giovedì 17 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 5



5. «La verità, vi prego, sulla verità» (pag. 7): Hanno tutti ragione? apre parafrasando il Wystan Hugh Auden di La verità, vi prego, sullamore, che nel «vi prego» della traduzione a cura di Gilberto Forti (Adelphi, 1994), seppur con un sovrappiù denfasi rispetto al testo originale (O Tell Me Truth About Love), trova efficace soluzione nel ridarci, da un lato, lo smarrimento a fronte del sentirne dire tutto e il contrario di tutto («... alcuni dicono che fa girare il mondo / e altri che è solo un’assurdità...») e, dallaltro, lurgenza di una risposta cui poter prestar fede, data la centralità, la preminenza, della questione in oggetto.
È parafrasi estremamente suggestiva per due ragioni: innanzitutto, la «verità» in luogo dell«amore» produce una locuzione – «la verità sulla verità» – il cui corrispettivo evoca quell«amare lamore» che in Agostino dIppona (Esposizione sui Salmi, 118, VIII, 3) è una brillante scappatoia al problema posto da un soggetto e da un oggetto dell’amare che sia un «amare in Dio» («la verità sulla verità» risolve allo stesso modo un analogo problema: chi o cosa garantisce il «vero» di una «verità»?); secondariamente, è parafrasi che, in luogo della «verità sull’amore», ci offre un «amore per la verità» che sta nella ragione etimologica della «filo-sofia»Un brillante trucchetto, insomma, per presentarsi al lettore come la persona più qualificata a poter parlare della «verità», per eminenza di interesse e precipuità di pertinenza.
Da persona tanto qualificata ci si aspetterebbe in primo luogo una definizione delloggetto in questione, ma anche qui, come di regola in filosofia, lo si ritiene superfluo, dando scontato che si sappia di cosa si tratti. Cè che però anche qui, come di regola in filosofia, loggetto è estremamente sfuggente, ambiguo, quasi sempre espresso da un termine che sembra fatto apposta per reggere – sia concessa anche a noi una citazione, una tantum – quelle che la mera analisi logica del linguaggio rivela come pseudoproposizioni prive di senso (cfr. Rudolph Carnap, Il superamento della metafisica mediante lanalisi logica del linguaggio).
Cosè, infatti, la «verità»? Non ve nè definizione – tentativo di definizione, per meglio dire – che non si risolva in tautologia. Tautologia esplicita, comè nel definirla «l’essere vero» (De Mauro) o «ciò che è vero» (Treccani), sennò implicita nel ricorso a un sinomino come «realtà», che ce la ridà come «aderenza alla realtà» (Palazzi), «rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva» (Devoto-Oli), «conformità a una realtà obiettiva» (Treccani), dove questa «realtà» rimanda regolarmente al «vero», in quanto «qualità e condizione di ciò che è veramente» (Palazzi).
Quando, poi, dal tentare di definire la «verità» si passa ad analizzare le sue accezioni nei vari ambiti di impiego (filosofico, teologico, psicologico, ecc.), le cose vanno anche peggio, perché sembra si parli ogni volta di una cosa diversa: per un teologo come Tommaso, dovremmo considerla coincidente all’Essere e in pratica assimilabile a Dio; per un epistemologo come Peirce, dovremmo pensare ad essa come al risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo; per un matematico come Gödel, non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile, il che pone il problema di assumere la «verità» come «inverificabile»; facendoci supporre debba aver ragione un logico come Frege, secondo il quale il «vero» è categoria illusoria.
Anche trasferendo interamente il «vero» al «reale», nel disperato e ultimo tentativo di dare un senso alla «verità», le cose non si mettono al meglio, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta per tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà sì comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta. 
È in questo punto, che poi è quello in cui ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il «vero» al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la «verità» sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una «verità» assoluta, che non è necessariamente Dio, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili (si va dai sofismi alle mazzate), e assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, che è tutto illusorio. Ciò nonostante – ma forse dovremmo dire: proprio perciò – sentiamo pigolare da chi, non essendo in grado di abboffarci di mazzate, si rassegna ad abboffarci di sofismi: «La verità, vi prego, sulla verità». Ma a chi vuo piglia pe culo, Adino?

[fine]

3 commenti:

  1. "Essere nella verità significa trovarsi in una situazione asseverativa nella quale si è in grado di togliere ogni possibile negazione di ciò che, appunto, si afferma, mostrandola come qualcosa che "non può" essere a sua volta asseverato [...] Io ho la verità; ma se gli altri la negano, devo farla valere, devo constantemente impegnarla, testimoniarne di volta in volta il valore. Se non faccio questo, la negazione, l'errore resta lì di fronte, non vinto, non negato: la realtà vive nella pigrizia del compromesso, cioè non vive più. Non si tratta di salvare gli altri portandoli nella verità. L'immutabilità del vero vive in questo suo storicizzarsi nella lotta contro l'errore". Emanuele Severino

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