martedì 29 dicembre 2020

Tecnica e potere

[In questi ultimi giorni ho letto Lingranaggio del potere di Lorenzo Castellani (Liberilibri, 2020), trovandolo per molti aspetti un libro davvero notevole, cosa assai rara in tempi che hanno ridotto la saggistica a intrattenimento. Lingranaggio del potere è un libro serio e onesto, che espone in modo chiaro una tesi e offre solidi argomenti a suo supporto. In più, è scritto bene, senza alcun cedimento a quei vanesi istrionismi e a quei ruffiani ammicchi coi quali, oggi, molti saggisti sono convinti di poterci estorcere simpatia, laddove il parlare oscuro e il citare a sproposito non sono riusciti a estorcerci deferenza. La sintassi di Castellani è limpida anche quando la frase ha una lunghezza superiore alle sette righe e mai neppure un alone di sciatteria sfiora il suo lessico: il periodare e la scelta dei termini risultano impeccabili dalla prima all’ultima delle 240 pagine del testo. Un libro, insomma, che vien subito voglia di rileggere appena lo si è letto. E che, offrendo innumerevoli spunti di riflessione, invita al commento. È quello che mi appresto a fare su queste pagine, cominciando col segnalare quella che a me pare l’unica manchevolezza di un libro peraltro di gran pregio: parlo del modo un po’ troppo sbrigativo di trattare un argomento come quello del Dove comincia la storia della tecnocrazia?, che sta a titolo del primo paragrafo (pagg. 77-79) di un capitolo, il terzo, che si ripropone di farci una pur Breve storia della tecnica in politica (pagg. 77-124). Poco più di due paginette per dar conto del dove nasce il nodo tra tecnica e politica? Per giunta limitandosi a prendere in considerazione solo Platone? Quasi certamente sarà un pregiudizio, sono disposto a concederlo, ma io ritengo che, se non la soluzione, almeno la corretta impostazione di un problema non possa fare a meno di andare alla radice dei termini coi quali esso è formulato. Anche se proprio su queste pagine di recente mi è stata pesantemente contestata, resto dell’opinione che il pensiero non possa aver altra forma che quella di linguaggio, sicché mazzardo a dire, augurandomi di non essere impiccato a questa ellissi, che il più potente strumento in mano allo studio delle scienze sociali è la filologia. Probabilmente avrò fatto indigestione di Michel Foucault...]


1. Il dolore di Achille per la morte di Patroclo mette un po’ in ombra, nel XVIII canto dell’Iliade, la comparsa dei primi robot: li ha costruiti Efesto, dio fabbro, ma anche scultore e ingegnere, e sono i venti tripodi messi a guardia della sua fucina (373-377), le due statue animate che gli fanno da ancelle (417-421) e i mantici che entrano in funzione al suo semplice comando vocale (468-469), meraviglie da lasciare a bocca aperta (θαύμα ιδέσθαι). Non stupisca, in tale contesto, l’impiego di un termine come robot che compare per la prima volta solo nel 1920, in una commedia di Karel Čapek, per diventare d’uso comune solo dopo aver avuto la consacrazione grazie a un racconto di Isaac Asimov, nel 1941: quelli costruiti da Efesto rispondono pienamente alla definizione che oggi diamo al termine, perché sono manufatti che svolgono un robota, che in ceco significa lavoro pesante, e perché la loro è rabota, che in antico slavo è servitù. Almeno per le statue animate che gli fanno da ancelle, poi, c’è che questi robot di Efesto hanno pure αυδή, cioè voce, e νόος, cioè intelligenza (419): voce e intelligenza artificiali, che in ossequio alla nouvelle vague dei mix di cultura alta e cultura bassa, potremmo dire in anticipo di una trentina di secoli su quelle dei friends di J. F. Sebastian, il genetic designer della Tyrel Corporation (Blade Runner, 1982).

È proprio ai robot di Efesto che Aristotele fa cenno nel quarto capitolo del primo libro della sua Politica (1253b, 23 – 1254a, 19) per chiudere quello successivo con limpegnativa affermazione che, «per natura, taluni sono liberi e altri schiavi» (1255a, 2): se avessero dei robot come quelli che aveva Efesto – dice – «i capi artigiani non avrebbero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi» (1254a, 1). È evidente, dunque, che il suo «per natura» (φύσει) implichi uno stato di necessità. Come per ogni azione, infatti, sono necessari una ψυχή che dia un ordine e un σώμα che lo esegua, per ogni produzione materiale sono indispensabili comandi e strumenti, e gli strumenti sono necessariamente inanimati (άψυχα), come lo è, ad esempio, un aratro, o animati (έμψυχα), come invece lo è il bue, cui l’aratro è attaccato.

Ma possiamo mettere un bue a lavorare su un telaio? Certamente, no. Qui, in attesa che un Efesto – chessò, un Joseph-Marie Jacquard (1790) – costruisca un telaio automatizzato, avremo bisogno della mano dell’uomo a muovere le spole: necessariamente mano di schiavo (δούλος), perché quale uomo libero (ελεύθερος) si sottoporrebbe volontariamente a un lavoro così duro? Già, ma cos’è l’ελευθερία che fa liberi taluni e schiavi talaltri? Ipse dice che si tratta di una condizione sociale che ricalca quella naturale, giacché forse la natura ci vorrebbe pure tutti liberi, ma non riesce a farlo, e dice proprio così: «ου μέντοι δύναται», dove il μέντοι è particella che rafforza la negazione, come a dire: «proprio non ce la fa», il che rimanda a una natura (il φύσει cui facevamo cenno prima) che si sostanzia in uno stato di necessità di cui non si può far altro che prendere atto, senza peraltro star troppo a brontolare, perché è vero che «la mente domina il corpo con l’autorità del padrone» (1254b, 5), ma «per il corpo è naturale e giovevole essere soggetto alla mente» (1254b, 7-8), come «per gli animali è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza» (1254b, 11-12), al pari di ciò che accade «nelle relazioni tra maschio e femmina, giacché per natura l’uno è superiore e l’altra inferiore» (1254b, 13-14). Ugualmente giusto, perché ugualmente necessario, che questo valga anche per lo schiavo: anche a lui giova essere soggetto a un padrone, perché «la parte e il tutto, come il corpo e la mente, hanno gli stessi interessi, e lo schiavo è una parte del padrone, è come se fosse una parte viva ma separata, ed è perciò che esiste un interesse, un’amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che abbiano meritato di essere tali per natura» (1255b, 10-15).

A più di due dozzine di secoli di distanza è facile muovere obiezioni a questo modo di ragionare, ma, nell’immaginare, come si è detto, una condizione sociale che non possa far altro che riprodurre quella naturale, l’elemento imprescindibile e determinante è quello di natura: possiamo rimproverare ad Aristotele il non riuscire a cogliere che la natura non esiste se non come prodotto storico, e dunque culturale, economico, psicologico? Solo a non voler cogliere che anche Aristotele è un prodotto storico. D’altronde non è detto che a noi, oggi, faccia orrore qualsivoglia argomento in favore della schiavitù proprio in quanto prodotti di una storia che ha ritenuto possibile superarla o, come sostengono taluni, mimetizzarla in una meno appariscente forma di sfruttamento: possiamo esser certi che, domani, il processo storico non porti i nostri figli, i nostri nipoti o i nostri pronipoti a trovare insopportabilmente ipocrita che essa persista, ancorché mimetizzata, ma non già per mettere fine a ogni forma di sfruttamento, ma all’ipocrisia, riuscendo a trovare buoni argomenti per tornare a considerare naturale, e dunque socialmente accettabile, la schiavitù? Possiamo escluderlo solo in forza della fede in una storia che è storia di progresso e di emancipazione: solo questo genere di fede ci consente di archiviare gli argomenti di Aristotele come definitivamente inservibili. Poi, certo, ogni fede è almeno un po’ miope, se non cieca.

Quella che, ad esempio, vuole la storia sempre uguale a se stessa dovrà allo stesso modo andarci piano col ritenere che ad Aristotele non possano essere mosse obiezioni, perché con la robotizzazione della produzione sarebbe dovuto venir meno lo stato di necessità che giustificava la schiavitù: la macchina ci avrebbe reso tutti ελεύθεροι. Non è accaduto. Anzi, a lamentare che essa abbia reso un po’ δούλοι anche gli ελεύθεροι abbiamo visto in prima fila proprio i filosofi, quasi tutti, fatta eccezione per i positivisti, che in fondo stanno alla filosofia come Alessandro sta al nodo di Gordio. E allora a cosa può servire, oggi, tornare agli argomenti di Aristotele in favore della schiavitù?

La domanda può essere impostata anche diversamente, prendendo a spunto proprio quello che Castellani scrive chiedendosi Dove comincia la storia della tecnocrazia? «Diversi studiosi – scrive – tendono a partire da molto lontano considerando alcuni pensatori politici classici come veri e propri precursori della mentalità tecnocratica. Su tutti spicca l’opera filosofica di Platone, nella cui sofocrazia si rintraccerebbero vedute espressamente tecnocratiche. Tuttavia, questa sofocrazia platonica implica un ruolo politico del sapiente, che però non è il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico». Se davvero fosse così, questo «partire da molto lontano» sarebbe davvero inutile, ma è davvero così? Non proprio. Infatti, a leggere la seconda parte del suo Politico (287 B – 311 C), scopriamo che la σοφία che avanza la pretesa di informare la gestione della cosa pubblica è anch’essa una τέχνη: è quella tecnica di misurazione indispensabile a determinare quel giusto mezzo che è ultimo fine – insieme – morale e politico, ed è una tecnica – mi si lasci passare il bisticcio – che è tecnica fin dal termine che la designa (μετρητική). Se compariamo questa pagina a quella di un altro dialogo, Ione, vediamo che questa τέχνη ha specificità proprie, certo, ma al pari di ogni altra τέχνη, sicché «quando unarte [τέχνη] è conoscenza di determinati oggetti e unaltra è conoscenza di altri oggetti, io do ad una un nome e allaltra un nome diverso» (537 D). Andare alle fondamenta del termine τέχνη ci consente di poter affermare che anche la sofocrazia è una tecnocrazia. Ma – abbiamo visto – Castellani afferma che «questa sofocrazia platonica implica un ruolo politico del sapiente, che però non è il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico». Solo in apparenza, obietterei. Quello che fa la differenza è solo il tipo di competenza chiamata a rispondere dei bisogni dell’individuo e della collettività: se la scienza sottrae campo alla filosofia, la competenza filosofica perderà potere rispetto a quella scientifica; il filosofo è costretto a ritirare la sua pretesa sofocratica a fronte dell’avanzare della pretesa tecnocratica dello scienziato. Anche qui, d’altronde, con ciò che è «competente», andare alla radice del significante può darci il più compiuto significato. Già l’ho scritto due o tre mesi fa, qui mi è necessario ripetermi.

Di chi eccelle nei vari campi delle scienze naturali e di quelle umane (sospendendo, qui, la questione se queste ultime siano davvero scienze) si potrebbe dire che ha bravura, capacità, perizia, professionalità, ma da qualche tempo si preferisce dire che ha competenza, e la cosa non è tutta italiana, perché anche nella lingua oggi più parlata al mondo si preferisce dire che è competent piuttosto che able, capable, capacious, adept, expert, experienced, qualified o conversant. C’è un motivo che spiega questa scelta lessicale? Probabilmente sta nel fatto che competere ha altre tre accezioni oltre a quella che fa della competenza l’abilità che si può trarre da un idoneo bagaglio cognitivo e da una specifica esperienza: competere, infatti, vuol dire anche misurarsi, concorrere, lottare, contendere; in più, ciò che mi compete è anche ciò che mi spetta in termini di riconoscimento della legittimità del ruolo; ciò che mi spetta, però, è anche spettanza, e cioè compenso, onorario, parcella, provvigione. Chi è competente, insomma, non è soltanto un esperto, ma anche uno che deve misurarsi con altri contendenti per arrivare a conquistare una prerogativa relativa a un merito, da cui consegue di diritto un privilegio.

Chiarito questo, dovrebbe essere evidente il contesto in cui si muove il competent rispetto al semplice capable: è quello del mercato delle esperienze professionali dal quale la società è giocoforza tenuta ad attingere allo scopo di risolvere i problemi che le sono posti dalla necessità di dare risposta ai bisogni individuali e collettivi. Ne risulta che non è possibile alcuna considerazione relativa alla competenza dei competenti astraendosi dalle politiche che la società adotta riguardo a questi bisogni. Ovviamente, qui, società è sineddoche: sono i ceti dirigenti di una società che decidono le politiche relative ai bisogni individuali e collettivi, e che dunque dettano le norme che regolano il mercato delle competenze e, in ultima analisi, a decidere chi è competente e chi no.

Non c’è da stupirsi, allora, che a una messa in discussione del ruolo svolto dai ceti dirigenti di una società, che è un dato pressoché costante ogni qual volta la risposta ai bisogni individuali e collettivi non sia adeguata, si accompagni una messa in discussione dei competenti che sono sul loro libro paga. È altrettanto evidente perché non sia solo il loro ruolo ad essere messo in discussione, ma la loro stessa competenza, che per quanto si è fin qui detto, non può essere considerata avulsa dalle logiche che hanno favorito un esperto rispetto a un altro, promuovendo a competente l’uno, e l’altro no.

È una imperdonabile ingenuità, infatti, quando non è sfacciata malafede, sostenere che il sapere possa essere politicamente neutro. Ne abbiamo già parlato su queste pagine qualche anno fa, in occasione della ristampa de Il tradimento dei chierici di Julien Benda (Einaudi, 2012). In questo libro, uno dei tanti che sono più citati che letti, si denuncia la recente compromissione dell’intellettuale col potere politico (il testo è del 1927 e Benda scrive che la cosa ha preso piede «da cinquantanni a questa parte»), che sarebbe da considerare come una vera e propria trahison, perché, quando è comme il faut, l’intellettuale «non persegue fini pratici, ma, cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”». L’intellettuale comme il faut, qui, non è competente: sta fuori da ogni competizione indetta dal regno di questo mondo, ciò che gli spetta è la sola soddisfazione personale. Assumendo che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente, filosofo, scienziato e artista hanno funzione ieratica, attendono al sacro ufficio del pontifex che letteralmente costruisce il ponte tra trascendenza e immanenza.

In realtà, sappiamo, il sapere nasce già compromesso col potere, e questo vale per tutte le accezioni dei due termini. In quale epoca della storia umana il sapere non si è fatto strumento del potere? E come potrebbe essere altrimenti, visto che l’intellettuale, al pari di ogni altro individuo, è sempre un prodotto sociale perfino quando assume connotati antisociali? Pare evidente, allora, che stupirsi – e, ancor più, indignarsi – perché le competenze dei competenti sono messe in discussione nei momenti di crisi riveli una fede nella trascendenza di buono, vero e bello, nel filone che da Platone arriva a Hegel, e purtroppo non s’arresta lì: solo immaginando che filosofo, scienziato e artista ne siano i sacerdoti diventa scandaloso che essi siano messi in discussione, e con essi le loro competenze. Noi sappiamo, invece, che buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo, né in lui connaturati come universali ed eterni: sono sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali alla difesa di un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui. Questo ci consente di non considerare scandaloso che la competenza sia messa in discussione: quando accade, non sentiamo venir meno il reverenziale rispetto che si deve a un dio, ma la capacità di controllo sulla società da parte dei suoi ceti dirigenti.


[segue]


venerdì 25 dicembre 2020

Non si può mai dire

 

Male, inizia molto male questa biografia di Joseph Ratzinger (Peter Seewald – Benedetto XVI. Una vita – Garzanti, 2020), e questo onestamente scoraggia dallaffrontare un mattone di ben 1.275 pagine. Se ne scorrono appena due dozzine, infatti, e si legge: «Sul primo appuntamento dei genitori del papa non si sa nulla» (pag. 24). Su come si siano conosciuti, invece, sappiamo tutto.

Sul numero del 7 marzo 1920 dellAltöttinger Liebfrauen Messenger, una rivista per cuori solitari, è pubblicato il seguente annuncio: «Funzionario statale di medio rango, celibe, cattolico, di 43 anni, dal passato immacolato, di campagna, cerca una brava ragazza cattolica, illibata, che sappia cucinare bene, che sappia fare tutti i lavori domestici, che sia anche in grado di cucire e che sia una buona casalinga, per sposarsi al più presto possibile. Auspicabile una buona dote, ma non è indispensabile. Proposte, possibilmente con foto, al box n° 734». Lannuncio non va a buon fine, ma il futuro papà del papa non si dà per vinto e lo reitera: sarà ripubblicato sul numero dell11 luglio dello stesso anno sulla stessa rivista, e stavolta ottiene il risultato sperato, perché risponde la 36enne Maria Peintner. I due si danno appuntamento in una caffetteria di Ratisbona, di lì a qualche giorno si fidanzano e il 9 novembre si sposano.

Tutto questo è ampiamente noto, e almeno dal 2006, quando, ormai già pontefice, Joseph Ratzinger torna a Ratisbona per tenervi la sua famigerata lectio magistralis. Qui, Peter Becker, ex direttore dellAltöttinger Liebfrauen Messenger, fa dono di una copia dellannuncio di cui sè detto al papa. Il quale se ne dice «getroffen», che, a piacere, può essere tradotto con «colpito», e cioè «scosso», oppure con «toccato», e cioè «commosso». Difficile dire come debba intendersi, qui, questo «getroffen», sta di fatto che Ratzinger – così narrano le cronache – commenta prendendo a prestito una frase del teologo Albert Schweitzer: «La coincidenza è lo pseudonimo che Dio sceglie quando vuole rimanere in incognito». Ancor più difficile, qui, dire come possa definirsi «coincidenza» la decisione di dare forma di sacramento alla reciproca convenienza di una zitella in cerca di una sistemazione e di un attempato sbirro in cerca di una domestica a gratis. Limpressione è che la citazione di Schweitzer sia servita solo a schermire un imbarazzo.

Che biografia può mai essere quella che mostra fin dallinizio – addirittura prima dellinizio – una così palese falla? Sul risvolto di copertina leggiamo: «Peter Seewald ha accompagnato Joseph Ratzinger per oltre venticinque anni: come giornalista, scrittore, confidente ha stabilito una relazione speciale con il papa emerito». Di quanto qui si è detto il giornalista non sapeva niente? Impossibile. E che tipo di confidente è quello che è tenuto alloscuro di ciò che ha «getroffen» chi a lui affida le sue confidenze? È evidente, mi pare, che tutto rimandi alla natura della «relazione speciale» tra Seewald e Ratzinger: pessima garanzia di onesta biografia.

Ma sotto lalbero, fortunatamente, Babbo Natale mi ha fatto trovare altri sei volumi: mettiamo per un attimo da parte Seewald, quindi, e prendiamo, chessò, questo Lorenzo Castellani de Lingranaggio del potere (Liberilibri, 2020). Oddio, se ne dice un gran bene e questo non depone troppo a suo favore. Lautore, poi, è nato nel 1989, è un giovanotto, e a me, con letà, la gioventù è diventata ancora più insopportabile di quanto mi fosse da giovane. Ma sgombriamo il campo dai pregiudizi, leggiamo, non si può mai dire.

giovedì 24 dicembre 2020

Lettera aperta

 

[Difficilmente su queste pagine parlo da medico, ma oggi vorrei fare uneccezione per dire quanto segue al dottor Luca Lorini, primario di non so cosa in quel di Bergamo, in forma di lettera aperta.]


Gentile collega, nel corso di una puntata di Che tempo che fa (Raitre) lho sentita affermare testualmente: «Non vuoi vaccinarti? Ok. Ma se ho un posto libero in reparto, lo do a chi crede nel vaccino». Ora, sorvolando sul fatto che i posti in reparto non sono di sua proprietà, e che dunque lei non può disporne a suo piacimento, non le sembra di merda la logica che informa la sua affermazione? In un reparto di oncologia polmonare dovrebbero essere ricoverati solo i non fumatori? Se al momento dellincidente il motociclista non indossava i casco e lautomobilista non aveva la cintura allacciata, dovremmo negar loro un posto in terapia intensiva? Dovremmo dare assistenza solo ai diabetici che non sgarrano con la dieta? Provi a darmi una valutazione deontologica del diabetologo che al paziente con un piede in gangrena dica: «Eh, sì, andrebbe amputato, ma non se ne fa nulla: sappiamo che lei mangia cioccolatini». Bene, io non so chi labbia messa a dirigere il reparto di cui è primario, ma la prego di inoltrargli metà del disprezzo che qui riservo a lei, patetico e ridicolo ancorché efferato moralistucolo dei miei stivali.


venerdì 18 dicembre 2020

Dinanzi alla morte

 

Nel 2019, in Italia, ci sono stati poco più di 647.000 decessi, che fa una media di circa 1.770 morti al giorno: morti appena nati e morti di vecchiaia, suicidi e morti ammazzati, morti per cancro, infarto, ictus e altre patologie, fra le quali quelle infettive, non di rado contratte in ospedale (non ho i dati relativi al 2019, ma nel 2016 i morti per malattie infettive contratte nel corso di un ricovero ospedaliero sono stati più di 45.000), e poi morti nel sonno o schiacciati sotto una pressa, caduti da unimpalcatura o fatti secchi da un’overdose, travolti da un tir o in seguito ad incidenti occorsi in rischiose pratiche sessuali.

L’anno che sta per chiudersi ha avuto un andamento un po’ diverso, perché al consueto numero di cause di morte s’è aggiunta quella della polmonite interstiziale da Sars-Cov-2, che, a detta di chi coi numeri ci sa fare, al prossimo 31 dicembre dovrebbe/potrebbe portare i decessi da/con Covid-19 a poco più di 70.000. Per quest’anno, insomma, c’è da attendersi che il totale dei decessi in Italia possa superare di poco i 710.000, sicché la media di morti al giorno salirebbe da 1.770 a 1.940, o giù di lì: rispetto all’anno scorso, ben 170 morti al giorno morti in più. Superfluo dire che la cosa non può lasciare impassibili.

Certo, la morte è morte, sempre, e con la morte di chiunque, anche se ci è sconosciuto, muore sempre anche qualcosa di noi, dico bene? Vero è che forse di noi muore qualcosina in più se il morto ci è parente o amico, se a morire è un bambino, se più in generale la morte prende ingiustamente un giusto o colpevolmente un innocente, se il modo in cui si muore è atroce, se il cadavere è eccellente, se siamo presenti al momento in cui il morituro muore, se a morirne sono 1.940 che non 1.770, ma credo che non sia il caso di star qui a sottilizzare: ci addolora un pochino anche la morte di uno sconosciuto ultracentenario spentosi serenamente nel sonno agli antipodi di dove noi viviamo, dico bene? Vi prego, non mi deludete, dite di sì, sennò non posso andare avanti: dico bene? Ok, procediamo.

Brutta cosa, la morte. Sempre. E tuttavia, concorderete, se non ci ferisce negli affetti personali o non ci è messa sotto gli occhi, essa si limita a far da sottofondo al nostro vivere: sappiamo che prima o poi toccherà anche a noi, è ovvio, sappiamo che, prima di toccarci, ci sfiorerà prendendo il nonno, il babbo, lo zio, l’amico, il conoscente, il calciatore che ci ha estasiato coi suoi dribbling, lo scrittore che ci ha fatto battere il cuore, il fruttivendolo sotto casa, ma dal sottofondo emerge rendendosi visibile, e dunque perturbante, dandoci ansia, angoscia o anche soltanto la sensazione di finitudine che ci dà un attimo di smarrimento, di irrequietezza e di impotente resistenza all’ineludibile, in proporzione alle sue dimensioni, in ragione della sua presenza, nella misura della rappresentazione che ci è offerta.

Certo, abbiamo pietas da vendere e anche una fogliolina che dal verde vira al giallo sul ramo del bonsai ci fa star male, perfino la zanzara spiaccicata sul muro ci dice che tutto ciò che organico è destinato a diventare inorganico, e questo evoca il destino che accomuna tutti i viventi, ma un po di più ci scuote dentro vedere sull’asfalto lo sconcio che uno pneumatico ha fatto d’un topo, e un po’ di più se a finirci sotto sono stati un gatto o un cane, un po’ di più se ridotti a poltiglia. Quanti ne muoiono ogni giorno nel tentativo di attraversare la carreggiata, lo sappiamo, ma vederne i cadaverini riversi ai suoi bordi ci stringe il cuore e, se maciullati, ce lo strazia. Stessa cosa a sapere che è morto quel tizio, altra però è dal saperlo chiuso in quella bara, e altra ancora è vederlo lì dentro quando ancora è scoperchiata.

Brutta cosa, la morte, sempre, chiunque muoia, ma dico una bestialità se affermo che ci appare più o meno brutta in relazione a certe variabili? Cosa ferisce di più la nostra sensibilità, il fiore che appassisce nel vaso o la mosca che agonizza sulla carta moschicida? L’agonia del topo che ha ingerito l’esca al bromadiolone o quella del cavallo che s’è schiantato nella Curva di San Martino al Palio di Siena? La morte del ragazzino leucemico o quella del novantenne enfisematoso? Ma se il novantenne enfisematoso è il nonno che da bambini ci leggeva la fiaba di Pollicino e il ragazzino leucemico è un impercettibile e anonimo puntino sulla curva repentinamente decrescente che ci illustra gli strabilianti successi delle odierne terapie antileucemiche? Mi pare evidente che le variabili siano assai complesse.

Direi tutto dipenda da quanta e quale morte ci è messa dinanzi, e in che modo, e a quale distanza, dove quest’ultimo parametro non è riducibile a un mero dato spaziale o temporale. Perché i 2.977 morti nel crollo delle Twin Towers del 2001 feriscono indubbiamente la nostra sensibilità più dei 39 che morirono allo stadio Heysel di Bruxelles nel 1985, ma quanto rispetto agli oltre 800.000 tutsi massacrati in Ruanda nel 1994? È evidente, perciò, che le variabili cui facevo cenno prima siano tutte estremamente elastiche: la morte di un orango ci ferisce assai più di quella di un gatto, non però se il gatto è George, il nostro gatto; il video della migrante che si dispera perché il suo bambino di sei mesi è affogato a largo di Lampedusa ci schianta, ma la foto del bambino di tre anni riverso a faccia in giù sul bagnasciuga di una costa turca ci distrugge; i sei milioni di morti della Shoah ci sembrano il male assoluto, ma sugli otto milioni dell’Holomodor sappiamo relativizzare come dovuto ; sentirci dire, in piena epidemia, che «questo martedì ne sono morti 985» è una mazzata, ma apprendere da un report dell’Istat che il tal giovedì del 2013 ne son morti 1.015, o il tal lunedì del 2010 ne son morti 1.089, fa male, certo, ma – come dire – si nasce, si vive, si muore, e in fondo tocca a tutti, a chi prima e a chi dopo, pazienza!

Dio mio, cosa mi è scappato di bocca? Ho detto proprio «pazienza!»? Chiedo scusa, non so come sia potuto accadere. E mi auguro che non vogliate accostare il mio «pazienza!» a quello che si è lasciato scappare Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, a commento dei 170 morti al giorno in più che avremo questanno rispetto allanno scorso, daltronde la differenza è lampante: a me il «pazienza!» è scappato dinanzi a morti stagionati, morti misti, morti alla spicciolata, morti in silenzio, a riflettori spenti; lui no, lui è una carogna, perché lha detto dinanzi a salme ancora calde, senza rendere lomaggio che il vivente deve al morente, che poi, tenuto conto dellestrema elasticità delle variabili che regolano il nostro altissimo sentire, è lo stesso genere di omaggio che il vizio deve alla virtù.

martedì 1 dicembre 2020

Walter Veltroni – Buonvino e il caso del bambino scomparso – Marsilio, 2020

 

«Dopo aver sbrigato la faccenda dei corpi straziati...». Le vittime erano state depezzate: «straziati», che sta per «lacerati», «martoriati», «torturati», è l’aggettivo più adeguato per corpi che non hanno subìto niente del genere? Se si rinuncia a dire «indagine», optando per «faccenda», soprattutto mettendoci d’accanto uno «sbrigare» che fa tanto hard boiled, guastava tanto un «fatti a pezzi»? Vabbè, vediamo come va avanti.

«Dopo aver sbrigato la faccenda dei corpi straziati – nulla di straordinario, in fondo lo pagavano per questo –, il commissario Buonvino era tornato alla sua routine. Aveva una medaglia sul petto, di questo era consapevole. Il caso che era riuscito a sbrogliare aveva un elevato grado di complessità, e l’impatto sull’opinione pubblica – si trattava pur sempre di un’efferata storia di sangue – era stato davvero devastante. Con la cattura dei colpevoli, Buonvino aveva fatto strike, togliendo tutti dai guai. E per questo, come sempre accade a chi vince, era improvvisamente circondato da una rispettosa deferenza. Ma i guai, la vita gliel’aveva insegnato, sono come le caramelle…»

Basta, pietà, basta! «Nulla di straordinario» e neanche tre righe dopo «un elevato grado di complessità» che sembra tirato via da un pezzo di Napolitano su un numero di Rinascita dei primi anni Ottanta; il «caso» che viene «sbrogliato»; la «storia di sangue» che è – e come vuoi che sia? – «efferata»; l’«opinione pubblica» – partiva per essere un Francesco Ingravallo e in niente mi diventa una Kay Scarpetta – che ne risulta «impattata»; «aveva fatto strike», ripeto: «aveva fatto strike»; e come vuoi che sia la «deferenza»? Per un pleonasmo direi che «rispettosa» sia il minimo. Poi ecco il magistrale colpo di reni per non cadere dallo  sciatto all’ovvio: per il proverbiale «una tira laltra», via le ciliegie, passate a Walter delle «caramelle».

Non sono riuscito ad andar oltre la prima pagina dell’ultimo giallo di Veltroni (Buonvino e il caso del bambino scomparso – Marsilio, 2020), e dunque qui vanno deluse le aspettative del simpatico stronzone («Spero che Malvino recensisca Buonvino»che via email me ne ha inviato copia in formato ePub.

mercoledì 25 novembre 2020

Sulla popperiana Fälschungsmöglichkeit

 


Già due o tre volte, su queste pagine, ho scritto che, a mio modesto avviso, il termine «falsificabilità» può generare gravi fraintendimenti in luogo della «Fälschungsmöglichkeit» che Karl Popper formula come criterio per separare l’ambito delle teorie assoggettabili al metodo scientifico da quello delle teorie che non lo sono, e tuttavia non ho mai compiutamente argomentato sul perché. È quanto mi riprometto con questa pagina, che giocoforza mi rimanda a Logik der Forschung, l’opera di Popper in cui la «Fälschungsmöglichkeit» fa capolino per la prima volta fin dalle prime pagine (I, 4), e proprio come elemento per stabilire una demarcazione (Abgrenzungs) tra i due ambiti.

In quale campo si muovono le teorie non assoggettabili al metodo scientifico, se quelle che invece lo sono si muovono in quello «empirico»? Popper lo chiama «metafisico». Senza sapere perché ricorre a questo termine, la cosa avrà senzalcun dubbio il sapore di una semplificazione un po’ troppo grossolana: forse che le teorie formulate nell’ambito della cosiddetta soft science, che include scienze umane, come la psicologia, e quelle sociali, come l’economia, prescindono da qualsiasi dato empirico? No, di certo. Pretendono, per caso, lo statuto di scienza della «natura ultima e assoluta della realtà» (Treccani), che è quello della metafisica propriamente detta? Men che meno. E come possiamo, allora, considerare «metafisiche» le teorie di Freud o quelle di Marx? Come possiamo considerare «metafisiche» le costruzioni di Wittgenstein, Weber, Schmitt, Kelsen e Saussure? La loro, certo, non sarà una hard science, come invece lo sono la chimica o la fisica, ma questo ci consente di definire «metafisico» il campo in cui si muovono le loro teorie? In modo propriamente detto, no. Daltronde pare che anche Popper senta inadeguato il termine, perché in due o tre punti lo mette tra virgolette. E allora perché vi ricorre?

Perché vi è costretto dalla polemica che lo oppone ai positivisti. Questi ritengono che sia il metodo induttivo a caratterizzare le scienze empiriche, ma Popper non è d’accordo, perché, «per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi» (I, 1). Più in dettaglio: «Di solito i positivisti interpretano il problema della demarcazione […] come se si trattasse di un problema di scienza naturale. […] Essi credono di aver scoperto, tra scienza empirica da un lato e metafisica dall’altro, una differenza che esiste, per così dire, nella natura delle cose. Tentano costantemente di provare che per sua stessa natura la metafisica non è altro che una chiacchiera insensata […] Se con le parole “insensato” o “insignificante” non vogliamo esprimere nientaltro [...] che “non appartenente alla scienza empirica”, allora la caratterizzazione della metafisica come non-senso insignificante è assolutamente ovvia […] Ma [...] i positivisti credono di poter dire, intorno alla metafisica, molto di più che non che alcune delle sue asserzioni sono non-empiriche. […] Ciò che i positivisti vogliono veramente non è tanto una efficace demarcazione quanto piuttosto lo scalzamento e l’annichilimento definitivi della metafisica […] [E tuttavia] ogni qual volta i positivisti hanno tentato di dire con maggior chiarezza che cosa significhi “significante”, il loro tentativo ha condotto allo stesso risultato [e cioè] a una definizione di “enunciato significante” (distinto da “pseudo-enunciato insignificante”) che reiterava il criterio di demarcazione della loro logica induttiva. […] Ciò mostra come il criterio induttivistico di demarcazione non riesca a tracciare una linea di divisione tra sistemi scientifici e sistemi metafisici. […] Invece di sradicare la metafisica dalla scienza empirica, il positivismo conduce allirruzione della metafisica nel dominio della scienza» (I, 4). E poco oltre: «Il problema di demarcazione inerente alla logica induttiva, e cioè il dogma positivistico del significato [da segnalare il fatto che lo definisca «dogma»], è equivalente alla richiesta che tutte le asserzioni della scienza empirica (ovvero tutte le asserzioni “significanti”) debbano essere [...] passibili di una decisione conclusiva riguardo la loro verità e falsità» (I, 6). Ma come può essere conclusiva lasserzione che «tutti i cigni sono bianchi», cui mi ha condotto la logica induttiva, quando anche un solo cigno nero la smentisce? E cosa mi rivelerà che un sistema empirico di osservazione dei cigni è veramente scientifico o no? «Per essere scientifico, un sistema empirico deve poter essere confutato dallesperienza» (I, 6); e qui è da segnalare che, dove il corsivo intende dare rilevanza al testo, Popper non scrive «falsificato» (gefälscht), ma «confutato» (widerlegt).

Ma il reale senso da dare alla popperiana «Fälschungsmöglichkeit» appare ancor più evidente nel punto in cui si fa distinzione tra «falsificabilità e falsificazione» (il virgolettato dà titolo al paragrafo che tratta la questione – IV, 22), dove leggiamo: «Dobbiamo fare una netta distinzione tra falsificabilità e falsificazione. Abbiamo introdotto la falsificabilità soltanto come criterio per stabilire il carattere empirico di un sistema di asserzioni». Ciò che tuttavia rende solare, di là da ogni dubbio, che la teoria «falsificabile» non debba intensa come teoria «che si può falsificare», ma come teoria «passibile di essere confutata», è il passaggio della Prefazione all’edizione italiana (Penn, Buckinghamshire, marzo 1970) in cui Popper scrive: «Non c’è induzione: il nostro ragionamento non procede mai da fatti a teorie, se non per confutazioni o “falsificazioni”», dove «o» sta per «ovvero», «ossia», e dove il termine che si avverte possa essere frainteso è messo tra virgolette. Poche righe più in basso, daltra parte, il termine riappare, e stavolta è in corsivo e contrapposto a «verificazione», che di certo non sta per «inverare», ma per «confermare», «comprovare», «riscontrare»: è consentito inferire che, come la «verificazione» presume di comprovare la verità di una teoria, non già di renderla vera, così la «falsificazione» di una teoria non sta nelladulterarla, ma nel dimostrare che è confutabile. Per inciso, occorre rilevare che la tesi illustrata da Logik der Forschung è già in nuce nella famosa lettera di Albert Einstein a Max Born di otto anni prima (4 dicembre 1926), in cui si legge: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione, ma un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato».

Per chiudere questa premessa, che ritengo indispensabile per avvicinarsi al reale senso di un termine chiarendo il contesto in cui compare per la prima volta a designare un concetto fin lì inedito, ritengo utile segnalare che la «Fälschungsmöglichkeit» che troviamo in Logik der Forschung (1934) diventa la «falsification» che troviamo in The Logic of Scientific Discovery (1959) solo a un quarto di secolo di distanza. Nella Nota dellautore alla traduzione inglese leggiamo: «La traduzione fu preparata dallautore con laiuto di Julius e Lan Freed»; e i nomi dei due fratelli co-traduttori ritornano nei Ringraziamenti in coda a Realism and the Aim of Science from the Postscript to the Logic of Scientific Discovery, che è del 1956, dove si esprime loro gratitudine per aver «dato moltissimi suggerimenti per migliorare lo stile», mentre una nota dell’editore, tra parentesi, avverte: «Sono morti entrambi molti anni prima della sua pubblicazione». Molti anni prima del 1956, dunque.

Ora Popper arriva nel Regno Unito nel 1946 dalla Nuova Zelanda, dove ha riparato nel 1937 in seguito all’avvento del nazismo; nel Regno Unito ha però già stazionato per qualche tempo, tra il 1935 e il 1936, per un ciclo di conferenze. Si può ragionevomente desumere che la traduzione in inglese di Logik der Forschung debba essere iniziata non più tardi del suo definitivo trasferirsi nel Regno Unito, e che i fratelli Freed abbiano potuto assisterlo per due, tre, al massimo quattro anni. Sta di fatto che nella sua «autobiografia intellettuale», in The Library of Living Philosophers (1974), parlando della stesura di The Poverty of Historicism, che esce nel 1957, scrive: «Il mio primo guaio era soprattutto di doverlo scrivere in un inglese accettabile», segno che almeno per linglese scritto per lui rimanevano serie difficoltà a oltre ventanni dallessersi definitivamente stabilito a Londra. «Prima di allora – prosegue – avevo già scritto qualche cosa, ma dal punto linguistico era scritto veramente male». Ma «prima di allora» aveva tradotto dal tedesco allinglese la sua Logica della scoperta scientifica, e con laiuto dei Freed: «scritta male» anche quella? E per quale difficoltà intrinseca legata alla diversa natura delle due lingue? Il problema, per esempio, era più sintattico o lessicale? Soprattutto lessicale, a quanto pare: «Nessun lettore tedesco, per esempio, bada ai polisillabi. In inglese, invece, si deve imparare ad averne repulsione». Un polisillabo come «Fälschungsmöglichkeit» può aver dato qualche problema di resa in inglese? Sarebbe stato possibile renderlo con una perifrasi, certo, ma doveva esprimere un concetto cardine della tesi popperiana: era necessario fosse reso da una sola parola. La «possibilità» che in tedesco è espressa da «-möglich» riesce ad essere adeguatamente espressa in inglese da «-able»? E allora, via, «Fälschungsmöglichkeit» diventa «falsifiability». Ma, una volta che avrò dimostrato «falsch» una teoria, sarò stato io ad averla «gefälscht»? Certo che no. Potrò dunque dire che lho «falsified» se non ho fatto altro che dimostrarla «false»? Altrettanto certamente, no. Qual è il senso che allora devo dare allaffermazione che, per esser veramente tale, una teoria scientifica deve (poter) essere «falsificabile»? Non cè dubbio: deve (poter) essere inficiabile, confutabile, smentibile. Ma quanto è inficiata, confutata, smentita, dirla «falsificata» non implica che qualcuno l’abbia adulterata ab initio? Quando, poi, un brav’uomo come Mario Trinchero, incaricato dalla Einaudi di tradurre in italiano The Logic of Scientific Discovery, prova ad essere quanto più fedele possibile a un testo inglese tradotto con qualche affanno dal tedesco, cosa volete che ne possa venir fuori? 


*       *       *


Difficile stringere tutto questo nei 280 caratteri di un tweet, ma ci ho provato, e a commento della segnalazione che Antonio Polito ha fatto del suo articolo sul Corriere della Sera di martedì 24 novembre (Serve la fiducia per costruire una comunità: anche sui vaccini), nel quale scriveva che «nel campo della scienza, ce l’ha insegnato Popper, non si può mai dire una volta e per sempre che un’affermazione sia vera, ma si può sottoporla a così tanti e severi tentativi di falsificazione da poterlo ragionevolmente presumere», ho twittato: «So che lo fanno tutti – la mia è una battaglia persa in partenza – ma tradurre la popperiana “Fälschungsmöglichkeit” con “falsificabilità” ingenera notevoli fraintendimenti: si tratta di “inficiabilità”, i dati scientifici sono inficiabili (quando falsificati, è truffa)». In prima battuta, mi ha risposto: «Hai ragione», ma poi la discussione è proseguita in privato. Qui mi ha fatto presente che «dimostrare falsa una teoria è qualcosa in più che inficiarla», al che ho risposto che «inficiarla significa dimostrare che non è valida» (sul piano della fondatezza fa qualche differenza tra «falso» e «invalido»?) e che «dire che una teoria è “falsificabile” implica che può nascere intenzionalmente falsa ab initio, mentre dire che è “inficiabile” implica che a posteriori se ne può dimostrare la non validità». Allora mi è stato proposto un compromesso: «“Fallibilità”: più di “inficiabilità”, meno di “falsificabilità”». Potevo rifiutare lofferta di un gentiluomo?