La
mano è senza dubbio quella di Ansvald il Piccolo (Bruges, 971? -
Lione, 1028), basti il raffronto coi miniati di attribuzione certa,
in particolar modo col Libro di Giona (British Library). La
gascromatografia dei pigmenti, poi, conferma che la tavolozza è
indubbiamente sua, che i materiali sono quelli da lui solitamente
impiegati (cfr. H. Voeller, Ansvald, Losanna 1940). È il
supporto, tuttavia, a porre il problema, e problema non irrilevante,
perché la miniatura è dipinta sul margine di pag. 347 di una copia
de L’ape
latina, un manualetto Hoepli stampato nel 1911, lì dove
l’Indice di alcune cose notevoli rimanda al «sunt
lacrimae rerum...» di Virgilio (Eneide, I, 462): miniatura racchiusa in una striscia di poche lignes, che a occhio nudo
sembrerebbe uno sbavo d’inchiostro, ma che alla lente (≥ 50)
rivela la sublime arte del pennellino a un sol pelo, della quale «il
Piccolo Grande Ansvald», come era solito chiamarlo il
compianto Oreste Federzoni (Ansvald il Piccolo, Firenze 1952),
fu insuperabile maestro. Siamo dinanzi ad un’allegoria, è evidente: un povero
blogghero (proparossitono, equivalente medievale del moderno
blogger) annaspa nel lapislazzulo di uno sconfinato oceano di
ignoranza dal quale emerge qui e lì l’ematite
di alcune isole di malafede, e, a esprimerne lo stato
d’animo, ecco un cartiglio svoltolato
sul suo capo, a mo’ di fumetto, recante iscritta la seconda parte del verso di Virgilio («…
et mentem mortalia tangunt»).
lunedì 24 ottobre 2016
mercoledì 19 ottobre 2016
lunedì 17 ottobre 2016
Non segue
L’art.
56 della Costituzione è fra quelli risparmiati dalla riforma che il
4 dicembre sarà sottoposta al vaglio referendario, e dunque, anche
nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, al suo terzo comma
continuerà a recitare: «Sono
eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della
elezione hanno compiuto i venticinque anni di età».
Nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, però, al Senato
entrerebbero 95 amministratori locali (74 consiglieri regionali e 21
sindaci) eleggibili al compimento del 18° anno di età, sicché
potremmo avere dei senatori anche di sette anni più giovani dei
deputati, e questo in barba al fatto che in latino «senator»
significa «più
vecchio».
È col segnalare questa assurdità che intendevo aprire il seguito di
Una
merda di riforma costituzionale (Malvino,
3.10.2016), ammettendo che sostanzialmente fosse irrilevante e tuttavia
emblematica di quel patente analfabetismo istituzionale che ha dato
il peggio di sé in assurdità ben più rilevanti sul piano pratico. E ad analizzare queste mi disponevo quando un déjà vu m’ha
paralizzato: mi sono rivisto alla tastiera del pc ai tempi dei
referendum sulla legge 40, e ho ripensato a tutti i post scritti a
quei tempi. Sono andato a rileggerli, e vi ho trovato tutti gli
argomenti che sarebbero stati fatti propri dalle sentenze che in
questi ultimi dieci anni hanno fatto a pezzi la legge, ma che a quei
tempi su queste pagine potevano tutt’al
più aspirare a rinsaldare nella propria convinzione chi già fosse
convinto che quella legge fosse cretina e crudele.
Non è tutto,
perché poi è accaduto un fatto decisivo nel togliermi ogni residua
motivazione nel continuare la mia personale rassegna degli spropositi contenuti nella riforma: ho scoperto che non ero stato il primo a notare
l’assurdità
dei senatori più giovani dei deputati, l’aveva
già segnalato Emanuele
Rossi (Una
costituzione migliore?
– Pisa University Press, 2016). Ecco, mi son detto, non c’era certo bisogno che lo facessi notare io.
E qui ho tirato i fili: su alcune
questioni, e in certi contesti, la ragione è impotente, e i suoi
tentativi di farsi valere possono aver senso solo come contributo
testimoniale, e solo a futura memoria, dunque nell’atto
di fede, assurdo come tutti gli atti di fede, che la ragione abbia un
futuro. Atto di fede, questo, che oggi pare assai più assurdo che in
passato: già da tempo la discussione pubblica è impermeabile alla
logica della retta argomentazione, e la persuasione è sempre più
spesso affidata allo strumento delle più rozze fallacie, che oggi, molto
più di quanto sia stato in passato, risultano straordinariamente
efficaci in un foro animato da impulsi primordiali che spesso
rivelano la neutra cogenza che domina la materia inorganica.
È tempo
di decidere, mi son detto: mettersi in posa da martiri o ritirarsi in un discreto
silenzio su tutte le questioni che esigerebbero uno sforzo di
intelligenza, inesigibile da un’opinione
pubblica ormai abbrutita dalla paura e dall’ignoranza.
Io credo che a prevalere saranno i Sì,
credo che sia del tutto inutile discutere della riforma
costituzionale sulla quale si voterà il 4 dicembre, credo che nel
merito interessi a pochissimi, e che dunque il voto la toccherà
solo come pretesto. D’altronde,
via, siamo onesti, questo paese merita di essere governato da Matteo
Renzi, e chi siamo noi, sparuta minoranza di irriducibili cultori
della democrazia parlamentare e della divisione dei poteri, per poter pretendere di togliergli dal
grugno quelle smorfie da dittatorello in erba?
lunedì 10 ottobre 2016
lunedì 3 ottobre 2016
Una merda di riforma costituzionale / 1
«Correggere
una costituzione
non
è impresa minore
del
costruirla la prima volta»
Aristotele,
Politica IV, 1 (1289 a 5)
«La
costituzione di un paese
non è un atto del suo governo,
ma del
popolo che costituisce il governo»
Thomas Paine, I diritti
dell’uomo (1791)
I. Al
referendum che si terrà il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati
a esprimersi su una riforma che modifica più di un terzo degli
articoli della Costituzione ai titoli I, II, III, V, VI della sua
Parte II.
Già qui mi pare si ponga un problema non irrilevante,
quello relativo alla libertà del voto, di fatto negata su ciascuno
dei tanti articoli toccati dalla riforma, per lasciare all’elettore
solo la possibilità di esprimere un parere complessivo su un
pacchetto quanto mai disomogeneo nei suoi contenuti, con ciò
disattendendo all’indicazione
più volte espressa dalla Consulta circa la necessità che ogni
progetto di legge debba rispettare i caratteri di omogeneità e
autonomia riguardo ai contenuti e quello di coerenza riguardo alla
loro sistematicità. Non c’è
da stupirsene, perché ad approvare questa riforma è stato un
Parlamento eletto con una legge elettorale poi riconosciuta
incostituzionale, e della quale avrà voluto dimostrarsi all’altezza.
Al dubbio sulla legittimità giuridica, se non morale, che un tale
Parlamento potesse metter mano a una riforma costituzionale si è
soliti opporre il fatto che la Consulta non ha dichiarato illegittimi
gli atti legislativi licenziati dalle Camere elette con una legge
elettorale che pure dichiarava incostituzionale, ma si dimentica che
il principio sul quale si reggeva quella che al buon senso suona come
una contraddizione era quello della prorogatio
che la Costituzione concede al Parlamento solo al fine di riempire il
vuoto che a seguito di nuove elezioni si crea in attesa che vengano
convocate le nuove Camere (art. 61) oppure, e perciò espressamente chiamate a
supplenza, per la conversione in legge di decreti prossimi a
scadenza (art. 77): una prorogatio, dunque, finalizzata esclusivamente al disbrigo di affari correnti, non per darsi tempi e compiti
da Assemblea Costituente.
Ma così – si obietta – si sarebbe
andati alle elezioni con il proporzionale del cosiddetto Consultellum. Bene, anzi benissimo,
quale altro sistema avrebbe potuto rappresentare al meglio tutto il
Paese in Parlamento al fine di dare un segno di condivisione ad una
nuova legge elettorale e ad una revisione della Carta della quale i
partiti politici si facessero esplicitamente promotori col loro programma
elettorale? O è da ritenersi più corretto che, sul piano politico,
questa riforma sia nata per l’iniziativa
di un partito che non la
contemplava nel programma col quale chiedeva voti agli elettori e
che, sul piano istituzionale, sia stata promossa da un governo che non si è risparmiato in colpi di mano in Commissione e in Aula per farla approvare in via definitiva da soli 361 deputati su un totale di 630?
Si
risponde fosse una riforma non più prorogabile, e dunque non importa
troppo come si sia arrivati alla sua approvazione, l’importante è
che al più presto venga meno il bicameralismo perfetto, che
d’altronde non piaceva nemmeno a Piero Calamandrei, del quale
probabilmente si ignora quanto scrisse sulla necessità che un
governo si tenga fuori dal processo di revisione costituzionale:
«Quando
l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i
banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve
rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che
questo scaturisca interamente dalla libera determinazione
dell’assemblea sovrana»
(Come
nasce la nuova Costituzione,
1947).
Date queste premesse, la riforma sulla quale gli italiani sono chiamati a esprimersi il 4 dicembre non si sarebbe dovuta neppure scrivere. Per votare no, potrebbe bastare anche solo questo.
II. Laddove non si considerassero valide le ragioni fin qui esposte, basta rammentare i passi salienti che hanno segnato il suo iter parlamentare, a cominciare dall’impulso datole da Giorgio Napolitano come condicio sine qua non dell’accettare la sua rielezione al Quirinale, che non è esagerato definire una vera e propria mostruosità istituzionale, forse il punto più basso nella storia dell’istituto della Presidenza della Repubblica, peraltro già ampiamente stravolto nel settennato che si era appena chiuso: il Capo dello Stato prendeva un’iniziativa che andava ben al di là delle prerogative assegnategli dalla Carta, sulla quale poneva una vera e propria questione di fiducia al Parlamento, arrogandosi il diritto di poter chiedere al governo di cui avrebbe nominato il Presidente del Consiglio un impegno vincolante in tal senso, per poi spendersi giorno dopo giorno, quasi sempre in forma assai irrituale, come dominus dell’iter parlamentare.
È il pressing del Quirinale a fare degli esecutivi di Enrico Letta, prima, e di Matteo Renzi, poi, dei governi di scopo, e lo scopo è fissato da Giorgio Napolitano. Il cosiddetto cronoprogramma di Enrico Letta trova perplessità in seno al suo stesso governo con gli interventi critici di Emma Bonino e di Andrea Orlando, che tuttavia non trovano voce in capitolo: «Non ho intenzione di tirare a campare – dichiara Letta – e tra diciotto mesi tirerò una riga: se sulla riforma non c’è nulla, ce ne andiamo tutti a casa». Ma c’è chi scalpita per prenderne il posto, perché non corre abbastanza: «È un incapace», dice Matteo Renzi, intercettato a colloquio telefonico con Michele Adinolfi, generale della Guardia di Finanza, e dopo il noto #enricostaisereno va a chiederne la testa alla Direzione del Pd, che gliela concede.
Ora Napolitano può contare su uno che i cronoprogrammi se li mangia: pronta rimozione dei parlamentari del Pd che avevano espresso qualche riserva nella Commissione Affari Costituzionali del Senato; rimozione del relatore di minoranza, Roberto Calderoli, con una motivazione (il patto del Nazareno si è esaurito) che dovrebbe far rizzare i capelli in testa a chiunque sappia che le procedure di revisione costituzionale non possono essere alterate per congiunture di natura politica; su iniziativa del senatore Roberto Cociancich, una ventina d’anni prima capo-scout di Matteo Renzi, passa un emendamento che annulla il voto segreto su tutte le votazioni che il governo riteneva a rischio; pur di non rivedere il testo della riforma, che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, passa nella stesura definitiva della modifica dell’art. 57 la patente contraddizione tra il comma 2 (i membri del nuovo Senato saranno eletti dai Consigli Regionali) e il comma 5 (tale elezione dovrà avvenire in conformità alle scelte degli elettori).
Approvata in via definitiva a tempo di record, ma senza ottenere i voti dei due terzi delle Camere, la riforma si avvia giocoforza al vaglio referendario previsto dall’art. 138 della Costituzione, che Renzi si sente in diritto di spacciare come gentile concessione del suo governo con una motivazione che ha dell’incredibile («l’avremmo indetto comunque»), ma sulla quale è probabile ritiene offesa che si abbia qualche dubbio. In fondo, via, si tratta di un uomo di parola.
Ma sarà il caso di passare al merito della riforma.
[segue]
domenica 2 ottobre 2016
venerdì 30 settembre 2016
[...]
Qualche
notte fa ho scoperto che, dall’una
alle cinque, La7 manda in replica le puntate di Ottoemezzo,
L’aria
che tira
e Tagadà
andate
in onda il giorno prima, e probabilmente la percezione sarà stata
amplificata dall’effetto
di compressione causato dal guardarle di seguito, ma ho trovato
estremamente fastidiosa, fino a punte di forte irritazione, la
faziosità di Lilli Gruber, Myrta Merlino e Tiziana Panella, una
faziosità insopportabilmente sfacciata per quel certo maldissimularla che mi è parso fosse
intenzionale, studiato, quasi a voler suggerire al telespettatore
che, anche a cercare di imporsela per salvare le apparenze,
l’imparzialità
rispetto alle due opposte posizioni da moderare in sede di confronto
fosse umanamente insostenibile, anche se formalmente rispettata.
Nello specifico, mi è parso che, con un insistente ricorso a
spudorati ammicchi, didascaliche smorfiette e battutine del cazzo, le
tre signore intendessero comunicare al telespettatore qualcosa del
tipo: è pacifico che il referendum sulle riforme costituzionali sia
una sfida tra il coraggio dell’innovazione
e l’ottuso
istinto di conservazione, ma a me tocca, e che fatica, trattare alla
pari entrambi i contendenti che oggi ho invitato nel mio salottino.
Così per le faccende riguardanti il M5S: caro telespettatore, fosse
per me, nemmeno l’avrei invitato questo bifolco d’un grillino, ma
qui mi sta a rappresentare un terzo dell’elettorato e devo impormi
di trattarlo alla pari dei rappresentanti degli altri due terzi, ed è
dura, sono certa che comprenderai quanto mi costa.
Un renzismo così
odiosamente strisciante, quello delle tre signore, che il renziano di
turno, pur ributtante com’è per la media dei renziani che in tv ripetono a pappagallo gli hashtag del capo, finiva regolarmente per
risultarmi assai più dignitoso della conduttrice di cui era ospite (e
in un caso si trattava di Fabrizio Rondolino, il che è tutto dire).
Quattro ore di propaganda di regime malcamuffata da equilibrato
confronto tra le parti, e con la quasi compiaciuta strafottenza sulla pessima qualità del camuffamento. E non si tratta della Rai ormai per tempo
militarmente occupata dagli sgherri di Matteo Renzi, né si tratta delle reti Mediaset che ormai da mesi sembrano seguire più la linea
di Denis Verdini che quella di Renato Brunetta: si tratta di La7,
quella che il giovedì manda in onda Corrado Formigli, e il martedì
Giovanni Floris, che risaputamente non smuovono un voto, ma che cinque giorni a settimana, nelle ore in cui
trent’anni
fa la Fininvest preparava casalinghe e pensionati a diventare
elettorato di Forza Italia, regala un spot di quattro ore al Partito della Nazione.
[...]
Ieri
il
manifesto
ha mandato in pagina un’intervista
a Rino Formica sulla quale mi pare sia utile meditare
mercoledì 28 settembre 2016
[...]
Del
ponte sullo Stretto di Messina, ovviamente, non se ne farà nulla,
ma, ammesso e non concesso che domani, con un semplice schiocco di
dita, fossero superati gli ostacoli di natura burocratica che si
frappongono alla sua realizzazione (pare sfugga che nel 2011 il
Parlamento ha messo in liquidazione l’azienda autorizzata a
soggetto d’impresa, che nel 2013 il Governo ha decretato in favore
del pagamento delle penali alle parti che si erano assunti gli oneri
del progetto, che sul loro effettivo ammontare è in corso un
contenzioso non più superabile da un accordo bonario tra le parti) e
che dopodomani sbucassero, chissà da dove poi, gli otto miliardi e
mezzo necessari (al netto del resto che immancabilmente lo
diventerebbe dopo, in corso d’opera, come da costume consolidato), sicché
a tre giorni da oggi si desse veramente avvio ai lavori, e nulla li
rallentasse, il risultato sarebbe comunque diverso da quello che
suona in bocca a chi afferma che la cosa si può fare (tutto è già
ampiamente documentato: non darebbe lavoro a più di due-tremila
persone, non costituirebbe alcun vantaggio significativo per
l’economia del paese, il rapporto tra spese di gestione e utili di
ricavo porterebbe inevitabilmente al deficit, il rischio sismico
imporrebbe un’imponente copertura assicurativa, ecc.), ma,
soprattutto, non lo si vedrebbe prima di dieci anni, e a voler essere
ottimisti.
E allora com’è venuto in testa a Renzi di dirsi pronto
a farsi carico di quanto spetterebbe al suo Governo per rendere
possibile la costruzione del ponte? Non immaginava che così sarebbe
stato fatto oggetto degli strali di quanti, pur favorevoli alla cosa,
gli avrebbero fatto notare che sul piano procedurale non gli era affatto consentito farla così facile, pur di agghindarsi del solito annuncio
a effetto? Non aveva calcolato che gli sarebbe stato rinfacciato che
in passato si era sempre dichiarato contrario all’opera, e che
esserne a favore oggi, ed entusiasticamente a favore, gli avrebbe
procurato l’accusa di volersi guadagnare voti in vista del
referendum di dicembre? Non aveva previsto che avrebbe provocato imbarazzo allo stesso Pd? Più di tutto, non aveva messo in conto che
riaprire la questione del ponte sullo Stretto di Messina avrebbe dato
modo ai suoi detrattori di trovare la più emblematica delle conferme
che il renzismo altro non sia che la continuazione del berlusconismo
con analoga ma diversa faccia di culo? Insomma: Renzi è un cretino?
Non proprio, anzi, è molto probabile che la sua uscita mirasse
proprio a provocare tutto questo – chi a cercare negli archivi cosa
dicesse nel 2010 e nel 2012 per denunciare questa
sua ennesima spregiudicata piroetta, chi a condannare il suo
inguaribile vizietto dei regalini pre-elettorali, chi a pensare sia finalmente prova provata che siamo al Berlusconi 2.0 – per sollevare il
polverone necessario a coprire il fallimento della sua politica
economica. Diciamo che è bravissimo a fare il cretino quando è
necessario, ma cretini, e cretini veri, sono quanti ci cascano e
accettano che la discussione si esaurisca di continuo nella puttanata
quotidiana che impone come ordine del giorno. Siamo all’arte
del governo come branca della patafisica.
lunedì 26 settembre 2016
Jihad as Maladjustment to Modernity
Qui sotto propongo un brano
tratto da Jihad as Maladjustment to Modernity (in Italia:
Radicalizzarsi – Ed. Abbecedario, 2016) di Amin Madani, che
insegna Storia contemporanea alla Queen’s University di Kingston,
nell’Ontario (Canada), ma a scanso di equivoci ritengo necessario far presente, come l’autore tiene a precisare della Avvertenza in avantesto (pag. 5), che l’uso del termine «jihadista» qui «non rimanda con rigore di attinenza concettuale all’jihad così come illustrato dalle diverse scuole di dottrina coranica, ma fa riferimento a quell’eterogeneo insieme di individui che in comune ha solo il dichiararsi tale [...] come sempre più spesso accade dopo “un processo che non è di radicalizzazione dell’Islam, ma di islamizzazione del radicalismo” (Oliver Roy)». Buona lettura.
Ci siete cascati? Voglio
dire: filava liscia come descrizione del disadattato che diventa jihadista? E allora diciamo pure che Amin Madani non esiste e che la pagina qui sopra riprodotta è tratta da Alla ricerca della Gnosi di
Henri-Charles Puech (Adelphi, 1985), ma l’ho
modificata: dove c’era «lo
gnostico» ho messo «il
jihadista», lasciando intatto tutto il resto.
L’espediente aveva il fine di offrire un parallelo tra il disagio esistenziale che percorse il mondo a cavallo tra il III e il IV secolo e quello lo percorre oggi, per evidenziare il ruolo che può assumere la religione – ieri il cristianesimo, oggi l’islam – nel darsi come soluzione a un’epoca che con i suoi troppo rapidi e drastici mutamenti genera angoscia in tanti.
L’idea di un post concepito in questo modo mi è stata suggerita da un articolo a firma di Franco Focherini su un vecchio numero di MondOperaio (4-5/2002) dal titolo Disagio di vivere, risveglio della gnosi e terrorismo (pagg. 89-94).
L’espediente aveva il fine di offrire un parallelo tra il disagio esistenziale che percorse il mondo a cavallo tra il III e il IV secolo e quello lo percorre oggi, per evidenziare il ruolo che può assumere la religione – ieri il cristianesimo, oggi l’islam – nel darsi come soluzione a un’epoca che con i suoi troppo rapidi e drastici mutamenti genera angoscia in tanti.
L’idea di un post concepito in questo modo mi è stata suggerita da un articolo a firma di Franco Focherini su un vecchio numero di MondOperaio (4-5/2002) dal titolo Disagio di vivere, risveglio della gnosi e terrorismo (pagg. 89-94).
giovedì 22 settembre 2016
Beatroce
«Al
netto delle polemiche, di cui mi faccio carico, ma solo quando non sono
strumentali, ci sono i fatti. E i fatti sono che abbiamo
settecentomila persone in Italia che vogliono avere un bambino, e non
ci riescono». Detto da un Ministro della Salute che con le sue linee
guida sulla legge 40 ha dato segno di un patente ostruzionismo alle sentenze che l’hanno
smontata pezzo a pezzo, viene il sospetto che strumentali non siano
le polemiche di cui è stato fatto oggetto il suo Fertility Day, ma
le ragioni che ne hanno suggerito la necessità.
[...]
La Corte Costituzionale rinvia il giudizio sull’Italicum per dar modo al Parlamento di rimettervi mano, ma il Parlamento traccheggia aspettando l’esito del referendum sulla riforma costituzionale, sulla cui data il Governo ha già cambiato idea tre o quattro volte, ogni volta rinviandolo, perché le sue sorti sono legate all’esito del voto, ma a fronte di tutto ciò c’è più di un saggio – ci sia concessa l’ironia – che ci esorta a non dispercepire: i poteri della Stato sono sempre autonomi ed indipendenti, siamo sempre una Repubblica parlamentare, non c’è alcun nesso tra riforma costituzionale e legge elettorale, si commette un errore a voler trasformare il referendum in un voto sul Governo. Quando è ben disposto, te lo dice come se a pensarlo rischieresti di rimediare una brutta figura, sennò, quando gli gira storto, con la piena potestà che gli conferisce la saggezza, ti liquida come paranoico o, peggio, come un avvelenatore di pozzi.
«Ma non è qualcosa di fisico»
Intervistato da Aldo
Cazzullo (Corriere della Sera, 22.9.2016), Camillo Ruini ci
offre, nel passaggio qui riportato, un esemplare saggio di come si
possa dissimulare in pienezza di responso quell’elusione
dell’onere argomentativo che,
riguardo a un dogma come la risurrezione della carne, è da
considerare un grave imbarazzo della fede. Chiamato, infatti, a dar
conto di una certezza sulla quale un cattolico come si deve non può
affatto vacillare, Sua Eminenza comincia col darsi forza in quel «di
più» che parrebbe voler
conferire al dogma il carattere di inequivoca intellegibilità
assegnatogli dalla dottrina («i
nostri corpi mortali riprenderanno vita»
– Catechismo della Chiesa
Cattolica, 990), per passare
invece, e subito, a sottrarglielo, per poi arrivare addirittura a
negarne l’evidenza,
che è esplicita nella sua formulazione («ma
non è qualcosa di fisico», e
come fa a non esserlo se la cosa riguarda «corpi»?).
E con ciò possiamo avere ulteriore conferma dell’irreparabile
degrado cui è andato incontro il deposito di fede: il cattolicesimo si è ridotto a un vademecum morale.
mercoledì 21 settembre 2016
[...]
Fino a ieri sembrava che a
scoraggiare gli investimenti esteri in Italia fossero l’ottusità
della burocrazia, la lentezza della giustizia, lo
strapotere dei sindacati, l’aggressività
della mafia, l’asfissiante
regime fiscale, la carenza di infrastrutture. Analisi superficiale:
il problema è sempre stato la Costituzione, e infatti pare che ci
sia un fottio di potenziali investitori che per venire ad investire
in Italia non attendano altro che la vittoria del Sì al referendum
che si terrà ad ottobre, cioè a novembre, pardon, a dicembre,
eventualmente a gennaio, comunque non più tardi di febbraio o marzo,
al massimo ad aprile. E allora perché di settimana in settimana la
data in cui dovrà tenersi continua a slittare? La domanda rivela
l’ingenuità di chi non conosce
il mercato: slitta per eccitare chi non vede l’ora
che la riforma passi, così, quando passerà, l’investitore estero sfogherà tutta la sua brama di investire, e investirà d’impeto. Non sarà mica perché i sondaggi danno in vantaggio il No? Qui la
domanda rivela la malizia dell’ingenuo
che si crede furbo con ciò dimostrando di essere più fesso che ingenuo. Uno statista del calibro di Renzi dà retta ai
sondaggi? Ma non diciamo sciocchezze.
martedì 20 settembre 2016
Signora mia
Che
tempi, signora mia, che tempi. In Belgio si consuma la barbarie
dell’eutanasia
di un minore, e Il
Foglio
che mi fa? Praticamente tace. L’Annalena
intervista la dottoressa Franca Benini (parente?), esperta in cure
palliative, per rammentarci che c’è
pure «un’altra
via»,
il Matzuzzi intervista un pretonzolo fiammingo che da qualche tempo
s’offre
come alternativa (mano nella mano, pregando insieme, il malato
terminale rinuncia all’eutanasia, pare gli riesca nel 50% dei
casi), il Meotti scacazza la solita reductio
ad Hitlerum,
e poi che altro? Zero. Il nichilismo avanza e per Il
Foglio
pare non ci sia altro da temere che il M5S. Ma li ricorda i bei tempi in cui bastava che cedesse un chiodino, cadesse un crocefisso, ed erano subito paginoni su paginoni? Come dice? No, signora
mia, pure il nostro Giulianone tace, è tutto preso dalle
Presidenziali ameregane, je sta sur cazzo l’Hillary ma fa fatica a
farsi piacere er Trump, che i numeri li avrebbe tutti per essere un Our
Love,
ma è che je manca la finezza del Cav., può darsi riuscirà a farselo piacere più in là, ma solo se vince. Manco il Maurizio? Manco il Maurizio, signora mia, non oggi almeno, speriamo bene per domani, può darsi stia buttando giù qualcosa proprio mentre stiamo a disperare. Certo, però, che è brutto sentirsi abbandonati proprio da chi giurava che avrebbe pugnato in difesa dei principi non negoziabili fino all’ultima goccia di sangue. Gli sarà già finito o era tanto per dire? Non ci si può più fidare di nessuno, signora mia, di nessuno.
giovedì 15 settembre 2016
Orgoglio dell’indecenza
Quante
ne ha dette, Silvio Berlusconi, e quante se ne
è rimangiate, ricordate? Un merito, però, bisogna riconoscerglielo: sapeva
che, a rimangiarsi quanto aveva detto, il rischio fosse quello di
ricavarne una figura di merda, e cercava di evitarla, anche se non
riusciva a farlo in altro modo che negando l’evidenza,
quindi rischiandone regolarmente una anche più grossa. Così, una
volta pretendeva di convincerci che gli fosse stata attribuita una
frase che in realtà, a suo dire, non aveva mai detto, anzi, che
nemmeno si fosse mai sognato di dire, e invece la frase era lì,
inoppugnabilmente documentata, e un’altra si affannava nel
tentativo di persuaderci che si fosse voluto forzare il senso delle
sue affermazioni, che fosse stato frainteso, anzi, si fosse voluto
fraintenderlo, e con intento malevolo, anche se quanto aveva
detto era inequivocabile.
Ma c’è di più: Silvio Berlusconi dava l’impressione di tenere molto a risultare convincente, e sembrava che per poter essere sicuro di riuscirci avesse bisogno di convincere innanzitutto se stesso. Non manteneva gli impegni presi, cambiava idea continuamente, non era mai disposto a riconoscere un errore, e tuttavia aveva enormemente a cuore che di lui si pensasse fosse un uomo di parola. Una faccia da schiaffi, senza dubbio, ma con un residuo senso dell’onore. Ma forse onore è parola grossa, limitiamoci a dire: un residuo senso della decenza.
Ma c’è di più: Silvio Berlusconi dava l’impressione di tenere molto a risultare convincente, e sembrava che per poter essere sicuro di riuscirci avesse bisogno di convincere innanzitutto se stesso. Non manteneva gli impegni presi, cambiava idea continuamente, non era mai disposto a riconoscere un errore, e tuttavia aveva enormemente a cuore che di lui si pensasse fosse un uomo di parola. Una faccia da schiaffi, senza dubbio, ma con un residuo senso dell’onore. Ma forse onore è parola grossa, limitiamoci a dire: un residuo senso della decenza.
Matteo
Renzi è tutta un’altra
cosa: rimangiarsi quel che ha detto non gli pone alcun problema, e
infatti quasi mai si sente in dovere di darne spiegazione, tanto meno
di negarlo. Quel che dice è in ragione solo dell’effetto
che ritiene abbia a sortirne entro il tempo che precede la smentita,
che per lui è del tutto irrilevante se dovrà trovare modo nel sostenere il contrario di quanto ha sostenuto in precedenza o col
venir meno di fatto al dargli conseguenza. Una faccia da schiaffi
pure lui, dunque, ma senza neppure un’ombra
di scrupolo. Direi si tratti di un vero e proprio orgoglio dell’indecenza, che è da considerare un significativo salto evolutivo per la specie dell’uomo di merda.
lunedì 12 settembre 2016
Una droga, praticamente
Quando chiudeva a questo
modo quella che nel sottotitolo presentava come Un’autobiografia
politica
(Dal Pci al
socialismo europeo
– Editori Laterza, 2005), chi avrebbe potuto sollevare il sospetto
che Giorgio Napolitano non fosse sincero? Aveva appena compiuto 80
anni, verosimile si fosse posto già da tempo proprio quella meta a
scadenza del suo lungo impegno politico, comprensibile si sentisse
come un pesce fuor d’acqua
in «un’epoca
di sfrenata personalizzazione della politica, di smania di
protagonismo, di ossessiva ricerca dell’effetto
mediatico».
A sentirlo oggi – parlo dell’intervista
concessa a Mario Calabresi (la
Repubblica,
10.9.2016) – un sospetto, però, viene. Di lì a qualche mese,
infatti, il settennato di Carlo Azeglio Ciampi sarebbe giunto a
termine, si sarebbe dovuto cercare un nuovo inquilino per il
Quirinale, la scelta si sarebbe inevitabilmente ristretta alla
cerchia di quanti fossero più super
partes,
o
almeno apparissero tali in modo convincente: col
ritratto offerto di sé in quelle memorie, e ancor più col momento
per mandarle in stampa, non è più probabile che Giorgio Napolitano
stesse lanciando la sua candidatura a Presidente della Repubblica?
Certo, non si nascondeva che il tentativo di restare in campo potesse risultare «difficile
e ingrato»,
ma il «sapiente
precetto di Plutarco» consentiva
che si ricorresse a qualche «expediency».
Se così fosse, dovremmo riconoscere che quella di dichiararsi ormai
extra
partes,
pronto a darsi interamente ai nipotini,
sortì
il risultato. «Non
ho mai cessato di sentirmi legato alla politica»,
scriveva, e il decennio successivo avrebbe dimostrato che non poteva
farne a meno. Una droga, praticamente.
Ricorrendo all’ormai
logora metafora calcistica – il lettore chiuda un occhio,
«l’impoverimento
culturale che la politica ha subìto»
l’ha
resa insostituibile – diremmo che solo da arbitro, e dopo una lunga
carriera da grigio mediano, attento quasi esclusivamente a non
riportare infortuni e a non perdere il posto di titolare, Giorgio
Napolitano fosse destinato a scoprire in sé la vocazione di
centrocampista, capace di pennellare cross precisi al centimetro.
Dismessa la casacca da arbitro, eccolo in tuta da allenatore. Mai
seduto in panchina, sempre a bordo campo, ora a segnalare un
fuorigioco inesistente («Le
firme per chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì
mentre quelli del no non hanno avuto la forza di raggiungere il
numero minimo»,
ma non si sarebbe dovuto tenere comunque, il referendum, visto che la
riforma costituzionale non è passata coi voti dei due terzi del
Parlamento?), ora a pretendere l’espulsione
per un fallo di reazione ad un’assassina entrata
a gamba tesa sulla quale invece si può chiudere un occhio («Non
ho condiviso la iniziale politicizzazione e personalizzazione del
referendum da parte del Presidente del Consiglio, ma specie
all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo
approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di
una personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse
opposizioni facendo del referendum il terreno di un attacco radicale
a chi guida il PD e il governo del Paese»).
Il gioco non gira nel modo giusto, puttana Eva, «non
c’è respiro, non c’è visione ampia, manca lo sguardo lungo...».
Poi, visto che la partita non mette bene, andrebbe rivista la regola
dei 3 punti a chi vince: «Rispetto
a due anni fa lo scenario politico risulta mutato in Italia come in
Europa. Ci sono nuovi partiti, alcuni dei quali in forte ascesa che
hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti, con il rischio
che vada al ballottaggio previsto dall’Italicum e vinca chi al
primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col
voto popolare. Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al
primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti», ma non era così anche prima, quando ai sondaggi il ballottaggio era
dato tra centrodestra e centrosinistra?
Niente da fare,
l’«expediency»
ce
l’ha
nel sangue, il gioco è tutta la sua vita, troverà pace solo nella
tomba.
venerdì 9 settembre 2016
«Verrei»
Credo che la reazione di
Alessandro Di Battista allo svarione grammaticale di Luigi Di Maio
meriti un po’ più di attenzione
di quanta gliene è stata riservata.
Mi pare che la mimica faciale
renda esplicito che quasi immediatamente colga che «verrei» non sia corretto, ma che per esserne sicuro abbia
bisogno di ripeterlo a fior di labbra come a controllare se
suoni bene o meno, che quindi si guardi attorno per vedere se qualcun
altro si sia accorto della cosa, e sempre a fior di labbra provi a sentire se più opportunamente ci volesse un «venissi», per poi assumere un’espressione
di palese disagio alla quasi piena
convinzione che di strafalcione si sia trattato.
Ora noi sappiamo che Di Battista è stato fatto oggetto
fino all’altrieri
di feroci prese per il culo per l’essere
inciampato più volte nello stesso errore. Possiamo immaginare che ne abbia
sofferto al punto da sentirsi in dovere di rimetter finalmente mano alla
grammatica italiana, che tuttavia, si sa, impone un po’
di pratica perché il rispetto delle sue regole diventi automatico.
L’indugio
che segue al «verrei» di Di Maio può così esser letto come un rapido ripasso
della regoletta, mentre il labiale all’applicarla
al caso.
Quello che tuttavia mi pare assai più degno di attenzione è
il disagio che segue alla constatazione che quello di Di Maio è
stato uno sproposito: è un disagio nel quale vi sarà pure un
riverbero dello scorno che Di Battista deve aver provato le volte in
cui ha commesso lo stesso errore e glielo si è fatto notare con una pernacchia, ma non s’era
detto che tra lui e Di Maio vi fosse un’agguerrita
competizione per l’almeno
formale leadership del movimento? Chi ha modo di cogliere in castagna
il proprio rivale non dovrebbe esserne anche solo un pochino
soddisfatto? Com’è
che a Di Battista non scappa neppure un’alzata
di sopracciglio? Com’è
che, al posto di un pur contenuto cenno di ironia, si nota quello che
pare un genuino rincrescimento, per giunta venato di una qualche
apprensione, quasi a immaginare le immancabili canzonature che ne sarebbero seguite? In altri termini, possiamo prestar fede a tutte le
indiscrezioni giornalistiche che della vita interna al M5S ci danno
un quadro assai simile alla Battaglia di Anghiari?
Per meglio dire:
quanto di ciò che ci torna utile per nutrire la convinzione che «non
sono poi così diversi da tutti gli altri» corrisponde alla realtà
di fatto e quanto invece è mera proiezione del nostro bisogno che così
realmente sia?
mercoledì 7 settembre 2016
[...]
Suppongo sia superfluo
spiegare al mio lettore, che mediamente è assai colto, la differenza
tra un’iscrizione nel registro
degli indagati (più correttamente, iscrizione della notizia di
reato) e un avviso di garanzia (più correttamente, informazione di
garanzia), sta di fatto che nessuno dei due atti obbliga un eletto
del M5S a doverne rendere personalmente conto quando questo non sia a
suo carico, ma invece a carico di chi egli abbia scelto come
collaboratore, consulente o (nel caso in cui l’eletto
sia un sindaco) assessore.
Per meglio dire, quest’obbligo
non è contemplato da alcun documento fin qui redatto allo scopo di
normare la vita interna del movimento fondato da Beppe Grillo e
Gianroberto Casaleggio: non ve n’è
traccia dell’atto costitutivo,
né nel programma, né nel cosiddetto non-statuto, né in alcuna
delle versioni del codice etico che i candidati e gli eletti sotto il
simbolo del M5S sono tenuti ad impegnarsi di rispettare. È evidente
che il forcaiolismo dei grillini non arriva al punto da attribuire
una proprietà transitiva della personale responsabilità penale, che
d’altra parte nell’iscrizione
nel registro degli indagati e nell’avviso
di garanzia è ancora tutta in ipotesi.
Altra cosa, ovviamente,
quando uno dei due atti sia a carico di un candidato, ancor più nel
caso sia a carico di un eletto, dove il doverne dar conto non si
limita al doverne dare tempestiva comunicazione agli organi direttivi
del movimento, ma di regola comporta la somministrazione di drastiche
sanzioni, ancorché intese come misure di preventiva sterilizzazione
di eventuali condotte configurabili la continuazione del reato fino a
quel punto solo in ipotesi. Qui il forcaiolismo è patente, ma si
esplica in un momento di autoregolamentazione che assume i caratteri
di una sfida alle altre forze politiche che lasciano l’eletto
dov’è
anche quando sia stato condannato in primo grado, un po’
come accade con l’autoriduzione
dello stipendio di parlamentare e con il rifiuto del finanziamento
pubblico: sfida sul piano morale, e dunque pesantemente retorica, ma
in fondo legittimamente provocatoria.
Ciò detto, a me paiono del
tutto strumentali le accuse che in questi giorni piovono su Virginia
Raggi: non è lei ad essere iscritta nel registro degli indagati e
nulla la obbligava a rendere pubblico che Paola Muraro lo sia, né
nei confronti di chi l’ha
votata, e in fin dei conti neppure nei confronti dei vertici del M5S,
perché quell’iscrizione non era
a suo carico, e a conoscenza dell’atto
poteva essere a corrente solo l’indagata,
e solo nel caso in cui quest’ultima
si fosse attivata per venirne a conoscenza. Ora è accaduto che Paola
Muraro si sia appunto attivata in tal senso; e che così sia venuta a
conoscenza che a suo carico un’iscrizione vi fosse (da rammentare che per
reati di un certo rilievo all’indagato
che ne faccia richiesta si può dare una risposta che in sostanza la
rigetta: «non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione»,
come a dire «non ve n’è alcuna di cui l’esserne a conoscenza
possa attivare l’iscritto a frapporre qualche ostacolo
all’indagine»); e che di questo abbia subito informato Virginia
Raggi, la quale – questo quanto le si rimprovera – non avrebbe
reso pubblica la cosa. Domanda: perché avrebbe dovuto?
A norma del
codice di comportamento degli eletti sotto il simbolo del M5S da lei
sottoscritto prima essere candidata, non era tenuta a farlo. In
ossequio al codice etico del movimento, neppure. Risulta, inoltre,
che, seppure con qualche settimana di ritardo, abbia informato almeno
due dei membri del minidirettorio romano che gli organi direttivi
centrali le hanno affiancato: solo di questo
ritardo deve rendere conto, e non al paese, non a chi l’ha eletta,
nemmeno ai militanti del M5S, ma eventualmente solo a Beppe Grillo e
alla Casaleggio Associati, visto che in Italia partiti e movimenti
non hanno personalità giuridica e possono darsi le regole che
vogliono.
Altrettanto strumentali mi
paiono le accuse di doppia morale che vengono rivolte al M5S, come
d’altronde è di pacifica
evidenza per i casi che sono presi in considerazione per dimostrarla:
a Parma, Federico Pizzarotti è stato sospeso per non aver reso
pubblica un’iscrizione nel
registro degli indagati che era a suo carico, non a carico di un suo
assessore; a Quarto, Rosa Capuozzo è stata espulsa per non aver
denunciato i tentativi messi in atto da un consigliere comunale per
condizionarne le decisioni; altrove, ogniqualvolta il M5S ha chiesto
le dimissioni di eletto sotto il simbolo di un altro partito, era a
questi, e non ad altri, che era ascritto il reato di cui v’era
notizia negli atti che precedevano il rinvio a giudizio, se non nella
stessa imputazione.
Ai vertici del M5S potrebbe
bastare far presente questo, ma si può capire perché abbiano una
fottuta paura che possa non bastare, e perché dunque si preparino a
dare spiegazioni di quanto è accaduto a Roma rinunciando ad
argomenti ragionati, preferendone altri, di quelli che non richiedono
troppo sforzo per essere ritenuti convincenti da chi solitamente
fatica a ragionare: c’è da
attendersi che spiegheranno la loro posizione tagliando due o tre
teste (Muraro, Marra e De Dominicis), cosa legittima e forse
opportuna, e, non dovesse bastare, anche quella del sindaco, il che
sarebbe peggio di un suicidio. Sarebbe un errore madornale, perché
rivelerebbe che la ratio messa a fondamento dell’onestà
che vogliono al centro della politica non è una logica, ma un umore.
Quel che è peggio, non l’umore
della base grillina, ma quello che ad essa è attribuito da chi a
vario titolo e da diversa posizione vuole il fallimento
dell’esperienza romana.
In
definitiva, direi che quello di Roma è un importante stress test per
il M5S: o accetterà di indossare la caricatura che in tanti tentano
di calcargli addosso, e allora sarà la fine, il che non sarebbe
neppure tutta questa gran perdita, o riuscirà a darsi una credibile
coerenza che non sia la semplice proiezione di quello per i
detrattori spiegherebbe il consenso che fin qui ha raccolto.
lunedì 5 settembre 2016
Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua
Mi
pare che sull’iniziativa
promossa dal Ministero della Salute sotto il logo di Fertility
Day si
sia detto quasi tutto. Alcuni – Eugenia Roccella
su l’Occidentale,
per esempio
– hanno sostenuto che il fine fosse legittimo e il mezzo fosse
corretto. In questo caso si è trattato di voci isolate, perché pressoché unanime, invece, e
particolarmente severa, è stata la disapprovazione degli strumenti
comunicativi impiegati, in questo caso considerati inappropriati
anche dalla gran parte di quanti solitamente ritengono che nessuna obiezione di
principio si possa sollevare al fatto che lo Stato interferisca in
scelte tanto delicate come quelle relative al riprodursi o meno, che
per altri, al contrario, dovrebbe rimanere nella piena libertà di
ciascuno, dove alla pienezza di tale libertà concorrerebbe pure il
diritto di non esser fatti oggetto di qualsivoglia forma di
condizionamento o di pressione. Sono proprio questi ultimi ad aver
fatto sentire con più forza la propria voce, coprendo tutto l’ampio
spettro dell’atteggiamento
critico, dallo sdegno allo scherno, dalla denuncia, spesso anche
vivacemente colorita, di quello che da alcuni è stato interpretato
come un ridicolo tentativo di ingegneria sociale fino alla condanna di
quella che ad altri è parsa un’intollerabile
intrusione da parte dello Stato nella sfera più intima di un
individuo.
Senza rinunciare a esprimere sulla vicenda la mia
personale opinione, ma lasciandola a quanto il lettore penso potrà
agevolmente trarre da quanto segue, qui mi soffermerò solo su un
aspetto della questione, che sta – mi si conceda l’espressione–
in un default semantico nel quale è incorsa la quasi totalità dei
commentatori, dal più pensoso degli editorialisti al più cazzaro
dei twittaroli, e affermo questo dopo opportuna verifica su tre o
quattro motori ricerca:
«campagna
demografica»
è locuzione cui stranamente si è fatto solo sporadico ricorso per
definire l’iniziativa
del Ministero della Salute (solo 3 casi su le oltre 1.200 pagine che
toccavano l’argomento),
eppure era pacifico che di campagna demografica si trattasse, come
almeno a chi l’ha
polemicamente accostata a quella promossa dal regime fascista nel
1927 non poteva sfuggire. Fuor di dubbio che fosse una «campagna»:
un Piano
Nazionale per la Fertilità
(tutto in maiuscolo), un calendario di manifestazioni pubbliche a
sostegno, un apposito sito web e una nutrita batteria di spot –
limitandoci alla parte visibile della macchina – non dovrebbero
sollevare obiezioni all’affermazione
che si fosse di fronte a un «insieme
di azioni volte a un determinato fine, economico, igienico, politico,
scientifico»
(Treccani). Fuor di dubbio, altresì, che alcuni obiettivi del Piano
Nazionale per la Fertilità
(«informare
i cittadini sul
ruolo della fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come
proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio»,
«fornire
assistenza sanitaria qualificata per
difendere la fertilità, promuovere interventi di prevenzione e
diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell’apparato
riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la
fertilità naturale»
e «sviluppare
nelle persone la conoscenza delle
caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare
scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente»)
siano esplicitamente finalizzati a «operare
un capovolgimento della mentalità corrente volto
a rileggere la fertilità come
bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società»,
dunque dichiaratamente piegati a strumenti propagandistici
nel momento stesso in cui si assume che informazione e assistenza non
possano servire altro interesse che quello di una crescita
demografica.
E allora perché tanta fatica – sia da chi l’aveva
promossa, sia dai pochi che l’hanno approvava in toto, sia dai
tanti che ne hanno contestato il mezzo e/o il fine – a
parlare di «campagna
demografica»? Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua, ma non usciva dalle labbra. Perché la più appropriata formulazione tecnica di un tal genere di
operazione propagandistica non ha trovato modo
di offrirsi come oggetto della questione nell’esatta
portata del significato che nel suo significante trova piena
rappresentazione della crescita demografica come fattore geopolitico?
Per dirla in modo più semplice: com’è
che a nessuno è venuto in mente di far presente che, dagli attuali 7
miliardi di abitanti sulla Terra, nel 2050 passeremo comunque ai 9,
anche se in proporzione gli italiani dovessero essere assai meno, e
che dunque il bisogno di infoltire la popolazione della Penisola non
è al servizio di alcun dettato etico, non risponde ad alcuna premura
relativa alla specie umana, ma è semplicemente una residuale forma
di nazionalismo? Credo che tutto questo trovi ragione in un limite culturale assai più diffuso di quanto sembrerebbe lecito immaginare. Insomma, non siamo poi così al sicuro: l’avventurismo di marca sciovinista non ci è precluso del tutto.
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