lunedì 14 novembre 2011

Si trattava solo di un rito propiziatorio

A dispetto dell’euforia che esplodeva alla notizia delle dimissioni di Silvio Berlusconi, Nando Pagnoncelli ci avvertiva che solo il 48% degli italiani pensa che la stagione del berlusconismo si sia chiusa per sempre, ma che il 46% non ci crede, e che il 6% non sa che credere (Ballarò, 12.11.2011). Sondaggio che andrebbe ripetuto dopo il videomessaggio che Silvio Berlusconi ha diffuso stasera: credo che i numeri sarebbero ben diversi e darebbero prova ancora più evidente di quanto l’euforia di ieri fosse insensata. Umanamente comprensibile, certo, ma insensata.
“Non mi arrenderò… Raddoppierò il mio impegno…”. A non averne dubbio, già ieri, era assai più del 24,9% che viene accreditato al Pdl. Con un’area di astensionismo attualmente calcolata al 38,8%, si tratta di poco più del 15% degli italiani, fra i quali non mancano, seppure in misura quasi irrilevante, quanti ritengono che un ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi non sia nell’ordine del possibile. Più del doppio degli italiani che ancora lo sperano, invece, chi disperato, chi rassegnato, chi indifferente, non lo ritengono impossibile: tutti insieme, ieri, erano quasi la metà del paese. Quasi certamente, oggi, più di un italiano su due. E con più di mezza Italia che non la ritiene ancora chiusa per sempre, la stagione del berlusconismo è ancora aperta, di fatto. 
Credo che sia un grave errore ritenere che il berlusconismo sia solo una pratica di potere e che i suoi effetti sulla società italiana si possano esplicare solo quando Silvio Berlusconi stia a Palazzo Chigi o abbia la reale opportunità di tornarvi. Fino a quando Silvio Berlusconi sarà vivo, il berlusconismo continuerà ad avere un peso rilevante in Italia: meno rilevante che con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, ma non così poco rilevante com’è nelle illusioni di chi ieri festeggiava “la fine di un’epoca”. Si trattava solo di un rito propiziatorio.
Fino a quando Silvio Berlusconi sarà vivo, il berlusconismo non morrà. Sopravviverà per uno o due decenni a Silvio Berlusconi, quasi certamente in forma residuale, ma comunque efficace, quanto meno a sostenere la strisciante e infinita guerra civile tra fessi e furbi, che è quintessenza della storia patria.

sabato 12 novembre 2011

Difficoltà medio-bassa

Cambio sillabico

Per far parte del prossimo governo torna utile aver fatto la Xxxyyxx,
come lo era l’aver fatto xxxyyyxx per far parte di quello precedente.

mercoledì 9 novembre 2011

Non c’è alternativa

Si è dimesso? Non si è dimesso, ma ha annunciato che lo farà a breve, se ne è assunto l’impegno formale. Ma quanti impegni ha preso e non ha mantenuto? E quanti suoi annunci si sono rivelati farlocchi? Non vi dice niente il fatto che due fedelissimi come Lupi e Cicchitto parlino del voto sul Rendiconto dello Stato come di un passaggio nel corso del quale si è verificato in Parlamento un momentaneocalo di voti in favore del Governo, ma che comunque il testo del decreto è stato approvato ed è questo ciò che conta? C’è ancora tempo per comprare una mezza dozzina di parlamentari, a un prezzo che stavolta sarà molto più alto, ma naturalmente questo non costituirà un problema: quando due pompini valgono 480.000 euro, per salvare il culo si può arrivare a stanziare somme di sette o di otto zeri.

Ma forse non sarà neppure necessario, perché le opposizioni potrebbero votare a favore del maxi emendamento o su quello spaccarsi tra favorevoli, contrari e astenuti. Il “momentaneo” calo di voti in favore del Governo sarebbe superato, e proprio sul provvedimento che impegna l’Italia verso l’Europa: opposizioni divise e compatte sul sì dimostrerebbero che a Silvio Berlusconi non c’è alternativa; compatte sul no, dimostrerebbero che sono irresponsabili o addirittura antieuropeiste; in ogni caso sarebbe dimostrato che c’è un peggio al pessimo.
Diciamola tutta: con l’astensione sul Rendiconto dello Stato si è fatto un calcolo errato. Il Governo doveva cadere ieri, adesso non è detto che abbia i giorni contati. Errore gravissimo, visto che a nessuno sfuggiva di quale pasta sia fatto Silvio Berlusconi, e tuttavia quasi obbligato, perché almeno al Pd e all’Idv conveniva e conviene che il sì alla lettera della Bce venga formalmente dato dal centrodestra. Ancora una volta la forza del nostro amato premier si rivela fondata sulla debolezza degli omuncoli che dovrebbero prenderne il posto.

Giorgio Napolitano può aver assicurato a Silvio Berlusconi che dopo le sue dimissioni si andrà di corsa alle urne? Ammesso e non concesso, dovrà pure avergli fatto presente che sarebbe impossibile senza un giro di consultazioni e un incarico esplorativo affidato a un chicchessia. Può avergli dato assicurazione che a Palazzo Chigi ci sarà comunque un Gianni Letta o un Angelino Alfano, e non un Mario Monti, fino alle elezioni? Ammesso e non concesso, sarebbe un’assicurazione sulla quale Silvio Berlusconi può contare con certezza?
Se passa il maxi emendamento, non si dimetterà. E il maxi emendamento passerà. Quand’anche si dimettesse e si andasse alle urne a gennaio, avrebbe un enorme vantaggio: a Natale siamo tutti più buoni e a Capodanno sperano anche i disperati, senza sottovalutare il fatto che dicembre è il mese che in cui le reti Mediaset hanno gli share più alti di tutto l’anno.

Perderebbe lo stesso? È molto probabile, ma attenuerebbe di molto il tonfo, e qui rimando all’analisi di Leonardo, che sottoscrivo interamente. Aggiungo solo che Silvio Berlusconi continuerebbe ad essere pericoloso anche in esilio, e che non c’è alcuna possibilità di levargli gli strumenti che gli consentano di continuare ad agire nelle difesa dei propri interessi, anche se dopo la caduta questi fossero limitati a una rancorosa e infruttifera vendetta: la storia ci insegna che l’Italia è un paese che si può destabilizzare anche da una villa di Antigua o da una dacia russa.
Se non è stato eliminato fisicamente fino ad oggi, è difficile possa accadere in futuro e, per fargli terra bruciata attorno, bisognerebbe ammazzarne almeno una dozzina, a cominciare dai figli di primo letto. Tutta roba esecrabile, ovviamente, peraltro poco affine al carattere nazionale, perché in fondo pure le Br e i Nar non riuscivano a chiudere occhio senza un orsacchiotto di peluche tra le braccia. Conviene sopportarlo ancora, non c’è alternativa.

Ci conto

Non ricordo più con chi ho scomesso cento euro sul fatto che prima o poi la Chiesa di Roma sarebbe stata considerata responsabile sul piano penale degli abusi sessuali a danno di minori commessi dai suoi preti, in quanto suoi dipendenti. La scommessa deve risalire senza dubbio a prima del marzo 2010, perché rammento che l’accordo venne preso fra i commenti a un post che scrissi quando ero sulla piattaforma del Cannocchiale. Beh, pare che l’Alta Corte del Regno Unito abbia accolto tale principio e dunque aspetto che il lettore col quale ho scommesso si faccia vivo per onorare il suo debito.

Difficoltà medio-bassa


lunedì 7 novembre 2011

[...]

È possibile che l’alluvione a Genova abbia la stessa ratio dello tsunami a Fukushima, ma chissà perché nessuno ne chiede conferma al professor De Mattei, che una risposta deve certamente averla.

Gesäßgesicht, che sta per "faccia di culo"

In ordine cronologico, Francesco Rustichelli è stato l’ultimo dei nove a segnalarmi, e proprio oggi, la notizia data da Die Welt la scorsa settimana e quindi rilanciata da innumerevoli testate italiane ed estere: Weltbild, uno dei più grandi editori tedeschi, che è proprietà della Chiesa cattolica per il 100%, pubblica da anni decine di testate pornografiche, e con profitti nell’ordine di diversi milioni di euro. Notizia che mi è sembrato superfluo segnalare, perché ampiamente diffusa e commentata come meritava, sicché a Francesco ho detto che mi sembrava inutile degnarla di un solo rigo. Coincidenza vuole che proprio oggi Benedetto XVI abbia tenuto un discorso all’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede nel quale… indovinate cos’ha condannato? Vi do un aiutino? Non c’è bisogno, vero? Bravi, ha condannato proprio la pornografia: “Hier ist es an der Zeit – ha detto – Prostitution wie auch die weite Verbreitung von Material erotischen oder pornographischen Inhalts… energisch einzuschränken”. “Energisch”, capite? E non risulta che l’ambasciatore tedesco gli abbia fatto notare che per fare quella sparata ci voleva una gran Gesäßgesicht. D’altra parte, si sa, gli ambasciatori sono tenuti ad essere diplomatici.

[...]

Bravo, Ratzi!


“Du kannst nur einmal sein,
ergib dich willig drein”

Ludwig Feuerbach




Sua Santità non l’ammetterà mai, ma è evidente che mi legge con attenzione. Giovedì, per esempio, scrivevo che è da folli definire cattolico un paese nel quale solo poco più del 10% crede davvero nella resurrezione dei morti, “elemento essenziale” della fede cattolica (Catechismo, 991). Era implicito il mio consiglio a richiamare il gregge sui fondamentali invece di sprecare tante energie sulla morale, ché tanto è tutto tempo perso, il secolo va in vacca, si consumano solo le pasticche dei freni, ecc. Consiglio recepito al volo, perché non passano neanche tre giorni che Sua Santità rammenta alle sue pecorelle che è proprio su quel punto “è netta la differenza tra chi crede e chi non crede” (Angelus, 6.11.2011). Probabilmente servirà a poco, ma che dire? Bravo, Ratzi! E mi raccomando: continua a leggermi, ché è tutto a gratis. 


Aspettando la caduta di un governo



Te la do io, la Leopolda!

Matteo Renzi indugia e allora Inchiman lo batte sul tempo: ora il WikiPD c’è.

Contro la soluzione aristocratica


Massimo Gramellini e Michele Serra hanno raccolto critiche severe fino al biasimo, da destra e da sinistra, per aver messo in discussione l’assunto egalitario che sta a fondamento della democrazia nel principio di universalità dell’elettorato attivo e di quello passivo.
Il primo, infatti, ha scritto che «la prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, raggiunge la sua apoteosi in quella caricatura di democrazia che è diventata la nostra democrazia», perché «una parte non piccola degli elettori è così immatura da privilegiare i peggiori», sicché «per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto» (La Stampa, 3.11.2011).
In piena sintonia con Gramellini, Serra ha lamentato che «l’uomo della strada, con tutta la sua spensierata dabbenaggine, è arrivato al vertice»: «Pensavano – ha scritto – che la democrazia fosse una selezione dei migliori. Aperta a tutti, ma destinata a individuare i migliori. Il vecchio concetto di classe dirigente, insomma. Ritrovarsi rappresentati nel mondo da uno che pensa e parla come l’ultimo di noi è un bruciante fallimento. Votare per uno “come noi” significa sprecare il voto e sprecare la democrazia» (la Repubblica, 5.11.2011).
Entrambi hanno mostrato di aver ben presente l’obiezione che sarebbe stata mossa loro, ma si sono limitati a respingerla in modo goffo, comunque inefficace. Gramellini ha detto che la sua critica al suffragio universale era «aristocratica solo in apparenza», perché la sua proposta di «un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione» non mirava a un governo degli ottimi, ma solo dei migliori («megliocrazia»), come alternativa al «governo dei peggiori» (dei pessimi). Stesso espediente è stato usato da Serra per attenuare «migliore» da superlativo a comparativo: «Vogliamo votare per uno che sia migliore di noi». È evidente, tuttavia, che «uno migliore di» quanti hanno diritto di voto (previo superamento di un esame o meno) sia, di fatto, «il migliore di» tutti.
Di fatto, in Gramellini e Serra, è evidente il cedimento a una tentazione che accompagna la democrazia fin dalla sua nascita, e che è quella di ritenere che un sistema democratico possa funzionare «al meglio» (sennò – prima o poi – «al peggio») solo se informata da un principio che in ultima analisi è morale, perché rimanda a meriti che al loro grado di eccellenza sono sempre traducibili in virtù, anche quando non attengono alla sfera morale propriamente intesa. La democrazia funzionerebbe solo quando alcune virtù siano apprezzate da una larga maggioranza di elettori e incarnate da un largo numero di eletti: in pratica, quando gli elettori riconoscano negli eletti quel «bene» che in un monarca illuminato è riconosciuto dai suoi sudditi. Viva la volontà della maggioranza, ma a patto che essa sia capace di esprimere nei suoi rappresentanti il massimo grado di virtù al quale è necessario tendere.
Questa pretesa rivela lo stesso pessimismo sulla natura umana che è proprio dei moralisti inclini ad essere scettici della democrazia, ed è superfluo aggiungere che si inscrive nella stessa logica che porta gli ottimisti a ricercare il «bene» che sarebbe nel fondo della natura umana sradicando il male che lo corrompe. Si tratta, insomma, di una delle due facce della stessa idea di società come rappresentazione di un eterno conflitto morale tra «bene» e «male», categorie che inevitabilmente portano alla costruzione di un sistema dispotico, nel quale ai «buoni» è dato potere sui «cattivi». Suppongo sia altrettanto superfluo aggiungere che il piano morale sul quale si consuma questo conflitto non è mai così solido come vorrebbe chi ritiene che la natura umana sia immutabile nel tempo e nello spazio, e che il «bene comune» sia un valore definibile una volta per tutte.
Se non si abbandona il principio del «bene comune» (che è proprio di ogni sistema retto sull’assunto di una radice trascendente della natura umana) in favore di quello utilitaristico della «maggiore felicità per il maggior numero di individui» (Bentham)  – se, cioè, non si sostituisce alla categoria del «bene» quella dell’«utile» non se ne esce. Perché una democrazia funzioni non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia: è necessario che essi siano in grado di costruire le opportunità perché si realizzino le condizioni dell’«utile» per il maggior numero di individui. Non abbiamo bisogno di un monarca illuminato o di una oligarchia di anime belle, ma di una liberaldemocrazia che fondi su poche regole, ma severe, tutte riassumibili in una: ti è vietato imporre ad altri ciò che ritieni «bene» per te. Antidoto alla «peggiocrazia», ma anche alla tentazione di una soluzione aristocratica. 

Rumori dall’avanguardia

[Stavolta, mi son detto, non voglio sprecare neanche una parola. La lascio a Marco Ricci, che mi invia quanto segue. Se devo trovarvi un difetto, direi: troppo buono.] 


Nel gesto di ripararsi dal vento e accendere del tabacco mi accosto al fianco semichiuso del furgone regia con cui la Rai copre il congresso Radicale di Chianciano. Mentre il tabacco prende, alla consolle parte il servizio pronto per qualche TG: panoramica sulla sala ancora mezza vuota, congressisti smarriti per l’assenza prolungata di Pannella, Bonino risponde fugace e scontrosa sul perché di quel mistero, un anonimo oratore contende i congressisti del dopocena ad una partita di pallone in TV, un iscritto commenta mellifluo l’andamento del congresso. Il giornalista insinua sornione “si dice che lei sia anche un grande mago”; l’uomo non resite alla vanità e, imputandola all’obiettività di terzi, conferma la maliziosa indiscrezione.
Mi allontano pensando che quel servizio non ci rende onore e, più tardi, non mi sorprenderà sapere che un operatore è stato strapazzato da un militante al grido di comunista di merda... si dissoci chi può. Oltre al furgone regia ci sono un’automobile, un camion generatore e una selva di antenne e cavi, quindi cinque o sei persone per quattro giorni pieni, trasferta, alloggio, piè di lista e straordinari per una macchietta di 30 secondi e nessuna notizia, nessun approfondimento. Ulteriore tassello di una scientifica strategia d’emarginazione mediatico-culturale, costosa vendetta da parte di quello “schifo di Rai” per l’insulto ancora caldo o altro ancora?
Scendo le scale verso la sala congressi e mi domando se siamo davvero così bizzarri, incomprensibili e buoni solo da rendere in caricatura. Dentro in effetti il mago c’è da vero: in arte Divinotelma, polemizza velenoso con segretario e tesoriere per la presunta discriminazione in violazione di statuto perpetrata a danno dell’ organizzazione ch’egli rappresenta. Mi chiede di sottoscrivere la sua mozione particolare per l’introduzione delle primarie nella selezione dei candidati Radicali al parlamento, che firmo di buon grado. Il presidente delle Camere penali ha appena finito una sconsolata ricognizione tecnica dei guasti maggiori della giustizia penale mentre un’imprenditrice si prepara a raccontare delle angustie tra cui e costretta la piccola impresa tra orgogliosa resistenza, voglia di legalità e, magari, impossibilità di pagare i tributi dichiarati per mancanza di liquidità. In mezzo un tale con occhiali alla Buscetta arringa la platea sull’eccesso di massa monetaria circolante, vera causa del disastro finanziario e dell’iperbole del debito pubblico che zavorra le economie occidentali; complici le banche centrali che, dice, si rifiutano di fare l’unica cosa giusta: alzare, decise, i saggi d’interesse. Mentre l’eloquio senza indugio da geniaccio reverce thinker incalza e ti domandi a che scuola economica appartenga, è lui a chiarire di non essere un economista ma un grossista d’abbigliamento della magna Grecia invero preoccupato della fuga della manifattura dal sud-Italia verso l’est del mondo. Bonino non trattiene un rimbrotto liberista intuendo che sotto la spoglia del monetarista austriaco de noantri si nasconda un altro protezionista istintivo, come tanti se ne trovano anche nelle stanze del Palazzo.
Sul podio si alternano anche i relatori delle commissioni che hanno lavorato per gruppi tematici: debito ecologico, giustizia e amnistia, libertà civili e riformismo, internet e mobilitazione, Europa e federalismo. L’estemporaneo apporto di profani che si cimentano nel dibattito pubblico si mischia al contributo di esperti e professionisti dando luogo ad un discorso che, riarticolato nel lavoro di relazione, riesce ad esprimere un proprio significato politico. Rumori dall’avanguardia, umori e suggestioni da terreni ancora poco frequentati che, saputi decifrare, sono la materia grezza che alimenta e ispira la fucina Radicale.
L’umanità che incontri è variegata e nessuno è come l’altro; per età, abbigliamento, linguaggio e provenienza sono tutti diseguali ma accomunati dalla genuina curiosità per l’altrui diversità e una certa ipertrofia dell’Io. C’è il pirotecnico retore che approfitta di ogni dichiarazione di voto per esercitare il suo vibrato eloquio erudito e buffo. C’è la signora del ’30 che ricorda dal podio la solitudine di una giovane nel fronteggiare il padre e il mondo per la propria omosessualità senza che in giro vi fosse ancora una Famiglia Radicale nella quale rifugiarsi. C’è il vaticanista cattolicissimo che premette al suo intervento la promessa di non tentare di convertire la platea. C’è il profeta della “Tri-bon tri-voluzione” che diresti pazzo e che, quando l’urbanista propone di tornare al concetto di città medievale fatta di case attaccate le une alle altre e chiede si disincentivi fiscalmente il “distacco” tra i fabbricati, si alza puntando l’indice e grida: “tassare gli architetti!”. E tu capisci che il pazzo non è lui. Altrove sbufferebbero, scuoterebbero la testa, ti taccerebbero da disturbatore: qui ti ascoltano senza boria. Individualità, originalità sino all’eccentricità e tolleranza della più schietta forgia: John Stuart Mill qui si sentirebbe a casa.
La tensione però sale per via delle polemiche sulla strategia parlamentare e la frattura consumata con il Pd che hanno preceduto il congresso, mentre Pannella continua ad aleggiare ma non si materializza in sala. Un compagno blocca Bernardini e la incalza preoccupato: “ma tu credi se la sia presa su con noi per qualcosa…?”. Nella quasi completa assenza di personalità politiche, per il PD parla il vice Ventura ma è Giachetti a tentare la ricucitura e, da ex, lo fa nell’unico modo plausibile: attaccando, rilanciando. “Compagni occorre sporcarsi le mani”, dice, ma l’esortazione ad esprimere un minimo di realismo nell’azione politica viene letta come un invito al gioco losco… Qui le parole contano più delle intenzioni e sono prese molto seriamente.
La temperatura congressuale continua a salire. Il discorso di Vecellio non è il solito casualty count del prigioniero ma è pur sempre zeppo di cattivi presagi. Al rischio di settarismo paventato dal militante storico Spadaccia, Vecellio aggiunge l’immagine dei Radicali come i resistenti di Fort Alamo, trucidati nella vana attesa di rinforzi; vaticina di pieni poteri da affidare ad imprecisati dittatori con delega in bianco affinché portino il partito fuori dalle secche, poi butta là la metafora del gigante biondo dagli occhi blu che migliaia di fili tengono bloccato su una spiaggia. Bah, chi sia il Gulliver riesco a immaginarlo, ma della forzata staticità del mostro non vedo traccia… Rubrico il tutto sotto la voce “preoccupate esortazioni” ai lillipuziani, e passo oltre: annunciano che sta per parlare Emma.
Una distinta signora piemontese offre il proprio contributo di consulente di management e psicologa del lavoro analizzando, da simpatizzante, l’incapacità dei Radicali di farsi anche votare da tutti quelli che li amano. Qui anche ai non iscritti è garantito il diritto di tribuna e gli oratori si susseguono per ordine d’iscrizione a parlare, siano essi politici di primo piano, normali militanti o perfetti sconosciuti, in un puzzle di cui fatichi a capire la trama. L’esperta individua due difetti nel modo dei Radicali di relazionarsi con il pubblico e che finiscono per farli apparire come “setta” incapace di comunicare con chi non sia in grado di capirne i principi e la storia: familiarità e finalità. Ma, signora, lei sta asserendo che non è per via dell’oscuramento mediatico che si determina la scarsa presa sul pubblico? No? Dice che ci sia dell’altro? Ma lo sa che forse non ha tutti i torti se penso al body-language di Bonino nell’ultima intervista a Sky o al Pannella dall’Annunziata. Un concentrato di rancore custodito per decenni.
Dell’amicizia e dell’inclusività che si respirano qui, nelle pur rare apparizioni sui media non traspira nulla, anzi tramutano in ruvidezza, astio, orgogliosa necessità di marcare le differenze con l’universo mondo. Se occorresse una conferma alla tesi basta ascoltare Bonino che, nel rispedire al mittente l’accusa di settarismo, dirà: “… perché in questo paese non c’è un appestato e tutti gli altri sono sani… c’è [invece] qualcuno che è più appestato di altri”. Lapsus, signora Bonino? Veda, non è il fatto di non dialogare con tutti a far dei Radicali una setta, ma proprio la convinzione che tutti quelli con cui dialoghiamo siano degli appestati e noi, i puri, quelli che offrono un’occasione di redenzione.
Pannella si è da poco deciso a fare la sua comparsa in sala e siede nelle ultime file accanto ad una donna che lo tiene per mano. Bonino parla per 40 minuti del successo che, in periodi bui come questo, è il solo fatto di continuare ad esistere, riuscendo magari a fare qualche passo nella direzione di costruire “la società delle nuove speranze”. Il mistero della mancata nomina degli otto senatori eletti durante il governo Prodi è l’unico spunto polemico nei confronti degli alleati, per il resto il suo intervento è tutta una critica al Presidente del Consiglio che, dice, “non ha capito che al potere si accompagnano anche le responsabilità”, e del suo governo “morto e nefasto”, che prima nega, poi minimizza e infine “spreca la crisi”, rinunciando a fare le riforme necessarie, salvo poi farsele dettare dalla BCE sotto la tutela della Commissione europea. Berlusconi è sì il frutto ultimo della partitocrazia, ma nell’opera di demolizione della cultura delle istituzioni “ha messo pesantemente del suo” considerando il Paese la sua impresa e anteponendo l’interesse proprio a quello del Paese. Segue applauso lungo e fragoroso e standing ovation dei cinquecento in sala. Ti consoli e ti dici che è tutto chiaro.
Domani i lavori si concluderanno con l’elezione di segretario, tesoriere e presidente. Quasi una formalità compressa negli ultimi scampoli di tempo congressuale, mentre i delegati sfollano e la navetta fa già la spola con la stazione del treno. In precedenza è stato approvato il bilancio con la relazione del tesoriere nelle veci di revisore dei conti. Tra insignificanti voci d’entrata per autofinanziamento e corposi debiti pregressi spicca la voce “sopravvenienze attive” per euro un-milione-ottocentomila-etc. a titolo di remissione di debito. Chiedo lumi su chi sia il munifico creditore: Lista Marco Pannella e Partito Radicale Transnazionale, mi dicono. Ops, lillipuziani, riponete i vostri lazzi: il gigante non lo si imbraga. Anzi mi risulta che l’assenza di debito sia condizione necessaria per lo scioglimento di un’associazione… Lillipuziani, attenti! Mellano commenta il regalo recapitato senza un chiarimento sul significato politico e sull’autonomia del movimento dicendo che “si è persa un’importante opportunità di dibattito” e s’inalbera quando il presidente Viale suggerisce di non guardare in bocca al cavallo. Sorprendente solitudine, dottor Mellano…
Un’ora dopo il discorso di Bonino, Pannella prende la parola che terrà per 118 minuti. Non riesco a capire dove voglia andare a parare con quell’eloquio al solito affidato a imperscrutabili meccanismi di associazione libera, dove a malapena rintraccio due filoni: 1) elencazione minuziosa degli sgarbi ascrivibili a PCI, PDS, DS, Ulivo, PD patiti dal 1976, con divagazioni concatenate su circostanze, luoghi e persone; 2) sostanziale riabilitazione del “leale” Berlusconi apprendista pasticcione che si è smarrito perdendo prima noi e poi Veronica, scioccamente additato a genio del male.
Forse qualche cosa mi è sfuggita, ma non posseggo i canoni esegetici della prosa pannelliana che ha Bordin. Forse meglio così, perché occorrono troppo tempo e pazienza (e forse un qualche vincolo contrattuale) per trovare la “chiave interpretativa” che nasconde. Lascio la sala mentre la platea è rapita dalle grida commosse del suo leader, fuori un solo compagno a fumare, l’abbraccio e mi metto in macchina mentre alla radio l’invettiva continua. Quando sono ormai a Firenze, quel vaniloquio velenoso ha termine e segue altro applauso lungo e fragoroso e, immagino, altra standing ovation dei cinquecento. Sono confuso adesso. Mi domando cosa faranno i sei parlamentari quando nei prossimi giorni si voterà la fiducia, ma non so darmi una risposta. Caduto dal precipizio di una democrazia malata con al collo la pietra della propria tragicomica megalomania, Berlusconi è morto e Pannella, fiutato il cadavere, sembra pronto a precipitare con lui. I lillipuziani sono pochi e i loro fili debolissimi. Sarà suicidio collettivo?
Quattro giorni di congresso e nessuna risposta alla domanda che assilla tutti, dentro e fuori il partito. Temo che il problema non sia neppure la risposta, ma la plausibilità stessa della domanda: a condannare all’estinzione quest’appassionata falange d’idealisti non sarà l’esito della vicenda quanto la permanente incertezza sul suo scopo, il continuo interrogarsi sul fine. Perché la politica non è solo buone idee ma è possibilità, è finalità e se il fine non c’è o non si vede, se è troppo astratto o vive nella testa di uno solo, allora non c’è politica e quel che resta è solo intenzione, passione, bella umanità e vana oratoria con buona pace per la società delle nuove speranze.

domenica 6 novembre 2011

L’1xmille dell’8xmille

La Cei viene in soccorso di Genova con 1 dei circa 1.000 milioni di euro intascati l’anno scorso grazie all’8xmille. È denaro che dai genovesi torna ai genovesi, ma si tratta comunque di un bel gesto, quindi non è il caso di star lì a polemizzare se sia poco, molto o il giusto. Varrà la pena solo di rammentare che Gesù raccomandava: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati» (Mt 6, 1), e che ieri la notizia era al centro della prima pagina di Avvenire. Per onestà, però, bisogna aggiungere che il titolo non era fosforescente.

sabato 5 novembre 2011

[...]

Era indispensabile mandare in onda anche l’audio del filmato amatoriale che ieri era ospitato da tutti i tg della sera? È stato preso da youreport.it, che ne ospita almeno altre due dozzine, quasi tutti assai più eloquenti dei disastri causati dall’alluvione che ha colpito Genova, tuttavia si è scelto proprio quello. Non ho alcuna intenzione di commentare la scelta, mi limito a segnalare che tutti i tg hanno preferio proprio quello. Tanto meno voglio commentare l’audio, perché temo che sarei troppo severo con chi ha girato il filmato.

venerdì 4 novembre 2011

Cazzarolina!


   
Non montavo un’Inglesina da più di vent’anni, ma adesso mi sento laureato con lode in ingegneria.

Sul più bello

Trattandosi di un partito dal grande attaccamento ai valori cristiani, era indispensabile che il Movimento di Responsabilità Nazionale esibisse almeno una tonaca al suo primo congresso. La ricerca sarà stata accurata, perché è toccato a don Marcello Stanzione, colonna portante di pontifex.roma.it. Avremmo potuto sentire dalla sua viva voce quali affinità elettive esistano tra il partito di Domenico Scilipoti e il notorio “blog cattolico non secolarizzato”, ma non è stato possibile, perché lo Spirito sarà forte, ma sul più bello la Vescica si è rivelata debole. 


giovedì 3 novembre 2011

Franco Garelli - Religione all’italiana. L’anima del Paese messa a nudo - Il Mulino, 2011

Volentieri archivieremmo, dunque, anche il convegno di Todi, se non fosse che oggi, nella stessa giornata, sul Corriere della Sera è pubblicato un intervento di Natale Forlani, portavoce delle associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro, dal titolo Una voce unitaria per i cattolici. La sfida dopo il seminario di Todi (pag. 53), nel quale prevalgono i toni da sergente di esercito invincibile, e in libreria arriva Religione all’italiana. L’anima del Paese messa a nudo, un’indagine firmata da Franco Garelli, per Il Mulino. Ne ho letto solo l’introduzione e le conclusioni, limitandomi a sfogliare il resto, sicché rimando ad ulteriori considerazioni, se ve ne fosse bisogno, e tuttavia mi pare di poter dire che siamo dinanzi a un quadro del cattolicesimo italiano deprimente almeno quanto quello che Maurizio Ferraris dipinse alcuni anni fa (Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede? – Bompiani 2006). Ma forse tutto sarà più chiaro con qualche esempio, che piglio dai campioni più eloquenti.
Credere nella risurrezione dei morti è un “elemento essenziale” (Catechismo, 991) della fede cattolica. Se, infatti, “la fede cristiana nella risurrezione ha incontrato incomprensioni ed opposizioni” (Catechismo, 996), è pressoché impossibile dirsi cattolico senza aver fede nel fatto che “con la morte l’anima viene separata dal corpo, ma nella risurrezione Dio tornerà a dare la vita incorruttibile al nostro corpo trasformato, riunendolo alla nostra anima” (Catechismo, 1016). E tuttavia, alla domanda “Che cosa crede vi sia dopo la morte?”, il 14,6% degli italiani risponde “Nulla”, l’1,7% risponde “Non si può sapere”, il 3,5% dice “Non so”, il 21,4% ritiene che si reincarnerà “in un altro/a uomo/donna o essere vivente” e solo il 36,3% risponde “Penso vi sia un’altra vita”, ma solo in misura assai modesta (meno di un terzo) fa un cenno, peraltro vago, alla resurrezione dei morti; il resto, insieme a un altro 22,5%, che Garelli rubrica alla voce “Varie”, ha le più svariate idee sull’al di là, tutte assai poco cattoliche. Né va meglio con Dio. Tra atei, agnostici, scettici di ogni risma e credenti a intermittenza si arriva al 54,2%, mentre il restante 45,8% crede che “Dio esiste veramente”, ma è a chiedergli chi sia che sono dolori: è più spesso Manitù, che Trinità.
È il cattolicesimo all’italiana: una religione ridotta a vademecum morale, comodamente interpretato e largamente inosservato, mentre il Credo è un vuoto bla-bla che, a una attenta analisi, impietosa negli esiti, si rivela largamente incompreso. Cattolico è il profilo sociologico, di tipo familistico-tribale, non quello dottrinario, tanto meno quello teologico. Il libro di Garelli deprime innanzitutto chi polemizza col cattolicesimo sul piano dottrinario e su quello teologico, appunto. Fa capire che è polemica sterile, da petardo in seminario.

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martedì 1 novembre 2011

Volesse il cielo fosse solo una faccia di cazzo


a Giovanni Fontana

Sul perché Matteo Renzi piaccia così tanto alla destra, e così poco alla sinistra, non è il caso di intrattenerci troppo, perché è impossibile arrivare a conclusioni esaurienti. Però possiamo almeno fare qualche ipotesi.
Può darsi sia davvero un uomo nuovo, quello finalmente che può liberare la sinistra dai suoi vizi psicologici, culturali e politici, tirandola via dalle secche in cui la storia l’ha portata ad incagliarsi, rendendola finalmente capace di riguadagnare motivazioni, entusiasmo e consensi, facendole trovare idee per governare e voglia di vincere. E allora è possibile che raccolga tante critiche fra quanti invece dovrebbero salutarlo come il leader che ci voleva, perché la sinistra è ottusamente conservatrice, fottutamente masochista, irrimediabilmente votata alla sconfitta. Non è da escludere, ma questo non ci dà garanzie che Matteo Renzi sia la soluzione. 
Al contrario, può darsi che le sue idee non appartengano affatto al patrimonio culturale e politico della sinistra, e che quindi a buon motivo sia sentito da gran parte della sinistra come un corpo estraneo, come un ex democristiano che abbia subìto, anche se in ritardo, la stessa mutazione genetica di tanti ex democristiani che dalla Dc passarono a Forza Italia. Mi par chiaro che in entrambi i casi la sinistra non meriti Matteo Renzi.
D’altro canto, le critiche che Matteo Renzi muove alla sinistra sono le stesse che da sempre le sono mosse dalla destra. Sarà per questo che piace così tanto a quanti dovrebbero essere i suoi avversari “naturali”? È molto probabile, anzi, a sentire le lodi che la destra rivolge a Matteo Renzi, parrebbe che le critiche che egli rivolge alla sinistra siano le stesse che la destra (in quanto destra) muove alla sinistra (in quanto sinistra). Parrebbe che, a raccogliere le critiche che Matteo Renzi le rivolge, e che egli si sforza di dimostrare siano costruttive, la sinistra non avrebbe da far altro che diventare un po’ più simile alla destra, per vincere. Pare, infatti, che per “costruttivo” debba intendersi tutto ciò che consente la vittoria. Ci troveremmo di fronte ad una mutazione della sinistra ancora più profonda: da avanguardia che guida le sorti del popolo a oligarchia che rincorre gli umori della gente. 
Non si capisce, in realtà, perché un elettore che abbia idee di destra dovrebbe essere conquistato da una sinistra così rifatta invece che rinnovare la propria fiducia ad una destra che rimane tale, dimostrando con ciò di aver vinto la sua lunga partita contro la sinistra, né si capisce perché un elettore che abbia idee di sinistra dovrebbe rinunciarvi perché solo così potrebbe veder vincere una sinistra che di fatto non lo sarebbe più. Parrebbe, insomma, che Matteo Renzi piaccia così tanto alla destra perché, consapevolmente o no, divide la sinistra: fra quanti la vorrebbero vincente anche a costo di vederla somigliare un po’ di più alla destra e quanti sarebbero disposti a vederla eternamente perdente purché fedele alle sue idee di sempre.
Ma forse tutto ciò che ho fin qui scritto ha un vizio di fondo, che è quello di far riferimento a due categorie che sono superate già da tempo, per reciproca contaminazione: probabilmente destra e sinistra sono inservibili ad un’analisi del renzismo, che forse altro non è che un mero epifenomeno di questa contaminazione, giunta con lui a un tal grado di mimetismo da essere presentabile come superamento delle due posizioni ideologiche in un metodo duttile e pleomorfo, pragmatico più che pragmatista. Probabilmente, caro Giovanni, la questione si pone in altri termini. Ho cercato di farlo nel post qui sotto, ma forse in modo troppo ellittico. Provo a farlo qui, augurandomi di essere più chiaro: la società che sta nel progetto di Matteo Renzi è liberaldemocratica?


Liberismo e liberalismo: o stanno insieme o degenerano. Stessa cosa per libertà e responsabilità: senza responsabilità la libertà diventa arbitrio, senza libertà la responsabilità diventa sudditanza. Se arbitrio e sudditanza sono termini relativamente ambigui, le degenerazioni di un sistema nel quale l’individuo goda della sola libertà economica, o di tutte le altre tranne quella, danno vita a società dai caratteri piuttosto precisi, peraltro tristemente noti, prima o poi invivibili, e dunque destinate ad essere messe in discussione da istanze reattive, spesso anche violente. Chi voglia costruire una società che sappia evitare queste derive non può fare a meno di guardare alle libertà come un corpo inscindibile, senza considerarne alcune prioritarie rispetto ad altre, e alla responsabilità come l’unico presidio che può garantirle tutte.
Di tutte le libertà, quella economica è quella che meglio si presta a saggiare questo assunto. Quand’anche un individuo la eserciti nel pieno rispetto di un sistema normativo che gli impedisca di farne strumento di arbitrio o causa di sudditanza, la ricchezza che ha pur legittimamente cumulato gli darà modo di godere illegittimamente di quelle libertà che eventualmente siano negate a quanti non dispongano dei suoi mezzi, oltre che a proteggersi dagli effetti delle sanzioni che potrebbero raggiungerlo per aver violato il divieto, se non addirittura a fuggirle.
È il caso di una società che riconosca all’individuo la libertà di intraprendere e di cumulare ricchezza, ma gli neghi altre libertà che pure sono nel corpo del diritto di autodeterminazione nella responsabilità verso gli altri individui: a costui non sarà difficile goderne comunque, creando di fatto, anche non di diritto, condizioni di disparità che inevitabilmente faranno dei suoi beni materiali, pur legittimamente cumulati, un elemento di ingiustizia sociale. Se la ricchezza assicura ad alcuni la piena e legittima “libertà da”, che però può facilmente tradursi in piena ma illegittima “libertà di”, è solo una piena e legittima “libertà di” che può garantire l’equità di diritti nella differenza che di fatto c’è tra individuo e individuo, e che può e deve avere modo di esprimersi anche sul piano economico. Perciò ripeto: se non stanno insieme, liberismo e liberalismo degenerano.


Bene, caro Giovanni, se molte delle proposte uscite dalla Leopolda possono sembrare liberiste, non ve n’è traccia di liberali, eccezion fatta per la n. 89 (Una regolamentazione per le unioni civili), che sembra messa lì tanto per fare da bandierina nel campo dei diritti civili. Ve n’è, invece, qualcuna francamente illiberale e, ciliegina sulla torta, silenzio assoluto sul conflitto di interessi. Per Matteo Renzi, l’autodeterminazione dell’individuo è sacrosanta solo in campo economico ed è qui che il nostro si rivela liberale – scusami la bestemmia – quanto lo è Silvio Berlusconi. Nei fatti è filoclericale come lui, ma senza avere la fierezza di rivendicarlo come merito. Come lui, cerca di essere simpatico a tutti (cosa che dovrebbe sempre insospettire), e con risultati altrettanto tragicomici (cosa che dovrebbe sempre far riflettere). Tiene il palco con la stessa posa da uomo della provvidenza, che ha il sole in tasca e l’uovo di Colombo in testa. Quei 100 punti, che dovevano essere scritti in wiki e si sono accontentati della lingua di un ex Mediaset come Giorgio Gori, fanno il depliant di unofferta già sentita, appena camuffata da un volto che ancora non ha bisogno di cerone. Volesse il cielo fosse solo una faccia di cazzo.