci annunciò: «Sta per parlare Pannella».
Qualche mese dopo, mi pare fosse a settembre, ero a Roma. Due o tre anni prima avevo scoperto una libreria in Corso Vittorio Emanuele che vendeva a prezzi stracciati giornali e riviste del tempo che fu e di tanto in tanto andavo a riempirci il trolley. Arrivo prima dell’apertura, intorno alle 8.30, e in cuffia ho il finale di Stampa e Regime. Lì mi salta in mente la cosa inopportuna: aspetto che la trasmissione finisca, telefono alla radio e chiedo di Bordin.
«Che sorpresa!».
«Tanta sfacciataggine sorprende anche me, comunque era che mi trovavo a Roma e mi chiedevo se per caso lei accettasse un invito a pranzo».
«Ma certo, con piacere».
«Per lei va bene a Santa Maria in Trastevere, alle 13.00?».

Prese strada a questo modo l’abitudine che per uno o due lunedì al mese durò per ben dieci anni. Poi c’erano i congressi e i comitati nazionali di Radicali Italiani, che a quei tempi, da direttore di Radio Radicale, non si poteva ancora concedere di disdegnare. Due o tre volte ci incontrammo a Napoli, e un Natale lo passammo assieme, a casa sua, con Teodori, Pellicani e relative signore, cena preparata dalla Bartoccelli, io e lui addetti allo sparecchio. Nonostante questo, non ho mai avuto l’ardire di considerarla un’amicizia e, se lo fu, avemmo entrambi il buon gusto di non farvi cenno: una premura di natura estetica, in tempi in cui l’amicizia è siglata con un clic tra due nickname. Per qualche tempo ci fu un po’ di reciproca confidenza, ecco, niente di più. Poi nel 2011 mi nacque un figlio, i lunedì romani appassirono di botto, le lunghe chiacchierate si striminzirono in sempre più laconici sms. La memoria del mio cellulare data l’ultimo scambio diretto al 10 gennaio 2016, una domenica: aveva contestato a Pannella l’uso del termine «magistratura» riferito a organi deliberativi e io gli rammentavo che nell’Antica Roma la figura del «magistratus» era associata alla funzione di governo. Uno indiretto, invece, l’ultimo in assoluto, data al 2 giugno dello stesso anno, quando su Il Foglio scrisse che uno solo era arrivato ad augurare la morte a Pannella, ma ora era forse tra i più dispiaciuti, perché si trattava di un «falso cinico»: fu la prova che ci eravamo del tutto persi di vista, perché né a Pannella avevo augurato la morte (mi ero limitato a twittargli che morire poteva essere un contributo a rimuovere un ostacolo alla formazione di un polo laico), né ero dispiaciuto fosse morto (e dunque «falso cinico» era un’offesa gratuita).

Leggo lermetico «segna e depenna Ben Hur» in Don Giovanni di Panella-Battisti in questo modo: «non sono l’eroe che credete, cancellate limmagine che vi siete fatti di me». Qui ho messo in esergo il verso a dar voce al Bordin che ho conosciuto io, assai diverso da quello dipinto sul sarcofago, più Oblomov che Bartleby. Ma è possibile che negli ultimi anni abbia voluto arrendersi a quellimmagine, si sa come va il mondo: tanto va il peplo a Cesarino che gli tocca la corsa in quadriga.

4 commenti:

  1. Castaldi, a me sembra che, attraverso Malvino, anche lei stia costruendo un po' il suo monumento.
    E spiego perché. La maggior parte dei blogger scrive per socializzare, per bisogno di conferme, perché ritiene, a torto o a ragione, di avere cose interessanti da comunicare. Lei no: lei scrive essenzialmente per se stesso, per il piacere quasi fisico di scrivere, per fissare con la scrittura stati d'animo, pensieri, riflessioni sulla propria vita e sulla condizione umana. Tutto quello che in fondo costituisce la biografia di un uomo. Si parva licet componere magnis, è un po' quello che fece Montaigne con i suoi Essais.

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  2. dottore Castaldi, è sicuro che quel "finto cinico" indirizzato a lei all'indomani della morte di Pannella, invece di essere un commento dismissive, non fosse piuttosto un affettuoso " Castaldi, lei è molto meno stronzo di quanto ci voglia far pensare"? tra l'altro, è quello che penso anch'io

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    1. Guardi che io a Bordin, senza mai dirglielo, ho voluto bene come a mia madre. Nel rispetto della confidenza con lui condivisa, qui non ho riportato neppure un decimo di quei dieci anni. Dai quali tratto la convinzione che "stronzo" fosse un attestato di stima e "falso cinico" un'offesa. Da tempo non era più quello che avevo conosciuto, questo è tutto.

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