giovedì 14 luglio 2011

A freddo



Non faccio alcuna fatica ad ammettere che a caldo mi sono fatto prendere la mano dalla rabbia. Come accade ogni volta che vedo scippare un diritto, anche stavolta, con la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento approvata ieri alla Camera, d’istinto ho distolto l’attenzione dalle merde umane che l’hanno votata e l’ho rivolta a chi la subirà, naturalmente lamentandone quanto di assurdo e atroce ricadrà sulla sua pelle e su quella dei suoi cari, ma solo quando e se dovesse capitargli.
Chi ha voluto una legge che sul piano dei principi sancisce l’indisponibilità della propria vita e sul piano del diritto l’obbligo di subire un trattamento medico eventualmente indesiderato come l’alimentazione artificiale forzata – le merde umane che pensano di poter decidere sulla vita e sulla morte altrui, facendosi interpreti di un bene assoluto che sta sempre oltre e spesso contro il bene di ciascuno – hanno colpe solo relative: mosse da convinzioni o da interessi che a priori pongono al di sopra di ogni elementare rispetto dell’individuo e della sua sovranità, anche stavolta hanno agito in modo coerente, con l’ottusa determinazione di chi pensa di guadagnare merito dinanzi al proprio dio, lucrandone qualche personale vantaggio in cielo e nel frattempo in terra. Questi squallidi burattini dello Stato etico sono colpevoli di un crimine, ma chi lo subisce nell’indifferenza ne è complice: tanto più colpevole quanto più ignaro d’essere vittima potenziale.
E allora, schiumando bile, mi sono lasciato andare: ho scritto che, “potendo e volendo, si possono scippare diritti a chi non è capace di conquistarseli e difenderli, visto che non li merita”. Una bestialità, convengo, e ringrazio chi ha voluto essere indulgente nei confronti di uno sfogo, promettendogli di non vacillare più nell’ottimismo della ragione, nella speranza che la plebe possa emanciparsi e in tutte quelle altre sante illusioni che ci aiutano a credere possibile un mondo un poco più decente.
Porgo le mie scuse e a freddo, oggi, guardo questa legge, che “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge”. Presume di poterlo fare, vietando “ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica e quella di assistenza alle persone esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza”. Con ciò è fatto primario richiamo alla “dignità della persona”, che in pratica è negata col dichiarare che la sua vita le è indisponibile. Si arriva, come è noto, a stabilire l’obbligo dell’alimentazione artificiale forzata per soggetti che non sono in condizioni di poterla rifiutare, ma alla quale nessuno potrebbe obbligarli se in condizioni di opporre un rifiuto. Con ciò si intenderebbe riconoscere la “dignità della persona” che non voglia farsi infilare un sondino nello stomaco, e che può rifiutarlo fino a quando può farlo, ma negandole questa dignità e imponendogli il sondino quando non ne ha più la possibilità.
Sono almeno quattro gli articoli della Costituzione che rendono questa legge inammissibile. Quando poi si affida al medico la decisione ultima di eseguire o meno le volontà espresse da un soggetto che non sia più grado di verificarne il rispetto, si arriva al paradosso che le sue disposizioni possono essere disattese, anche in senso opposto, prevalendo il diritto del medico a non ritenerle condivisibili. Qui la legge si presenta davanti alla Corte Costituzionale e fa eutanasia di se stessa.
La speranza che la plebe possa emanciparsi può ritenersi superflua: basterà lo tsunami di ricorsi che senza dubbio si abbatterà su questa legge, che a questo punto c’è da augurarsi passi al Senato senza che cambi neppure una virgola. Così come è scritta, è perfetta per essere ridotta a pezzetti. Nessuno si azzardi a raccogliere firme per abrogarla in toto o in parte: ha in se stessa la dichiarazione anticipata che vuol essere ammazzata. Sarà accontentata.




mercoledì 13 luglio 2011

[...]


Non era il suo “ultimo giorno di missione”, come riportano quasi tutti i quotidiani di oggi: è che la settimana prossima doveva tornare in Italia per una breve licenza. Lo si sapeva già da ieri pomeriggio e infatti Enrico Mentana l’aveva precisato nell’edizione del tg delle 20,00. E tuttavia stamane il Giornale, Avvenire e il Riformista lo scrivono fin nel titolo: ucciso, morto, caduto “nell’ultimo giorno di missione”. Troppo forte la tentazione di dare alla tragedia un tocco di atroce fatalità.

Ancorché eversivo

Temo che Eugenia Roccella abbia ragione: “Qualora per la legge sul testamento biologico si decidesse di indire un referendum, questo finirà come quello per la legge 40”. Dico “temo”, ma in realtà non me ne frega molto: per me e per i miei cari sono in grado di fottermene altamente della legge 40 e della legge che oggi è stata approvata alla Camera e che quasi certamente sarà approvata anche dal Senato, e oso affermare che da medico sono in grado di violarle entrambe, utilizzando strumenti che mi mettano in condizione di sfuggire ad ogni sanzione. Gli altri? Gli altri sono in gran misura gli astensionisti sui quali conta, e a ragione, Eugenia Roccella: mai interessati ai problemi altrui fino a quando non arrivano ad essere i loro problemi, e meritano commiserazione, ma si arrangino.
Negli ultimi sei anni mi sono trovato di fronte molte coppie con problemi di fertilità risolvibili con gli strumenti vietati dalla legge 40: la gran parte aveva disertato le urne ai referendum del 12 e 13 giugno 2005, a quei tempi non avevano ancora deciso di avere un bambino e probabilmente non immaginavano sarebbe stato un problema. Ho seri dubbi nel credere che oggi sarebbero disposti a porsi il problema del testamento biologico: probabilmente aspettano di trovarsi in stato vegetativo permanente, con un sondino infilato a forza nello stomaco, per farsi sensibili al diritto di autodeterminazione e lì scoprire che glielo avevano tolto nel 2011, mentre erano distratti dalla voglia di avere un figlio. Forse anche la commiserazione è troppo, la ritiro.
Sì, Eugenia Roccella ha ragione: potendo e volendo, si possono scippare diritti a chi non è capace di conquistarseli e difenderli, visto che non li meritano. Chi può farli propri nonostante e contro leggi disumane, col reato o col privilegio (che nel fondo hanno uguale radice), può serenamente darsi ragione di una giustizia privata che, goduta senza dare scandalo, è di fatto legittima, ancorché eversiva. Come arrivo ad affermare questo sproposito? Mostratemi le piazze inferocite per l’approvazione del ddl Calabrò alla Camera e lo ritiro.
La mia compagna è incinta, e per avere questo bambino non c’è stato alcun problema: ci fosse stato, non avremmo avuto bisogno di andare a Barcellona o a Zurigo. Ho raccolto i testamenti biologici dei miei cari e ho dato istruzioni dettagliate riguardo al mio fine vita: tutto sarà compiuto senza grosse difficoltà, nel caso, e sfido ogni medico legale a dimostrare che ci sarà stata eutanasia. Sono di un pignolo, io.
Gli altri? Stufo di pensare agli altri, ci pensa Eugenia Roccella. Chi ne condivide le idee, sappia esserne all’altezza. Chi non le condivide, e ritiene odioso che gli vengano imposte, provi con un referendum. Ma poi sia disposto a darle ragione.




lunedì 11 luglio 2011

Tutti insieme a sgranocchiare i Fonzies


Questo post è la risposta a quanti mi hanno scritto in questi giorni per chiedermi perché non ho aderito alla Notte della rete. Ne avevo già dato spiegazione, per quanto assai stringata, ma adesso posso dilungarmi visto che lo Schema di regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica è noto nel dettaglio, con la conferma del punto che a me pare dirimente. Sarò comunque breve, perché mi pare che le ansie mosse dai promotori dell’iniziativa del 5 luglio possano dissolversi come neve al sole dinanzi all’art. 10 dell’Allegato A della delibera dell’Agcom, dove è posta eccezione al provvedimento di rimozione coatta del materiale coperto da copyright da un blog che possa dimostrare “l’assenza della finalità commerciale e dello scopo di lucro”.
Preferisco non fare nomi, ma quale bavaglio ha da temere il blogger che stamane fa la pubblicità ai Fonzies, rinunciandoci? In altri termini, la sua libertà di espressione è messa in pericolo dalla delibera dell’Agcom o dalla voglia di guadagnare due euro al mese pubblicizzando i noti stuzzichini al formaggio? Si tratta di un ragazzo intelligente e certo non gli sfuggirà quanto sia semplice proteggere il suo blog da censure relative all’uso di materiale sul quale siano posti diritti di proprietà: gli basterebbe rimuovere quella réclame. E allora perché preferisce stare in ansia e trasmetterla anche agli ingenui che non hanno nulla da temere?
Perché l’ansia è un fattore aggregante, e strusciarsi il culo a vicenda in preda a una paura (non importa se reale o meno) è il metodo più efficace per socializzare, creare interdipendenze, costruire consorterie, fidelizzare clientele. Tutti insieme a sgranocchiare i Fonzies.

domenica 10 luglio 2011

I(n)tascabili



Zampone con lenticchie


La dieta estiva del soggetto obeso, diabetico e iperteso dovrebbe essere leggerissima – pesce, verdura, un po’ di riso – ma è evidente che ieri, a pranzo, Giuliano Ferrara ha mangiato zampone con lenticchie e ha esagerato col lambrusco: non si spiega altrimenti ciò che ha scritto subito dopo e che oggi è in prima pagina su il Giornale (Impariamo da Londra: la libertà di stampa non è libertà di spiare).
Come si può fare un parallelo tra intercettazioni fatte da un privato, nel Regno Unito, e quelle disposte dalla magistratura, in Italia? Le prime sono illegali in sommo grado, le seconde sono uno strumento per combattere l’illegalità. Quelle che servivano a rendere appetitoso un tabloid di Rupert Murdoch violavano la privacy di poveri cristi, quelle che leggiamo sui giornali italiani (comprese quelle che pubblica il Giornale) sono agli atti delle indagini di un pubblico ministero, liberamente a disposizione della difesa: quando e se c’è violazione della privacy, nel metodo e nel merito, nella forma e nella sostanza, siamo dinanzi a sfere private del tutto incomparabili.
Sorvegliare gli zuccheri nel sangue, caro Ferrara! Siamo a livelli pericolosi e lei non può permettersi di venirci a mancare: nell’avvilente noia di questa fine impero lei è uno dei nostri passatempi preferiti. Prima di mettersi a picchiettare sulla tastiera, non più di una spigola e un’insalatina. Niente vino, solo acqua.



sabato 9 luglio 2011

Secessioni senza un minimo di fantasia

Nasce il Sud Sudan, ma quello che sarebbe stato naturale immaginare esser diventato di conseguenza Nord Sudan pare rimanga Sudan, sic et simpliciter. Speriamo che a sua volta il nuovo stato non sia oggetto di altre secessioni, sennò, con la mancanza di fantasia che si ritrovano da quelle parti, vedremmo staccarsi dal Sud Sudan un Sud Sud Sudan, eventualmente un Ovest Sud Sudan, in caso di secessione verticale, o un Nord-Est Sud Sudan, in caso di secessione obliqua.

venerdì 8 luglio 2011

Lode


L’ho già detto? Mi ripeto: Makkox è un genio. Ennesima lode, allora, alle sue strabilianti doti di vignettista satirico, che nel suo caso è definizione riduttiva, perché le sue tavole sono veri e propri editoriali. Prima che sia rovinato da una meritata più ampia popolarità che rovina sempre tutti, a cominciare da chi la merita lode, lode, lode e lode ancora.   

Tanto è per dire


Ha ragione Tremonti: Brunetta è un cretino. Ma ha ragione anche Brunetta: son cose che si dicono. E dunque diciamolo, ché tanto è per dire, e neanche impegna ad essere tremontiani.

Sarà il secolarismo

Dopo averci rotto il cazzo per tre lustri con tediosi tormentoni come “giornale cognato” e “giornale berlusconiano tendenza Veronica”, Giuliano Ferrara non si scomoda neanche con due righe per avvisarci che Miriam Bartolini si è disfatta del 38% della proprietà de Il Foglio. Non si è trattato di una vendita, come i giornali di ieri ci hanno fatto credere, ma della decisione della signora di non buttar più soldi in una partecipazione che si è ridotta a spartir perdite, come ci ha illustrato l’ottimo Tommaso Caldarelli (Giornalettismo, 8.7.2011).
Nonostante sia innaffiato da generosi finanziamenti pubblici, Il Foglio va appassendo. Sarà che il mondo va a rotoli, o almeno un certo mondo. Sarà il secolarismo, sarà che Bisignani è impedito, chi può dire. E la signora se ne libera come un vestito vecchio che non è buono neanche a restare in fondo al guardaroba in attesa che diventi vintage. Per tenerselo le sarebbe bastato spendere la metà di quanto le costa il parrucchiere ogni sei mesi, ma ha deciso non valesse la pena.
Si poteva affidare la notizia alla penna della Benini, che certamente ci avrebbe spiegato la cosa con la metafora della divorziata che butta nella spazzatura lo spazzolino da denti del marito ritenendolo indegno perfino di pulire il fondo della gabbia dei canarini. O almeno a una vignetta di Vincino, che quando si tratta di essere carogna diventa sempre più simile a Forattini. E invece niente, neanche un “velina ingrata”.




giovedì 7 luglio 2011

[...]


Pare che su queste pagine io possa riprodurre quello che mi pare, anche violando il copyright su testi, audio e video: mai stato un blog a scopo di lucro, questo, mai accettato un centesimo di pubblicità. Pensavo fosse per principio ma adesso mi torna comodo, così mi risparmio pure le spiegazioni del perché non ho aderito alla “notte della rete”.
Ora, finalmente, varrebbe la pena di tirar fuori un post che ho limato mille volte e non ho mai avuto il coraggio di postare, temendo di urtare la suscettibilità dei tanti blog che per due euro al mese diventavano, nel tempo, miniature di centri commerciali. Evito, perché per stretta conseguenza urterei la suscettibilità dei blogger che hanno addirittura il bannerino che chiede l’elemosina.  

Adagio


Anche prima di aprire un blog, nel 2004, ho sempre coltivato la mania del commentario civile, dal 1975, sicché per ciò che ho scritto di questo paese da sette anni a questa parte ho il mio pc, qui davanti, mentre per ciò che scritto nei trent’anni prima ho uno scaffale pieno di taccuini, alle mie spalle, sulla destra. Bene, in questi giorni ho scritto poco perché mi sono dedicato alla lettura di quello che scrivevo dieci, quindici, venticinque anni fa.
Qui il discorso si fa patetico e dunque vi consiglio di continuare a leggere con un sottofondo che sottolinei lo stato d’animo col quale butto giù queste due righe.


Mi è capitato di leggere le pagine dedicate a Moro e a Berlinguer. Li odiavo a morte, ho visto. Non vi dico cosa sono stato capace di scrivere su Craxi, me ne vergogno perché si va più in là dell’odio. A questi Padri della Patria rimproveravo con tutta la mia rabbia di avere depravato la figlia, già nata con un’indole schifosa, giacché il cattivo sangue, come il buono, non mente.
La prosa mi si è fatta meno truce intorno al 1993, dove l’invettiva furiosa s’è trasformata in sarcasmo, talvolta addirittura addolcito in ironia. Vedevo l’Italia illudersi di una catarsi e scrivevo: “Ma con quale coraggio ve l’aspettate da Di Pietro?”. Poi, quasi di botto, le pagine son diventate serie, quasi seriose, manco subodorassi che Berlusconi mi stesse prendendo per il culo, e assieme a me quei quattro gatti liberali che parevano aver trovato il gattaro. Lasciamo perdere, sennò mi piglio a schiaffi da solo.
Bene, rileggere le cose scritte tanto tempo fa, saltando di taccuino in taccuino, mi ha depresso come non avrei creduto. Perché erano i tempi in cui l’Italia stava male, malissimo, ma non era il cesso che è adesso. Scorrevano gli anni piombo e nessuna alchimia li avrebbe trasformati in oro: sarebbero venuti gli anni di tolla. E io tutta la mia furia l’ho sprecata allora, quando avevo un blog autistico e stavo asserragliato dentro una speranza. Passa la voglia di scrivere, d’altronde non è mai servito a niente se non a stemperare una nevrosi da eterno fuori luogo.
Vi avevo avvertito che sarei stato patetico, non protestate.


mercoledì 6 luglio 2011

Sentitevi me


Sul Lodo Mondadori una sentenza di primo grado in sede civile ha condannato Silvio Berlusconi a pagare una somma di denaro che corrisponde solo al 7,5% del suo patrimonio personale, ma anche meno se si tiene conto di quanto vi è direttamente e indirettamente collegato. Se in appello la condanna dovesse essere confermata, tale cifra si ridurrebbe presumibilmente di oltre un terzo, mantenendosi quasi certamente al di sotto dei 500 milioni di euro.
Certo, comunque non sarebbe poco in assoluto, ma in relazione un patrimonio che è stimato tra i 9,8 e i 10,2 miliardi di euro risulta senza dubbio esagerata la disperazione. E invece, riguardo alle conseguenze che deriverebbero dalla conferma della condanna in appello, Silvio Berlusconi sta esagerando come solo lui sa fare, e nessuno gli fa presente che essere costretto a sborsare mezzo miliardo non lo renderebbe povero, come peraltro è nell’illusione di molti suoi avversari, che in questa, come in molte altre occasioni, sembrano disposti a giocare una parte in commedia che gli torna utile per spacciarsi da perseguitato, assediato da odio e invidia. Questo gli consente ora di offrirsi come vittima di un progetto di esproprio, nel tentativo di convincere chi voglia mettersi nei suoi panni  che ogni scappatoia sia legittima per difendersene.
In tal senso, e c’era da aspettarselo, è in atto il tentativo di insinuare una stretta correlazione tra il danno che riceverebbe dalla conferma della condanna di primo grado e quello che ne deriverebbe a chi lavora per le sue aziende. In realtà, nulla costringerebbe Silvio Berlusconi a tagliare posti di lavoro a causa di una perdita di liquidità, se non l’intento di drammatizzare la “mazzata” (questo è il termine usato da suo figlio Piersilvio), collettivizzandola ai danni di chi dovrebbe unirsi in coro al suo pianto: si tratta di aziende che da anni non hanno bisogno di ricapitalizzazione, né sembrano averne bisogno a breve. Sarebbe una perdita grave, certo, ma non tragica, se non per chi odia perdere, indipendentemente dalla posta in gioco. E infatti pare che Silvio Berlusconi da settimane vada lamentandosi con i più intimi: “Dove la trovo una somma del genere? Sarei rovinato!”.
Nell’esagerare, tuttavia, non v’è solo il suo abituale lasciarsi andare alla deformazione della realtà per adattarla ai suoi interessi, ma qualcosa di meno istintivo, e di più calcolato. Ne è prova ciò che manda a dire da chi abitualmente dà una ratio ai suoi appetiti: il suo “è un patrimonio virtualmente pubblico, è roba nostra” (Il Foglio, 6.7.2011). Si dà corpo in questo modo alla regola che ha costruito Silvio Berlusconi: sentitevi me, io sono quello che vorreste essere, potete non volerlo solo se disperate di riuscirci. Se non riuscite a mettervi nei miei panni, se non riuscite a sentire vostri i miei interessi, è per la vostra inadeguatezza.



martedì 5 luglio 2011

Candataggine



Al pari della nota marca di carta igienica che unisce in sé i pregi di una straordinaria morbidezza e di una eccezionale resistenza, gli uomini che scrivono le leggi ad personam a Silvio Berlusconi mostrano ancora una volta la loro strabiliante candataggine, unendo in sé una sfacciataggine che non conosce limiti e un candore che rasenta l’idiozia.


 

lunedì 4 luglio 2011

La foga popolare ti porta alla gogna

Su queste pagine ho citato Dominique Strauss-Kahn in una sola occasione, e per dire che diversi elementi nella vicenda che lo vede protagonista sono almeno degni di una qualche perplessità e, se non sono validi a supportare l’ipotesi di un complotto, lasciano adito almeno all’eventualità che egli possa essere vittima di un’ingiusta accusa, a fine presumibilmente estorsivo” (Può darsi, 20.5.2011). Con la piega che ha preso la vicenda, sarei tentato di far mia la soddisfazione di chi fa notare che “in un colpo viene rintuzzata la foga popolare che lo aveva portato alla gogna” (Il Foglio, 2.7.2011). Già, ma come fu trattata la vicenda da Il Foglio? Bisogna riandare al numero del 17 maggio.
Strauss-Kahn colpevole? Chissà, fatto sta che “tutto si tiene, e il pansessualismo affermatosi in occidente ha un risvolto politico. Gli uomini hanno sempre peccato. Sempre hanno peccato, spesso con un di più di prepotenza, gli uomini che dispongono di forte autorità sugli altri. Ma hanno sempre avuto una remora che ha consentito di custodire i loro torti in una zona grigia abitata da un qualche ritegno: il senso del peccato, il sentimento di un limite congenito al quale è sottoposta la loro libertà. La zona grigia è cancellata. Il senso del peccato anche. Resta un libertinismo moralmente autorizzato, il cui risvolto è il puritanesimo selettivo e politicamente corretto, senza bellezza e significato, con esiti atrocemente nichilistici quando la libertà pansessualista si fa violenza. All’origine del tutto c’è la consegna dell’amore al sentimento, la sua scissione dall’eros procreativo, la pillola, la distruzione della famiglia, l’aborto e l’indifferenza di genere e le mille altre chicche dei baby boomer. Che è successo al Sofitel, lo vedremo. Cosa è successo a noi, lo sappiamo”.
Vibrante, la prosa del signor direttore, tuttavia viene il sospetto che, adottando una linea difensiva che mirasse a dirottare l’accusa di stupro al libertinismo moralmente autorizzato, adesso Strauss-Kahn era fottuto. C’è da immaginarselo, l’avvocato, a farsi forte degli argomenti di Giuliano Ferrara: “Signor giudice, il mio cliente è innocente: avrà pure stuprato la cameriera, ma è tutta colpa del Sessantotto! E poi, via, tutti i potenti hanno un di più di prepotenza: che facciamo, condanniamo il potere?”. Per fortuna, invece, l’avvocato era Ben Brafman. Per intenderci, “quello che difende gli indifendibili” (Giulio Meotti). Che sarà un complimento all’avvocato, ma una mezza condanna all’imputato.
Più ellittica, Marina Valenzise: L’arresto di DSK travolge politica e media francesi che da sempre accettano con nonchalance i vizi dei potenti”. Pietrangelo Buttafuoco: “Tanto c’è di Boccaccio in Berlusconi, quanto di De Sade in Strauss-Kahn”. Da Camillo Langone arrivava una difesa della quale possiamo esser certi che Strauss-Kahn avrebbe fatto volentieri a meno: “Mon semblable, mon frère!”. E tuttavia come dubitare delle buone intenzioni di Langone.
Ma il meglio del garantismo, un vero e proprio antidoto alla foga popolare sempre pronta al giudizio sommario e incline alla gogna, veniva dalla strip di Emanuele Fucecchi: se non proprio innocentista, quasi.


Sul metodo e sul merito

Violando il copyright della messinscena tenutasi venerdì scorso a Roma, riporto qui il passaggio più sfizioso. Siamo in coda all’intervento di Silvio Berlusconi, che fin qui non ha prodotto nulla di notevole. Qui, però, siamo a un momento topico, per certi versi inedito nel suo repertorio: per quanto tutti sappiano che nulla cambierà con l’elezione di Angelino Alfano a segretario politico del Pdl, è evidente la malcelata sofferenza di Silvio Berlusconi nel dover intestare a un prestanome una proprietà che gli è molto cara. Da un lato, vi è lo sforzo di presentare l’operazione come naturale, e infatti naturalmente segnerà i punti che sono più dolenti per chi si appresta a compierla, quasi ad attenuare il dispiacere nel dover rinunciare, seppure formalmente, ad essere il proprietario del partito, e infatti l’avverbio ricorrerà nel sottolineare l’ineluttabilità della cosa, ma anche il fatto che sostanzialmente è irrilevante: naturalmente c’era bisogno di un segretario politico, naturalmente il Pdl rimane nella piena disponibilità di Silvio Berlusconi. Dall’altro, vi è tentativo, ottimamente riuscito proprio perché maldestro, di significare un pieno controllo sull’operazione e sui suoi effetti. Se si trattava del momento nel quale il Pdl doveva dimostrare di saper almeno fingere una pratica di democrazia interna, a questa veniva posto il segno inconfondibile dell’acclamazione a suggello di una decisione calata dall’alto. Se la procedura dell’operazione implicava in via preliminare una modifica statutaria che desse vita alla figura del segretario politico, e solo successivamente alla sua elezione, qui l’approvazione assembleare è stata coartata ad invertire i tempi, levando senso alle regole, con ciò riducendo segretario e assemblea a meri ruoli eterodiretti.    

SILVIO BERLUSCONI Da tutti noi è venuto fuori che a un certo punto dovevamo mettere alle spalle il partito delle quote che aveva anche dato il via a un’organizzazione con i tre coordinatori. Ai tre coordinatori io qui rivolgo un grazie profondo, commosso: tutti e tre hanno lavorato benissimo e lavoreranno ancora benissimo per il partito. A loro mi lega un sentimento profondo di amicizia, di gratitudine, di affetto. E quindi sono sicuro che continueranno nel loro appassionato impegno per il nostro movimento e per tutti noi. Ma da tutti è venuto fuori il fatto che, volendo avere un partito unico che dimenticasse i partiti di provenienza, dovevamo anche darci un segretario politico unico e non ho sentito una sola voce contraria. E saltando i tempi previsti dal programma io vi dico anche che non ho sentito una sola voce che avanzasse dei dubbi su quello tra di noi che tutti noi abbiamo trovato fosse la persona giusta per diventare il primo segretario del Popolo della Libertà: Angelino Alfano. Gli organizzatori hanno previsto come da statuto una votazione che deve avere i due terzi: io mi permetto da presidente del partito e da fondatore del partito di chiedervi quello che sta già succedendo: non una votazione, ma una elezione con questo applauso e con un suffragio generale. Non vedo nessuno di noi che è rimasto seduto e dubbioso. Siamo tutti qui a decidere un abbraccio generale a te, Angelino, che devi essere tu a impegnare le tue giovani forze al servizio di tutti noi e con la partecipazione di tutti noi. Inutile dire che io conosco Angelino dal momento della fondazione del partito e che è un uomo generoso e leale. Non ho mai colto un atteggiamento menzognero in nessuna delle sue espressioni. È un ragazzo intelligente che io chiamo qui al mio fianco per ricevere da voi l’investitura plebiscitaria. Naturalmente il notaio Verdini mi dice che occorre fare la modifica dello statuto. E allora dobbiamo naturalmente essere in regola con lo statuto e dovremo procedere alla modifica dello statuto. Ma dato che noi siamo abituati a sconvolgere tutte le procedure, che sentiamo come lacci al nostro piede, io che ho fatto salire qui Angelino non voglio, dati i grandi impegni che lo attendono all’interlocuzione con tutti noi, che ha garantito di voler fare, e quindi sarà il terminale tutte le vostre richieste, e si dovrà dotare di una grande squadra, che dovrà confermare quello che è sempre stato il nostro partito… Vi ricordate chi ha detto che nel nostro partito le decisione sono prese in modo autoritario… Credo di non essere neppure capace, io, di farlo… E Angelino continuerà, naturalmente con la mia presenza come presidente, ad essere aperto alla collaborazione di tutti. Questo è un patto che abbiamo fatto e che lui fa con tutti voi a seguito dell’applauso che gli avete lungamente tributato. Saltando tutte le procedure previste, direi che procediamo atutti gli adempimenti – chiamiamoli burocratici – e per non far fare ad Angelino la fatica di scendere e risalire…

DENIS VERDINI Solo trenta secondi, però lo dobbiamo fare… Scusa, presidente… Signori consiglieri, come è noto, il 1° giugno, l’Ufficio di Presidenza su proposta dei tre coordinatori ha delegato il presidente Berlusconi a proporre a questo Consiglio Nazionale le opportune modifiche statutarie per raccordare le funzioni del segretario politico nazionale all’attuale impianto organizzativo del Popolo della Libertà. Nell’esercizio di tale delega, il presidente ha predisposto le seguenti modifiche statutarie che vengono sottoposte alla vostra approvazione ai sensi dell’art. 52 dello statuto. Dobbiamo quindi modificare l’art. 16…

Fin qui sul metodo, che in democrazia è già tutto. Potremmo tacere del merito ma, già che ci siamo, diciamo che l’art. 16bis recita che il segretario può essere individuato solo dal presidente del partito e solo tra i componenti del suo ufficio di presidenza”. Superfluo rilevare che questi ultimi sono scelti dal presidente.


venerdì 1 luglio 2011

Piergiorgio Odifreddi - Caro Papa, ti scrivo - Mondadori, 2011

Nei giorni scorsi ho ricevuto un invito che mi ha molto lusingato, ma che non ho potuto onorare per improrogabili impegni di lavoro. Si trattava di un dibattito pubblico sull’ultimo libro di Piergiorgio Odifreddi (Caro papa, ti scrivo – Mondadori, 2011), che si è tenuto oggi, a Milano, e insieme ad altri due o tre blogger, che stimo molto e che mi avrebbe fatto piacere conoscere di persona, era presente l’autore, al quale mi avrebbe fatto piacere stringere la mano. Peccato, speriamo ricapiti l’occasione. Tuttavia mi rimane un obbligo verso chi mi ha rivolto l’invito e mi ha inviato il libro: questo post cercherà di toccare in sintesi i punti che mi sarebbe piaciuto sviluppare nell’incontro che ho dovuto disertare.
Non sarà una recensione, perché ne uscirebbe un lunghissimo paginone e dovrei ripetere ciò che ho scritto in altre occasioni. Il libro di Odifreddi, infatti, analizza un testo di Joseph Ratzinger (Introduzione al Cristianesimo – Queriniana, 1969) al quale ho dedicato molti post tra il 2005 e il 2009, mettendo in evidenza molte delle debolezze logiche e delle incongruenze argomentative che il “matematico impertinente” qui mette sotto la sua lente: in gran parte sarebbe una recensione laudatoria, perché in molti punti di questa lettera aperta a Benedetto XVI ho ritrovato molte delle mie obiezioni, ma sviluppate con una chiarezza invidiabile, e che infatti mi ha mosso a invidia. Mi limiterò, dunque, solo ad alcuni aspetti di Caro Papa, ti scrivo, che poi sono gli stessi che hanno colpito Amedeo Balbi, del quale tuttavia non condivido l’obiezione di fondo.
Balbi ha ragione: Odifreddi sembra sprecare le sue straordinarie doti di scienziato nel “compito faticoso e ingrato” del provare a districare i grovigli di un ragionamento naturalmente denso di circoli viziosi, contraddizioni e fallacie logiche di ogni tipo, con il solo scopo di dimostrarne l’inconsistenza”; è evidente che “si ostini a dissipare il suo talento nella trita e ritrita polemica con la religione, e in particolare con la chiesa cattolica romana”; non c’è dubbio che tra le righe dell’ateo che ha studiato in seminario e che da giovane voleva diventare Papa si possa leggere “il cavalleresco riconoscimento – celato dietro la facciata dell’ennesima schermaglia letteraria – di chi concede al proprio antagonista il merito di una parte sostanziale della propria fortuna”; ed è altrettanto vero che in molti passaggi sia manifesta una “irrefrenabile ossessione per lo stesso argomento” che ossessiona “un collega accademico di cui contesti le posizioni e le metodologie”. Ma questo porta davvero al rischio – come Balbi sembra essere convinto – che la logica stringente che smonta a pezzettini la teologia di Ratzinger possa creare un altrettanto mostruoso “sistema di credenze che cerca di imporre la propria supremazia assoluta sulla verità”? Io penso di no, penso proprio di no.
Ritengo che quanto emerge incontestabilmente da una ricerca che si attenga scrupolosamente al metodo scientifico non abbia in sé il pericolo di un’“altra religione”, ma abbia ogni buon diritto di essere prodotto in sede polemica come argomento contro la verità di questa o di quella religione: non veritas contra veritatem, ma razionale contro irrazionale, dimostrabile contro indimostrabile. Poi, certo, la scienza si dichiara umile e pronta a correggersi, ma questo non può e non deve renderla timida dinanzi all’assurdo che si traveste di mistero. E dunque, a mio parere, Balbi rivolge una critica infondata a Odifreddi, perfino un poco ambigua quando afferma: “Non saranno certo gli argomenti logici – pur interessanti e meritori di diffusione, per carità – a far cambiare idea a coloro che hanno deciso di trovare il centro della propria esistenza in una confessione religiosa. Così come, specularmente, ho sempre trovato bizzarri i tentativi di chi cerca, in questa o quella scoperta scientifica, o in qualche lacuna nelle nostre conoscenze attuali, una sponda per il proprio credo religioso”. Infatti un argomento logico che dimostri l’esistenza di un trascendente è sempre dimostrabilmente fallace per intrinseca tautologia, mentre uno che la metta in discussione fino a negarla è spesso ragionevolmente accettabile: può essere respinto, ma non smontato.
E allora cosa possiamo rimproverare ad Odifreddi, se proprio vogliamo rimproverargli qualcosa? Io penso sia il cercare un dialogo con chi non ne ha ultima possibilità: al Papa non si scrive una lettera aperta, gli si rispedisce la sua Introduzione al Cristianesimo smontata a pezzettini, accompagnata da un laconico biglietto: prova a rimontarla, non ti riesce.

Sessismo o buonsenso?

Più odioso del licenziamento delle operaie della Ma-Vib di Inzago (Mi), licenziate solo perché donne, può esserci solo il tentativo di rendere la cosa meno odiosa, cercando di spiegarla fino a giustificarla, soprattutto se a farlo è una donna. Ci pensa Valeria Braghieri (il Giornale, 1.7.2011), cominciando con l’offrirci “un dubbio, e cioè che l’odiosa decisione apparentemente antifemminista fosse invece, nell’evitabilità di una crisi, una «soluzione» quasi paternalistica, di antico buonsenso”. Non è difficile immaginarla strepitare come una papera se il Giornale la licenziasse nell’evitabilità di una crisi, ma questa ipotesi non è nemmeno ipotizzabile per la signora, perché è giornalista e di Milano. Ma trattandosi di operaie di Inzago, “in quest’ottica, in questa mentalità, in questa geografia, dire che in fondo, le donne un lavoro già ce l’hanno e sono i figli, non graffia e non vuole graffiare come graffierebbe da altre parti, dove è già un altro momento”. Vive in un altro momento, la Braghieri. Da lì, visto a debita distanza, quello ingannevolmente a tanti è sembrato proprio sessismo, quasi certamente per giudizio troppo sbrigativo, a lei pare “antico buonsenso”.
Non è sessismo? Sì, può darsi lo sia, la signora non assume mica posizione rigida come quella uguale e contraria di certe femministe arrabbiate, quelle sempre pronte a scorgere un’offesa in una innocente pacca sulla natica che è il più spontaneo omaggio maschile alla bellezza muliebre. No, la signora non si concede ad alcuna ottusa certezza, e non lesina i “forse”: “Forse c’è un essere uomini davvero in questo «fare a meno» delle donne, in questa sorta di ingenuità intatta. Forse c’è davvero un intento di far rimanere in guerra chi ha più speranza di portare a casa la pelle. Forse. Ma è un beneficio del dubbio che, ogni tanto, e senza spiegazioni, dobbiamo anche concedere”. Se non lo concediamo, che figura ci facciamo?

Aggiornamento Un comunicato dell’azienda vanifica il potente sforzo antropologico della Braghieri:  “Mai la Ma-Vib Spa ha inteso adottare politiche discriminatorie nei confronti del proprio personale dipendente femminile. Se verranno adottati, infatti, provvedimenti il prossimo mese di settembre, a seguito dell’attuale gravissima crisi aziendale, questi potrebbero riguardare il reparto produzione, ovvero il reparto che maggiormente sta soffrendo la crisi, e in misura minore il settore impiegatizio. Purtroppo il reparto produzione è quello che attualmente occupa 18 donne su 20 addetti. È questa l’unica ragione «tecnica» che potrebbe veder coinvolte più donne che uomini e non certamente per una volontà discriminatoria della società”. Peccato, preferivamo credere che le operaie fossero licenziate per “antico buonsenso”.

Per acclamazione


“Mi è sembrato opportuno non conservare l’elezione per acclamazione”
Giovanni Paolo II, Universi domini gregis, 22.2.1996


L’hanno abolita anche per l’elezione del papa in conclave. Il Pdl è rimasto un po’ indietro...

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Ci siamo abituati a tutto. Qualcuno ancora accenna a un istintivo moto d’indignazione, ma come boccheggiasse, mentre altri cercano riparo nell’ironia, in qualche ostentata frivolezza che esorcizzi lo sfacelo, in una calibrata indifferenza da distanti parzialmente coinvolti. Si mima la speranza, ma a fatica, sennò ci si dispera, comunque con un certo stile, almeno così sembra a ciascuno, e in buona fede. Ancora, nonostante tutto, pare vita. Siamo tostissimi, non meritiamo neanche pena.