mercoledì 13 giugno 2012

«Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero»

«Ero piccolo, e non capivo granché di politica». Come se oggi, invece… Civati commemora Berlinguer nel 28° della morte e nel leggerlo trovo conferma che peggio dei rottamandi ci sono solo i rottamatori. Almeno i primi hanno capito, anche se troppo tardi e a fatica, che proprio Berlinguer è il peccato originario che li ha portati regolarmente fuori strada ad ogni svolta, per tornare ogni volta più malconci in carreggiata, ma accumulando sempre più ritardo e perdendo sempre più consensi.
Civati, no. «Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero». Vorrei vederlo nel Pci di allora, quando il dolce Enrico, in culo a ingraiani, amendoliani e cossuttiani, prima cambiava linea del partito dalla sera alla mattina e poi esigeva che la direzione ratificasse e il congresso applaudisse. Macché, Civati è convinto che «Berlinguer diceva, quando esprimeva un pensiero, “i comunisti pensano” o “sostengono” o “intendono”, che si capiva che voleva dire “noi comunisti”, mentre a noi manca il noi». Neanche la Mafai avrà letto, è evidente, e sì che il libricino era smilzo, poteva trovare due ore tra un film e una partita di calcetto, avrebbe capito che noi significava Berlinguer, Rodano e Tatò.
Il Berlinguer di Civati è un poster, un brivido lungo la schiena, un’emozione: non ha mai letto una sua relazione congressuale o un suo paginone su Rinascita, è evidente. Civati è rimasto al «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona», senza neppure riuscire a leggerci l’ironia che ci metteva Gaber. Come dire, «Berlinguer, ti voglio bene», facevi tanta tenerezza il braccio a Benigni, sei morto in modo così emozionante, ti ho visto su Youtube, non ho capito cosa dicevi, ma suonava così bene.
Dicevi che eravamo «diversi», e lo dicevi così bene che ci abbiamo creduto. Pensavamo che la macchina del partito girasse grazie alle sottoscrizioni che si raccoglievano alle Feste de lUnità e che quei tuoi strappetti dalla Casa Madre fossero delicati per non lacerarci il cuoricino. Siamo stati costretti a ricrederci, avremmo tanto bisogno di uno come te che riuscisse a farcelo credere ancora, se solo avessimo lanima bella di allora e il centralismo democratico.
«Quel volto, quella cultura, quella dimensione, non sono più tornate», piagnucola Civati, faccia da Postalmarket, lirismo alla Veltroni. E vaglielo a spiegare che quel volto, quella cultura, quella dimensione erano quelli di un Togliatti in sedicesimo. 

martedì 12 giugno 2012

Siamo alle solite

Nell’accingermi ad analizzare un articolo di Marco Tosatti («Adozioni omo, studio Usa» – La Stampa, 12.6.2012) devo confessare con un certo imbarazzo che vi giungo grazie a un rilancio di Pontifex.Roma, che ne riporta integralmente il testo e ringrazia il vaticanista per l’autorizzazione alla pubblicazione. Il titolo che sceglie Pontifex.Roma è «Adozioni omosessuali. Una nuova estensiva ricerca in Usa le condanna. Falsati gli studi precedenti, dicono gli esperti», che sintetizza in modo abbastanza fedele il sommario che Tosatti mette in apertura al suo articolo: «Un ampio nuovo studio sui bambini allevati da coppie dello stesso sesso ha messo in luce un disegno di risultati negativi in maniera significativa, che pongono serie questioni su lavori precedenti che sostenevano che le coppie omosessuali avevano risultati educativi simili a quelle eterosessuali». In via preliminare, dunque, è da evitare ogni rilievo al «blog cattolico non secolarizzato» tristemente noto per la sua militante omofobia: il problema sta tutto nell’articolo di Tosatti, che è un pessimo esempio di giornalismo.
«Un ampio nuovo studio sui bambini allevati da coppie dello stesso sesso – scrive Tosatti – ha messo in luce un disegno di risultati negativi in maniera significativa, che pongono serie questioni su lavori precedenti che sostenevano che le coppie omosessuali avevano risultati educativi simili a quelle eterosessuali». Prosa legnosa, da traduttore inglese-italiano di Google, com’è possibile verificare andando a recuperare l’articolo di Mark Regnerus, cui si fa riferimento, su Social Science Research. Ma il problema non è la prosa. Il problema è se lo studio di Regnerus «condanni» l’«adozione omosessuale» (Pontifex.Roma) o se in essa possa individuarsi causa specifica di un «disegno di risultati negativi» (Tosatti). Non resta che risalire alla fonte.
Pacifica presa d’atto che «same-sex couples have and will continue to raise children» e che «american courts are finding arguments against gay marriage decreasingly persuasive», con scrupolosa avvertenza che «this study is intended to neither undermine nor affirm any legal rights concerning such». Questa sarebbe la «condanna» dell’«adozione omosessuale»? Avevamo preliminarmente accantonato il titolista di Pontifex.Roma, adesso possiamo definitivamente mandarlo a cagare.
Ma veniamo al «disegno di risultati negativi» che troverebbero specifica causa nell’«adozione omosessuale».
«Do children need a married mother and father to turn out well as adults?», si chiede Regnerus. «No, if we observe the many anecdotal accounts with which all Americans are familiar. Moreover – precisa – there are many cases in the New Family Structures Study where respondents have proven resilient and prevailed as adults in spite of numerous transitions, be they death, divorce, additional or diverse romantic partners, or remarriage. But the New Family Structures Study also clearly reveals that children appear most apt to succeed well as adults — on multiple counts and across a variety of domains — when they spend their entire childhood with their married mother and father, and especially when the parents remain married to the present day». «Disegno» pressoché sovrapponibile, dunque, a quello di ogni altra serie di «risultati negativi» in ambito familiare, quand’anche la coppia sia eterosessuale.
Tosatti, allora, che ha letto? Ha letto l’abstract, distrattamente per giunta. Nel corpo del testo, per esempio, avrebbe trovato che «the New Family Structures Study is not a longitudinal study, and therefore cannot attempt to broach questions of causation». Soprattutto avrebbe trovato che «although the New Family Structures Study offers strong support for the notion that there are significant differences among young adults that correspond closely to the parental behavior, family structures, and household experiences during their youth, I have not and will not speculate here on causality, in part because the data are not optimally designed to do so, and because the causal reckoning for so many different types of outcomes is well beyond what an overview manuscript like this one could ever purport to accomplish». Non è tutto, perché Regnerus tiene a precisare: «I am thus not suggesting that growing up with a lesbian mother or gay father causes suboptimal outcomes because of the sexual orientation or sexual behavior of the parent; rather, my point is more modest: the groups display numerous, notable distinctions, especially when compared with young adults whose biological mother and father remain married».
Pretendere che Tosatti leggesse tutto l’articolo di Regnerus? Macché, gli sembrava di aver trovato una prova scientifica di ciò che suggerisce la fede. 

lunedì 11 giugno 2012

Il corvo


La fonte di Gianluigi Nuzzi «raccoglieva documenti, circolari, lettere, contabili bancarie in Vaticano e li studiava di notte nel suo studio privato, lontano da sguardi indiscreti» (pag. 7). Tutto farebbe credere che si tratti di Paolo Gabriele, aiutante di camera di Benedetto XVI, perché a casa sua sono state rinvenute tredici casse di documenti, in copia, raccolti nell’arco di circa sette anni. Ammesso che sia così, dove li ha riprodotti in copia?
Portare via tutte quelle carte dal Palazzo Apostolico, fotocopiarle comodamente a casa e poi riportarle indietro avrebbe comportato il serio pericolo di essere scoperto in uno di questi continui andirivieni. Non era un rischio enorme per chi si fosse posto il fine di «rendere pubblici certi segreti» per sentirsi «affrancato dall’insopportabile complicità di chi, pur sapendo, tace»?
Ne ha fatto copia in loco? Poco probabile che sia stata usata un’apparecchiatura fotografica o una fotocopiatrice portatile: in entrambi i casi la riproduzione dei documenti non sarebbe stata della qualità che si evince dalle copie che sono riprodotte nella seconda e nella terza di copertina del volume di Nuzzi (assenza di ombre, margini conservati, nessuna distorsione assiale, radiale o tangenziale, ecc.).
Nello studio di Benedetto XVI ci sono solo «una modesta libreria a ripiani, poltroncine basse, la scrivania in legno, due telefoni fissi, nessun cellulare» (pag. 9): poco probabile che uno dei due telefoni abbia una linea abilitata alla funzione fax e che da quella i documenti abbiano preso il volo (le comunicazioni con l’esterno, via fax e via e-mail, sono a cura di monsignor Georg Gänswein), poco probabile che accanto a quella libreria ci sia una fotocopiatrice.
Senza dubbio, tuttavia, i documenti che sono arrivati nelle mani di Nuzzi sono ottimamente riprodotti, frutto di un lavoro apparentemente eseguito in tutta tranquillità.
Tutto farebbe credere che il corvo sia Gabriele, dicevo, daltronde è reo confesso ed è stato trovato in possesso dei documenti resi pubblici da Nuzzi. Tutto farebbe credere, altresì, che il fine ultimo del corvo sia quello di portare a galla molta di quella «sporcizia» che il cardinal Joseph Ratzinger lamentava nella Via Crucis del 2005. Di certo cè che dal 2005 ad oggi, pur da una posizione che, in teoria, glielavrebbe consentito, non è stato capace di far troppa pulizia.
Non si deve essere troppo severi, però, perché spesso il Papa non può molto sulla Curia, in pratica. Anche Giovanni Paolo II, che pure aveva più polso, preferì disinteressarsene. Insomma, non vha nemmeno sfiorato il sospetto che a far gracchiare il corvo sia stato proprio Benedetto XVI?      
 

sabato 9 giugno 2012

Vedremo

Con un’ordinanza dello scorso 3 gennaio, il giudice tutelare del Tribunale di Spoleto ha sollevato il problema di costituzionalità dell’art. 4 della legge 194/1978, che consente «l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni [al]la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Al signor giudice è sembrato che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 18 ottobre 2011 riconosca già nell’ovocellula fecondata «un “essere” provvisto di un’autonoma soggettività giuridica della cui tutela l’ordinamento deve farsi carico».
Sarà il caso di rammentare che tale sentenza si limita a vietare la brevettabilità dell’embrione umano e ogni altra procedura che implichi il suo sfruttamento a fini industriali-commerciali, compresa la sua “distruzione” se finalizzata a tale impiego, ma al signor giudice sembra che «vietare la “distruzione” dell’“embrione umano” equival[ga] ad affermare il disvalore assoluto in ogni caso della perdita dell’embrione umano per consapevole intervento dell’uomo». Gli sembra, infatti, che in tale divieto vi sia l’«affermazione, nemmeno troppo implicita, della giuridica esistenza di un soggetto, l’“embrione umano” che, in ogni caso, deve trovare tutela in forma assoluta».
È di chiara evidenza che non si sia posto affatto il problema del perché la Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia deciso di usare il termine “distruzione”, che è riferito a cosa, invece che “omicidio”, che è riferito a persona. Altrettanto chiaro appare che la «tutela assoluta» così prevista per l’embrione non sia nel testo della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come molti organi di informazione hanno riportato in questi giorni, ma nell’interpretazione che il signor giudice le dà. «Se tale interpretazione non erra – scrive – sembra necessario farne diretta applicazione nel diritto interno allo Stato e porre d’ufficio la questione della compatibilità fra tale affermato principio e la facoltà prevista dall’art. 4 della legge 194/1978 di procedere volontariamente all’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni dal concepimento». Non è affatto in discussione, dunque, la minore età della gravida che faccia richiesta dell’interruzione volontaria di gravidanza, com’è nel caso di specie che ha dato occasione al signor giudice di sollevare la questione di costituzionalità – un’altra imprecisione nella quale sono incorsi molti organi di informazione – ma è in discussione il diritto della donna di poter interrompere una gravidanza che metta in serio pericolo la sua salute fisica o psichica, negandole ogni tutela in merito.
La mia impressione è che l’interpretazione del signor giudice erri, che in più sia speciosa e strumentale, costituendosi – poco importa quanto intenzionalmente – come ennesimo attacco a una legge approvata dal Parlamento italiano e confermata da una consultazione referendaria.
La Corte Costituzionale si riunirà il 20 giugno per decidere, vedremo. Tanto non c’è verso di convincere una donna a portare avanti una gravidanza indesiderata, tuttal più torneremo alla pratica degli aborti clandestini. Non c’è nulla di illegale che non sia possibile in Italia e, pagando, facilissimo. I ginecologi obiettori nel pubblico e abortisti nel privato incrociano le dita e fanno tutti il tifo per il signor giudice tutelare del Tribunale di Spoleto.  

venerdì 8 giugno 2012

La mafia, la politica, i poteri sporchi, insomma, la strategia della tensione

Fare entrare Giovanni Vantaggiato nella trama costruita a L’Infedele sarà assai difficile, ma la Procura s’impegni, sennò in una delle prossime puntate volerà l’insinuazione che sta depistando. 

mercoledì 6 giugno 2012

La Nazionale italiana va in visita ad Auschwitz


Il consiglio era: concentrazione in campo. Hanno capito: campo di concentramento.


lunedì 4 giugno 2012

[...]

«… mi copro col mantello il capo e più non sento,
e mi addormento, mi addormento, mi addormento…»



Se avessimo la sensibilità di un Filemazio alla vigilia del crollo dellImpero, leggeremmo nel passaggio di Venere davanti al Sole il sopraggiungere di un nuovo populismo, quello da «poveri ma belli», sul vecchio, quello da «ricchi ma cafoni».



Nulla di nuovo, in Vaticano

Nulla di nuovo, in Vaticano. Una dozzina d’anni fa si scoprì subito che il corvo era monsignor Luigi Marinelli. Non aveva resistito alla vanità di celarsi in anonimato dietro un anagramma del cognome: Millenari. Anche allora il corvo si disse portavoce di un gruppo di prelati mossi dall’urgenza di purificare il tempio: «L’alleanza di Dio con i poveri e gli umili è in contraddizione con l’arroganza di ogni potere… È venuto il tempo che la Chiesa chieda perdono a Cristo per le sue tante infedeltà e tradimenti dei suoi ministri, specialmente di quelli costituiti in autorità al vertice della gerarchia ecclesiastica».
Non si è mai saputo di chi fosse portavoce, il tempio continuò ad essere la fogna che è sempre stata da diciassette secoli in qua e rimane il sospetto che Via con vento in Vaticano (Kaos Edizioni, 1999) fosse solo lo sbocco di bile di un poveraccio che in Curia non aveva fatto carriera, un «sommergendo» che si era visto sorpassato da tanti «emergenti», «impuniti che hanno dalla loro parte la presunzione del perbenismo preconfezionato, in qualunque modo agiscano... cadetti di una scuderia alla quale è permessa lallegra esperienza di sorvolare lapprendistato per immettersi immediatamente nelle competenze dei livelli superiori» (pag. 146, cap. XII).
Libro zeppo di indiscrezioni, tutte molto imbarazzanti, ma Marinelli non faceva nomi, tutt’al più nomignoli, e solo chi era molto addentro ai cunicoli fognari poteva riconoscere, in quella galleria di incorreggibili viziosi e di spietati carrieristi, monsignor De Giorgi, monsignor Gugerotti, monsignor Gantin, monsignor Rigali e gli altri. Quasi ad uso interno, quel libro.
Anche allora si disse fosse per amore della verità, perché nei Vangeli sta scritto: «Oportet ut scandala eveniant». In realtà, nei Vangeli sta scritto tutt’altro: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono» (Lc 17, 1); «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo» (Mt 18, 7). Insomma, Gesù consiglierebbe al corvo di tacere, ma ogni tanto il corvo parla, e ogni volta imbecca un allocco che gli fa il favore di aiutarlo a regolare i suoi conti, a partita chiusa o a partita aperta.
Innegabile che stavolta il corvo abbia imbeccato Gianluigi Nuzzi a partita ancora aperta, innegabile che stavolta il tiro si sia alzato, tuttavia lo schema è sempre lo stesso: offrendo agli anticlericali una ghiotta occasione di polemica, si mira a suscitare un’ondata di sconcerto e di sdegno da parte del laicato cattolico e del basso clero. È lo sgambetto agli  «emergenti» al quale i «sommergendi» ricorrono in ultima istanza. Superfluo rilevare che quanti si nutrono dell’ideale di una Chiesa ripulita da ogni «sporcizia» temporale si fanno inconsapevole strumento di queste manovre.
La Chiesa è sempre stata così, non potrà mai essere diversa. Diciassette secoli di storia dovrebbero bastare a capire che è «semper renovanda», ma che in questo rimarrà sempre uguale. «Sarebbe poco serio riferirsi ai primi tre secoli [della sua storia], prendendoli a modello, per accusarla di essere diventata poi poco evangelica: non vi è dubbio, infatti, che i cristiani siano caduti spesso  in tentazione [dal IV secolo in poi], ma è altresì vero che prima di Costantino questa tentazione non ebbe modo di presentarsi... Appena la Chiesa ebbe ottenuto la libertà religiosa, la tentazione del potere si trasformò in una realtà che avrebbe accompagnato costantemente lesistenza dellistituzione ecclesiastica»: non è un suo nemico a dirlo, ma un autorevole studioso della sua storia, padre Juan Maria Laboa, fondatore della rivista Communio (Momenti cruciali nella Storia della Chiesa, Jaca Book 1986 - pag. 291). Dimentica di dire che anche prima di acquisire la libertà religiosa le coltellate tra i suoi membri più autorevoli non sono mai mancate, basti rammentare il modo in cui san Paolo regolò i suoi contrasti con san Pietro.
Il problema non è la «sporcizia» che si annida nella Chiesa, il problema è che la Chiesa è inemendabilmente sporca, come lo è necessariamente ogni piramide gerarchica che in cima abbia unentità autocratica. Tanto più inemendabilmente sporca, in questo caso, perché questa struttura si vuole a immagine del corpo mistico del Cristo vivente. Del tutto naturale che ogni tanto in quel ventre soda un borgorigma e ne esca un peto. Star lì a dire che puzza di brutto è un esercizio vacuo. Questa è la risposta a quanti mi hanno chiesto perché finora non mi ci sono applicato.

sabato 2 giugno 2012

venerdì 1 giugno 2012

[...]

Il sintomo più eloquente del degrado della vita politica italiana è insorto nel momento in cui la realtà ha superato la satira in iperbole e i politici hanno accostato, prima, e sorpassato, poi, le parodie che ne caricaturizzavano i tratti salienti. Le gerarchie ecclesiastiche non sono state da meno e da qualche tempo sono di casa, perfettamente a loro agio, nei più malevoli luoghi comuni anticlericali. Quando Michele Serra, per esempio, scrive che «nessuno, nei palazzi vaticani, sa esattamente perché trama, ruba lettere, origlia dietro le tende, versa gocce di veleno in ogni bicchiere incustodito», ma «lo fa solo per rispettare usanze antichissime, le cui origini di perdono nella notte dei tempi», sicché «un papa tradizionalista come Ratzinger non può non cogliere l’omaggio alla tradizione, e apprezzarlo» (l’Espresso, 23/LVIII – pag. 11), siamo a una satira che fotografa la realtà senza alcuna forzatura umoristica. 

A parte, ma perché Michele Serra è così brillante su la Repubblica e su l’Espresso, ma fa tanto cagare quando scrive testi per la tv?

domenica 27 maggio 2012

Lunga vita a Benedetto XVI

Quello di Benedetto XVI si sta rivelando uno splendido pontificato, almeno per noi anticlericali. Mai tanta merda è venuta a galla dal fondo dell’acquasantiera come in questi anni, immergerci due dita per farsi il segno della croce impone ormai più stomaco che devozione. Lunga, lunga vita a Benedetto XVI.

venerdì 25 maggio 2012

Una teodicea laica

Gli elementi che abbiamo a disposizione non ci consentono di avere alcuna certezza riguardo al movente della strage di Brindisi, ma l’ipotesi dell’attentato mafioso è avanzata come la più verosimile da molti commentatori, alcuni dei quali arrivano a considerarla la sola degna di considerazione. Non riesco a farmene una ragione, perché a me pare che quella dell’attentato mafioso sia l’ipotesi che regga meno. Eviterò di passare in rassegna i dati che tenderebbero ad escluderla, che sono tanti, limitandomi a considerare l’argomento che invece li ritiene utili per avvalorarla. È l’argomento usato da Enrico Deaglio nel corso dell’ultima puntata de L’Infedele (La7, 21.5.2012): “Quando succedono cose di questo genere, la prima reazione da parte delle autorità e dello Stato è quella di dichiarare «anomala» la cosa, soprattutto quando si tratta di mafia. «La mafia non usa le bombole di gas». Una volta si diceva: «La mafia non usa esplosivi, la mafia non colpisce fuori dalla Sicilia, la mafia non sequestra le persone, la mafia non uccide le donne, non uccide i bambini, non uccide i preti». Tutte cose che sono state smentite… In tutti i casi in cui si è detto che non era la mafia, era la mafia”.
Ritengo che non sia il caso di soffermarmi troppo sul difetto logico che sostiene questo tipo di argomentazione – rimando a ciò che ha scritto Chaïm Perelman ne Il dominio retorico (Einaudi, 1981) sul sofisma della transitività del rapporto di inclusione o di implicazione (pag. 80 e seguenti) – ma penso invece sia opportuno segnalare il rischio che consegue da questa sbrigativa reductio: tutto ciò che non sembra mafioso può esserlo, anzi, tanto più può essere mafioso quanto meno lo sembra. Ce n’è abbastanza per ipotizzare un movente mafioso in ogni crimine dalle finalità ignote, fino all’insinuazione – fatta da Gad Lerner a sostegno della tesi di Enrico Deaglio – che la mafia è in grado di servirsi anche di uno squilibrato. Si arrivasse, dunque, ad appurare che il responsabile della strage di Brindisi è stato proprio uno squilibrato, non cadrebbe l’ipotesi di una regia mafiosa. Farla cadere significherebbe fare il gioco del diavolo, il cui più subdolo intento è convincere che non esista. 

Parlare di metodo mi pare improprio, direi si tratti piuttosto di atteggiamento. Quando non è l’abito mentale di quelli che Leonardo Sciascia definì «professionisti dell’antimafia», è espressione di una teodicea laica che eleva la mafia a radice di ogni male e che trova variante monomaniacale in chi al posto della mafia vede meglio i Savi di Sion, la Cia, gli Ufo o la Trilaterale. Tuttavia ogni teodicea necessita di sintomi, ancorché aleatori.
Qui, nel caso della strage di Brindisi, abbiamo l’intitolazione dell’istituto professionale davanti al quale è scoppiato l’ordigno e il 20° anniversario della strage di Capaci: elementi che sarebbero decisivi, insieme agli altri «anomali», che in quanto «anomali» non sarebbero da considerare contraddittori, ma coerenti ai primi. I 4 giorni d’anticipo rispetto a tale anniversario non sembrano aver peso e in realtà non si capisce perché la bomba non sia stata fatta esplodere il 23 maggio, se doveva essere un infame sfregio alla memoria di Giovanni Falcone e di sua moglie. Così il fatto che la scuola scelta per l’attentato sia intitolata a Francesca Laura Morvillo: perché proprio a Brindisi, perché proprio l’autobus che veniva da Mesagne e non quello arrivato poco prima, perché gpl e non tritolo – dettagli irrilevanti.
Ho orrore di questo atteggiamento, ancor di più ne ho nel constatare quanto sia altamente contaminante. 

lunedì 21 maggio 2012

Da buttare


La curiosità mi ha portato all’acquisto de I giorni della tempesta di Antonio Socci (Rizzoli, 2012), del quale avevo da tempo smesso di leggere articoli e saggi, per la noia mortale che mi infliggevano. Stavolta si trattava di un romanzo e il romanzo è un genere a parte: si può essere un pessimo giornalista ma un ottimo romanziere, e viceversa. Per giunta mi invogliava la trama, riassunta nel risvolto di copertina. Insomma, ho cominciato a leggere il volume con una disposizione d’animo assai benevola, anzi, più benevola del solito, perché confesso che mi auguravo di poter scandalizzare i lettori di questo blog con una recensione piena di elogi: non vedevo l’ora di appuntarmela in petto come prova di grande onestà intellettuale.
Beh, con tutta la buona volontà, mi è stato impossibile: Antonio Socci scrive male, non ha ritmo, riesce ad abortire ogni embrioncino di costrutto narrativo. Non mi aspettavo un capolavoro, ma dagli ingredienti – un assassinio, carte rubate dagli archivi vaticani, le rivelazioni di una veggente, un conclave, le spoglie di san Pietro – pensavo si potesse trarre almeno un buon thriller. E invece ne è uscito un pretenzioso fumettone scritto coi piedi, sciatto e banale, gonfio di una prosa faticosa e affaticante. Da buttare.

domenica 20 maggio 2012

[...]

Mercoledì 23 maggio, ventennale della strage di Capaci, al «Francesca Laura Morvillo Falcone» di Brindisi si sarebbero tenute le lezioni come in un qualunque altro giorno feriale e molto probabilmente, visto a chi è intestato l’istituto, si sarebbe tenuto anche qualche rito commemorativo. Quale migliore occasione per la mafia, se l’intenzione fosse stata quella di ferire la memoria di una nazione? E allora perché farlo esplodere quattro giorni prima, quell’ordigno? E perché a Brindisi? Ma, poi, la mafia usa bombole di gpl per i suoi attentati?
Presto ancora per dirlo, tuttavia se qualcosa non possiamo escludere è che si stia commettendo lo stesso errore che commettemmo con la strage di Bologna: da subito ci sembrò neofascista e ci vollero trent’anni per cominciare a sospettare che forse non lo fosse. Stesso rischio, perché la storia delle stragi in questo paese è senza dubbio storia di depistaggi, ma anche di tesi delle quali ci si innamora a prima vista, per restar loro fedeli anche quando tradiscono, per continuare a usarle come armi improprie. In molti casi, chi depista non sa quale sia la vera pista. Può accadere perfino che depisti maldestramente alla verità, se non a quella storica, a quella processuale.
È che siamo sentimentalisti, d’altra parte è difficile non esserlo quando i nervi sono scossi da così una rabbia così giusta, da una sensazione di impotenza tanto odiosa: una cosa tanto mostruosa come quella accaduta ieri ci sembra possa essere frutto solo di un’intelligenza all’altezza di tanta mostruosità, facciamo enorme fatica a immaginare che si possa avere un così bestiale disprezzo per la vita degli innocenti senza una posta in gioco che sia adeguatamente alta. Non possiamo accontentarci di un movente, tanto meno se troppo miserabile per un delitto così atroce, e allora dobbiamo immaginarlo entro un disegno, una trama, una strategia, meglio se fitta di richiami e di rimandi. Ci ferisce l’idea che la bestia sappia essere feroce anche per poco e allora dobbiamo evocare grandezze criminali pari al nostro sgomento e al nostro dolore.
Io penso che l’ordigno esploso ieri a Brindisi non abbia altro legame col ventennale della strage di Capaci se non quello che ci è necessario darci per trovare un poco di sollievo. 

giovedì 17 maggio 2012

Meno di un caffè al giorno


Tenuto conto delle grandi vittorie referendarie degli anni Settanta e Ottanta, della violenta reazione clericofascista che ne seguì, delle successive puttanate tipo la candidatura di Ilona Staller e Toni Negri, la liquidazione del Partito Radicale, la fiducia accordata alla rivoluzione liberale di Silvio Berlusconi, il ruolo dato a Daniele Capezzone, e dello odierno stato in cui versano i radicali, con le casse vuote e le iscrizioni al loro minimo storico, credo che sarebbe opportuno capovolgere la citazione di Gandhi:  “Prima vinci, poi ti combattono, poi ti deridono. Poi ti ignorano”. 

“Offri centomila lire a chi ti salva”

Poco prima di morire, Pasquale Croce raccomandò a Benedetto, suo figlio, che gli era a pochi metri di distanza, sotto le macerie del terremoto di Casamicciola: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Se ne ha notizia per la prima volta sul Corriere del Mattino del 31 luglio 1883, tre giorni dopo il terremoto: “Ieri fu trasportato a Napoli anche il figliuolo primogenito del commendator Croce; egli è gravemente ferito a una gamba e ad un braccio. Perirono il commendator Croce, la moglie e una figlioletta. Il giovinetto superstite di questa ricchissima famiglia foggiana, stabilita da lunghi anni a Napoli, conserva una memoria precisa dell’accaduto. La madre e la sorella sparirono nel vortice del crollamento, né si udì di loro alcuna voce. Egli, che era seduto ad un tavolino insieme col padre, precipitò. Il padre fu coperto tutto dalle macerie, ma parlò dalle nove e mezzo del sabato fino alle undici antimeridiane della domenica successiva. Benedetto era sepolto fino al collo nelle pietre, aveva però il capo fuori di esse. Il giovinetto fu estratto dalle rovine verso mezzogiorno, poco prima che il padre avesse cessato di parlare. Si racconta che con gran senso pratico dicesse al figlio: «Offri centomila lire a chi ti salva»”.
Poco più di un mese dopo, a Lucerna, veniva dato alle stampe Die Insel Ischia in Natur-, Sitten- und Geschichts-Bildern aus Vergangenheit und Gegenwart, di Woldemar Kadel, dove a pag. 59 si legge: “Er soll dem Ersten besten hunderttausend, zweihunderttausend Francs bieten, wenn er sie rettet, nur nicht sterben, den Erstickungstod sterben”. La frase attribuita al padre di Benedetto Croce è riportata anche in Casamicciola di Ernesto Dantone (Perino Editore, 1883) e in Cronaca del tremuoto di Casamicciola di Carlo Del Balzo (Tipografia Carluccio, De Blasio & C., 1883).

Ho già citato questi scritti in due post del marzo dello scorso anno, mentre il Corriere del Mezzogiorno, con diversi articoli a firma di Marco Demarco, Giancristiano Desiderio e altri, avallava e sosteneva l’accusa di “mistificazione della storia e della memoria”, che dalle sue stesse pagine erano state mosse a Roberto Saviano da Marta Herling. Saviano non aveva fatto altro che riportare la frase che Pasquale Croce aveva rivolto al figlio nella notte tra il 29 e il 30 luglio 1883, prendendola da un’intervista di Ugo Pirro al filosofo apparsa su Oggi, il 13 aprile 1950.
Fin lì, Benedetto Croce non si era mai disturbato a smentire il cronista del Corriere del Mattino che lo aveva intervistato tre giorni dopo il terremoto, né a smentire Kadel, né Dantone, né Del Balzo, e non si disturbò neppure a smentire Pirro. Doveva accadere che a smentire Saviano fosse la Herling e che il Corriere del Mezzogiorno le desse man forte con una campagna di stampa dai toni odiosi, che oggi lo scrittore ritiene sia stata diffamatoria, querelando la casa editrice del giornale e chiedendo risarcimento per il danno subìto.
Io mi auguro che la sua richiesta venga accolta, perché ho prova certa che a muovere quella campagna sia stata una palese malafede: in data 11 marzo 2011, infatti, e cioè il giorno dopo che la lettera della Herling desse avvio alla querelle, inviai una e-mail al direttore del Corriere del Mezzogiorno, producendo le fonti di cui sopra, senza avere alcuna risposta, né pubblica, né privata. E aspetto di sapere dal giudice che si occuperà del caso se fossero documenti degni di attenzione, perché sono sicuro che costituiranno argomento.

martedì 15 maggio 2012

Tutto è maledettamente relativo

Dalla Sala Stampa Vaticana neanche due righe. Non uno dei battaglieri polemisti di Avvenire è sceso in campo. L’Osservatore Romano tace, e siamo già al quarto giorno. Neanche un cenno da Radio Vaticana. Idem da Sat2000. Nemmeno il più sfessato dei bloggucci dell’ampia e variegata area cattolica ha finora sfiorato l’argomento. Evidentemente la consegna è del silenzio. Autoconsegna, per meglio dire. D’altra parte, l’articolo di Horacio Verbitsky (Videla, il Vaticano sapeva – Il Fatto Quotidiano, 11.5.2012) è stato ripreso solo da altri due o tre quotidiani e, giacché produce prova inoppugnabile di una schifezza estremamente imbarazzante e tentare di metterci una toppa è praticamente impossibile, meglio far finta che non sia accaduto niente, meglio evitare che monti il caso. Nessuno si azzarda ad insinuare che il documento sia un falso, nessuno si azzarda a tentare una spiegazione che almeno in parte attenui l’atroce verità che inequivocabilmente prova: il Vaticano sapeva dei sequestri, delle torture e degli assassini che gli uomini di Jorge Videla andavano compiendo tra il 1976 e il 1983, e tacque. Di più: per mano dei massimi rappresentanti della Conferenza Episcopale Argentina offrì collaborazione alla giunta militare perché su tutto calasse il silenzio, a fronte del sospetto che in tanti maturava e che solo anni dopo avrebbe dovuto trovare l’agghiacciante conferma nelle confessioni degli aguzzini portati alla sbarra. 
Il verbale dell’incontro che si tenne tra Videla e l’allora presidente della Conferenza Episcopale Argentina, il cardinale Raul Francisco Primatesta, e i suoi due vicepresidenti, il cardinale Juan Aramburu e monsignor Vicente Zazpe, non lascia alcun dubbio in proposito: mentre migliaia di argentini (tra i 9.000 e i 30.000) scomparivano da case, scuole, fabbriche, uffici, per essere dapprima trattenuti in centri di detenzione clandestina e poi gettati nell’Oceano Atlantico o nel Rio de la Plata da aerei militari in volo, sennò sepolti in fosse comuni, talvolta ancora vivi, gli alti prelati concordavano con la giunta militare il miglior modo per tenere l’opinione pubblica argentina e quella internazionale all’oscuro di tutto. Era il 10 aprile 1978 e questo chiama in causa almeno due pontefici, che a norma del Diritto Canonico vigente a quei tempi non potevano non sapere (c’è da supporre che Giovanni Paolo I non abbia fatto in tempo a sapere, perché nel corso del suo brevissimo pontificato non si ebbero udienze ad limina apostolorum dell’Episcopato Argentino).
Mentre la Chiesa scagliava fulmini e saette contro l’aborto, i suoi porporati andavano a pranzo con i carnefici del popolo argentino. Erano i tempi in cui il Nunzio Vaticano in Argentina, il cardinale Pio Laghi, benediceva la dittatura militare, giacché “i valori cristiani sono minacciati dal comunismo e l’Argentina reagisce come un qualsiasi organismo che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi dei mezzi imposti dalla situazione… Si tratta di idee che mettono in pericolo valori essenziali, sicché va applicato il pensiero di San Tommaso d’Aquino, secondo cui in tali casi lamore per la Patria è equivalente all’amore per il Signore: difendendo la Patria, gli uomini d’armi, a tutti i livelli, compiono il dovere prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo”.
Ragioni che oggi nessuno ha più il coraggio di impugnare per difendere la linea che il Vaticano adottò in Argentina. Proprio vero che i valori non negoziabili sono acqua fresca e che tutto è maledettamente relativo.

sabato 12 maggio 2012

mercoledì 9 maggio 2012

La valigia

I composti del verbo fare hanno forme di coniugazione talvolta poco corrette ma ormai d’uso comune. Disfare, per esempio. Disfo la valigia o la disfaccio? Sarà il caso che la disfi o la disfaccia? Che dite: la disfiamo o la disfacciamo? Tu la disferesti o la disfaresti? La disfi o la disfai? Alcuni la disferebbero, altri la disfarebbero. E dunque, ‘sta benedetta valigia, la disferemo o la disfaremo? È il caso di decidersi perché, quando sarà, dovremo capire se la stiamo disfando o disfacendo.