mercoledì 16 luglio 2014

Appunti per una «Psicologia del Supercazzola»


1. Fausto Bertinotti ha di recente raccontato che Riccardo Lombardi dissuadeva dal rovistare nel passato di un uomo giunto ad occupare una carica pubblica di rilievo, perché «anche un giovanotto crapulone – diceva – può diventare un eccellente vescovo». L’aneddoto è saltato fuori nel corso della presentazione di uno dei tanti volumi – il quinto, se non ho perso il conto – che negli ultimi mesi sono arrivati in libreria per spiegarci chi sia Matteo Renzi. Il consiglio del «Linge» (così lo chiamava Gramsci) poteva andar bene per la Prima Repubblica, quando per arrivare anche soltanto a un mezzo strapuntino nel Comitato Centrale del Pci o nel Consiglio Nazionale della Dc era necessario il lungo apprendistato toccato a Parsifal per farsi degno di accostarsi al Santo Graal. Col declino delle tradizionali culture politiche italiane, col venir meno del principio che per costruirti un piccolo feudo elettorale in Lucania dovevi aver studiato almeno la Dottrina Sociale della Chiesa e per gestire la partita di giro tra le Coop e le Botteghe Oscure dovevi come minimo aver seguito le lezioni di Paolo Spriano alle Frattocchie, col sopravvento del cerone sulle rughe e della battuta spiritosa sull’arzigogolo fumoso, con la rivoluzione che ha segnato il sopravvento dei finti giovani sui finti vecchi, oggi basta una frangetta che faccia tenerezza al Dario, due o tre comparsate televisive per sostenere il Pierluigi e sei pronta a fare la vice del Matteo, al quale può bastare un brodo di coltura neocatecumenale, un babbo da impresario e una faccia da social network per esser pronto alla guida del governo. Non senza merito, sia chiaro, ma è che i tempi cambiano, e coi tempi, ciò che dà merito: ieri era il darsi interamente al proprio partito, oggi saperselo fare interamente proprio. In altri termini, se prima era il partito alla continua ricerca dei propri quadri dirigenti e di un leader che riuscisse ad incarnarne il portato etico-estetico, oggi chi ha la vocazione di farsi leader la persegue e la soddisfa nel riuscire a fare di un partito lo strumento del suo Io narrante, sicché in buona sostanza si può dire che egli è veramente leader quando il partito riesce a far propri i tratti di quel narrato. Detto in modo ancora più brutale: se ieri era il partito a dettare i precetti di un dover-essere che nel consenso cercava di porre le fondamenta di una comunità per quanto più gli era possibile (come più ampia pars possibile) e il leader era colui che li traduceva in un modello, oggi è l’essere del leader che si offre alla più ampia pars possibile di una comunità come modello cui ispirarsi per farsi partito di maggioranza. Più brutalmente ancora? Ieri il leader era la sintesi simbolica di un quid che oggi è sintesi simbolica del leader. Rovistare nel passato del «giovanotto», allora, può dare ampia spiegazione dell’operato del «vescovo»: il suo episcopato non esprime più lo spirito di un’ecclesia che si dà il segno del suo carisma, ma il modo in cui un’ecclesia cerca il suo spirito in quel segno, e il «vescovo» può dirsi «eccellente» solo quando questa ricerca trova soluzione. Se ieri, dunque, la psicogenesi di un leader era in tutto funzionale al ruolo che gli avrebbe affidato il partito, oggi è il suo profilo psicologico ad improntare il ruolo che egli dà al partito. Vien meno, in buona sostanza, quella «rigidità di contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse» che già nel 1921, «a una considerazione più attenta», per Sigmund Freud era solo apparente, giacché «la massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile [e] pensa per immagini [sicché] chi desidera influenzarla non ha bisogno di argomentazioni»: basta che «le doti personali di costui corrispondano alle sue aspettative» (Massenpsychologie un Ich-Analyse).

2. Il limite più grosso di ogni tentativo fin qui fatto per capire chi sia Matteo Renzi andando a rovistare nel suo passato è stato quello di aneddotizzarne i tratti salienti per costruire un modello coincidente a una tipologia di personaggio: nulla mi pare sia stato seriamente fatto per un approccio di tipo psicologico alla personalità. Ritengo sia superfluo in questa sede rimandare a ciò che nel personaggio va perso della personalità, basti rammentare che il profilo psicologico di una persona dramatis è in tutto funzionale alla rappresentazione di un evento scenico, mentre il piano sul quale va in scena il drama personae trova teatro in tutt’altra dimensione (cfr. Maria Pia Arrigoni e Gian Luca Barbieri, Narrazione e psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore 1998 - in particolare, pagg. 101-115). Senza entrare nel merito di quanto questa semplificazione abbia sottratto alla possibilità di comprensione dei moventi primi che fanno dell’attore (in senso stretto) una maschera (in senso lato), mi limiterò a darne un esempio. Nel corso di un talk show andato in onda su La 7 lo scorso 27 febbraio una antropologa, la professoressa Amalia Signorelli ha detto: «Mi pare che il carattere predominante nel carattere di Renzi sia il suo tirocinio di boyscout», e ha spiegato che tutto larmamentario di «vestiti, borracce, zaini, coltelli, cappelli speciali e tutto il resto» che quel corpo ritiene necessario «per convincersi che una gita su una collina alta non più di mille metri sia simile a una spedizione nella foresta dellAmazzonia» rivela una forma di esaltazione che può sennatamente dirsi ridicola. Considerazioni da antropologo, appunto. Nulla che vada più in là del profilo psicologico che accomuna tutti i boyscout. In questo caso, viene meno l’analisi in un fattore come lempowerment, che è basilare nella formazione dello scout. La notazione, peraltro acuta, perde così specifico nella psicogenesi del leader con Io ipertrofico ed esasperato bisogno di controllo delle attività dei gregari. Basterebbe un cenno ai lavori di Julien Rapaport e Marc Zimmerman o, per citare uno studio in italiano, il contributo essenziale di Gian Piero Quaglino (cfr. Scritti di formazione 1976-2006, vol. IV, Franco Angeli Editore 2007), accostando tali dati alle tracce autobiografiche disseminate nelle numerose interviste rilasciate negli ultimi anni. Per questo aspetto, come per altri, quella che maggiormente offre spunti di diagnosi è senza dubbio quella rilasciata a Michele Cucuzza e poi raccolta con altre in Sotto i 40 - Storie di giovani in un paese vecchio, Donzelli 2007 (pagg. 51-66): «Tra i diciassette e i vent’anni, l’età in cui vuoi dare un calcio al mondo e hai fiducia in te stesso forse in eccesso, ho capito quanto fosse importante [...] il cogliere la soddisfazione dellavanzata passo dopo passo, più che il conseguimento della meta in sé». Il muoversi per muoversi, il fare per fare, per la mera gratificazione che se ne può trarre. E così per un altro capitolo del romanzo di formazione, che rivela un altro tratto nel processo di fissazione che, vedremo, è lelemento psicopatologico di contesto: l’esaltazione nella decisione rapida, rivelata nella descrizione dell’esperienza di arbitro di calcio: «Fare larbitro significa che devi decidere. Lo devi fare in una frazione di secondo, senza possibilità di delegare ad altri. Devi avere grande autocontrollo, serenità e capacità di dialogo, ma quando hai deciso, hai deciso». In questo caso, come in quello precedente e in quelli che analizzeremo successivamente, non mette conto dare per attestate in Renzi le virtù dello scout e dellarbitro di calcio per quelle che sono, ma per come sono descritte. Il passaggio dalla trama aneddotica alle tappe della psicogenesi si ha nel tradurre l’esperienza nel suo narrato, per procedere da questo a ciò che esso implica come costruzione dellideale dell’Io (qui inteso nel senso in cui Janine Chasseguet-Smirgel l’ha posto in relazione alla «malattia dellidealità» - cfr. Raffaello Cortina Editore 1991).


[segue]   

martedì 15 luglio 2014

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Non fosse sempre stata guastata dal palese intento di infierire sul cadavere del comunismo, la revisione storica che fa della Resistenza un affresco in cui si affollano, furiosi, solo vili e fessi, tutti affratellati, seppure irriducibili nemici, da miserabili interessi, non ultimo quello di salvar la pelle, che in fondo, quando si millanta vocazione eroica, è il più miserabile di tutti – non fosse mossa da mera fregola iconoclasta, insomma – la revisione storica della Resistenza avrebbe l’indubbio pregio di rammentarci che, fatte salve le anime belle che della partita in gioco regolarmente finiscono per capir poco o niente, riuscendo tutt’al più a immortalarsi in tragici cammei, gli italiani non son tagliati per l’epica, se non per quella che si declama quando è il momento del brindisi, quando si è già un pochino alticci. Nell’immaginarsi un finale di partita coi berlusconiani all’assalto del Palazzo di Giustizia, per esempio, Nanni Moretti voleva darci il brivido della guerra civile, e in un buona misura ci è riuscito, ma eccolo lì, il popolo dei fedelissimi che per Silvio Berlusconi giurava avrebbe versato fino all’ultima goccia di sangue: Dudù, la Santanchè e il poco che resta della servitù, peraltro molto anemica. O forse sarà stata una scaramanzia, quel chiudere Il Caimano con sì fosco presagio di torbidi e lutti e pianti a straziare il paese. O forse – perché no – sarà stato un peloso concedergli l’onore delle armi: ti ritraggo da tiranno, e con piena dignità di tiranno, così il tuo fallimento politico sembrerà un vero tirannicidio. Sono i brutti tiri che gioca la retorica, perché pare che pure Benito Mussolini abbia implorato gli salvassero il culo, e in cambio avrebbe dato tutto quello che poteva: robe che non avrebbero fatto onore né ai fascisti né agli antifascisti, e allora andasse in scena – secondo il punto di vista che offriva la poltrona in platea – il «pietà l’è morta», il «giustizia è fatta!», il «così va il mondo», ecc.
Sic stantibus rebus, la sentenza d’appello sul cosiddetto caso Ruby corre il serio rischio di essere degradata alla scivolata su una merda. Il sangue, ancora una volta manca il sangue.    

venerdì 11 luglio 2014

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Chi fruga nell’altrui intimità con la disinvoltura di chi ha ottenuto un diploma di psicologo grazie ai punti della spesa fatta alla Lidl dovrebbe esser disposto a concedere pari licenza a chi voglia frugare nella sua. Mi auguro che Mario Adinolfi voglia perciò permettermi una domanda a margine del post in cui scandaglia l’animo del figlio che Sherri Shepherd «aveva acquistato con il meccanismo dell’utero in affitto», per poi «rifiutarlo», per sostenere con la sicurezza di chi coi punti restanti s’è portato a casa pure un diploma in pedagogia e una pratica pirofila con presa ignifuga che per il pargolo si prospetta un sicuro destino da infelice (segue appuntamento per il tal giorno, alla ora x, «per combattere i retrogradi che vogliono portarci a due millenni fa, quando le persone erano cose»); e la domanda è questa: essere concepiti senza il ricorso a queste diavolerie mette al riparo dal sentirsi «non voluto più da nessuno» e «lasciato nella solitudine» anche solo un po’ di più che ad essere stati concepiti ricorrendovi? Per meglio dire: sulla base di quali dati statistici si può trarre questa convinzione? Oppure: non si può essere abbandonati anche da genitori che ti hanno concepito secondo natura? Di più: non ci si può sentire abbandonato, rifiutato, anche senza mai esserlo stato nel modo in cui è toccato al figlio di Sherri Shepherd? E allora: con quale ottusa determinazione si può affermare che «in tutto questo delirio molto americano, c’è un essere indifeso, solo, che sta per nascere nella desolazione totale»? Non è meglio nascere comunque, come afferma chi è contro l’aborto? La vita non vale la pena di essere vissuta comunque, come afferma chi è contro l’eutanasia? 

Visto, Adino? Dalla premessa avrai temuto che stessi per tirare in ballo il suicidio di tua sorella, concepita come si deve, ma per delicatezza mi sono trattenuto, anche se ti confesso che l’intenzione c’era. È che sotto casa ho la Carrefour e non raccolgo punti.


giovedì 10 luglio 2014

Riassunto delle puntate precedenti

In buona evidenza


Si immagini un Parlamento in cui il 55% degli eletti corrisponda al 37% dei votanti per il partito che li candidava in una lista bloccata. Niente preferenze, il loro posto in lista l’ha scelto chi è padrone di quel partito, che col 37% dei voti va dritto dritto alla guida del governo. Con un Parlamento in cui la maggioranza assoluta è composta di uomini che ha scelto lui, e che non saranno ricandidati se non gli mostreranno cieca obbedienza, si confeziona le leggi che vuole, e con ciò potere esecutivo e potere legislativo vanno a finire nelle stesse mani, le sue. Non basta, perché con una riforma della giustizia che così avrà modo di costruirsi come cazzo gli pare non avrà difficoltà a limitare autonomia e indipendenza della magistratura, rendendola soggetta ai suoi voleri.
Dovrà ritoccare la Costituzione? Ne avrà la forza. Quand’anche non ne avesse a sufficienza, avrà una Corte Costituzionale che per un terzo sarà composta dai membri scelti dal suo Parlamento e per un terzo da quelli scelti dal Presidente della Repubblica che si sarà eletto a suo piacimento, perché col 55% dei seggi alla Camera (340 su 630) gli basterà poco più un terzo del Senato che avrà provveduto per tempo a riformare come cazzo gli pare per mandare al Quirinale chi più gli possa tornar comodo: 10 membri su 15 della Corte Costituzionale vidimeranno ogni sua porcata.
Superfluo dire che di contorno sarà necessario il controllo della comunicazione televisiva, il placet della finanza, forze di opposizione ricattabili se non velleitarie e irrilevanti, ma soprattutto un popolo da lungo tempo degradato a plebe. Mi pare che non manchi niente.

In buona evidenza, non c’è più bisogno di un colpo di stato per avere una dittatura. Dittatura, poi, è termine che ormai provoca l’eczema anche a chi ha una pellaccia: meglio dire post-democrazia. Idem per colpo di stato, espressione così desueta che quasi ha un che di romantico. Meglio dire, come d’altronde il battage propagandistico non smette di ripetere, che serve governabilità e stabilità, fanculo a gufi e parrucconi.
In buona evidenza, non c’è più bisogno di un grugno truce da colonnello per dichiarare lo stato di emergenza: esecutivo, legislativo e giudiziario possono finire nelle mani di uno solo anche se si ritrova la faccia da cretino, basta non gli facciano difetto lo scilinguagnolo e i modi spicci. Se poi si tratta di uno che non ha perso tempo a rovinarsi gli occhi sui libri, ma l’ha proficuamente impiegato a imparare il know-how del venditore, basta ne imbrocchi due o tre di quelle furbe e riesce in niente a costruirsi una squadra di leccaculo e di sciacquette a drogarlo di autostima. Nel venire a galla, la merda acquista abbrivio.

Voilà, l’«orribile dispotismo» che Montesquieu descrive ne De l’esprit des lois (XI, 6), e senza alcuna speranza che il despota si ritrovi una spanna di lama in pancia. 

venerdì 4 luglio 2014

Corrispondenze



Malvino,
so che questo non è un jukebox, ma non riesco a non esprimere il vero desiderio di leggere un suo commento sullultima uscita dell’amico Adinolfi, a commento della foto che ritrae i due padri che in Canada prendono in braccio la “loro” bambina in sala parto.
Davvero, non lo dico riferendomi alla sicura ironia che quel nome genera, ma realmente rispetto allimmagine in sé di fronte alla quale non riesco a sentirmi su una posizione che mi appaia chiara e in questi casi le sue direzioni sono spesso d’aiuto.
Lo chiedo a lei perché medico, perché espositore chiaro quando il tema è quello, perché padre, perché non cattolico e solo alla fine perché abile ironico quando di Adinolfi si tratta.
Per dire che quell’ultima parte può anche non esserci, la mia è davvero la richiesta di una possibile direzione, perché quella foto mi lascia in una condizione sospesa che non mi capita spesso e per questo non le chiedo una lettura della foto ma del perché possa lasciare sospesi, cosa di quella foto impedisce o rende difficile una lettura unica e sicura.
Il nodo è la questione del primo contatto di pelle che quella foto racconta.
Non riesco a dirlo giusto ma non so perché, essendo intimamente sicuro di non essere a rischio di qualsiasi forma di omofobia.
Parlo proprio di simbiosi biologica corpo madre-corpo figlio.
È davvero solo un problema etico?

Bruno


A mio modesto avviso, lei si fa troppi scrupoli: “condizione sospesa” è una carineria, dica “disagio”, ché non fa differenza. Ora, nel pormi la questione, lei implicitamente mi chiede se io senta un analogo “disagio”, dando per scontato chio non possa non sentirlo, salvo congrua spiegazione del perché non lo senta. In pratica, dà per assodato che la foto debba provocarlo, e per ragioni autoevidenti, mentre è il fatto che non lo provochi a rendere necessaria una spiegazione. Superfluo chiedersi il perché: la situazione ritratta nella foto le sembra più o meno palesemente “innaturale”.
E qui, consenta, siamo alle solite: siamo al cosa sia “natura”, se una realtà che sta prima e sopra l’essere umano o la particolare idea che si coltiva di sé, degli altri e delle cose tutte, idea che, pur lentamente, è soggetta a ineluttabili cambiamenti, spesso con veri e propri salti. E non c’è dubbio che, a considerare la riproduzione umana in tutti i suoi aspetti come qualcosa che sta prima e dopo l’uomo, la foto può provocare un certo disagio. “Un certo disagio”, perché in fondo il neonato è per metà dell’uomo che commosso lo stringe al seno. Di fatto, egli è un padre. E allora cos’è che rende la foto “innaturale”? È il fatto che la donna che ha partorito quel neonato è l’altro genitore biologico, ma qualcosa ci informa che non sarà lei ad allevarlo: al suo posto ci sarà il compagno del padre biologico.
È condizione che in “natura” avviene non di rado, ma qui scatena l’ampia gamma di reazioni che va dalla perplessità allo sgomento, e la “simbiosi biologica corpo madre-corpo figlio”, come la chiama lei, diventa l’immagine di un principio che qui pare violato. Prim’ancora di rimarcare che questa “simbiosi” cessa con la recisione del cordone ombelicale, c’è da ribadire che paternità e maternità sono “anche” questione biologica, ma questa non le esaurisce, né esse cadono al cadere di quella.
È che col matrimonio sta accadendo quello che è avvenuto col patrimonio: il termine comincia a includere altri modi di essere marito e moglie, padre e madre. Turba, mi rendo conto, ma è impossibile far resistenza, se non nella speranza di frenare un po’, per quel che può tornare di rassicurante nell’illudersi di impedirlo, invece che a pensare come dargli adeguato quadro normativo. E per adeguato non intendo atto a renderlo tollerabile, ma ragionevolmente accettabile.
Per questo come per altro, siamo alla resa dei conti - tanto più drammatica perché tocca i fondamentali - tra il creaturale e il culturale, e il primo sembra spacciato. A posteriori, la stagione delle “guerre culturali” attorno alle questioni non negoziabili era il colpo di coda di un animale che già agonizzava. Mancherà solo a chi piace polemizzare per polemizzare. 

giovedì 3 luglio 2014

Ignorantitudine

Telemaco, che per fratello aveva Telefono e per sorella Televisione.

mercoledì 2 luglio 2014

[...]

Riprendo da ciò che ho scritto una ventina di giorni fa: «La cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la politica, la cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne in evidenza alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura mascherati dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete di questa o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un partito in una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare un narrato personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in grado di surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico che fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo elettorale sia stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa di rappresentare a quello estetico sul quale la persona del leader oggi pretende di ritagliare l’hortus conclusus di una storia – la sua – come rappresentazione di un’unità di intenti».
Se le cose stanno a questo modo, non è più possibile alcuna difesa argomentata di una posizione politica, ma solo esprimere il proprio gradimento in favore del suo succedaneo. Ugualmente, il confutarla sarà giocoforza surrogato in un giudizio di carattere eminentemente estetico: viene meno ogni fondamento al potersi esprimere con la formula «condivido/disapprovo», e a disposizione resta solo il poter dire «mi piace/non mi piace». È in questo che si rivela il tratto essenzialmente autoritario di una società che al confronto tra quei diversi, opposti, irriducibili «complessi di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale» (Treccani), che chiamavamo «ideologie», sostituisce la rappresentazione di patterns estetici alla quale si è chiamati per dare o no il proprio «like»: dall’appartenenza a un gruppo sociale, a una classe, ad un partito, fondata sulla condivisione di una Weltanschauung, si passa all’inerenza che separa una platea in settori di gradimento, e il cittadino si trasforma in spettatore.
La crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto a due o tre squadre. 

martedì 1 luglio 2014

Segnalibro

[...]


«Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con l’affermazione progressiva delle idee», così John Maynard Keynes in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse, della moneta (Utet, 2005 - pag.577). Ed è espressione di fiducia nel progresso che non tiene dovuto conto del fatto che gli interessi costituiti riciclano costantemente le idee che li hanno resi tali. Talvolta a muoversi è il paesaggio, anche sfrecciando, ma il treno resta fermo: chi ci finisce sotto, in pratica, ci si infila risucchiato.


lunedì 30 giugno 2014

Gli torna utile anche una faccia da cretino


Alcuni lettori mi hanno pregato di spiegare meglio il senso della frase che apriva uno dei miei ultimi post: «Ogni parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria – scrivevo – corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie». Credo nella Provvidenza? Ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica? Cos’è che rende Renzi un caso a parte rispetto a «gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria» che ho dato per inteso abbiano tra loro un maggior numero di analogie? Queste – pressappoco – le domande che accompagnavano le richieste di chiarimento. E dunque.
No, non credo nella Provvidenza, ma suppongo fosse chiaro il riferimento alla locuzione usata da Pio XI per Benito Mussolini, e dunque alla perifrasi del ruolo che il θεoς απo μηχανης ha nella tragedia greca: compare all’improvviso, in virtù dei suoi poteri sovrumani mette ordine con fare risoluto a uno stallo della trama e la soluzione sembra soddisfare tutti, o quasi. Occorre tuttavia riflettere su un dato: se l’Uomo della Provvidenza è tale quando torna di qualche utilità nel farsi soluzione di un conflitto del quale non si riesce a prevedere la durata, né lo sviluppo, né l’esito, lasciando presagire solo il logorarsi delle forze in campo, con ricadute negative sull’intero corpo sociale, è giocoforza che egli assuma tratti costanti che sono indipendenti dal contesto.
E dunque no, non ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica, ma ritengo che analogie tra l’uno e l’altro Uomo della Provvidenza siano possibili, anzi, direi che esse vadano costantemente alla conquista del rango di veri e propri marcatori genetici della eccezionalità del loro carattere, facendo da architrave alla costruzione mitopoietica di un destino. Quand’anche siano surrettizie, dunque, le analogie sono cercate, prima, e ottenute, poi, nel tentativo più o meno deliberato di suggerire che l’Uomo della Provvidenza sia una delle risorse intrinseche alla communitas intesa come organismo. Che le analogie siano di fatto o si propongano come tali, dunque, non fa differenza: esse sono in gioco come credenziali di un carisma sempre uguale (straordinaria abilità nella comunicazione, notevole capacità di manovrare gli individui e di affascinare le masse, incrollabile autostima, piglio autoritario, ecc.) che di tanto in tanto è chiamato ad incarnarsi in un tizio dai modi spicci che dinanzi al nodo di Gordio non si scoraggia e lo scioglie recidendolo di netto.
E allora cos’è che non consente di andare più in là di poche analogie nel tentativo di costruire un parallelismo tra Renzi e Berlusconi, o tra Renzi e Craxi, o tra Renzi e Mussolini? Semplice a dirsi: Renzi arriva nel momento in cui all’Uomo della Provvidenza non è più richiesto né un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società. Renzi può muoversi al di fuori delle categorie che la postmodernità sembra avere archiviato per sempre. Le enormi differenze che caratterizzano la crisi dello Stato liberale, la crisi del Movimento operaio, la crisi della Prima repubblica non impediscono di individuare un pur esile tratto comune tra il ventennio di Mussolini, il ventennio di Craxi e il ventennio di Berlusconi: l’azzardo era nel chiedere la piena e indiscussa facoltà di governo in cambio di un’idea di società. L’azzardo di Renzi sta nell’identica richiesta ma in cambio della mera governabilità.
Renzi non ha un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società, per la semplice ragione che oggi non ce n’è bisogno per ottenere consenso. D’altronde, la crisi della democrazia e la deriva populista che ne è conseguita hanno svuotato il consenso del significato che gli attribuivano l’adesione ad un’analisi e ad una proposta, la concordanza sui modi e sui mezzi, quell’idem sentire che prima era sentito come sorte e in tempi più recenti ha preso forma di narrato. In tal senso, per ottenere ciò che vuole, a Renzi non è necessario neanche un consenso che abbia i modi della partecipazione fanatizzata. Il suo modello di populismo non è quello dal basso, che cerca di comporre le contraddittorie pulsioni che salgono da un popolo ridotto a plebe, ma quello dall’alto (la letteratura di scuola marxiana gli ha dato la definizione di neobonapartismo), che momento per momento si fa forte della pulsione predominante per incrementare la presa di dominio che può fare a meno di sostenersi su quelle che l’hanno preceduta, dunque senza doversi porre il problema di risponderne. Ecco perché non ha alcun senso pensare di poter togliere credibilità all’offerta di Renzi coll’inchiodarlo a ciò che ha detto due giorni, due mesi o due anni fa, tanto meno col segnalare le continue prove di quanto sia a digiuno di ogni cultura che non sia quella televisiva, men che meno col caricaturizzarne i tratti del maneggione senza scrupoli: il non aver in alcun conto l’onore che si fonda sulla parola data e sulla coerenza tra il dire e il fare, la sua grassa ignoranza, il suo prestarsi con compiaciuta strafottenza ad ogni genere di critica sono i suoi punti di forza, e perfino avere una faccia da cretino gli torna utile da arma micidiale. La dictatura cui mira (e uso il termine latino per fare chiaro riferimento al suo significato nel diritto romano) è quella che trova ragione nell’urgenza dell’eterno presente che è in ciascuna delle figure retoriche di cui grondano i suoi discorsi, che non a caso sono privi di ogni congrua articolazione e di un intellegibile costrutto. In due parole, Renzi è il trionfo del vuoto che divora tutto ciò che sfiora.
Non ce ne libereremo facilmente, comunque non nel modo col quale ci siamo liberati degli altri Uomini della Provvidenza. In quel modo non conviene neppure provarci.


[...]



Stiamo per assistere al primo dei grandi successi di Bergoglio come diplomatico: a giorni, forse a ore, palestinesi e israeliani si stringeranno in un grande e fraterno abbraccio. 

sabato 28 giugno 2014

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Ogni parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria (Benito Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi) corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie. Solo una cosa unisce saldamente tutte e quattro le esperienze: la qualità umana e il livello intellettuale dei gregari. Mussoliniani (prim’ancora che fascisti), craxiani (prim’ancora che socialisti), leccaculo di Berlusconi (prim’ancora che berlusconiani) e renziani (prim’ancora che avanzi d’apparato) hanno identico profilo psicologico e patterns behaviouriani straordinariamente simili: viene il sospetto che sullo stesso canovaccio si susseguano inestinguibili dinastie di caratteri della Commedia dell’Arte.
Si prenda un Matteo Orfini: «Vendola non cerchi nelle pressioni del Pd le cause della crisi di Sel: due anni fa diceva “mescoliamoci”, oggi cambia radicalmente linea. Davvero crede che la sinistra possa essere rappresentata dal salotto di Barbara Spinelli?». Non ha il physique du rôle dello squadrista, su questo non ci piove. Almeno dieci centimetri di troppo per poterlo dire nano e almeno venti o trenta di meno per poterselo immaginare come ballerina. Cortigiano ad Arcore, neanche a parlarne: troppo peloso, tristissima sciarpetta a strisce, sorriso da far abortire anche la più sfiziosa delle barzellette. E tuttavia, al netto di quello che gli manca, stessa arroganza, stessa postura del pidocchio assiso in trono sulla testa di Zeus, stessa livrea da maggiordomo che si esalta nel bere dal bicchiere del suo padrone.     

venerdì 27 giugno 2014

«Essere di sinistra»? «Una cosa egoista».


Gilioli si sente un privilegiato. Non ha torto, perché lo è rispetto a tanti. Volendo, tuttavia, non potrebbe sentirsi tale. Voglio dire che potrebbe non bastargli quello che ha e sentire privilegiato chi ha più di lui. Sennò pensare di avere esattamente quel che merita e che dunque parlare di privilegio sia per lo meno improprio. Invece dice che gli basta quello che ha e che per dirsi felice – sì, parla proprio di «felicità» – gli manca solo «che lo siano anche quelli che vedo intorno a me». Non poco, direi, perché questo implicherebbe non solo che tutti avessero ciò che rende quasi felice lui, ma che riuscissero pure a farselo bastare.
Ora, non c’è dubbio che, ad avere quello che lui ha – ma anche di meno, probabilmente, e forse anche molto di meno – chi non l’ha potrebbe anche star meglio di come sta, e tuttavia pretendere che a costui possa bastare al punto da potersi dire felice implica che Gilioli vuole l’impossibile, cioè che il concetto di «felicità» sia uguale per tutti.
Si badi bene, non gli contesto che si dichiari quasi felice per ciò che si fa bastare: penso anch’io che solidi affetti, bisogni non eccedenti le proprie disponibilità e un lavoro che piace non siano affatto poco, anzi, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che siano moltissimo. Quello che gli contesto è il vagheggiamento, sul piano ideale, e la ricerca, su quello pratico, della sua piena «felicità» nella pretesa, sul piano ideale, e nella proposta, su quello pratico, che quanto essa rappresenta per lui possa, e dunque debba, rappresentarsi in quanto tale per tutti.
Nella migliore delle ipotesi direi si tratti di un filantropismo un po’ paternalistico, nella peggiore direi si tratti di un cristianesimo senza Cristo, discretamente appiccicaticcio.

Quello che però ritengo sia assai più significativo è il motivo che Gilioli adduce al bisogno che il suo concetto di «felicità» possa, dunque debba, essere uguale per tutti: dice che si tratta di «senso di colpa», «un po’ quel meccanismo che ha portato a suicidarsi non pochi degli scampati all’Olocausto, che non sopportavano di essere tali, più o meno a caso, mentre altri, più o meno a caso, non ne erano scampati».
È questo che ci consente di escludere l’ipotesi di comunismo, che è roba più scientifica che psicologica. Dunque rimane quella del filantropismo un po’ paternalistico, e allora credo la questione – se di questione vogliamo parlare – si ponga nel chiederci cosa autorizzi Gilioli ad amare il prossimo suo come non è detto il prossimo suo voglia essere amato. E naturalmente non parlo di quella porzione del prossimo suo che ne condivide il concetto di «felicità» (lì dentro, in fondo, non mi troverei a disagio neppure io), ma di quella che lo rigetta perché immune dai problemi psicologici di Gilioli. Il quale non è un fesso e intelligentemente ammette che quanto è a fondamento del suo «essere di sinistra» è «una cosa egoista».
Viene da chiedersi quale sia lo spettro psicologico che include questo «essere di sinistra», perché, se dall’avere ciò che si ritiene basti a rendere quasi felice è naturale attendersi un «senso di colpa», dal non averne è naturale attendersi quell’«invidia» che per taluni sarebbe a fondamento psicologico dell’«essere di sinistra». Un Gilioli così inconsapevolmente berlusconiano, e chi se lo aspettava? 

Comparo questo «essere di sinistra» a quello di un Diciottobrumaio o di un Alterlucas e ci sento passare la stessa differenza che passa tra Florence Nightingale e Marie Curie. Scopro un Gilioli umorale, disarmato e disarmante, e nel giudicarlo così mi sembra quasi di fargli un torto, sicché mando un sms a chi penso possa dare un giudizio più avveduto: «I primi tre aggettivi che ti vengono per Gilioli?», chiedo. E la risposta è: «Autentico, appassionato e un po pirlone».  

[...]



Insieme a quella della squadra del Napoli, sulla bara di Ciro Esposito c’era la bandiera con lo stemma di Casa Borbone, sotto la quale si raccolgono da una ventina d’anni i neoborbonici napoletani. Segnalata la presenza del signor Sindaco e di altre autorevoli personalità istituzionali della Repubblica, mentre spiccava l’assenza di Sua Maestà, re Felipe VI.

giovedì 26 giugno 2014

Capra e cavolo


Dinanzi al problema posto dal numero estremamente alto di ginecologi che in Italia oppongono obiezione di coscienza alla pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza, da un lato, e dall’obbligo da parte dello stato di assicurare che tale prestazione medica sia effettuata nei casi previsti della legge 194, dall’altro, io penso esista un modo per salvare capra e cavolo, anzi, penso ne esistano addirittura due: la modifica dell’art. 8 della suddetta legge al punto in cui recita che la prestazione medica può essere fornita esclusivamente da una struttura pubblica o il prepensionamento obbligatorio dei ginecologi obiettori operanti in strutture pubbliche e il loro rimpiazzo con ginecologi non obiettori.
Non faccio fatica a cogliere quali possano essere le perplessità riguardo a queste due soluzioni, ma credo non abbiano ragion d’essere entrando nel dettaglio.
Nel primo caso, le perplessità saranno relative al rispetto dei limiti che la legge pone alla possibilità di un’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni (art. 4) o dopo tale epoca (art. 6): si può sospettare che consentire alle strutture private di fornire la prestazione possa indurre a violare tali limiti per basse ragioni di profitto. È sospetto che concedo abbia ragion d’essere, ma il rischio che questo accada può facilmente essere evitato con l’inasprimento delle sanzioni penali attualmente contemplate per chi si renda responsabile di analoghe violazioni o semplicemente fornisca la prestazione fuori dal circuito delle strutture pubbliche, anche se nel rispetto delle indicazioni e dei limiti temporali contemplati dalla legge. A questo si potrebbe aggiungere un ulteriore deterrente sanzionatorio, stavolta a carico della struttura privata dove si è materialmente compiuto l’illecito, fino al ritiro delle autorizzazioni all’esercizio e alla chiusura di ogni attività sanitaria. Primancora, tuttavia, è da considerare che il rischio di illeciti sarebbe minimo nel caso di strutture private convenzionate, praticamente uguale a zero nel caso in cui la concessione della convenzione preveda che le interruzioni volontarie di gravidanza siano assicurate dalla carta di servizio.
In quanto alla seconda soluzione, suppongo si sollevi la questione della gestione organizzativa del comparto fino all’ottenimento del ricambio di personale. Anche qui penso si tratti di un problema facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, c’è da supporre che il fenomeno dell’obiezione di coscienza abbia a trovare un drastico ridimensionamento dinanzi alla scelta imposta ai ginecologi che operano in strutture pubbliche. Avanzo dubbi sulla genuinità dell’imperativo etico che li induce all’obiezione di coscienza? Avranno modo di smentirli decidendo di dedicarsi alla libera professione. D’altro canto, il ricambio sarebbe progressivo e non impatterebbe eccessivamente sulle carriere professionali dei ginecologi obiettori, consentendo peraltro uno svecchiamento delle piante organiche, immobili da decenni.
Nulla, ovviamente, potrà impedire che un nuovo assunto divenga obiettore dopo l’assunzione, ma anche qui sarà possibile minimizzarne le conseguenze con meccanismi di natura retributiva che scoraggino il prepensionamento: non sarà da intendere come misura ritorsiva perché indotta da ragioni legate esclusivamente allefficienza di un servizio, né sarà una tragedia perdere il posto fin lì occupato in una struttura pubblica con una liquidazione e una pensione di entità irrisorie a fronte di aver dato sollievo a un assillo d’ordine morale, potendo peraltro continuare ad esercitare nel privato. Perché su una cosa credo occorra intendersi: quando la propria coscienza è in attrito anche indiretto con le leggi dello stato, si ha il diritto di darle ristoro nel modo che meglio si ritiene, ma senza poter pretendere che tale ristoro sia a carico della comunità che nel suo insieme è tenuta al rispetto formale e sostanziale delle leggi dello stato. Si può considerarle ingiuste, ma occorre si paghi un prezzo personale alla decisione di osteggiarle col sabotaggio.
Questo ovviamente vale anche per i farmacisti obiettori che si rifiutino di fornire i farmaci per la contraccezione di urgenza ai clienti che ne facciano richiesta dietro prescrizione medica: liberi di farlo, ma rinunciando al convenzionamento col sistema sanitario pubblico. Nessuno ti obbliga alla carriera militare, ma se la scegli, e la Costituzione vede riforma dell’art. 11, e il Parlamento decide di entrare in guerra, hai solo due possibili scelte: dimetterti per tempo dall’esercito o dichiararti disertore e assumertene la piena responsabilità. Nessuno ti vieta di essere un Testimone di Geova, ma questo non ti dà diritto, da medico, di rifiutare una trasfusione a chi stia crepando per una emorragia.     
Mi pare sia chiaro che qui ho messo sullo stesso piano due esigenze cui penso sia opportuno dare lo stesso peso: la libertà del ginecologo di praticare o meno interruzioni volontarie di gravidanza e l’obbligo dello stato di assicurare che una sua legge sia applicata a dovere. Personalmente penso abbiano peso diverso, ma da legislatore in erba mi sono imposto un profilo equanime. 

mercoledì 25 giugno 2014

Tentare di salire sul carro del vincitore


Tentare di salire sul carro del vincitore quando già è affollato può rivelarsi operazione estremamente ardua e a rischio di mortificanti frustrazioni, ma basta avere avuto in dote dalla natura il quanto basta di faccia tosta a compensare il quanto manca di decoro per non scoraggiarsi, ritentare, e ritentare ancora, anche se una volta sbagli l’aggancio e finisci a mordere la polvere, un’altra ci riesci ma chi sta sopra ti pesta le nocche e un’altra ancora ti stendi davanti al carro sperando che si fermi per non travolgerti, così da approfittarne per guizzarvi sopra, ma quello non frena – si sa che la vittoria corre – e ti arrota: se ti interessa salire lì sopra, metti da parte ogni rispetto per te stesso, fregatene del disprezzo che ti pioverà addosso se riesci nell’impresa, e ancor più del disprezzo se fallirai, e insisti, a dispetto di tutto ciò che ragionevolmente dovrebbe farti disperare di riuscire, anzi, nei limiti di ciò che ti è possibile, fai in modo di lasciar credere a chi guida il carro che averti a bordo gli tornerebbe utile, mentre lasciarti a terra sarebbe un’occasione persa e in fondo pure un’ingiustizia: vanta di aver sempre creduto in lui, esagera in lodi ma non far mancare qualche critica, che però abbia il tono dell’esortazione, e soprattutto millanta doti che non hai, gonfia il curriculum con accorta cura degli aggettivi e degli avverbi, abusa senza pudore di eufemismi e reticenze, glissa su quanto sarebbe motivo di imbarazzo, sennò rivoltalo a dovere per dargli un aspetto decente: insomma, fai come Mario Adinolfi fa da mesi con Matteo Renzi, e non demordere: ti rideranno addosso ad ogni tentativo andato a vuoto, ma a te che importa? O a bordo o nella merda: hai 43 anni, hai rotto il cazzo a mezza Italia col ricambio generazionale e, quando finalmente arriva, corri il serio rischio – più del serio rischio: praticamente la minaccia – di finire nel mucchio degli scarti inservibili: è l’ultima occasione, poi da controversa macchietta da avanspettacolo della politica blaterata sarai declassato a triste fetecchia da talk show di quart’ordine per la miseria di un gettone di presenza, e sarai costretto a contendertelo con un’Alba Parietti o una Flavia Vento, sennò ad arrotondare per bische. Il mondo è crudele e non riesce a cogliere la tragedia personale dietro il comico affanno a non uscire definitivamente dal cono di luce ai cui margini sei aggrappato a dispetto di una ormai irresistibile forza centrifuga: non mollare, non risparmiarti nel metterci la faccia, non farti scrupolo se a tutti sembra in tutto uguale al culo. Può darsi che Matteo Renzi abbia dimenticato la stratosferica figura di merda che gli facesti fare all’indomani delle primarie che perse, quando da furbacchione seppe fare un passo indietro, mentre tu ne facevi uno in avanti e chiedevi a suo nome il Ministero delle Comunicazioni. Può darsi si sia distratto e non rammenti più che uscisti dal Pd per rincorrere l’evanescente miraggio di Scelta civica e per elemosinare il rientro solo dopo aver acchiappato il seggio alla Camera da primo dei non eletti recuperato a fine legislatura. Al Berluschino non fa difetto una faccia rotonda come la tua, quindi è possibile comprenda, chiuda un occhio, voglia fare un’opera di bene e ti prenda a bordo – in fondo sei la negativa del fallimento che il suo azzardo gli ha consentito di schivare, può darsi ti dia uno strapuntino con lo stesso animo grato con cui si accende un cero alla Madonna – e dunque non desistere: ne va della tua vita, e poi, in fondo, torni buono anche come cattivo esempio. Io, per esempio, al mio Michele, che pure è ancora troppo piccino per capire, già l’ho detto: prova a diventarmi una roba simile e ti spezzo le gambe. 

martedì 24 giugno 2014

Sine ira ac studio


Perché portiamo bottoni sulle maniche delle giacche? La questione è controversa. C’è chi sostiene che l’idea sia venuta a Elisabetta I d’Inghilterra per dissuadere i suoi soldati dalla pessima abitudine di smoccolarsi strofinando il naso sul dorso dell’avambraccio, ma esistono versioni alternative, anche se in tutto analoghe, che ne attribuiscono la paternità a Horatio Nelson, a Napoleone Bonaparte, ecc. Tesi suggestive, se non fosse che bottoni sulle maniche delle giacche si osservano già in molti dipinti della seconda metà del Quattrocento.
Più verosimile, come sostengono altri, che proprio in quel periodo vengano a sostituire le fettucce di stoffa che fin lì chiudevano ai polsi le maniche, come si osserva in molti personaggi ritratti da artisti del Duecento e Trecento (talvolta in numero di due o di tre, dal gomito al polso) evitando che queste fossero d’impaccio quando slacciate e semplificando di molto l’operazione di riannodo, che i bottoni consentono con una sola mano.
Di certo c’è che l’uso pratico divenne nel giro di uno o due secoli puramente decorativo, e tale rimane oggi, anche se per fattura e materiali usati i bottoni alle maniche delle giacche non sono più oggetti di lusso, come lo furono nel Seicento e nel Settecento, fatta eccezione per l’argento e l’oro che ancora il blazer classico contempla.
Con la crisi della sartoria artigianale e il trionfo dell’abito in serie, non è più il bottone, ma l’asola, a segnalare una residua preziosità della manica: quella dozzinale non ne ha e i bottoni vi sono appuntati a tutto spessore, a differenza della giacca che conserva qualche pretesa di capo di lusso, sulla cui manica ad ogni bottone corrisponde un’asola e il dettaglio è spesso messo in risalto col lasciarne disimpegnata l’ultima.
Bene, a me pare che la questione dell’immunità parlamentare abbia molte analogie con quella dei bottoni sulle maniche delle giacche. Impossibile negare che l’istituto sia stato introdotto per valide ragioni, ma è altrettanto innegabile che oggi sia decaduto a mera decorazione o, peggio, a rappresentazione di un lusso inutile.
So bene che c’è chi non riuscirebbe mai a rinunciare ai suoi tre o quattro bottoni sulla manica. A me sembra che non abbiano alcuna ragion d’essere, ma cerco di capire a cosa gli servano.
«L’immunità parlamentare – dice – sta nella Costituzione italiana dal 1948. Non basta, si potrebbe tornare ancora più indietro: all’epoca medievale, per esempio, e alle prerogative riservate ai membri dei parlamenti in ragione della loro alta funzione. Non c’era ancora la democrazia, non c’era ancora il suffragio universale, non c’era ancora il costituzionalismo, e però si poneva comunque il problema di come tutelare i componenti delle assemblee elettive. Questa tutela si chiamava allora e si chiamerà in seguito – udite udite – “privilegio parlamentare” […] La parola racconta la lunga storia con cui le istituzioni parlamentari si sono fatte largo contro la prevaricazione di altri poteri, conquistando uno spazio giuridico protetto, a tutela della insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare, e per frapporre un impedimento (entro certo limiti e condizioni) alla sottoposizione a procedimenti penali, o all’arresto, o ad altre misure restrittive, di un rappresentante del popolo» (l’Unità, 24.6.2014). Benissimo, ma queste condizioni persistono? 
La risposta è ellittica: molto, molto ellittica. «È innegabile che di privilegi e immunità parlamentari si parla da che esistono i parlamenti, e dunque qualunque riscrittura della Costituzione è chiamata ad affrontare la questione. Solo che bisognerebbe farlo “sine ira ac studio”».
Convengo, e sine ira ac studio, rinunciando a sospettare che l’asola apra alla sòla, chiedo perché a tutela della insindacabilità delle proprie opinioni non possa bastare, e per tutti, il primo comma dell’art. 21 della Costituzione. Chiedo quale sia la norma penale attualmente vigente che sanziona i voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare. Chiedo quale sia il reato per il quale sarebbe giusto o almeno opportuno che chi l’ha commesso sia perseguibile, se comune cittadino, e no, se deputato o senatore. E nell’articolo non trovo risposte. 



lunedì 23 giugno 2014

Bergoglio scomunica i mafiosi, lalléro, lallà


Non c’è bisogno di credere in un dio per esprimere una motivata condanna morale della criminalità organizzata, tanto meno di quel dio al quale tanta criminalità organizzata è devotissima da sempre. «Quello che mi ha colpito nella mia frequentazione dei mafiosi – scriveva qualche tempo fa Roberto Scarpinato – è l’avere constatato che si tratta in moltissimi casi di cattolici credenti e praticanti, e non c’è simulazione […] Come è compatibile – si chiedeva – il fatto che questi uomini uccidono, sono mafiosi, eppure sono in pace con se stessi e con Dio? La conclusione a cui sono arrivato è che in realtà non pregano lo stesso Dio, pregano un Dio diverso. Pregano un Dio diverso, perché nella cultura cattolica il rapporto tra il singolo e Dio è gestito da un mediatore culturale: ciascuna articolazione sociale esprime dal suo interno un mediatore. E così abbiamo i sacerdoti della mafia e i sacerdoti dell’antimafia […] Il mafioso ha un rapporto con Dio che non è conflittuale perché il mediatore con Dio che lui stesso sceglie è espressione della sua stessa cultura. Vi sono delle chiese che sono piene, la domenica, del popolo di mafia, dove ci sono dei sacerdoti che mediano il rapporto con Dio in modo da eliminare qualsiasi attrito e qualsiasi frizione». Ora, che un papa scomunichi i mafiosi in quanto mafiosi, i camorristi in quanto camorristi, eccetera, sembrerebbe essere evento degno di nota, perché il «mediatore culturale» fin qui connivente si troverebbe di fatto ad essere delegittimato nel «mediare il rapporto» tra Dio e il mafioso in quanto mafioso, il camorrista in quanto camorrista, eccetera. Sembrerebbe, insomma, un gesto destinato a metter fine per sempre a quella connivenza tra ministri del culto e uomini appartenenti a questa o quella organizzazione criminale che non ha mai mancato di offrirsi come paradosso dalle pagine di cronaca. Gesto che lo stesso Roberto Scarpinato evocava come risolutore: «Fino a quando la Chiesa cattolica non denuncerà in modo inequivocabile che certi comportamenti non sono compatibili col Vangelo – scriveva – potremo dire che c’è qualcosa che continua a non funzionare nei fatti». E dunque, con la scomunica di Bergoglio, i fatti cominceranno a funzionare? Più di un dato ci spinge ad essere scettici, a cominciare da quello che lo stesso Roberto Scarpinato metteva in evidenza: «La Chiesa ha la struttura ordinamentale di una monarchia assoluta, basata sulla gerarchia e sull’obbedienza […] Io credo che non si possa fare un discorso di liberazione degli altri se l’istituzione che lo fa non si nutre di una profonda ed autentica democrazia interna. Mi pare vi sia una contraddizione in termini». Personalmente andrei anche più in là, direi che le analogie tra la Chiesa cattolica e l’organizzazione criminale di stampo mafioso sono innanzitutto di tipo antropologico, ma qui non voglio approfondire questo aspetto, sul quale d’altronde mi sono già intrattenuto in altre occasioni: vorrei limitarmi a considerare la portata della scomunica comminata da Bergoglio.
Innanzitutto occorre considerare che non può essersi trattato di una scomunica latae sententiae: non sarebbe stato necessario emetterla, perché automatica, dunque avente già effetto; d’altronde i casi in cui essa è prevista non sono in alcun modo adattabili alla condizione di appartenente ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso. Ad excludendum, deve essersi trattato di scomunica ferendae sententiae, e nessun problema si porrebbe se non fosse che i casi in cui essa è contemplata non sono tra quelli che costituiscono lo specifico dell’attività criminale di stampo mafioso, tanto meno quello della semplice appartenenza ad un’organizzazione del tipo in oggetto. È vero che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha dato authentica interpretatio del can. 1374 del nuovo Codice di Diritto Canonico indicando come valido motivo di scomunica la semplice appartenenza alla Massoneria, ma tale parere non è mai stato esteso alla semplice appartenenza ad un’organizzazione criminale, sicché la sanzione rimane applicabile solo a una persona fisica, non a un organizzazione nel suo insieme. In teoria, sarebbe possibile rimuovere questo ostacolo, ma la modifica dovrebbe passare per decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede o per editto pontificale motu proprio, di cui al momento non si ha notizia, né annuncio. Sorge il sospetto che Bergoglio abbia voluto, e per l’ennesima volta, mietere simpatie a costo zero, come quando si produce in quelle soffici banalità spolverate con zucchero a velo che deliziano i palati grossolani. Ben più efficace sarebbe stata una scomunica a tutti i religiosi in varia misura conniventi coi pesci grandi, medi e piccolini delle cosche: per una scomunica del genere ci sarebbero stati gli estremi a norma del Codice del Diritto Canonico, e gli effetti sarebbero stati davvero dirompenti. Poi, certo, avrebbe significato lasciare enormi territori della Sicilia, della Calabria e della Campania sguarniti di preti… Meglio spararla grossa e insignificante, tanto più adesso che mafia, camorra e ’ndrangheta attraversano un periodaccio e non possono permettersi di sparargli un colpo di bazooka in culo.     

venerdì 20 giugno 2014

Di dadi e di bulloni


Solo in apparenza v’è contraddizione tra la lode del creato che il cattolico sussume in quella del creatore e la rozza, sguaiata e deprimente idea di «natura» in cui è sussunto ciò che egli ritiene «naturale», perché il disprezzo della carne è in fondo l’unico modo che egli ha per farsi convinto di avere un’anima, sicché non deve stupire che al fondo di ogni riaffermazione di ciò che egli ritiene «naturale» su ciò che ritiene «contro natura» vi sia la sordida trivialità che immiserisce il corporeo a materia inorganica.
Un esempio davvero illuminante di questa tetra dimensione in cui il cattolicesimo ritiene di poter rinchiudere il corporeo ci è offerto da un post con cui Berlicche ritiene di offrirci prova inoppugnabile di quanto l’eterosessualità sia «naturale» e l’omosessualità sia «contro natura», col ridurre il maschio a bullone e la femmina a dado: illuminante perché rivela che la complementarietà che rende coppia due individui, in fondo, starebbe tutta in un buco da riempire.
Non è improbabile che anche qualche gay possa essere d’accordo. In quanto alle lesbiche, ce ne sono alcune che nel comodino hanno dei dildo che nella vagina della moglie di Berlicche si avviterebbero assai più saldamente di quanto egli riesca a fare col suo bulloncino. In buona evidenza, direi che anche stavolta siamo all’infortunio argomentativo di chi presume di aver confezionato un efficace espediente didascalico che in realtà torna buono solo a costruire un’oscena barzelletta da caserma.