«Sono
sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto
con l’affermazione progressiva delle idee», così John
Maynard Keynes in Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse, della moneta (Utet, 2005 - pag.577). Ed è espressione di fiducia nel progresso che non tiene dovuto conto del fatto che gli interessi costituiti riciclano costantemente le idee che li hanno resi tali. Talvolta a muoversi è il paesaggio, anche sfrecciando, ma il treno resta fermo: chi ci finisce sotto, in pratica, ci si infila risucchiato.
martedì 1 luglio 2014
lunedì 30 giugno 2014
Gli torna utile anche una faccia da cretino
Alcuni
lettori mi hanno pregato di spiegare meglio il senso della frase che apriva uno
dei miei ultimi post: «Ogni parallelismo
tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia
patria – scrivevo – corre il serio
rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie». Credo nella
Provvidenza? Ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica?
Cos’è che rende Renzi un caso a parte rispetto a «gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria» che
ho dato per inteso abbiano tra loro un maggior numero di analogie? Queste – pressappoco
– le domande che accompagnavano le richieste di chiarimento. E dunque.
No,
non credo nella Provvidenza, ma suppongo fosse chiaro il riferimento alla
locuzione usata da Pio XI per Benito Mussolini, e dunque alla perifrasi del
ruolo che il θεoς απo μηχανης ha nella tragedia greca: compare all’improvviso,
in virtù dei suoi poteri sovrumani mette ordine con fare risoluto a uno stallo
della trama e la soluzione sembra soddisfare tutti, o quasi. Occorre tuttavia
riflettere su un dato: se l’Uomo della Provvidenza è tale quando torna di
qualche utilità nel farsi soluzione di un conflitto del quale non si riesce a
prevedere la durata, né lo sviluppo, né l’esito, lasciando presagire solo il
logorarsi delle forze in campo, con ricadute negative sull’intero corpo sociale,
è giocoforza che egli assuma tratti costanti che sono indipendenti dal contesto.
E
dunque no, non ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica,
ma ritengo che analogie tra l’uno e l’altro Uomo della Provvidenza siano
possibili, anzi, direi che esse vadano costantemente alla conquista del rango
di veri e propri marcatori genetici della eccezionalità del loro carattere,
facendo da architrave alla costruzione mitopoietica di un destino. Quand’anche
siano surrettizie, dunque, le analogie sono cercate, prima, e ottenute, poi,
nel tentativo più o meno deliberato di suggerire che l’Uomo della Provvidenza
sia una delle risorse intrinseche alla communitas
intesa come organismo. Che le analogie siano di fatto o si propongano come tali,
dunque, non fa differenza: esse sono in gioco come credenziali di un carisma sempre
uguale (straordinaria abilità nella comunicazione, notevole capacità di
manovrare gli individui e di affascinare le masse, incrollabile autostima,
piglio autoritario, ecc.) che di tanto in tanto è chiamato ad incarnarsi in un tizio
dai modi spicci che dinanzi al nodo di Gordio non si scoraggia e lo scioglie
recidendolo di netto.
E
allora cos’è che non consente di andare più in là di poche analogie nel
tentativo di costruire un parallelismo tra Renzi e Berlusconi, o tra Renzi e
Craxi, o tra Renzi e Mussolini? Semplice a dirsi: Renzi arriva nel momento in
cui all’Uomo della Provvidenza non è più richiesto né un profilo ideologico, né
una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società. Renzi
può muoversi al di fuori delle categorie che la postmodernità sembra avere
archiviato per sempre. Le enormi differenze che caratterizzano la crisi dello Stato
liberale, la crisi del Movimento operaio, la crisi della Prima repubblica non
impediscono di individuare un pur esile tratto comune tra il ventennio di
Mussolini, il ventennio di Craxi e il ventennio di Berlusconi: l’azzardo era
nel chiedere la piena e indiscussa facoltà di governo in cambio di un’idea di
società. L’azzardo di Renzi sta nell’identica richiesta ma in cambio della mera
governabilità.
Renzi
non ha un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del
futuro, né un progetto di società, per la semplice ragione che oggi non ce n’è
bisogno per ottenere consenso. D’altronde, la crisi della democrazia e la
deriva populista che ne è conseguita hanno svuotato il consenso del significato
che gli attribuivano l’adesione ad un’analisi e ad una proposta, la concordanza
sui modi e sui mezzi, quell’idem sentire che prima era sentito come sorte e in tempi più recenti ha preso forma di narrato.
In tal senso, per ottenere ciò che vuole, a Renzi non è necessario neanche un
consenso che abbia i modi della partecipazione fanatizzata. Il suo modello di
populismo non è quello dal basso, che cerca di comporre le contraddittorie
pulsioni che salgono da un popolo ridotto a plebe, ma quello dall’alto (la
letteratura di scuola marxiana gli ha dato la definizione di neobonapartismo),
che momento per momento si fa forte della pulsione predominante per
incrementare la presa di dominio che può fare a meno di sostenersi su quelle
che l’hanno preceduta, dunque senza doversi porre il problema di risponderne.
Ecco perché non ha alcun senso pensare di poter togliere credibilità all’offerta
di Renzi coll’inchiodarlo a ciò che ha detto due giorni, due mesi o due anni fa,
tanto meno col segnalare le continue prove di quanto sia a digiuno di
ogni cultura che non sia quella televisiva, men che meno col caricaturizzarne i
tratti del maneggione senza scrupoli: il non aver in alcun conto l’onore che si
fonda sulla parola data e sulla coerenza tra il dire e il fare, la sua grassa
ignoranza, il suo prestarsi con compiaciuta strafottenza ad ogni genere di
critica sono i suoi punti di forza, e perfino avere una faccia da cretino gli
torna utile da arma micidiale. La dictatura
cui mira (e uso il termine latino per fare chiaro riferimento al suo
significato nel diritto romano) è quella che trova ragione nell’urgenza dell’eterno
presente che è in ciascuna delle figure retoriche di cui grondano i suoi
discorsi, che non a caso sono privi di ogni congrua articolazione e di un
intellegibile costrutto. In due parole, Renzi è il trionfo del vuoto che divora
tutto ciò che sfiora.
Non
ce ne libereremo facilmente, comunque non nel modo col quale ci siamo liberati
degli altri Uomini della Provvidenza. In quel modo non conviene neppure
provarci.
[...]
Stiamo
per assistere al primo dei grandi successi di Bergoglio come diplomatico: a
giorni, forse a ore, palestinesi e israeliani si stringeranno in un grande e fraterno
abbraccio.
sabato 28 giugno 2014
[...]
Ogni
parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria (Benito Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi)
corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie.
Solo una cosa unisce saldamente tutte e quattro le esperienze: la qualità umana
e il livello intellettuale dei gregari. Mussoliniani (prim’ancora che
fascisti), craxiani (prim’ancora che socialisti), leccaculo di Berlusconi (prim’ancora
che berlusconiani) e renziani (prim’ancora che avanzi d’apparato) hanno
identico profilo psicologico e patterns behaviouriani straordinariamente simili: viene il sospetto che sullo stesso canovaccio si susseguano inestinguibili dinastie di caratteri della Commedia dell’Arte.
Si prenda un Matteo Orfini: «Vendola non cerchi nelle pressioni del Pd le cause
della crisi di Sel: due anni fa diceva “mescoliamoci”, oggi cambia radicalmente
linea. Davvero crede che la sinistra possa essere rappresentata dal salotto di
Barbara Spinelli?». Non ha il physique du rôle dello squadrista, su questo non
ci piove. Almeno dieci centimetri di troppo per poterlo dire nano e almeno venti
o trenta di meno per poterselo immaginare come ballerina. Cortigiano ad Arcore,
neanche a parlarne: troppo peloso, tristissima sciarpetta a strisce, sorriso da
far abortire anche la più sfiziosa delle barzellette. E tuttavia, al netto di quello
che gli manca, stessa arroganza, stessa postura del pidocchio assiso in trono
sulla testa di Zeus, stessa livrea da maggiordomo che si esalta nel bere dal
bicchiere del suo padrone.
venerdì 27 giugno 2014
«Essere di sinistra»? «Una cosa egoista».
Gilioli si sente un privilegiato. Non ha torto, perché lo è rispetto a tanti. Volendo,
tuttavia, non potrebbe sentirsi tale. Voglio dire che potrebbe non bastargli
quello che ha e sentire privilegiato chi ha più di lui. Sennò pensare di avere esattamente quel che merita e che dunque parlare di privilegio sia per lo meno improprio. Invece dice che gli
basta quello che ha e che per dirsi felice – sì, parla proprio di «felicità» – gli
manca solo «che lo siano anche quelli che vedo intorno a me». Non poco, direi,
perché questo implicherebbe non solo che tutti avessero ciò che rende quasi
felice lui, ma che riuscissero pure a farselo bastare.
Ora, non c’è dubbio che,
ad avere quello che lui ha – ma anche di meno, probabilmente, e forse anche molto di meno – chi non l’ha
potrebbe anche star meglio di come sta, e tuttavia pretendere che a costui possa bastare al
punto da potersi dire felice implica che Gilioli vuole l’impossibile, cioè che il
concetto di «felicità» sia uguale per tutti.
Si badi bene, non gli contesto che
si dichiari quasi felice per ciò che si fa bastare: penso anch’io che solidi
affetti, bisogni non eccedenti le proprie disponibilità e un lavoro che piace non
siano affatto poco, anzi, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che siano
moltissimo. Quello che gli contesto è il vagheggiamento, sul piano ideale, e la
ricerca, su quello pratico, della sua piena «felicità» nella pretesa, sul piano ideale, e nella proposta, su quello pratico, che quanto
essa rappresenta per lui possa, e dunque debba, rappresentarsi in quanto tale
per tutti.
Nella migliore delle ipotesi direi si tratti di un filantropismo un
po’ paternalistico, nella peggiore direi si tratti di un cristianesimo senza Cristo, discretamente appiccicaticcio.
Quello che però ritengo sia assai più significativo
è il motivo che Gilioli adduce al
bisogno che il suo concetto di «felicità» possa, dunque debba, essere uguale
per tutti: dice che si tratta di «senso di colpa», «un po’ quel meccanismo che
ha portato a suicidarsi non pochi degli scampati all’Olocausto, che non sopportavano
di essere tali, più o meno a caso, mentre altri, più o meno a caso, non ne
erano scampati».
È questo che ci consente di escludere l’ipotesi di comunismo,
che è roba più scientifica che psicologica. Dunque rimane quella del filantropismo un po’
paternalistico, e allora credo la questione – se di questione vogliamo parlare –
si ponga nel chiederci cosa autorizzi Gilioli ad amare il prossimo suo come non
è detto il prossimo suo voglia essere amato. E naturalmente non parlo di quella
porzione del prossimo suo che ne condivide il concetto di «felicità» (lì
dentro, in fondo, non mi troverei a disagio neppure io), ma di quella che lo
rigetta perché immune dai problemi psicologici di Gilioli. Il quale non è un
fesso e intelligentemente ammette che quanto è a fondamento del suo «essere di
sinistra» è «una cosa egoista».
Viene da chiedersi quale sia lo spettro psicologico
che include questo «essere di sinistra», perché, se dall’avere ciò che si ritiene basti
a rendere quasi felice è naturale attendersi un «senso di colpa», dal non
averne è naturale attendersi quell’«invidia» che per taluni sarebbe a
fondamento psicologico dell’«essere di sinistra». Un Gilioli così
inconsapevolmente berlusconiano, e chi se lo aspettava?
Comparo
questo «essere di sinistra» a quello di un Diciottobrumaio o di un Alterlucas e ci sento
passare la stessa differenza che passa tra Florence Nightingale e Marie Curie. Scopro un Gilioli umorale, disarmato e disarmante, e nel giudicarlo così mi sembra quasi di fargli un torto, sicché mando un sms a chi penso possa dare un giudizio più avveduto: «I primi tre aggettivi che ti vengono per Gilioli?», chiedo. E la risposta è: «Autentico, appassionato e un po’
pirlone».
[...]
Insieme
a quella della squadra del Napoli, sulla bara di Ciro Esposito c’era la
bandiera con lo stemma di Casa Borbone, sotto la quale si raccolgono da una
ventina d’anni i neoborbonici napoletani. Segnalata la presenza del signor
Sindaco e di altre autorevoli personalità istituzionali della Repubblica, mentre
spiccava l’assenza di Sua Maestà, re Felipe VI.
giovedì 26 giugno 2014
Capra e cavolo
Dinanzi
al problema posto dal numero estremamente alto di ginecologi che in Italia oppongono
obiezione di coscienza alla pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza,
da un lato, e dall’obbligo da parte dello stato di assicurare che tale
prestazione medica sia effettuata nei casi previsti della legge 194, dall’altro,
io penso esista un modo per salvare capra e cavolo, anzi, penso ne esistano
addirittura due: la modifica dell’art. 8 della suddetta legge al punto in cui
recita che la prestazione medica può essere fornita esclusivamente da una
struttura pubblica o il prepensionamento obbligatorio dei ginecologi obiettori operanti
in strutture pubbliche e il loro rimpiazzo con ginecologi non obiettori.
Non
faccio fatica a cogliere quali possano essere le perplessità riguardo a queste
due soluzioni, ma credo non abbiano ragion d’essere entrando nel dettaglio.
Nel
primo caso, le perplessità saranno relative al rispetto dei limiti che la legge
pone alla possibilità di un’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi
90 giorni (art. 4) o dopo tale epoca (art. 6): si può sospettare che consentire
alle strutture private di fornire la prestazione possa indurre a violare tali
limiti per basse ragioni di profitto. È sospetto che concedo abbia ragion d’essere,
ma il rischio che questo accada può facilmente essere evitato con l’inasprimento
delle sanzioni penali attualmente contemplate per chi si renda responsabile di
analoghe violazioni o semplicemente fornisca la prestazione fuori dal circuito
delle strutture pubbliche, anche se nel rispetto delle indicazioni e dei limiti
temporali contemplati dalla legge. A questo si potrebbe aggiungere un ulteriore
deterrente sanzionatorio, stavolta a carico della struttura privata dove si è
materialmente compiuto l’illecito, fino al ritiro delle autorizzazioni all’esercizio
e alla chiusura di ogni attività sanitaria. Prim’ancora, tuttavia, è da considerare che il rischio di illeciti sarebbe minimo nel caso di strutture private convenzionate, praticamente uguale a zero nel caso in cui la concessione della convenzione preveda che le interruzioni volontarie di gravidanza siano assicurate dalla carta di servizio.
In quanto alla seconda soluzione,
suppongo si sollevi la questione della gestione organizzativa del comparto fino
all’ottenimento del ricambio di personale. Anche qui penso si tratti di un
problema facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, c’è da supporre che il
fenomeno dell’obiezione di coscienza abbia a trovare un drastico
ridimensionamento dinanzi alla scelta imposta ai ginecologi che operano in
strutture pubbliche. Avanzo dubbi sulla genuinità dell’imperativo etico che li
induce all’obiezione di coscienza? Avranno modo di smentirli decidendo di
dedicarsi alla libera professione. D’altro canto, il ricambio sarebbe
progressivo e non impatterebbe eccessivamente sulle carriere professionali dei
ginecologi obiettori, consentendo peraltro uno svecchiamento delle piante
organiche, immobili da decenni.
Nulla, ovviamente, potrà impedire che un nuovo assunto
divenga obiettore dopo l’assunzione, ma anche qui sarà possibile minimizzarne
le conseguenze con meccanismi di natura retributiva che scoraggino il
prepensionamento: non sarà da intendere come misura ritorsiva perché indotta da ragioni legate esclusivamente all’efficienza di un servizio, né sarà una tragedia perdere il posto fin lì occupato in una
struttura pubblica con una liquidazione e una pensione di entità irrisorie a
fronte di aver dato sollievo a un assillo d’ordine morale, potendo peraltro
continuare ad esercitare nel privato. Perché su una cosa credo occorra intendersi: quando la propria coscienza è in attrito anche indiretto con le leggi dello stato, si ha il diritto di darle ristoro nel modo che meglio si ritiene, ma senza poter pretendere che tale ristoro sia a carico della comunità che nel suo insieme è tenuta al rispetto formale e sostanziale delle leggi dello stato. Si può considerarle ingiuste, ma occorre si paghi un prezzo personale alla decisione di osteggiarle col sabotaggio.
Questo ovviamente vale anche per i farmacisti obiettori che si rifiutino di fornire i farmaci per la contraccezione di urgenza ai clienti che ne facciano richiesta dietro prescrizione medica: liberi di farlo, ma rinunciando al convenzionamento col sistema sanitario pubblico. Nessuno ti obbliga alla carriera militare, ma se la scegli, e la Costituzione vede riforma dell’art. 11, e il Parlamento decide di entrare in guerra, hai solo due possibili scelte: dimetterti per tempo dall’esercito o dichiararti disertore e assumertene la piena responsabilità. Nessuno ti vieta di essere un Testimone di Geova, ma questo non ti dà diritto, da medico, di rifiutare una trasfusione a chi stia crepando per una emorragia.
Questo ovviamente vale anche per i farmacisti obiettori che si rifiutino di fornire i farmaci per la contraccezione di urgenza ai clienti che ne facciano richiesta dietro prescrizione medica: liberi di farlo, ma rinunciando al convenzionamento col sistema sanitario pubblico. Nessuno ti obbliga alla carriera militare, ma se la scegli, e la Costituzione vede riforma dell’art. 11, e il Parlamento decide di entrare in guerra, hai solo due possibili scelte: dimetterti per tempo dall’esercito o dichiararti disertore e assumertene la piena responsabilità. Nessuno ti vieta di essere un Testimone di Geova, ma questo non ti dà diritto, da medico, di rifiutare una trasfusione a chi stia crepando per una emorragia.
Mi
pare sia chiaro che qui ho messo sullo stesso piano due esigenze cui penso sia
opportuno dare lo stesso peso: la libertà del ginecologo di praticare o meno
interruzioni volontarie di gravidanza e l’obbligo dello stato di assicurare che
una sua legge sia applicata a dovere. Personalmente penso abbiano peso diverso,
ma da legislatore in erba mi sono imposto un profilo equanime.
mercoledì 25 giugno 2014
Tentare di salire sul carro del vincitore
Tentare
di salire sul carro del vincitore quando già è affollato può rivelarsi operazione
estremamente ardua e a rischio di mortificanti frustrazioni, ma basta avere
avuto in dote dalla natura il quanto basta di faccia tosta a compensare il
quanto manca di decoro per non scoraggiarsi, ritentare, e ritentare ancora,
anche se una volta sbagli l’aggancio e finisci a mordere la polvere, un’altra ci
riesci ma chi sta sopra ti pesta le nocche e un’altra ancora ti stendi davanti
al carro sperando che si fermi per non travolgerti, così da approfittarne per
guizzarvi sopra, ma quello non frena – si sa che la vittoria corre – e ti
arrota: se ti interessa salire lì sopra, metti da parte ogni rispetto per te
stesso, fregatene del disprezzo che ti pioverà addosso se riesci nell’impresa,
e ancor più del disprezzo se fallirai, e insisti, a dispetto di tutto ciò che
ragionevolmente dovrebbe farti disperare di riuscire, anzi, nei limiti di ciò
che ti è possibile, fai in modo di lasciar credere a chi guida il carro che
averti a bordo gli tornerebbe utile, mentre lasciarti a terra sarebbe un’occasione
persa e in fondo pure un’ingiustizia: vanta di aver sempre creduto in lui, esagera
in lodi ma non far mancare qualche critica, che però abbia il tono dell’esortazione,
e soprattutto millanta doti che non hai, gonfia il curriculum con accorta cura
degli aggettivi e degli avverbi, abusa senza pudore di eufemismi e reticenze,
glissa su quanto sarebbe motivo di imbarazzo, sennò rivoltalo a dovere per
dargli un aspetto decente: insomma, fai come Mario Adinolfi fa da mesi con
Matteo Renzi, e non demordere: ti rideranno addosso ad ogni tentativo andato a
vuoto, ma a te che importa? O a bordo o nella merda: hai 43 anni, hai rotto il
cazzo a mezza Italia col ricambio generazionale e, quando finalmente arriva, corri
il serio rischio – più del serio rischio: praticamente la minaccia – di finire
nel mucchio degli scarti inservibili: è l’ultima occasione, poi da controversa
macchietta da avanspettacolo della politica blaterata sarai declassato a triste
fetecchia da talk show di quart’ordine per la miseria di un gettone di presenza,
e sarai costretto a contendertelo con un’Alba Parietti o una Flavia Vento,
sennò ad arrotondare per bische. Il mondo è crudele e non riesce a cogliere la
tragedia personale dietro il comico affanno a non uscire definitivamente dal cono
di luce ai cui margini sei aggrappato a dispetto di una ormai irresistibile forza
centrifuga: non mollare, non risparmiarti nel metterci la faccia, non farti
scrupolo se a tutti sembra in tutto uguale al culo. Può darsi che Matteo Renzi
abbia dimenticato la stratosferica figura di merda che gli facesti fare all’indomani
delle primarie che perse, quando da furbacchione seppe fare un passo indietro,
mentre tu ne facevi uno in avanti e chiedevi a suo nome il Ministero delle
Comunicazioni. Può darsi si sia distratto e non rammenti più che uscisti dal Pd
per rincorrere l’evanescente miraggio di Scelta civica e per elemosinare il
rientro solo dopo aver acchiappato il seggio alla Camera da primo dei non
eletti recuperato a fine legislatura. Al Berluschino non fa difetto una faccia
rotonda come la tua, quindi è possibile comprenda, chiuda un occhio, voglia
fare un’opera di bene e ti prenda a bordo – in fondo sei la negativa del
fallimento che il suo azzardo gli ha consentito di schivare, può darsi ti dia
uno strapuntino con lo stesso animo grato con cui si accende un cero alla
Madonna – e dunque non desistere: ne va della tua vita, e poi, in fondo, torni
buono anche come cattivo esempio. Io, per esempio, al mio Michele, che pure è
ancora troppo piccino per capire, già l’ho detto: prova a diventarmi una roba
simile e ti spezzo le gambe.
martedì 24 giugno 2014
Sine ira ac studio
Perché
portiamo bottoni sulle maniche delle giacche? La questione è controversa. C’è chi
sostiene che l’idea sia venuta a Elisabetta I d’Inghilterra per dissuadere i
suoi soldati dalla pessima abitudine di smoccolarsi strofinando il naso sul
dorso dell’avambraccio, ma esistono versioni alternative, anche se in tutto
analoghe, che ne attribuiscono la paternità a Horatio Nelson, a Napoleone
Bonaparte, ecc. Tesi suggestive, se non fosse che bottoni sulle maniche delle
giacche si osservano già in molti dipinti della seconda metà del Quattrocento.
Più
verosimile, come sostengono altri, che proprio in quel periodo vengano a
sostituire le fettucce di stoffa che fin lì chiudevano ai polsi le maniche,
come si osserva in molti personaggi ritratti da artisti del Duecento e Trecento
(talvolta in numero di due o di tre, dal gomito al polso) evitando che queste
fossero d’impaccio quando slacciate e semplificando di molto l’operazione di
riannodo, che i bottoni consentono con una sola mano.
Di certo c’è che l’uso
pratico divenne nel giro di uno o due secoli puramente decorativo, e tale
rimane oggi, anche se per fattura e materiali usati i bottoni alle maniche
delle giacche non sono più oggetti di lusso, come lo furono nel Seicento e nel
Settecento, fatta eccezione per l’argento e l’oro che ancora il blazer classico
contempla.
Con la crisi della sartoria artigianale e il trionfo dell’abito in
serie, non è più il bottone, ma l’asola, a segnalare una residua preziosità
della manica: quella dozzinale non ne ha e i bottoni vi sono appuntati a tutto
spessore, a differenza della giacca che conserva qualche pretesa di capo di lusso,
sulla cui manica ad ogni bottone corrisponde un’asola e il dettaglio è spesso
messo in risalto col lasciarne disimpegnata l’ultima.
Bene,
a me pare che la questione dell’immunità parlamentare abbia molte analogie con
quella dei bottoni sulle maniche delle giacche. Impossibile negare che l’istituto
sia stato introdotto per valide ragioni, ma è altrettanto innegabile che oggi
sia decaduto a mera decorazione o, peggio, a rappresentazione di un lusso
inutile.
So
bene che c’è chi non riuscirebbe mai a rinunciare ai suoi tre o quattro bottoni
sulla manica. A me sembra che non abbiano alcuna ragion d’essere, ma cerco di
capire a cosa gli servano.
«L’immunità parlamentare – dice – sta nella
Costituzione italiana dal 1948. Non basta, si potrebbe tornare ancora più
indietro: all’epoca medievale, per esempio, e alle prerogative riservate ai
membri dei parlamenti in ragione della loro alta funzione. Non c’era ancora la
democrazia, non c’era ancora il suffragio universale, non c’era ancora il
costituzionalismo, e però si poneva comunque il problema di come tutelare i
componenti delle assemblee elettive. Questa tutela si chiamava allora e si
chiamerà in seguito – udite udite – “privilegio parlamentare” […] La parola
racconta la lunga storia con cui le istituzioni parlamentari si sono fatte
largo contro la prevaricazione di altri poteri, conquistando uno spazio
giuridico protetto, a tutela della insindacabilità delle opinioni e dei voti
espressi nell’esercizio della funzione parlamentare, e per frapporre un
impedimento (entro certo limiti e condizioni) alla sottoposizione a
procedimenti penali, o all’arresto, o ad altre misure restrittive, di un
rappresentante del popolo» (l’Unità, 24.6.2014). Benissimo, ma queste
condizioni persistono?
La
risposta è ellittica: molto, molto ellittica. «È innegabile che di privilegi e
immunità parlamentari si parla da che esistono i parlamenti, e dunque qualunque
riscrittura della Costituzione è chiamata ad affrontare la questione. Solo che
bisognerebbe farlo “sine ira ac studio”».
Convengo, e sine ira ac studio, rinunciando a sospettare che
l’asola apra alla sòla, chiedo
perché a tutela della insindacabilità delle proprie opinioni non possa bastare,
e per tutti, il primo comma dell’art. 21 della Costituzione. Chiedo quale sia
la norma penale attualmente vigente che sanziona i voti espressi nell’esercizio
della funzione parlamentare. Chiedo quale sia il reato per il quale sarebbe
giusto o almeno opportuno che chi l’ha commesso sia perseguibile, se comune
cittadino, e no, se deputato o senatore. E nell’articolo non trovo risposte.
lunedì 23 giugno 2014
Bergoglio scomunica i mafiosi, lalléro, lallà
Non
c’è bisogno di credere in un dio per esprimere una motivata condanna morale
della criminalità organizzata, tanto meno di quel dio al quale tanta
criminalità organizzata è devotissima da sempre. «Quello che mi ha colpito nella mia frequentazione dei mafiosi –
scriveva qualche tempo fa Roberto Scarpinato – è l’avere constatato che si tratta in moltissimi casi di cattolici
credenti e praticanti, e non c’è simulazione […] Come è compatibile – si
chiedeva – il fatto che questi uomini
uccidono, sono mafiosi, eppure sono in pace con se stessi e con Dio? La
conclusione a cui sono arrivato è che in realtà non pregano lo stesso Dio,
pregano un Dio diverso. Pregano un Dio diverso, perché nella cultura cattolica
il rapporto tra il singolo e Dio è gestito da un mediatore culturale: ciascuna
articolazione sociale esprime dal suo interno un mediatore. E così abbiamo i
sacerdoti della mafia e i sacerdoti dell’antimafia […] Il mafioso ha un
rapporto con Dio che non è conflittuale perché il mediatore con Dio che lui
stesso sceglie è espressione della sua stessa cultura. Vi sono delle chiese che
sono piene, la domenica, del popolo di mafia, dove ci sono dei sacerdoti che
mediano il rapporto con Dio in modo da eliminare qualsiasi attrito e qualsiasi
frizione». Ora, che un papa scomunichi i mafiosi in quanto mafiosi, i
camorristi in quanto camorristi, eccetera, sembrerebbe essere evento degno di
nota, perché il «mediatore culturale»
fin qui connivente si troverebbe di fatto ad essere delegittimato nel «mediare il rapporto» tra Dio e il mafioso
in quanto mafioso, il camorrista in quanto camorrista, eccetera. Sembrerebbe,
insomma, un gesto destinato a metter fine per sempre a quella connivenza tra ministri
del culto e uomini appartenenti a questa o quella organizzazione criminale che non
ha mai mancato di offrirsi come paradosso dalle pagine di cronaca. Gesto che lo
stesso Roberto Scarpinato evocava come risolutore: «Fino a quando la Chiesa cattolica non denuncerà in modo inequivocabile
che certi comportamenti non sono compatibili col Vangelo – scriveva – potremo dire che c’è qualcosa che continua a
non funzionare nei fatti». E dunque, con la scomunica di Bergoglio, i fatti
cominceranno a funzionare? Più di un dato ci spinge ad essere scettici, a
cominciare da quello che lo stesso Roberto Scarpinato metteva in evidenza: «La Chiesa ha la struttura ordinamentale di
una monarchia assoluta, basata sulla gerarchia e sull’obbedienza […] Io credo
che non si possa fare un discorso di liberazione degli altri se l’istituzione
che lo fa non si nutre di una profonda ed autentica democrazia interna. Mi pare
vi sia una contraddizione in termini». Personalmente andrei anche più in
là, direi che le analogie tra la Chiesa cattolica e l’organizzazione criminale
di stampo mafioso sono innanzitutto di tipo antropologico, ma qui non voglio
approfondire questo aspetto, sul quale d’altronde mi sono già intrattenuto in
altre occasioni: vorrei limitarmi a considerare la portata della scomunica
comminata da Bergoglio.
Innanzitutto
occorre considerare che non può essersi trattato di una scomunica latae
sententiae: non sarebbe stato necessario emetterla, perché automatica, dunque avente
già effetto; d’altronde i casi in cui essa è prevista non sono in alcun modo
adattabili alla condizione di appartenente ad un’organizzazione criminale di
stampo mafioso. Ad excludendum, deve essersi trattato di scomunica ferendae
sententiae, e nessun problema si porrebbe se non fosse che i casi in cui essa è
contemplata non sono tra quelli che costituiscono lo specifico dell’attività
criminale di stampo mafioso, tanto meno quello della semplice appartenenza ad
un’organizzazione del tipo in oggetto. È vero che la Congregazione per la
Dottrina della Fede ha dato authentica interpretatio del can. 1374 del nuovo
Codice di Diritto Canonico indicando
come valido motivo di scomunica la semplice appartenenza alla Massoneria, ma
tale parere non è mai stato esteso alla semplice appartenenza ad un’organizzazione
criminale, sicché la sanzione rimane applicabile solo a una persona fisica, non
a un organizzazione nel suo insieme. In teoria, sarebbe possibile rimuovere
questo ostacolo, ma la modifica dovrebbe passare per decreto della Congregazione per la
Dottrina della Fede o per editto pontificale motu proprio, di cui al momento
non si ha notizia, né annuncio. Sorge il sospetto che Bergoglio abbia voluto, e
per l’ennesima volta, mietere simpatie a costo zero, come quando si produce in quelle
soffici banalità spolverate con zucchero a velo che deliziano i palati
grossolani. Ben più efficace sarebbe stata una scomunica a tutti i religiosi in
varia misura conniventi coi pesci grandi, medi e piccolini delle cosche: per
una scomunica del genere ci sarebbero stati gli estremi a norma del Codice del Diritto Canonico, e gli effetti sarebbero stati davvero dirompenti. Poi, certo,
avrebbe significato lasciare enormi territori della Sicilia, della Calabria e
della Campania sguarniti di preti… Meglio spararla grossa e insignificante,
tanto più adesso che mafia, camorra e ’ndrangheta attraversano un periodaccio e
non possono permettersi di sparargli un colpo di bazooka in culo.
venerdì 20 giugno 2014
Di dadi e di bulloni
Solo
in apparenza v’è contraddizione tra la lode del creato che il cattolico sussume
in quella del creatore e la rozza, sguaiata e deprimente idea di «natura» in
cui è sussunto ciò che egli ritiene «naturale», perché il disprezzo della carne
è in fondo l’unico modo che egli ha per farsi convinto di avere un’anima, sicché non deve
stupire che al fondo di ogni riaffermazione di ciò che egli ritiene «naturale»
su ciò che ritiene «contro natura» vi sia la sordida trivialità che immiserisce
il corporeo a materia inorganica.
Un esempio davvero illuminante di questa
tetra dimensione in cui il cattolicesimo ritiene di poter rinchiudere il
corporeo ci è offerto da un post con cui Berlicche ritiene di offrirci prova
inoppugnabile di quanto l’eterosessualità sia «naturale» e l’omosessualità sia «contro
natura», col ridurre il maschio a bullone e la femmina a dado: illuminante
perché rivela che la complementarietà che rende coppia due individui, in fondo,
starebbe tutta in un buco da riempire.
Non è improbabile che anche qualche gay possa essere d’accordo. In quanto alle lesbiche, ce ne sono alcune che nel comodino hanno dei dildo che nella vagina della moglie di Berlicche si avviterebbero assai più saldamente di quanto egli riesca a fare col suo bulloncino. In buona evidenza, direi che anche stavolta siamo all’infortunio argomentativo di chi presume di aver confezionato
un efficace espediente didascalico che in realtà torna buono solo a costruire
un’oscena barzelletta da caserma.
martedì 17 giugno 2014
[...]
Nei
mesi in cui Michael Schumacher è stato in coma, c’è stato chi ha parlato dell’eventualità
di sospendere i trattamento terapeutici che lo tenevano in vita o prospettato,
anche solo in ipotesi, l’opportunità di un intervento eutanasico attivo?
Familiari? Amici? Colleghi? Conoscenti? Fan? Non mi risulta, né mi risulta che
in tal senso si siano espressi i medici che lo hanno tenuto in cura, né quelli
a vario titolo chiamati a esprimersi sul caso. Sarà che solo oggi recupero la
gran parte di ciò che è stato scritto sulla vicenda, dunque può darsi che
qualcosa mi sia sfuggito, ma neppure mi risulta che una sola voce nell’opinione
pubblica nazionale e internazionale si sia levata a ventilare soluzioni del
genere, né in esortazione, né in auspicio, neppure a fronte del fatto che col
passare delle settimane prendeva sempre maggior consistenza il timore che le
conseguenze dell’incidente fossero destinate ad esitare in danni seri e
permanenti, timore che d’altronde è parso fin da subito realisticamente
fondato. E allora – chiedo – come cazzo salta in mente a Nicoletta Tiliacos di
prendere occasione dalla vicenda di Schumacher per biasimare gli «sguardi [che] giudicano inadeguat[o] a
garantire una vita “degna di essere vissuta”» il solo parziale recupero
delle funzionalità neurologiche che per lui si prospetta ora che è uscito dal
coma? Chi guarda non fa altro che proiettare su sé stesso le condizioni in cui
versa il pilota di Formula 1, sicché il giudizio se una siffatta vita sia degna
o no di essere vissuta attiene a sé solo: Schumacher si offre come mera
occasione di una riflessione tutta personale, non già come problema sul da
farsi. In buona sostanza, siamo alla differenza posta tra chi ritiene che in
queste situazioni ciascuno abbia il diritto di poter decidere per sé stesso – Schumacher
compreso, se ha provveduto a lasciare disposizioni al riguardo, o chi per lui –
e chi, al contrario, pretende che la propria scelta debba avere valore cogente
per tutti, e questo con una significativa rilevanza sul piano morale: chi non
ritiene degna di essere vissuta una vita in tali condizioni di affliggenti
impedimenti psicofisici mai si sognerebbe di imporre ad altri la propria scelta
eutanasica, al contrario di chi invece la ritiene degna in ogni caso, e che
spesso – troppo spesso – esige ciò valga per tutti.
Ma
dov’è la notizia che consente alla Tiliacos di insinuare che un’imposizione del
genere sarebbe lecita o addirittura necessaria? È presto detto: «Michael Schumacher si è svegliato dal coma,
comunica con la moglie e i figli, “mostra momenti di coscienza e di risveglio”,
come dice la sua manager, e ha lasciato l’ospedale di Grenoble, dove era
ricoverato da dicembre, per una fase, “che sarà lunga”, di cura e di
riabilitazione in una struttura di Losanna» (Il Foglio, 17.6.2014). Bene, ma dov’è la contraddizione con quanto
ha detto alcuni giorni fa «Gary
Hartstein, l’anestesista americano fino al 2012 delegato medico della Formula
1», che pure «non parla per
conoscenza diretta ma, dice, interpreta i fatti»? Ha detto che «sei mesi di coma non fanno sperare niente
di buono», che la sola novità è «che
le sue condizioni sono diventate abbastanza stabili da permettere un
trasferimento» e che comunque nessuno può assicurare che «Schumacher potrà tornare “a esprimersi e
che lavorerà duramente per stare meglio o che dovrà nuovamente imparare a
camminare, leggere, scrivere”»: dov’è la contraddizione col fatto che il
pilota è semplicemente uscito dal coma? Si badi bene: Hartstein non si è mai
augurato che Schumacher morisse, né esprime questo augurio ora, né ha mai ha
suggerito fosse meglio lasciarlo morire, tanto meno sollecita o ha sollecitato un
intervento eutanasico attivo, e nemmeno si azzarda a dire che al posto di Schumacher
la sua scelta sarebbe in tal senso. E tuttavia sembra che a disturbare la
Tiliacos basti il suo realismo, cui in pratica ella rimprovera di non voler
concedere che «l’inaspettato può sempre
accadere». Pur rilevando che sulla base delle affermazioni di Hartstein tale
rimprovero è palesemente immotivato, ancora si potrebbe comprenderlo se egli avesse
mai affermato che il coma in cui versava Schumacher fosse da considerare
irreversibile, ma questo non l’ha mai fatto: si è sempre e solo limitato a
constatare ciò che è ampiamente documentato sul piano prognostico. È questo che
in fin dei conti sembra infastidire la Tiliacos, alla quale piace immaginare
che «attorno a certi letti non si giocano
solo lunghe partite tra la vita e la morte, ma anche lunghe battaglie tra
visioni del mondo, e quindi della vita e della morte».
Battaglie
da combattere sulla pelle di chi vi è steso dentro, tra chi è disposto a
riconoscergli il diritto di autodeterminazione e chi invece è fermamente
intenzionato a negarglielo, opponendogli il dovere di sopravvivere, e a
qualsiasi prezzo. Non è tutto, perché a far forte questo dovere interverrebbe
un imperativo etico che è la negativa della proiezione di chi prende a spunto
il caso di Schumacher per dire che al suo posto preferirebbe morire: «La differenza [tra chi pensa che
ciascuno abbia il diritto di decidere per sé e chi pensa che tutti abbiamo il
dovere di rinunciarvi] la fa lo sguardo
delle persone care, famigliari e amici, ma anche del “pubblico”, se pubblico è
il personaggio, come lo sono un grande campione sportivo [Michael
Schumacher], un politico simbolo del suo
paese [Ariel Sharon], una giovane
donna americana [Terry Schiavo] e una
italiana [Eluana Englaro] diventate
oggetto di uno scontro di civiltà». Uno scontro di civiltà che, a ben
vedere, è tra la civiltà che dichiara la sovranità dell’individuo sul proprio
corpo e sulla propria mente e la barbarie che la nega. Superfluo rilevare che
la sgangherata sofistica della Tiliacos è al servizio di quest’ultima.
lunedì 16 giugno 2014
¶
Del
tutto naturale che sulla bancarella di libri vecchi il Principio di una logica
della vita morale di Maurice Blondel stia accanto al trattato di malattie
infettive dato alle stampe prima della scoperta degli antibiotici: qui i
mercuriali per la lue, lì l’αντιφασις come «simbolo inadeguato» della στερησις.
Fino
a Bartolomé de Las Casas, la cosa è data, ma non cerca e non trova spiegazione: «Nulla subiectio, nulla servitus, nullum onus
unquam impositum fuit, nisi populus qui subiturus illa onera erat, impositioni
eiusmodi voluntarie consentiret» (De Regia Potestate, § 4.1). Poi arriva Étienne
de La Boétie.
«Ci
vogliono sessant’anni d’incredibile fatica e sofferenza per creare una simile
persona, che però è buona solo per morire, ormai». Detto da André Malraux nel
1933, quando la vita media era appunto di sessant’anni o giù di lì. Se la
condition humaine è sempre uguale a se stessa, la quantità di fatica e
sofferenza necessaria a creare una persona buona solo a morire –
inesorabilmente – cresce.
D’un
tratto m’assale la nostalgia di Luigi De Marchi.
Vacca fa a Togliatti lo stesso servizietto che Togliatti fece a Gramsci: pubblica il pubblicabile.
[...]
Non
c’è da stupirsi che l’avventura brasiliana della nostra Nazionale non abbia
ancora messo in moto la macchina propagandistica di Palazzo Chigi. Se infatti
un’eventuale vittoria dell’Italia ai Mondiali sarebbe senza dubbio destinata a
rappresentare una ritrovata capacità di credere in se stessi che gli italiani
dovrebbero all’aria nuova che si respira da quando Matteo Renzi è capo del
governo, l’investimento propagandistico che dovrà rendere cogente questa
relazione non può che essere rimandato a quando sia possibile escludere una
pessima figura da parte della squadra. Questo spiega la prudenza che ha
consigliato di evitare anche una tiepida esultanza alla vittoria dell’Italia
sull’Inghilterra: il risultato non assicura la qualificazione e, dopo aver
creato anche un tenue link tra il team di Prandelli e quello di Renzi, un
inglorioso ritorno a casa dopo due eventuali sconfitte col Costarica e coll’Uruguay
si offrirebbe da micidiale metafora di una vacua illusione abortita in cocente figura di merda. C’è da presumere
che
almeno fino a venerdì
Renzi e i suoi continueranno a far finta che i Mondiali non si stiano
neanche disputando, per continuare a tacere se l’Italia perderà o
otterrà solo un pareggio; in caso di vittoria, invece, dovrebbe essere
abbastanza sicuro almeno il secondo posto nel girone C, dunque il passaggio
agli ottavi di finali, e allora qualcuno tra gli uomini più vicini a Renzi – un
Luca Lotti, per esempio – comincerà a tessere le dovute suggestioni, per farle
diventare sempre più sfacciate nel caso in cui l’Italia arrivi a superare i
quarti di finale. Lì c’è da attendersi che Renzi indossi la maglia azzurra, s’intesti
il merito dei goal fatti e dei rigori parati, e per le semifinali voli in
Brasile per prodursi nel numero che meglio gli riesce: pretendere di avere
partita vinta perché fin lì ha avuto il 40,8% di possesso palla.
Quando c’era Togliatti
Tra
due mesi ricorre il 50° della morte di Palmiro Togliatti e già si riapre la
discussione sulle miserie e gli splendori
della sua figura, secondo i punti di vista. Fin troppo ovvio che il
passato si offra come pretesto per parlare del presente, tanto più adesso che la
cosiddetta morte delle ideologie spinge i suoi orfani – orfini e affini – a
cercare antecedenti nobili al cinismo e all’opportunismo, alla doppiezza e alla
spregiudicatezza, del Migliore che gli tocca avere a leader. Operazione
complicata, per certi versi dolorosa, e soprattutto a rischio di infortunio.
Così per un articolo di Francesco Cundari sull’ultimo numero di Leftwing. Mi ero posto in mente di commentarlo su queste pagine, poi ha vinto la sintesi.
domenica 15 giugno 2014
sabato 14 giugno 2014
Se dico
Se
dico che i tuoi argomenti sono zoppicanti, che la tua passione è febbricitante,
che il tuo fare è convulso, oltre ad offendere te, offendo anche chi è
portatore di patologie che sul piano sintomatologico si manifestano con zoppia,
febbre e convulsioni? Se sottovaluto il tuo fiuto e dico che i tuoi guadagni in
Borsa sono dovuti solo ad una fortunata serie di colpi gobbi, oltre a
deprezzare i tuoi meriti, faccio offesa anche a chi soffre di cifoscoliosi
severa? Se per accusarti di essere ostinatamente insensibile a una questione,
dico che da quell’orecchio non ci senti, mostro a mia volta insensibilità verso
i soggetti affetti da ipoacusia? È moralmente inaccettabile, insomma, l’uso della
figura retorica che mutui significato dalla valenza analogica, metaforica o
allegorica offerta da una condizione clinica? Parrebbe lo sia, ma solo per
alcune condizioni cliniche. Nei casi sopra esposti, per esempio, sarà difficile
che insorgano le associazioni che tutelano i diritti degli epilettici, dei
rachitici e degli ipoudenti, e se dico che quel progetto è folle o che quel
ragazzino è pestifero, sarà difficile che qualcuno mi rimproveri di aver mancato
di rispetto a chi soffre di disturbi psichiatrici o a chi lotta la sua
battaglia per la vita contro quel tal ceppo di Pasteurella o di Yersinia. Così,
di un tizio potrò dire che ha reazioni isteriche o che la sua sospettosità è paranoica
senza dovermi aspettare lamentele se non da lui, ma guai a dargli dell’autistico
per significare la sua chiusura alle ragioni altrui. Trovare una risposta a
questa incomprensibile disparità di atteggiamento è arduo, e a cercarla si arrischia.
[...]
La
cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la politica, la
cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne in evidenza
alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura mascherati
dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete di questa
o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un partito in
una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare un narrato
personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in grado di
surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico che
fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo elettorale sia
stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa di rappresentare
a quello estetico sul quale la persona del leader oggi pretende di ritagliare l’hortus
conclusus di una storia – la sua – come rappresentazione di un’unità di intenti.
In altri termini, diremmo che l’appiattimento di un partito sulla persona del proprio leader è la continuazione del culto della personalità con altri mezzi:
dalla figura di Augusto, che esprime una visione dell’impero come progetto, si
arriva a quella di Eliogabalo, che la immiserisce a performance.
A Eliogabalo,
tuttavia, occorre rammentare che sarà trucidato, trascinato per strade
ribollenti di rabbia, fatto a pezzi e buttato nella Cloaca Maxima. Facesse meno
lo stronzetto, anzi, esagerasse, esagerasse pure: se non si è Augusto, non resta altro.
giovedì 12 giugno 2014
Pastorale per l’infanzia
«Collaboratori
di Dio, voi avete sui figli un’autorità che non viene dalla legge, né dallo stato,
né dalla tradizione, ma da Dio stesso. Questa autorità assumerà una espressione
differente, man mano che il bambino cresce; potrete anche delegarla, ma non
potrete mai abbandonarla completamente finché il fanciullo non sia diventato
adulto. Bisogna sostenere arditamente che per educare un bambino è necessario
esercitare su di lui un’autorità ed esigere da lui ubbidienza. Il fanciullo al
quale “si lascia fare”, sotto pretesto di rispettare la sua libertà,
rischierebbe fortemente di diventare un essere malvagio, contro il quale in
seguito si dovrebbe impiegare, per difendersi, la forza bruta. […] Volete che i
figlioli vi ubbidiscano? Convinceteli fin da piccoli che un ordine e un
desiderio di papà o di mamma non debbono soffrire ritardo alcuno
nell’esecuzione. Quando un piccolo non ubbidisce, pensate che ciò non è colpa
sua, ma dei genitori. Un bambino, che avrà acquistato l’abitudine a ubbidire al
primo comando, non avrà neppure l’idea che si possa disubbidire ai genitori.
Ripetere due volte lo stesso ordine è prova di debolezza e inizio di perdita
d’autorità. […] Se la cosa è grave e importante, state attenti affinché il
bambino ubbidisca subito senza mormorare, senza smorfie e senza quelle lentezze
e quei sotterfugi a cui molti genitori lasciano che si abituino a poco a poco i
loro bimbi e che diventano così difficili da correggere verso l’età di
quattordici o quindici anni. […] Prendete i mezzi che crederete più opportuni
per influire sullo spirito del bambino, ma ad ogni costo fatevi ubbidire. […] Fino
ai due anni l’ubbidienza del piccolo non può essere che passiva. La madre deve
sforzarsi a preparare il suo figliolo e formare in lui dei buoni automatismi e
felici associazioni, che genereranno buoni comportamenti. Dai tre anni e anche
prima, seguendo lo sviluppo intellettuale, l’ubbidienza deve incominciare a
essere attiva; ma una cosa è certa ed è che da uno ai sette anni il fanciullo passa
per tre tappe di ubbidienza: ubbidire perché lo vogliono, sapere ubbidire
perché bisogna, voler ubbidire per necessità ed interesse. A sette anni il
subconscio del fanciullo deve essere mobilitato in tutta la sua ricchezza con
tutti gli automatismi, fisici, intellettuali e morali; in altre parole: i
giochi devono essere fatti e ben fatti. […] Quando si comanda qualcosa al bimbo
bisogna sapere con chiarezza ciò che si vuole e volerlo fermissimamente. Il
fanciullo capisce istintivamente e subito, dal tono della voce, l’importanza
reale che si da a ciò che gli si comanda…»
Chiudi il volume di pastorale per l’infanzia, apri Avvenire e leggi:
Sei
personcina troppo educata per mandare a fare in culo l’autorevole prelato che l’ha
detto, ma fai un’eccezione, e ce lo mandi.
«Vedendo come vanno le cose»
Riparato
a Lugano, in precipitosa fuga dal ducato estense, Antonio Panizzi scriveva: «Vado
in Francia o Spagna e vivrò povero, onesto e liberale. Me ne rido, io, della
porca Fortuna: io farò disperar Lei, non Lei me». Lo scriveva sul finire del 1822
e di lì a qualche mese avrebbe scelto l’Inghilterra, per Liverpool e poi
Londra, dove in breve sarebbe diventato il ricercatissimo conferenziere che sul
Rinascimento italiano incantava sale stracolme, finendo per assumere la
direzione del British Museum. Finirà i suoi giorni nel 1879, a 84 anni,
appagato e sereno tranne che nell’inestinguibile odio per «quel frate porco di
Pietro Giordani» che lo aveva segnalato come carbonaro costringendolo all’esilio.
Sull’Italia, che intanto conquistava l’unità, non si faceva troppe illusioni, e
anzi disperava. Lo fecero senatore nel 1868, e tornò, guardò, e scrisse: «Mi
vergogno d’essere italiano vedendo come vanno le cose… Vanitas vanitatum et
omnia vanitas». Un caratteraccio, il Panizzi: collerico, sboccato, un fondo
umbratile, un’insaziabile sete di giustizia, del tutto incapace di chiudere un
occhio e con l’altro vedere il buono che c’è anche nel peggio del peggio,
volendolo trovare. Ecco, potremmo dire che era uno di quelli che non vogliono
trovarlo a tutti i costi, il buono che c’è anche nel peggio del peggio.
Non
ho perfetta comprensione del come mi sia saltato in mente di parlare del Panizzi.
Ero dinanzi alla pagina bianca e l’intenzione era di commentare la cronaca
politica di queste ultime settimane. Da qualsiasi bandolo tentassi di sbrogliare il gomitolo, la voglia era di tirare, strappare o lasciar perdere. Allora ho pensato a quel tale che con proficua saggezza rampognava gli intransigenti che «non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno». Chi sono io - mi son detto - per mandarlo a cagare? E allora mi è venuto in soccorso il Panizzi.
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