martedì 3 giugno 2014
lunedì 2 giugno 2014
Mannaggia
Quando
le corporazioni si mobilitano in difesa dei propri privilegi, d’istinto mi
schiero in favore di chi li ha messi in discussione, chiunque sia, senza star
troppo a sceverare sulla ratio che lo anima, anzi, talvolta mi sorprendo
addirittura ad incitarlo come se lui stesse sul ring e io di sotto: «Daje! –
urlo in cuor mio – Faje usci’ er sangue dalle orecchie!». L’istinto, tuttavia,
non mi fa perdere del tutto il comprendonio, sicché, dinanzi alla notizia che
la Rai scende in sciopero per gli annunciati tagli che il Governo pare
intenzionato a infliggerle, mi chiedo innanzitutto: è una corporazione, la Rai?
Direi che non lo sia. Corporazione sarà quella dei tassisti, dinanzi alla quale
questo Governo si
è calato le braghe, come d’altronde in altre occasioni hanno fatto anche quelli
precedenti. In quanto ai privilegi che andrebbero tagliati, in questo caso
parrebbe assommino a 150 milioni di euro: una bazzecola se comparata a tutto
quello che ci costano i privilegi accordati alla corporazione dei preti, che
forse non sarà corporazione in senso stretto, ma in senso lato pure troppo.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Tanti ma non tutti, a dire il vero, perché i partiti, per esempio, continuano a ricevere rimborsi elettorali, e i giornali continuano a intascare finanziamenti dallo Stato, e le sagre del caciocavallo continuano ad essere possibili
all’ombra di questo o quel campanile
solo grazie a una generosa pioggerellina di denaro pubblico. Insomma, sarà un pensiero malizioso, e speriamo che Dio ci chiuda un occhio sopra, ma che alla Rai si voglia far pagare qualche sgarro, che si intenda fare un favore alla concorrenza, il sospetto viene. Non si ha neanche il tempo di scacciarlo perché sconveniente, tuttavia, che
l’ineffabile Presidente del Consiglio dice: «Se
avessero indetto lo sciopero prima del voto, invece del 40,8 per cento avrei
preso il 42,8».
Mica è per fare un piacere a Mediaset, come insinuano a Viale Mazzini. Mica è per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, come pensa qualche coda di paglia. No, si tratta dell’ennesima furbata promozionale: mettere all’asta due auto blu per far credere di aver lasciato a piedi la casta, dare una mancia da 80 euro a qualche milione di statali per poter dire che le tasse scendono, sparare le solite palle da ghepensimì ma con supporto di slides perché gli annunci sembrino anticipi. Se avessero indetto lo sciopero prima del voto,
l’ennesima trovata per atteggiarsi a inesorabile nemico delle corporazioni avrebbe fatto tutt’altro effetto, mannaggia.
Perché, diciamocela tutta, la Rai, così com’è, è un insulto alla povera gente che annaspa nei gorghi della crisi economica. Quei fatui varietà mangiasoldi, quello sconcio del gioco dei pacchi che dà via milioni di euro a dei perfetti coglioni sorteggiati tra gli abbonati al canone... Mica la serietà di programmi come Amici della De Filippi, mica i soldi sudati a La Ruota della Fortuna...
domenica 1 giugno 2014
[...]
Pare
che spesso alle domande poste in corso di sondaggio si tenda a dare risposte
che si ritiene facciano fare bella figura, o almeno ne evitino di brutte, il
che porta a darne di veritiere quando si abbia la convinzione che esse
incontrino un giudizio favorevole o almeno neutro, sennò a darne di false, per
evitare riprovazione, biasimo o perfino disprezzo. Giacché questo accade anche
quando l’intervistato risponde in forma anonima, è evidente che la censura alla
risposta veritiera insorga quando questa venga ritenuta sconveniente da un foro
interno che faccia proprio il metro di giudizio che, a torto o a ragione, si
sente esternamente prevalente. In sostanza, dunque, direi che chi mente alle
domande poste in corso di sondaggio non sia semplicemente uno cui manchi il
coraggio di esprimere le proprie idee o i propri gusti perché teme incorrano nella
più o meno severa disapprovazione di quella che, a torto o a ragione, individua
come prevalente opinione corrente: mentendo, egli non pone in atto solo una
difesa alla propria reputazione, ma anche un vero e proprio attacco alla
solidità del metro di giudizio ritenuto sovrano. Attacco che assume i connotati del
sabotaggio, perché è evidente che un sondaggio miri a dare indiretta rappresentazione
di quel metro, e la risposta non veritiera lo mina dall’interno, col chiaro
intento di renderlo inaffidabile o comunque di erodere sovranità alla logica che lo rende vigente. In tal senso, è chiaramente riconoscibile la natura nevrotica del processo
che porta a mentire in corso di sondaggio, e tuttavia potremmo riconoscergli una sottospecie della nobiltà che concediamo al
partigiano che di giorno sia impeccabile conformista e di notte vada a minare
ponti.
Ciò
detto, occorre chiarire due punti, fin qui lasciati intenzionalmente vaghi. In
primo luogo, occorre chiederci quali caratteri assuma la «prevalente opinione
corrente» in chi menta in tali occasioni. Direi non sia necessariamente l’opinione
quantitativamente maggioritaria, ma quella che chi mente sente
qualitativamente, ancorché ingiustamente, più accreditata sul piano di quel
realismo che presume a fondamento del vigente metro etico-estetico. In secondo
luogo, torna necessario chiederci in quale misura – quanto «a torto o a ragione»
– questo sentire trovi rispondenza nel «clima» che caratterizza il momento e il
contesto in cui è posta la domanda del sondaggista. Mi pare che entrambe le
questioni si risolvano assumendo che la persona che pone la domanda sia avvertita
da chi le dà una risposta menzognera come rappresentante o addirittura, in qualche modo, artefice della «prevalente
opinione corrente». Chi procede al censimento non è sempre delegato
dal re? E non è in funzione ai risultati del censimento che il re prende le sue decisioni riguardo al regno?
Ad
una delle obiezioni che mi sono state sollevate per l’aver dato
fede all’analisi dei
flussi elettorali condotta dall’Istituto Cattaneo ho risposto che «una cosa
sono le analisi del voto fatte prima che gli elettori entrino nel seggio,
un’altra quelle fatte dopo»: mi pare che quanto ho fin qui detto ne dia un’adeguata
spiegazione, e, riprendendo la metafora usata qui sopra, direi che ad attentato riuscito sia del tutto naturale segua una fiera rivendicazione. Direi che dire
il vero, dopo, sia il miglior modo di dare una valenza propriamente politica all’aver
detto il falso, prima.
sabato 31 maggio 2014
Replica
«Adulatori per lo più
de’ tiranni presenti,
sebben lodatori degli
antichi repubblicani»
Giacomo Leopardi, Zibaldone
Ricapitolando.
Ho scritto che «il Pd riguadagna solo
parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro
riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato
da Walter Veltroni» (I 38 milioni di
italiani che non hanno votato Pd – Malvino,
26.5.2014): continua a sembrarmi indiscutibile. Poi ho scritto che «il 40,8% [ottenuto dal Pd] del 57,2% [che
si è recato alle urne il 25 maggio] non
supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto» (Le dimensioni del trionfo di Matteo Renzi
– Malvino, 26.5.2014): anche qui, mi
pare sia pacifico. Infine, commentando l’analisi dei flussi elettorali elaborata
dall’Istituto Cattaneo («Il successo di
Renzi si è costruito sulla tenuta dell’elettorato Pd nei confronti
dell’astensione, sulla conquista del bacino di Scelta civica, sul cedimento di
elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] È possibile che non pochi elettori
ora astensionisti possano rientrare nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia
che del M5S»), ho scritto che in essa «il
risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore
ridimensionamento» (La bolla – Malvino, 29.5.2014): giudizio che non mi
pare affatto scandaloso.
Fatta la tara di insulti e sberleffi, le obiezioni a
quanto ho scritto sono le seguenti:
(1) Mi si contesta che il numero dei voti
ottenuti dal partito che vinca una competizione elettorale acquistino peso in
relazione a quanti ne hanno preso i partiti che l’hanno persa. Non è per fare
sfoggio di superbia intellettuale, ma a questo ci arrivavo anche da solo. D’altronde
non mi pare di aver scritto che i risultati di queste Europee siano ambigui: il
Pd ha vinto, non c’è ombra di dubbio. In verità, direi che la vittoria più
significativa sia quella di Matteo Renzi sull’opposizione interna al suo
partito. D’altronde non era proprio lui a dire che i risultati di queste Europee
non potevano e non dovevano aver conseguenza sulla tenuta del governo? Ora pare
che l’abbiamo, e ovviamente in senso positivo, ma in fondo non si trattava di
Politiche. Il risultato delle Europee può essere letto come fiducia accordata a
questo pagliaccio che, al netto del muoversi tanto da fermo e del promettere il
Bengodi con l’anticipo di 80 euro, finora non ha fatto un cazzo? Senza dubbio,
ma se mi si viene a dire che in democrazia i numeri sono tutto e Matteo Renzi
ne ha presi tanti e tanti in più di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi,
rispondo che non si votava per confermargli l’incarico di governo. In quanto al
risultato in termini assoluti, mi pare che recuperare buona parte degli
elettori persi dal 2008 al 2013 sia un buon risultato, ancor più se enfatizzato
dal defluire dell’elettorato grillino e di quello berlusconiano verso l’astensione,
ma di fatto, anche stavolta, al Pd non va più del consenso di un italiano su
quattro: legittimato alla guida del paese, ma per piacere non parliamo di plebiscito.
(2) Mi si rammenta che gli astenuti non contano. Ringrazio per il ragguaglio
all’ovvio, ma non mi pare di aver scritto che contino. Non hanno alcun peso sul
risultato elettorale, è naturale, ma esistono. Arrivano al comune convincimento
che esprimere una rappresentanza sia inutile, ma con ciò non sono fuori dall’opinione
pubblica, tanto meno sono da considerare massa socialmente inerte, e comunque restano
potenziali elettori che esprimono con l’astensione un disagio, che talora è da
interpretare come un vero e proprio malessere: si tratta di individui che – non
ha importanza, qui, stare a discutere quanto a ragione – hanno perso o non
hanno mai avuto fiducia nel metodo democratico, non trovano un’opzione
convincente nell’offerta dei partiti in lizza o, più banalmente, sono
refrattari ad ogni genere di scelta politica. Ci si può consolare col
constatare che in ogni regime democratico questo fenomeno è comune, che in
Italia non è neanche consistente quanto altrove, che il suo progressivo
incremento sia perciò del tutto irrilevante o che comunque non debba essere
letto come un sintomo preoccupante: può darsi, resta il fatto che nei paesi in
cui l’astensionismo ha percentuali assai più alte che in Italia il dato è
stabile da tempo e non trova espressione in quella sfiducia verso le
istituzioni che qui da noi va da tempo assumendo i tratti della resistenza
passiva che incamera un sordo risentimento. Si può fare a meno di prenderlo in
considerazione? Nello scrutinare le schede elettorali e calcolare quanti seggi
spettano a questo o quel partito, senza dubbio, sì. Nel discutere su cosa c’è
da attendersi sul medio e sul lungo periodo, non mi pare sia superfluo,
soprattutto in relazione all’alta fluidità che il corpo elettorale ha mostrato
negli ultimi vent’anni. In conclusione: continuare a fissare, come ipnotizzati,
quel 40,8% – continuare a ripetersi che è il più rilevante consenso ottenuto da
un partito dopo quelli conseguiti dalla Dc a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta,
quando alle urne si recava quasi il 90% degli aventi diritto – ritengo sia da
stupidi. Del tutto legittimo, peraltro, che Matteo Renzi e il Pd investano su
questa stupidità. C’è da ritenere, infatti, che sul breve periodo porterà frutto:
il paese è allo stremo, disposto ad aggrapparsi a tutto, soprattutto se con la
promessa che può salvarsi con un po’ di ottimismo, affidandosi all’ennesimo deus
ex machina. Non ci fossi abituato, la nausea mi impedirebbe perfino di
parlarne. Ma ho passato la cinquantina, e di ciarlatani promossi a salvatori
della patria, di avventurieri in grado di imbambolare i gonzi col loro
scilinguagnolo, di zoticoni senz’altra grazia di dio che una formidabile
ambizione e senz’altra virtù che l’intrallazzo maneggione, ne ho visto, e so
come la va: all’inizio, nel trambusto dell’ovazione, al moccioso che urla che
«il re è nudo» va un ceffone, poi tutti a dire che in effetti era nudo e ce l’aveva
pure piccolo.
(3) Mi si storce il muso perché do affidamento all’indagine dell’Istituto
Cattaneo, quando è da anni che i sondaggi pisciano alla grande. Qui temo che il
muso si storca a torto, perché una cosa sono le analisi del voto fatte prima che
gli elettori entrino nel seggio, un’altra quelle fatte dopo. A maggior ragione,
quando un risultato oggettivamente rilevante, e all’apparenza ancor più
rilevante di quanto sia in realtà, potrebbe indurre gli intervistati a risposte
assai più infedeli per il noto effetto bandwagon, che ai piani alti della
politica trova analogo nell’osceno assalto al carro del vincitore cui
assistiamo in questi giorni.
[segue]
giovedì 29 maggio 2014
La bolla
Il
risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore
ridimensionamento nell’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto
Cattaneo: «Il primo flusso di voti dominante è quello da Scelta civica al Pd.
Assistiamo a uno svuotamento dell’area della coalizione che faceva capo a Mario
Monti nel 2013, a quasi totale favore del Pd. […] Il secondo flusso altrettanto
chiaro ed evidente è quello che conduce voti dal M5S all’astensione. […] Il
terzo flusso è quello che porta voti dal Pdl all’astensione. […] Su due ulteriori punti concentriamo la nostra
attenzione. Ci chiediamo cioè se non ci siano stati flussi di voto importanti
da Pdl a Pd (s’è parlato a lungo dell’appeal dello stile “berlusconiano” di
Renzi verso elettori “forzisti”) e dal M5s verso il Pd (anche in questo caso
s’è ipotizzato un “ritorno a casa” di elettori già Pd, incantati un anno fa
dalla sirena grillina, oggi da Grillo delusi). Questi flussi nei nostri dati
quasi non esistono. […] Da dove ha preso i voti il vincitore di queste
elezioni? […] La forza del Pd sta nell’aver saputo mantenere i propri consensi
precedenti senza perderli sulla strada dell’astensione. La seconda componente
per rilevanza del voto al Pd è quella […] proveniente da Scelta civica. C’è poi
una terza componente, che […] si presenta come minoritaria, proveniente dal M5S.
Il contributo di elettori provenienti dal Pdl è infine del tutto trascurabile.
[…] Verso chi hanno perso i voti i due sconfitti, e cioè il Pdl e il M5S? […]
Per quel che riguarda il M5S, […] pesanti perdite verso l’astensione. […] Quanto
al Pdl, le perdite verso il non voto sono state ancor più pesanti. […] Per
concludere. Ancora una volta gli attraversamenti del confine sinistra-destra
sono stati modesti. Il successo di Renzi si è costruito sulla tenuta
dell’elettorato Pd nei confronti dell’astensione, sulla conquista del bacino di
Scelta civica, sul cedimento di elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] In
una elezione politica, nella quale l’astensione giocasse un ruolo meno
importante rispetto a quello naturalmente avuto in una elezione “di secondo
ordine”, è possibile che non pochi elettori ora astensionisti possano rientrare
nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia che del M5S».
È un
ridimensionamento di tipo qualitativo, perché riduce a bolla, molto
probabilmente effimera, quello che si sta celebrando come
«terremoto politico»,
«evento» dopo il quale «nulla
sarà più come prima». «Evento» che, d’altronde, rivela tutta la sua aleatorietà
in quel ridimensionamento di tipo quantitativo che fin da subito era già tutto nei numeri, a volerli leggere: al Pd, infatti, stavolta sono andati 11.172.861 voti, meno dei 12.095.306 del 2008, meno degli 11.930.983 del 2006, e meno pure della
somma dei voti andati ai Ds e alla Margherita nel 2001 (6.151.154 + 5.391.827) e di quelli che nel 1994 andarono al Pds e al Pp (7.881.646 + 4.287.172). Fatta
eccezione per le Politiche del 2013 (8.646.034) e per le Europee del 2009 (7.999.476),
insomma, il Pd non ha mai preso meno voti di quanti ne ha presi il 25 maggio 2014.
Un risultato mediocre che l’astensionismo ha gonfiato a dismisura e che ora solo la rincorsa al carro del vincitore, l’inguaribile conformismo nostrano, impedisce di considerare nelle reali dimensioni.
Un risultato mediocre che l’astensionismo ha gonfiato a dismisura e che ora solo la rincorsa al carro del vincitore, l’inguaribile conformismo nostrano, impedisce di considerare nelle reali dimensioni.
martedì 27 maggio 2014
[…]
Ho
scritto che maramaldeggiare è lemma infedele, perché, com’è per tanta antonomastica,
tradisce il portato («didascalizza la qualità che intende far viva con
l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e
morale, e quella delle sfumature che la rendono umana») e, nel caso di Fabrizio
Maramaldo, anche il portante («pare che la storiella messa in giro da Paolo
Giovio non trovi alcuna conferma sul piano storico»), ma, concedendo che «ciò
che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a
distanza», non ne ho suggerito uno alternativo per quell’«infierire vilmente sullo
sconfitto» – così per la gran parte dei lemmari – che ci sembra turpe anche
quando si scagiona col darsi come giusta «punizione di chi ha commesso una
turpitudine» (Malvino, 28.11.2013). Se oggi torno sull’argomento è per cercare
di individuare i connotati di ciò che nell’«infierire vilmente sullo sconfitto» cerca di
darsi come ius per farcelo sembrare iustum, e per farlo mi servirò dell’editoriale
che Giuliano Ferrara ha dedicato al deludente risultato elettorale del M5S (Il
Foglio, 26.5.2014).
In via preliminare occorre sottolineare che a «infierire vilmente sullo sconfitto», qui, non è
chi possa dirsi propriamente vincitore:
parliamo, infatti, del tizio che per vent’anni ha retto lo strascico a chi da
questa tornata elettorale esce con le ossa rotte almeno quanto Beppe Grillo, quel Silvio Berlusconi che per Giuliano Ferrara ha incarnato, finché ha potuto, tutte le virtù
del potere come esercizio di regalità; parliamo, tuttavia, anche del tizio per
il quale questo tipo di potere non si estingue nella carne che di volta in
volta veste, ma passa, inalterato per forma e misura, dal potente del momento a
quello del momento che segue, secondo una progressione dinastica che a ragione
sembrerà atipica per la discontinuità del casato, ma che in realtà trova il suo
continuum in una linea sulla quale Togliatti, Craxi, Berlusconi e Ratzinger possono ben essere colti come segmenti articolati.
Ma
cosa torna a giusta punizione di un Beppe Grillo? Dove trova fondamento lo ius
che fa iustum il maramaldeggiarlo? È presto detto: «Se Dio vuole la politica democratica
è un mondo di corruzione, di decadenza, di mitezza sfuggente e di pratica della
mediocrità che non prevede pulsioni visionarie di quella fatta. Un’alleanza dei
fattori di stabilità e di vita avrà ragione, com’è civilmente naturale,
dell’odiosa esibizione, e scaltra, di purezza moralizzatrice e di futuro da
acchiappare con gli artigli. Così in poco tempo il passato, l’andazzo, la
tradizione, il buonsenso…». Può bastarci, abbiamo inteso, e basterà correlare i
termini che Giuliano Ferrara erige a pilastri della vita – almeno della vita
com’egli la intende – perché sia chiara la colpa di cui Beppe Grillo s’è
macchiato, pagandone il prezzo dovuto: ha osato mettere in discussione un passato di
corruzione, il naturale andazzo d’una normale decadenza, quella tradizione di
mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che in fondo è solo sano
buonsenso, quel regale tollerare «il gioioso legno storto di una comune umanità» che alla bisogna può tornarci comodo come randello sul groppone di chi si
azzarda a contestare la legittimità del re. Potrebbe dirsi la carezza del cardinale Ruffo alla sua cagna sanfedista.
lunedì 26 maggio 2014
Le dimensioni del trionfo di Matteo Renzi (e altro)
Riprendo
da dove terminava il post qui sotto con un grafico che dà misura di quanto sia
realmente consistente il 40,8% del 57,2%: al netto dell’ubriacatura di chi vi
troneggia in cima, non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto.
Da lassù si ha pieno diritto di guardare in basso con soddisfazione, è ovvio, perché
chi diserta le urne rinuncia a darsi rappresentanza, ma con ciò la massa degli
astenuti non scompare, né perde rappresentazione, che giocoforza è inintelligibile
nei tratti, ragionevolmente da ritenere contraddittori: perde forma, ma non
mole. In questo caso, ha toccato il 42,8%, che fanno circa 20 punti percentuale
in più di quanto è andato al Pd, con una mole pari a circa 21 milioni di aventi
diritto al voto, poco meno della somma degli elettori che hanno votato Pd (11.203.231),
M5S (5.807.362) e Fi (4.614.364).
Per chi considera l’astensionismo un segno di
malessere sociale, può esserci consolazione nel constatare che l’Italia resta,
come è sempre stata, tra i paesi europei che conta una delle più alte affluenze
al voto, ma è un confortarsi che deve fare i conti col fatto che nel raffronto
con le precedenti Europee del 2009, quando gli aventi diritto al voto erano 49
milioni, come lo erano stavolta, la percentuale di astenuti aumenta di oltre 7
punti (3,5 milioni di votanti in meno). E tuttavia il dato merita l’attenzione
anche da parte di chi non voglia considerarlo come indicatore di un disagio, ma
come il segno di un progressivo adeguamento dell’elettorato italiano alle
consuetudini elettorali di paesi in cui da sempre l’astensionismo è ben oltre
il 50%: pur concedendolo, la progressione mostra una flessione mal compatibile
con un processo fisiologico bilanciato da altri fattori.
È il non tenere conto
di questi elementi che gonfia a dismisura il risultato indubbiamente positivo
del Pd, oscurando la solare evidenza che in assoluto e in percentuale l’avanzata
più rilevante è quella degli astenuti, che non fanno un partito, com’è nel
pigro lessico giornalistico di quando il dato non è oscurato, ma mole sì, e
mole di umori, se non di ragioni, che s’aprono a ventaglio dal più strafottente
dei qualunquismi alla più argomentata sfiducia nel metodo democratico.
Se è
possibile un minimo di accordo su quanto fin qui detto, non dovrebbe essere
difficile trovare insieme la via d’uscita dall’asfittico scenario in cui si
muovono le analisi a caldo sui risultati di queste Europee. Analisi che tengono
conto solo dei cambiamenti, pur notevoli, che in seguito ai risultati
conseguiti dai partiti si vanno già chiaramente profilando per dare nuovo
assetto al quadro politico e istituzionale. Anche condivisibili, dunque, ma che
sembrano non tenere in alcun conto che nella società nessuna massa è
interamente inerte, neppure quando sembra abbia deciso d’esserlo
irrevocabilmente: se non prende voce attraverso i rappresentanti che una pur
ampia e variegata offerta le mette a disposizione, non per questo tace. Anche
quando silenziosamente dispera o silenziosamente cova rabbia, lasciando il
campo a chi nella speranza e nella pacatezza cerca, e perfino trova, l’ultima
spiaggia del comune naufragio – anche quando le dettagliate indagini sui flussi
elettorali ce la ridanno come ciò che è andato perso nell’incrocio di traslochi
che spostano consenso da una casa all’altra – una massa di oltre 20 milioni di
individui, prima o poi, trova modo di farsi sentire. E più tardi lo trova, meno
è bello.
Sullo scena
nella quale si muovono gli attori scelti dal 57,2% degli italiani che sono
andati a votare grava un fantasma che ancora non ha trovato corpo, faccia e
nome. Le millanterie meno colpevoli che hanno cercato di esorcizzarlo nel corso
della campagna elettorale sono destinate ad avere ancora corso corrente di là
dal valore che hanno acquistato o perso a scrutinio completato: intendo dire
che mostreranno forza diversa rispetto a prima, ma non potranno che conservare
il segno. Matteo Renzi non potrà far altro che sbattere le alucce sotto il
bicchiere, dando a vedere un formidabile attivismo che sarà lo stesso correre
da fermo che fin qui l’ha fatto sudare. Non è escluso faccia qualche passetto,
il necessario per illudere se stesso e la platea che è ennesima reincarnazione
di quel decisionismo che gli italiani implorano e deplorano, nello stesso
tempo. Beppe Grillo cercava di farci intendere che raffrenava l’irrefrenabile
smania di assalto al Palazzo incanalandola in un progetto di società dai sogni
dorati e dalle aspettative sobrie: dinamo e accumulatore, nei proclami, ma il messaggio
subliminale lo dipingeva come un parafulmine. Non è stato creduto o forse lo è
stato fin troppo, ma o torna a casa, come aveva promesso, o non potrà far altro
che cambiare scatola al prodotto, sempre lo stesso. In quanto a Silvio
Berlusconi, gli ossimori del moderatismo eversivo e del fancazzismo demiurgico
gli si sono rotti in mano, non hanno più nulla della contraddizione che muove
le cose dal di dentro e fanno solo diagnosi di stato confusionale. E tuttavia
conserva forze da mettere sul tavolo.
Non riuscire a vedere come queste tre vie
obbligate non siano altro che i tre lati dell’incavo in cui defluirà la frana,
più che stupirci, dovrebbe deprimerci. Metti caso che dall’abbatterci dovesse
sortire finalmente la presa d’atto che Renzi, Grillo e Berlusconi altro non
sono che tratti della stessa caricatura – e in essa potessimo riconoscere la
tanto vantata peculiarità italiana – e finalmente liberarcene – vabbe’, come
non detto, ci resta sempre lo stramaledire i tedeschi.
I 38 milioni di italiani che non hanno votato Pd
Alle
Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza
alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd
raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla
Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel
2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più
di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo
sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente
inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date
dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la
quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in
cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni,
qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di
sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in
termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se
questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi
risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di
distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso
del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per
oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti
persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che
diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio
miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi,
per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo
duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi
affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino
della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a
vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei
bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando
i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno
un riassetto.
domenica 25 maggio 2014
«Giudaica perfidia»
Non
ho ancora letto «Giudaica perfidia»
di Daniele Menozzi (Il Mulino 2014), provvederò al più presto, e tuttavia,
dando per certo che la recensione di Sergio Luzzatto (La radice dell’antisemitismo – Domenica
de Il Sole-24 Ore, 25.5.2014) dia
fedele esposizione di quanto vi è contenuto, non riesco a trattenermi dal
sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta
di accreditare.
Prima di passare a esporla, però, vorrei aprire un inciso sull’espressione
che ho usato poc’anzi – «fedele esposizione» – e chiedere al mio lettore di
cercare ogni possibile locuzione alternativa ad essa. Fatto? Bene, per «fedele»
avete trovato altro che «onesto», «leale», «sincero», ecc.? Sono certo che non
siete riusciti ad andare oltre tali sinonimi, e che comunque tutti avete
cercato tra quelli relativi a «fedeltà», intesa come «correttezza», «attendibilità», «esattezza», ecc., piuttosto che tra quelli relativi a «fede»,
nelle accezioni che la connotano come virtù teologale del cristiano. È questo,
infatti, uno di quei casi in cui si rende manifesta l’erosione di senso che fin
dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo ha prodotto a danno di quei termini,
per lo più greci o latini, che gli è tornato utile parassitare: con «fedele» il
parassitamento non è riuscito a impossessarsi interamente del termine, ed ecco,
allora, che l’aggettivo non smette del tutto di rievocare la dea Fides, che
fece la sua comparsa nel Pantheon romano più di trecento anni prima che
nascesse Cristo, per andare a personificare la sacralità della parola data come
fondamento dell’ordine sociale (cfr. Mario Pani e Elisabetta Todisco, Società e
istituzioni di Roma antica, Carocci 2005). Bisogna aspettare il IV secolo dell’era
volgare perché «fides» cominci a significare «credo» e perché per «fidelis» si cominci a intendere «credente»,
ma anche allora «fidus» non smetterà di significare «onesto», «leale»,
«sincero», ecc., come fin lì d’altronde era sempre stato.
Il perché di questo
inciso è presto spiegato: Daniele Minozzi sembra far sue le conclusioni degli
studi condotti intorno alla metà degli anni Trenta dello scorso secolo da Erik
Peterson, «un oscuro professore di teologia» che «muovendo da un’ampia raccolta
di testi antichi e medievali» arrivò a sostenere che «l’aggettivo latino
perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione
di perfido, mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di infedele».
Tesi che senza dubbio fu fatta propria da Jacques Maritain, il quale senza
dubbio riuscì a convincere Pio XII, prima, e Paolo VI, poi, lungo il faticoso
itinere che portò a una traduzione del Messale del Venerdì Santo di Pio V nella
quale gli ebrei non fossero più dichiarati «perfidi», ma «increduli» (cfr.
Andrea Nicolotti, Erik Peterson, Libreria Editrice Vaticana 2012), e che
tuttavia è tesi palesemente infondata, come fu ampiamente argomentato da chi
scrisse che di «lodevole» in essa vi fosse «solo la buona intenzione» (cfr.
Bernhard Blumenkranz, Perfidia, Archivium Latinitatis Medii Aevi 22/2-1952):
com’era possibile dare a «perfidi» un significato diverso da quello che papa
Gelasio
(cfr. Gelasio, Deprecatio,
10), di poco posteriore alla primigenia tradizione scritta dell’«oremus et pro
perfidis judaeis», allegava alla «judaica falsitas» nel solco di una tradizione che risaliva alle Omelie contro i giudei di San Giovanni Crisostomo? La perfidia judaeorum è da subito, e sarà sempre, per oltre quindici secoli, non già
l’incredulità riguardo al fatto che Cristo sia il figlio di Dio e il Messia, ma il vizio morale che li condanna ad essere inaffidabili e sleali, dunque socialmente pericolosi.
Ciò detto, dunque, il libro di
Daniele Menozzi trova incidente fin dal sottotitolo, che è Uno stereotipo
antisemita tra liturgia e storia, e prim’ancora di leggerlo mi costringe a storcere il
muso: non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia
cristiana e, se l’intenzione di Erik Peterson può benevolmente essere considerata
benevola, resta di fatto che il suo lavoro sia un falso storiografico. Accreditarlo
come attendibile è un ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede»
che piega l’evidenza a un interesse di parte.
Quella volta che la Magnani posò per il Merisi
Le relazioni tra cinema e pittura sono state oggetto di innumerevoli studi e penso non ci sia troppo da aggiungere. Non a torto, al riguardo, si è scritto che in ogni film di
qualità, e non solo, sono immancabili, più o meno riconoscibili, più o meno deliberate,
afferenze da capolavori d’arte antica o moderna, talvolta in forma di veri e propri
tributi, vere e proprie citazioni, com’è nel caso in cui un dipinto arrivi a
trovare nel fotogramma la trasposizione dei suoi peculiari elementi formali, talaltra
in forma di mera ricreazione di atmosfera, com’è nel caso in cui le soluzioni
dell’uso di luce e colore trovino più o meno riuscita coincidenza con l’aria in
cui è sospesa la scena rappresentata sulla tela (cfr.
Pascal
Bonitzer, Décadrages. Cinéma et peinture, Editions de l’Etoile 1985; Jacques
Aumont, L’œil interminable. Cinéma et peinture, Librairie Séguier 1989; Antonio
Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi 2002).
Come stato rilevato da numerosi autori, il cinema di Pier Paolo Pasolini non fa eccezione coi frequenti ed espliciti rimandi
a Giotto, a Piero della Francesca, a Masaccio, a Bonnard e a Pontormo (cfr. Pietro Montani, in: AA.VV., Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, a cura di Leonardo
De Franceschi, Lindau 2003). Lascia interdetti, invece, l’articolo a firma di
Marco Bona Castellotti apparso su Il Foglio di venerdì 23 maggio (Quanto si è
nutrito di realismo caravaggesco il cinema di Pasolini), nel quale si avanza
una tesi balzana: in Mamma Roma (1962) vi sarebbero richiami alla Morte della
Vergine (1605).
In realtà, in quel film vi è una citazione del Cristo morto (1485) di Andrea Mantegna,
In realtà, in quel film vi è una citazione del Cristo morto (1485) di Andrea Mantegna,
ma Marco Bona Castellotti non la coglie, per
trovare assai caravaggesche «le sbarre del carcere dove Ettore, il figlio
dell’umanissima puttana, giace morto». Ignorato un Mantegna che più Mantegna non si può, va a trovare un Caravaggio, pochi fotogrammi più in là, in un dettaglio che dovrebbe aver trovato ispirazione in un analogo caravaggesco, probabilmente in quello che si osserva nella Decollazione di San Giovanni Battista (1608), comunque non citato nell’articolo.
Ora, se la logica non ci vien meno, un morto steso su un tavolo si può ritrarre in cento modi diversi, ma almeno uno potrà evocare il Cristo morto del Mantegna, e quello scelto da Pasolini indubbiamente lo evoca. Ma in quanti modi si può rappresentare una finestra munita di sbarre? E in cosa è caravaggesca quella che Pasolini mette in Mamma Roma?
Basterebbe a farci abbandonare la lettura dell’articolo, se non fosse che Marco Bona Castellotti aggiunge subito, prima che si abbia il tempo di appallottolare il giornale per gettarlo con gesto plastico nel cestino, che trova somiglianza tra la Madonna ne La morte della Vergine e «lo stupefacente primo piano di Mamma Roma e delle donne che accorrono dopo la notizia della morte del ragazzo».
Davvero arduo capire in cosa sia possibile trovare una similitudine di posa o di espressione, ma è che deve farci difetto l’immaginifica sensibilità di Marco Bona Castellotti, virtù che forse non torna utile a scrivere un articolo serio, ma a deliziare i gonzi senza dubbio.
Basterebbe a farci abbandonare la lettura dell’articolo, se non fosse che Marco Bona Castellotti aggiunge subito, prima che si abbia il tempo di appallottolare il giornale per gettarlo con gesto plastico nel cestino, che trova somiglianza tra la Madonna ne La morte della Vergine e «lo stupefacente primo piano di Mamma Roma e delle donne che accorrono dopo la notizia della morte del ragazzo».
Davvero arduo capire in cosa sia possibile trovare una similitudine di posa o di espressione, ma è che deve farci difetto l’immaginifica sensibilità di Marco Bona Castellotti, virtù che forse non torna utile a scrivere un articolo serio, ma a deliziare i gonzi senza dubbio.
martedì 20 maggio 2014
Selfie
Non
andrò votare, ma da stasera cercherò di tenermi lontano il più possibile da tv
e giornali per resistere alla tentazione di votare Grillo che mi prende ogni
volta che Renzi e Berlusconi aprono bocca, tanto più prepotente quando ad aprirla
sono i cazzabubboli e le sciacquette che reggono loro la coda. Di Grillo sapete
cosa penso, ne ho scritto in più occasioni, e senza risparmiarmi toni duri, e
non ho cambiato idea, ma per quanto continui a ritenerlo un pericolo, e non da
poco, dargli modo di spazzare via quelle due merde è un pensieraccio che mi ha
titillato e mi titilla. Tipo grattarsi a sangue quando
nessun antistaminico riesce a vincere il prurito: non si fa, ma resistere è difficile.
Fermo
lì, lettore. Prima di lasciare un commento stronzo, rileggi: ho detto che non
andrò a votare. Non c’è bisogno tu mi dica che a votare Grillo mi pentirei un
istante dopo, lo so di mio. Sarebbe lo stesso errore che fece quella gran testa
di cazzo di Benedetto Croce, quando scrisse che il fascismo era una sgradevole
seccatura, ma costituiva un passaggio necessario per la restaurazione dello
Stato liberale, ti va bene il paragone? Non andrò a votare: ti ringrazio per l’apprensione,
lettore, la prendo come segno d’affetto, ma non è necessaria.
Anzi,
visto che a Ottoemezzo c’è la Serracchiani, dammi un istante per recuperare il
telecomando e cambiare canale, sennò
’sto selfie viene mosso.
#vinconoloro
Solo
negli ultimi minuti s’è incartato un poco, per il resto l’incursione di Grillo
a Porta a porta è stata estremamente positiva, raggiungendo il fine che si era
posto. Ovviamente il tutto va giudicato considerando i parametri del pubblico
che Grillo intendeva raggiungere, perché, se valutiamo un rap pensato per la
suburra con l’orecchio di un dirigente della Decca, ci sembra orribile. Credo che
la performance di ieri sera sia analoga a quella che Berlusconi tenne ad
Annozero, che non smosse un solo voto tra chi già era orientato a votarlo
comunque o a non votarlo neanche morto, ma gliene procurò parecchi tra quanti
fin lì avevano deciso per l’astensione. Grillo è stato capace di raggiungere e
convincere un buon uno o due per cento di quei qualunquisti scoglionati che
ritengono – neanche a torto, in fondo – che votare conti poco o nulla. Fosse
possibile sapere qualcosa dai sondaggi, ora che non possono essere resi
pubblici, correrei a leggere se e di quanto, dopo ieri sera, è calata la
percentuale degli astenuti e degli indecisi. Avete voglia a dire che è una
bestia, la bestia sa il fatto suo.
lunedì 19 maggio 2014
Un frego
In
attesa che venisse divulgato il testo integrale della prolusione tenuta da
Bergoglio all’assemblea della Cei e che andasse in onda la puntata di Porta a
porta che ospita Grillo, mi lasciavo andare a riflessioni tutto sommato oziose,
sulle quali è opportuno un frego. Per avermi dato modo di risparmiarmi altre inutili ciance, in cuor mio ringrazio Sandro Magister (Settimo sigillo) e Bianca Berlinguer (Piazza pulita), che del rispettivo dilatarsi e contrarsi del loro rispettivo sistemino mi hanno mostrato il lato buffo, che paralizza ogni tentativo di analisi per un irresistibile conato di rispetto. Il fumo di Satana in Vaticano? Vapore di sauna per alti prelati. Il M5S oltre il 30%? Impossibile.
Il Pasquino di Caravaggio
Sul
farsi prendere la mano dinanzi a un’opera d’arte mi sono già intrattenuto in
cinque o sei occasioni su queste pagine, oggi vi ritorno sollecitato da un
articolo a firma di Maddalena Spagnolo apparso ieri su Domenica de Il Sole-24 Ore,
che fin dal titolo (Il Pasquino di
Caravaggio) offre un altro esempio di quel piegare le evidenze a un’interpretazione
che poi ci viene offerta come folgorante scoop. Peccato, perché l’articolo, che
una nota in coda al testo ci informa essere il sunto di una relazione che l’autrice
ha tenuto ad un convegno su Society and
Culture in the Baroque Period (Roma, 17-19 marzo 2014), sembrava accogliere
sennatamente il «limite» oltre il
quale l’analisi si fa «sfida» così
spesso destinata a un esito tragicomico. Ma veniamo al dettaglio.
Dopo aver accuratamente
ripercorso le vicende relative al frammento scultoreo «dissotterrato a Roma nel tardo Quattrocento e presto denominato
Pasquino», per secoli ritenuto «opera
d’arte antica di eccelso valore» in virtù della «resa accurata della muscolatura delle due figure», Maddalena
Spagnolo ci dice che l’esserci giunto mutilo ha «stuzzicato» intere generazioni di artisti e di critici alle più
bislacche ipotesi riguardo a cosa raffigurasse originariamente: sulla base di
solidi argomenti oggi
è concordemente riconosciuto come ciò che resta di «una scena di pietas militare» (quasi certamente un Menelao che
sorregge un Patroclo morente), ma in passato si offrì alle più fantasiose
interpretazioni, di quelle affini al «guardare
le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini
nascoste», con ciò segnando la superiorità del «nostro approccio» alle opere d’arte del passato per «il pregio di essere filologicamente più
corretto rispetto a quello degli artisti di un tempo…»; e qui scapperebbe
un «brava», ma non si fa in tempo, perché
la frase chiude a questo modo: «… ma ha
il limite di allontanarci dal loro modo fantasioso di guardare alla statua».
E che, sarebbe un «limite», questo?
Per Maddalena Spagnolo, in buona evidenza, sì, e non indugia a darcene conferma
con la fantasiosa ipotesi che il Caravaggio si sarebbe ispirato al Pasquino per
la sua seconda versione del San Matteo e
l’angelo che oggi si ammira nella Cappella Contarelli in San Luigi dei
Francesi, «qui presentata in versione speculare», ribaltata sull’asse verticale, per meglio venire incontro alla tesi.
«La
postura del santo, con il ginocchio poggiato sullo sgabello, ricorda da vicino
quella di Pasquino la cui gamba spezzata all’altezza del ginocchio tocca il
piedistallo», e «il capo dell’apostolo che si volge di scatto e si inarca
leggermente per dialogare con l’angelo crea un analogo contrapposto con l’arco
disegnato dal braccio» dando all’insieme un «analogo tipo di torsione
serpentinata», mentre di poi «perfino la mano sul libro […] rievoca la mano che
sorregge il corpo di Patroclo nel gruppo scultoreo» e «le scanalature delle
costole del petto che emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo si
apprezzavano un tempo anche dal chitone di Pasquino, come si vede in un disegno
di Francisco de Hollanda», prima che fossero cancellate;
d’altronde,
«Pasquino troneggiava all’angolo di Palazzo Orsini, a poche centinaia di metri
dalla chiesa di San Luigi dei Francesi» ed «è possibile che anche Caravaggio,
nel momento in cui si trovò a ideare una pala d’altare destinata a rimpiazzare
il lavoro di uno scultore, Jacon Cobaert, si sia soffermato a guardare quel “nobilissimo”
gruppo», per ispirarvisi: senza riuscire a fare lo stesso scoop di Maddalena Spagnolo, non era lo stesso Roberto Longhi a
ravvisare in quel San Matteo «una
rinnovata “maniera grande” [e] l’adozione di un “costume aulico” e “quasi una
classicità”»?
Siamo
dinanzi a molte sconvenienti forzature. Il fatto che un autorevole studioso del
Caravaggio abbia intravvisto stilemi classicheggianti in quel San Matteo porta
di fatto prove certe alla fantasticheria? E se l’autorevolezza di Roberto Longhi è
surrettiziamente richiamata per dare solidità alla tesi esposta, si può poi sminuirla con l’implicito rilievo che non fu in grado di cogliere così evidenti
analogie con Pasquino?
Certo, è possibilissimo che Caravaggio abbia avuto modo
di soffermarsi a studiare Pasquino e a trovarvi più o meno conscia ispirazione
per il suo San Matteo, ma gli elementi formali che lo caratterizzano sono così
intelligibilmente riferibili al residuo gruppo scultoreo? Dov’è l’analogia tra
la mano del santo poggiata sul libro e quella di Menelao che sorregge il torso
di Patroclo? Dov’è l’analogia tra «le scanalature delle costole del petto che
emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo» e quelle che nessuna
incisione raffigurante Pasquino, nemmeno quella di Francisco de Hollanda, può riportare, e
per la semplice ragione che Menelao ha un vigoroso pettorale destro e quello sinistro è coperto da un pannato? E quanti dipinti della stessa epoca, caravaggeschi e no, ritraggono figure con
«analogo tipo di torsione
serpentinata»? Tutte ispirate a Pasquino?
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.
«Votate chi vi pare, ma non i buffoni»
«Votate
chi vi pare – ci ha esortato Matteo Renzi – ma non i buffoni». Poteva fare nomi
e cognomi, risparmiandoci così la seccatura di dover tirar giù dagli scaffali i
dizionari per cercare di capire a chi possa attagliarsi meglio il termine. Pazienza,
procediamo.
Direi debba escludersi l’accezione letterale, quella che indica il «buffone»
nell’«uomo, per lo più fisicamente deforme, che nell’antichità, ma specialmente
nel Medioevo e nel Rinascimento, aveva il compito di rallegrare coi suoi lazzi il
principe, di cui era spesso anche il consigliere» (Treccani), definizione che
mi richiama alla mente solo Giuliano Ferrara, che però stavolta non si candida.
È evidente che il termine debba intendersi nelle sue accezioni estensive e
allora sarà il caso di affidarci al Casalegno-Goffi (Utet, 2005), che è il più
vasto lemmario di epiteti ingiuriosi, nomignoli offensivi, insulti, parolacce,
ecc. Anche stavolta non ci delude: «buffone» sta per «persona che manca alla
parola data». In verità, sta pure per «persona poco seria», «individuo
inaffidabile», ecc., ma in fondo la serietà e l’affidabilità non sono qualità
che si saggiano sulla capacità di rispettare un impegno preso?
E allora già è
più chiara l’esortazione di Matteo Renzi: «Votate chi vi pare, ma non chi manca
alla parola data», che però così diventa una micidiale zappata sui piedi: fin
qui che cosa ha mantenuto di tutto ciò che ha promesso? Piuttosto che infilare
nell’urna una scheda che gli dia fiducia, verrebbe voglia di ficcargli tutte
quelle sue slide in culo.
domenica 18 maggio 2014
Tragico epilogo di una fede ottusa
Quando
Gianfranco Ravasi apre a coda di pavone il ventaglio di citazioni dotte che
solitamente infarciscono i suoi articoli, viene il sospetto che sia mosso esclusivamente
dalla premura di dimostrarci che non tutti i preti sono zotici, il che ci
intenerisce pure, ma spesso non basta a farci giungere in fondo al pezzo. Così la
scorsa settimana, su Domenica de Il Sole-24 Ore, dove, per recensire
una tragedia in
tre atti di Ermanno Bencivenga (Abramo
– Aragno, 2014) liberamente ispirata all’episodio biblico del sacrificio di
Isacco (Gen 22, 1-19), Sua Eminenza
ha trovato modo di infilarci Davide Maria Turoldo, Rembrandt van Rijn, Marcel Proust, Benozzo Gozzoli, Linard de Guertechin,
Leszek Kolakoski, René Girard, Immanuel Kant, Soren Kierkegaard… Non fosse stato per quel titolo così
intrigante (Tragico epilogo di una fede
ottusa), giunti a metà del pezzo, avremmo girato pagina. Grazie a quel
titolo, invece, siamo andati avanti nella lettura e facendoci largo tra le
citazioni, che probabilmente volevano dare autorevole argomentazione all’assunto
che «ottuso è bello», abbiamo potuto farci una mezza idea del libro recensito.
Ermanno
Bencivenga immagina che le cose vadano diversamente da come ce le racconta la
Bibbia, che Abramo esegua l’ordine divino e sgozzi Isacco, per poi avere l’agghiacciante
rivelazione, e proprio da chi gli ha comunicato quell’ordine, che non fosse da prendere
alla lettera: «La prova era avere abbastanza fede in Dio da saper rifiutare
quelle parole perché la tua fede ti insegnava che non potevano venire da Lui,
non potevano essere quel che Lui voleva da te».
Costruzione letteraria
affascinante, ma che non regge sul piano dell’antropologia veterotestamentaria:
Jahvè ha la rozza logica del pastore che dispone a piacimento delle sue pecore,
non lascia loro margine a interpretare le proprie volontà diversamente da come
sono espresse letteralmente, tanto meno a interpretarle in modo opposto. Jahvè
manda un angelo in extremis a fermare la mano di Abramo, ma prima vuole avere
la prova che i suoi ordini siano stati recepiti come categorici, per quanto insensati o atroci possa essere apparsi a chi li ha ricevuti: trae forza esclusivamente dalla paura e dalla soggezione, e forse è proprio in ciò che si rivela come più fedele proiezione del portato psicotico che lo ha prodotto.
Per dirla come la dice Paolo nella Lettera ai
Romani, Jahvè pretende che in Lui si abbia fede «sperando contro ogni speranza»
(Rm 4, 18), annullando nella fede ogni ragione, annullando nell’amore per Lui
ogni altro sentimento: Jahvè pretende tutto e, quando chiede «spes contra spem»,
esige
l’estremo sacrificio,
l’unica cosa a potergli dar modo di esistere.
venerdì 16 maggio 2014
La metterei così
La
metterei così. Direi che quanto la Procura di Messina sembra aver raccolto per
contestare a Francantonio Genovese i gravissimi reati che muovono alla
richiesta del suo arresto m’infiacchisce un pochino il principio garantista, che
s’infiacchisce ancor di più nel leggere la sua biografia politica, ma ritrova subito vigore nel constatare che l’imputato non ha più modo di
inquinare le prove, non è più in grado di reiterare quei reati e, se avesse
voluto scappare, fin qui avrebbe avuto modo di farlo, e non l’ha fatto. Poi c’è
la dura presa d’atto di una realtà che dei principi non sa cosa farsene: ardono
i torbidi sociali e c’è bisogno di mettere qualche fetente nel tritacarne, il primo
che capiti a tiro, meglio se sa di viscido. E dunque prevarrebbe l’istinto
bestiale, ancora più bestiale di quello che pretende il capro espiatorio, che è
quello di lasciare che la plebe l’abbia, così si calma, e lasciare passi il
tempo, così che alla carne tritata sia concessa la pietà dovuta con l’ammettere
che qualcosa, alla fin fine, al paese l’ha pur dato. Poi basta un Manlio Di
Stefano e si ritorna in se stessi, ci si pente di così brutti pensieri, e dando
una sistematina al nodo della cravatta si va al lavoro indignati di come cazzo
tentano di farti diventare, ’sti
italiani di merda, a te che dentro sei tutto anglosassone.
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