mercoledì 14 novembre 2018

La quarta corda dell’ukulele. E la terza.


Coi sondaggi che già da alcuni mesi registrano un lento ma progressivo calo dei consensi al M5S rispetto al risultato uscito dalle urne il 4 marzo (siamo ormai giunti a una perdita di quasi cinque punti percentuali) è comprensibile che lo stato maggiore pentastellato attendesse coi nervi tesi come corde di ukulele (lascerei in pace il violino, che è strumento serio) lesito del processo che vedeva Virginia Raggi accusata di falso ideologico: una condanna avrebbe messo fine allesperienza capitolina nel modo più indecoroso per un movimento politico che sulla fedina penale pulita ha costruito buona parte della sua fortuna, col rischio di avviarlo a un irreversibile declino.
Prevedibile, dunque, che lassoluzione liberasse tutte le tossine accumulate nell’attesa, altrettanto prevedibile che a farne le spese dovessero essere i giornalisti che più s’erano accaniti su Virginia Raggi, arrivando al dileggio, all’insulto, alla calunnia, con ciò perdendo ogni legittimità di critica alla sua amministrazione.
La rivalsa dei grillini non si è fatta attendere: «sciacalli», «pennivendoli», «puttane», epiteti pesanti, ma solo in apparenza, perché rubricati già da tempo alla voce «giornalista» sul dizionario analogico della maldicenza.
Ancora più scontata la reazione della categoria, seconda nella solidarietà di gregge solo a quella dei tassisti. Niente di nuovo, perché così funziona, la solidarietà di gregge, almeno fino a quando si rivela efficace a proteggere il singolo senza arrecare danno al gruppo. Si pensi a quello che accadeva, fino a qualche anno fa, quando un prete era sorpreso ad incularsi un chierichetto: una cortina di martiri della fede veniva prontamente schierata a fargli da paravento, come se in pericolo fosse la tonaca, non il pedofilo che ci stava dentro, insudiciandola, e allora è stata la tonaca ad esser presa di mira e ad essere insudiciata, chiunque ci stesse dentro. Non conveniva, e la Chiesa, che sa come si sta al mondo, l’ha capito. I giornalisti italiani non ci sono ancora arrivati, e in questa occasione ne hanno dato prova: Luigi Di Maio dava dell’«infimo sciacallo» a chi non s’era risparmiato «titoloni» che «parlavano di corruzione, imminenti arresti, processo alla bambolina» per «dimostrare che il M5S era uguale agli altri»; Alessandro Di Battista dava del «pennivendolo» a quanti avevano «lanciato tonnellate di fango» addosso a Virginia Raggi, «trattandola come una sgualdrina», per concludere che la sentenza dimostrava che «le uniche puttane qui sono solo loro»; e allora via allo sdegno della corporazione tutta, con proteste vivamente risentite, allarmanti appelli in difesa della libertà di stampa, fino al grottesco di una Myrta Merlino in posa da Politkovskaja.
Un vero peccato, perché anche stavolta è andata persa l’occasione di quella seria autocritica senza la quale è impensabile che il giornalismo possa trovar modo di riacquistare anche solo un po’ della credibilità e del prestigio di cui godeva un tempo. Se, infatti, corri in difesa di un mascalzone solo perché ha in tasca un tesserino amaranto uguale al tuo, autorizzi a estendere su di te, e su chiunque corra in sua difesa insieme a te, il giudizio morale che lo condanna: l’ordine professionale te ne sarà grato, ma poi avrai più diritto di lamentarti quando si farà di tutta l’erba un fascio, e dentro, a torto o a ragione, ti ci ritroverai anche tu?

Qui il post potrebbe anche finire, però risulterebbe sbilanciato in favore del becerume grillino, e allora provo a riequilibrarlo.
«Puttane», dice Alessandro Di Battista? Non si generalizza? «Puttana» è la nigeriana da venti euro a pompino e la escort da tremila euro a notte: non è il caso di far distinzione tra l’agiato direttore e l’assai meno abbiente redattore? Vogliamo davvero ritenere irrilevante la differenza che c’è tra il battere per sopravvivere e il farlo per stipare il guardaroba di capi griffati? Non rivela una bestiale ottusità ignorare la differenza di milieu, con quanto ne consegue per il profilo psicologico e quello sociologico, tra «puttana» e «puttana»? Non è segno di inescusabile insensibilità che un Alessandro Di Battista non sappia cogliere le affinità che lo legano alla figura-tipo del giornalista italiano? Si tratta di un tizio che per lo più si è fermato al diploma o ai primi esami universitari, e di solito viene da una famiglia di ceto superiore, ma non ha i numeri o la voglia per seguire la strada dei genitori, oppure viene da una famiglia di ceto medio o basso, e col giornalismo tenta l’arrampicata verso l’alto, insomma o è un alto-borghese sfigato o un piccolo-borghese arrivista. Come può la quarta corda dell’ukulele non vibrare per simpatia con la terza?

martedì 6 novembre 2018

Una cosa è la società, un’altra è la comunità


Una cosa è la società, unaltra è la comunità. Nel linguaggio corrente, tuttavia, società e comunità sono sinonimi. Almeno nellagorà affollata da poveri di spirito, che di linguaggio corrente vivono, questo dà un significativo vantaggio al comunitarista nel poter dare dellasociale o, peggio, dellantisociale a chi in quel foro porta i suoi argomenti contro un modello di convivenza di tipo comunitario. Più delladditarlo a campione di un vizio morale o a soggetto potenzialmente pericoloso, però, può tornargli utile dipingerlo come un fesso che ragiona per astrazioni, perché ai poveri di spirito fa orrore lanempatico che elegge il suo ombelico a centro delluniverso, e ancor più lhomo homini lupus che sgozza pecorelle, ma il ridicolo è più efficace dellorrore a esorcizzare il mostro. Così, per contestare le ragioni di chi rivendica i diritti dellindividuo, sarà senzaltro utile insinuare che in fondo si tratta di un egoista che non si fa scrupolo di minare i pilastri della convivenza umana pur di difendere i porci comodi suoi, tutti intrinsecamente prevaricanti, ma di gran lunga più efficace sarà indossare la toga del tribuno della plebe, puntare lindice sul malcapitato e col tonante vocione del difensore del bene comune – che è sempre quello di tutti, mai quello di ciascuno – dirgli che al di fuori della società l’essere umano non esiste, che nella realtà l’esistenza umana è possibile solo nella società, che l’uomo è nel senso più letterale un animale sociale, e soltanto nella società può isolarsi, altrimenti si tratta di una rarità, di un assurdo, di una specie di Tarzan, di una scimmia tra le scimmie.
Chi si era azzardato a sostenere che lindividuo dovrebbe poter essere sovrano sul proprio corpo e sulla propria mente aveva negato che luomo sia un animale sociale? No, ma che importa visto che società e comunità sono sinonimi? Daltronde, per chi non riesce a concepire una società che non sia comunità, fa lo stesso: se rigetti un modello di convivenza che non si limita a chiederti di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, che peraltro è precetto di secoli e secoli antecedente a Cristo, ma esige che tu faccia agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te (e perché ciò trovi corrispondenza è il caso che tu ti imponga di volere quel che ti è fatto intendere sia buono, bello e giusto volere), e questa sì che è cosa tutta cristiana, e primancora platonica e aristotelica, e poi dogni filosofo-re, interprete di fatto e di diritto del Buono, del Bello e del Giusto, e poi di Hegel, e poi di Marx e poi, si parva licet, di Rocco e di Gentile – beh, o sei fesso o sei cattivo, eventualmente fesso e cattivo.
E però non disperare: la società in cui credi tu ti lascerebbe nellerrore, la comunità in cui crediamo noi non si rassegna a perderti, e ti rieducherà allamore per il prossimo tuo. Amore obbligatorio, è vero, però pensa che bello: in cambio – a scelta – ti sarà data unanima, un senso identitario o una coscienza di classe.

lunedì 5 novembre 2018

E l’individuo pare intenzionato a cedere


Si può parlare di globalizzazione prescindendo da cosa si intende con globale, dal fatto che globale viene da globus, da quale significato si deve dare a quel glob- che sta in globus, del modo in cui quell-us lo sostantivizza. Così col liberalismo, dove in effetti è assai raro che da liberale si ritenga necessario risalire a liberus, per darne ragione in quel lubeo che sta per mi aggrada, e che sottintende una libertà di scelta. Idem col populismo: se dobbiamo parlarne, chi riterrà necessario premettere che populus viene da πλέως, e dunque rimanda a un plenus? Col comunitarismo accade l’esatto contrario: qui pare sia dobbligo richiamare il concetto di communitas, per spiegare che viene da communis, cioè con-munus, per chiarire che munus è insieme onus, officium e donum, e che cum implica un vincolo.
Come mai qui si ritiene indispensabile risolvere in radice loggetto della discussione? Credo che dipenda dal fatto che la communitas dà conto della sua reale natura solo conferendo pienezza di significato al suo etimo, il che potrebbe risultare perfino fuorviante col liberalismo, che in realtà non mi consente affatto di fare tutto ciò che mi aggrada, o col populismo, che non implica affatto un plenum di consenso popolare, tanto più con la globalizzazione, che infatti resterebbe esattamente ciò che è, anche se il mondo fosse piatto invece di avere forma sferica.
Da questa stretta relazione tra etimo e significato corrente emerge unaltra particolarità del comunitarismo: a differenza di altri termini che nel corso del tempo si sono adattati a descrivere realtà anche profondamente diverse da quelle che descrivevano in origine (si pensi, per esempio, alla democrazia, che per lungo tempo non implicò il suffragio universale), il comunitarismo mantiene intatto il significato col quale fece esordio nel discorso politico, con Aristotele, anche se nelle sue Πολιτικά compare come κοινωνία. Possiamo ragionevolmente ritenere, dunque, che si tratti della ripresa di qualcosa che avanza la pretesa di essere sempre valida, pur al variare dei tempi, ma su cosa poggia questa pretesa? Innanzitutto, sul fatto che la natura umana sarebbe immodificabile; in secondo luogo, sul fatto che essa sarebbe intrinsecamente comunitaria, con ciò che di organicistico sarebbe intrinseco ad ogni comunità propriamente detta; ne conseguirebbe che ogni altra forma di convivenza umana sia da ritenersi contro natura, e dunque da considerare – insieme – artificiosa e dannosa.
In tal senso non è affatto strano che la ripresa di questo pensiero cada in un momento storico che riconosce allindividuo uninaudita «sovranità sul proprio corpo e sulla propria mente». È qui che la pretesa di disconoscergliela assume i tratti di ciò che dunque non è conservazione, ma reazione, è qui che essa si dichiara per la prima volta comunitarista, in esplicita polemica con ciò che dà fondamento ai diritti dellindividuo. Accade quando lindividuo non riesce più a bilanciare la libertà con la responsabilità, e viene tentato dal bisogno di protezione.
«Per ciascun essere umano singolarmente preso è difficile liberarsi da una minorità divenutagli quasi natura», scriveva Kant; e, «per brillare, al pari delle lucciole, le religioni hanno bisogno di oscurità», scriveva Schopenhauer. Loscurità dei nostri tempi dà occasione al comunitarismo di poter assicurare protezione allindividuo a patto che egli accetti come naturale lo stato di minorità dal quale si era emancipato. E lindividuo pare intenzionato a cedere. 

mercoledì 31 ottobre 2018

Boh

«Il diario sa di nebbia»
Julio Cortázar, L’esame

Ho sognato che era morto Battiato. Niente di diverso dalle solite morti dei Grandi: titoloni dappertutto, lunghissima coda per dargli lultimo saluto, speciali in prima serata, rimasterizzazione dellOpera Omnia a cadavere ancora caldo, e tutta la nazione a fare il compito in classe, chi con lautorevole necrologione da cinquemila battute, chi con un anonimo r.i.p. via tweet. Niente di diverso, tranne il fatto che ad un tratto si spargeva voce che il corpo del Grande era sparito, e alcuni sostenevano che fosse stato trafugato per la richiesta di un riscatto (pesanti i sospetti sulla ndrina di Rosarno), per altri era fin troppo ovvio che il Maestro fosse risorto (Buttafuoco laveva buttata lì come metafora, ma gli erano andati dietro a frotte), mentre Alice sosteneva che si fosse reincarnato in Pippo, il cucciolo di armadillo venuto alla luce nello zoo di Catania proprio il giorno dopo il suo decesso, e tutti avevano torto, ma tutti in qualche modo avevano ragione.
Qui mi son svegliato, e in mano mi son ritrovato un evidenziatore. Donde fosse piovuto, boh.

lunedì 29 ottobre 2018

È il vecchio che ritorna


Al momento, col dire che destra e sinistra sono categorie superate, ci si limita soltanto a predirne il superamento o a esprimere il desiderio che siano superate, perché in realtà esse sono ancora duso corrente, col paradosso – vedremo perché solo apparente – di essere maggiormente utilizzate proprio da chi le ritiene inservibili. È il caso, per esempio, di chi vi ricorre per opporre al modello liberaldemocratico quello di un comunitarismo che troverebbe fondamento su «valori di destra e idee di sinistra», dove il superamento, quindi, risulterebbe possibile solo in una loro sincresi, peraltro neanche tanto originale, essendo roba già vista coi vari mix di socialismo e fascismo che furono sperimentati nel secolo scorso, sorvoliamo con quali risultati.
Ma con «valori di destra e idee di sinistra» si fa riferimento proprio alla destra e alla sinistra che abbiamo visto allopera nel Novecento? Non ci sono dubbi, perché i «valori» sono Dio, Patria e Famiglia (anche se Dio è altrimenti declinato in Natura o Tradizione, e Patria in Nazione o Identità), mentre le «idee» sono Stato, Lavoro e Socializzazione (dove questultima è richiamata in entrambe le sue accezioni, quella economica e quella sociologica, e sempre in chiave organicistica). Non è irrilevante, altresì, che alla destra siano ascritti «valori» e alla sinistra «idee», a dimostrazione che nella sincresi comunitaristica le due categorie persistono nei loro tratti più peculiari, conservando inalterate addirittura le loro posizioni rispetto alla classica dicotomia trascendenza-immanenza che vede la destra farsi interprete di istanze spirituali e la sinistra di bisogni materiali.
Sia chiaro: destra e sinistra non sono entità metastoriche; sono costruzioni concettuali che sistematizzano opinioni e interessi; in quanto tali, così come son nate, così possono morire; non è affatto escluso, dunque, che possano diventare categorie inservibili in un contesto storico che veda mutate le condizioni in cui esse tornarono utili; sta di fatto che, proprio nel momento in cui esse sembrano dover lasciare il posto a qualcosa che si dice «né di destra, né di sinistra», questo qualcosa non sa darsi altrimenti che come cosa «sia di destra, sia di sinistra».
Nel caso del comunitarismo – abbiamo visto – lammissione è esplicita: «valori di destra e idee di sinistra». Ancorché implicita, però, essa è evidente in tutti i movimenti che credono di poter trovare ragion dessere nel fatto che «destra e sinistra sono categorie superate», e questo per una semplice ragione: tutti – senza eccezioni – esprimono varianti del comunitarismo. È qui che si scioglie il paradosso cui facevo cenno allinizio: destra e sinistra non possono essere separate, né assenti, in una concezione delluomo e della vita, della società e della storia, che è di gran lunga antecedente allassemblea nella Sala della Pallacorda, e che lì ebbe la sua catalisi, dando corpi finalmente distinti alle sue contraddizioni interne.
Il nuovo cui non sappiamo dare un nome è in realtà vecchissimo: prende le mosse dalla Politica di Aristotele, passa per il monologo di Menemio Agrippa, per il Policraticus di Giovanni di Salisbury, fino alla «volonté générale» di Rousseau, alla «sostanza etica consapevole di sé» di Hegel, al rossobrunismo nelle sue svariate forme, dal «fascismo immenso e rosso» di Brasillach al neocomunitarismo di Preve, maestro di Fusaro.
Niente di nuovo contro la liberaldemocrazia: è il vecchio che ritorna. Occorrerà parlarne ancora a lungo. 

sabato 27 ottobre 2018

Io la penso come Daniele Luttazzi



Io la penso come Daniele Luttazzi: «La satira, per definizione, è contro il potere. Contro ogni potere. È una combinazione di ribellione e irriverenza e mancanza di rispetto per l’autorità» (Lepidezze postribolari ovvero Populorum Progressio, Feltrinelli 2007 – pag. 103), perciò mi chiedo cosa sia quella di Makkox, che chiude la puntata di Propaganda live di venerdì 26 ottobre con una striscia davvero invereconda: sulla cover della sigla finale di Goldrake cantata da Alessio Caraturo, un tenero Mattarella con mantello tricolore sfreccia nel cielo, quando ad un tratto – puf! – gli vengono meno i superpoteri (è chiaro debba esserci lo zampino di Vega, cioè di Beppe Grillo) e – zow! – precipita, ma per fortuna, ad impedirgli di spiaccicarsi al suolo, ecco una selva di braccia ad afferrarlo al volo – sfrunf! – riavendone un «Grazie, amici! Sapete, qualcuno pensa che i miei poteri mi rendano troppo “potente”, ma non capisce che quelli, i poteri, senza di voi, non ci fai nulla», che miete tanti adoranti cuoricini.
«Ribellione e irriverenza»? Non ne vedo traccia. Tanto meno vedo traccia di «mancanza di rispetto per lautorità», anzi, direi si tratti di una esemplare prova di sfacciata leccaculaggine.
Se non è satira, allora, cosè? Per trovare una risposta credo si debba riandare alla lettera con la quale, a giugno, il Presidente della Repubblica esprimeva il suo personale apprezzamento per come la trasmissione condotta da Diego Bianchi aveva «seguito, con sguardo scanzonato ma mai banale, la complicata fase delle consultazioni per la formazione del governo».
Uninvestitura, in buona sostanza. È che durante quella «complicata fase delle consultazioni» nasceva l’ennesimo Partito del Presidente, una costante nella vita politica italiana, giacché ogni settennato ha avuto il suo. Partito assai sui generis, ovviamente, cui un canale di comunicazione extra-istituzionale torna estremamente utile. Tacitamente si saldava il patto: voi mi scaldate la platea e io vi faccio la marchetta, poi, vedremo, può darsi che nel 2022 possano scapparci pure due onorificenze da cavalieri del lavoro. 
Ma può darsi che questa sia una lettura eccessivamente dietrologica. In tal caso si potrebbe ripiegare sul banale, che è il miglior rasoio di Occam. Perché in fondo anche ai tempi di Gronchi al Quirinale cera un gran via vai di donnine del mondo dello spettacolo. Nessuna faceva satira, però. Anzi, si mormorava che il satiro fosse Gronchi.




mercoledì 24 ottobre 2018

Paragonarlo a Scalfaro o a Napolitano è vilipendio?


Visto che la Costituzione contempla la possibilità che il Presidente della Repubblica invii messaggi alle Camere, e che sono le Camere a dover dire lultima parola sulla Legge di Bilancio, della quale il Governo annuncia di non essere disposto a cambiare neppure una virgola, non si capisce perché Mattarella abbia scelto l’Assemblea dellAnci per lanciare il suo richiamo al rispetto dellequilibrio di bilancio, con evidente riferimento allart. 81 della Costituzione, che tuttavia non fa cenno a Sindaci o a Comuni neppure di striscio.
Non si capisce a voler far finta di esser stupidi, perché in realtà si capisce, eccome. Non era importante dove e a chi, ma quando, e dunque perché: il suo richiamo voleva cadere a cavallo della prevedibile bocciatura della Manovra di Governo da parte del Consiglio europeo, e dunque intendeva assumere un peso politico, che poi è la tentazione a cui nessun inquilino del Quirinale ha mai saputo resistere. Pessima abitudine, perché lattività di indirizzo politico non spetta a chi è chiamato ad essere garante del dettato costituzionale.
Si potrà obiettare che in effetti Mattarella è intervenuto per richiamare al rispetto di un articolo della Costituzione. Non cè dubbio, ma lo ha fatto sbagliando momento e modo: altra cosa se avesse scelto di affidare il suo richiamo ad un messaggio alle Camere allorquando queste fossero state in procinto di affrontare la discussione sulla Legge di Bilancio. Ma cosa avrebbe potuto dire in quel messaggio? Cosa avrebbe potuto aggiungere o togliere ad un articolo che, pur pretendendo di imporre chissà cosa al legislatore, in realtà non gli impone niente?
«Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», certo, ma quale Legge di Bilancio dichiara esplicito squilibrio tra le due voci? E, certo, deve farlo «tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico», ma a chi spetta riconoscerle come avverse o favorevoli? In quellarticolo, poi, è fatto divieto di ricorrere allindebitamento? Macché, «il ricorso all’indebitamento è consentito», sebbene «solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico», e «al verificarsi di eventi eccezionali». Ma chi è tenuto a considerare questi effetti, a valutare leccezionalità degli eventi che motivano il ricorso all’indebitamento, e quindi ad autorizzarlo? Le Camere, appunto, nelle quali i giallo-verdi hanno una solida maggioranza.
Mattarella sa bene che le Camere sarebbero sorde a un suo messaggio, e dunque sveste i panni del garante della Costituzione che sta al di sopra delle parti per indossare quelli dellattore politico che scende in campo per opporsi alla linea economica del Governo. Illegittimo, certo, ma ampiamente prevedibile: sono passati tre anni e mezzo da quando è stato eletto al Quirinale, di solito un Presidente della Repubblica non resiste più di tanto nel restare super partes. Cosa prometteva che potesse essere meglio di uno Scalfaro o di un Napolitano?

Mi assale un dubbio: paragonarlo a Scalfaro o a Napolitano è vilipendio? 

martedì 23 ottobre 2018

Di quanta residua Monarchia ha bisogno la nostra Repubblica?


Con un referendum che aveva visto vincere la Repubblica sulla Monarchia per meno di due milioni di voti, è comprensibile che i vincitori volessero evitare che la guerra civile tra fascisti e antifascisti si riaccendesse, previo rimpasto delle parti in campo, tra monarchici e repubblicani. Si risolsero, così, col dare al Presidente della Repubblica un profilo assai simile a quello di un monarca, conferendogli molti dei poteri che lo Statuto Albertino aveva conferito al Re, lasciandogli comunque in simulacro quelli che andavano di fatto al Parlamento, al Governo e alla Magistratura, nella classica tripartizione che andava a rompere lunità del potere autocratico, seppur mitigato da un ottriato. Perfino nella scelta del primo Presidente della Repubblica si preferì puntare su chi potesse vantare notoria fede monarchica, per attenuare il trauma di vedere assiso al Quirinale altri che un Re, e si scelse Enrico De Nicola, che, ritenendo sacrilego usurpare il Quirinale, elesse a sua sede Palazzo Giustiniani.
Come il Re dello Statuto Albertino entrato in vigore nel 1848, anche il Presidente della Repubblica della Costituzione entrata in vigore nel 1948 rappresentava lunità nazionale, promulgava le leggi, scioglieva le Camere, era a capo delle Forze Armate, dichiarava lo stato di guerra, aveva potere di grazia. Di tutto il resto conservava un qualche succedaneo: dove poteva sanzionare le leggi, ora poteva rimandarle alle Camere; dove nominava i giudici, ora diventava Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; dove la sua persona era «sacra e inviolabile», ora il Codice Penale dichiarava «vilipendio» loffesa alla sua persona, al pari di quella alla religione.
La storia non concede controprove, sta di fatto che questi accorgimenti risultarono efficaci a tener buoni i monarchici. Ma oggi – oggi che i nostalgici della Corona sono solo quattro gatti del tutto inoffensivi – ha senso un Presidente della Repubblica che surrogando il potere di nominare un numero illimitato di senatori a vita che lo Statuto Albertino assegnava al Re (art. 33) vede riconosciuta dalla Costituzione la facoltà di nominarne cinque (art. 59)? Ha senso, oggi, che un Presidente della Repubblica possa godere della stessa discrezionalità di veto sulla nomina dei ministri che a Vittorio Emanuele III consentì di far fuori Facta per far posto a Mussolini?
Sull’ipotesi di rafforzare i poteri del Presidente della Repubblica, in un più generale progetto di riforma costituzionale che trasformasse la nostra Repubblica parlamentare in una Repubblica presidenziale, non si è mai gridato allo scandalo, anzi, la questione continua ad essere dibattuta di tanto in tanto, fin dai tempi di Pacciardi. E allora che c’è di blasfemo nell’ipotesi di aprire un dibattito sull’opportunità di ridimensionarli? Beppe Grillo è Beppe Grillo, d’accordo, ma cosa c’è di eversivo nella sua proposta di rivedere le prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato?
Più in generale: di quanta residua Monarchia ha bisogno la nostra Repubblica?

venerdì 19 ottobre 2018

«La fase storica è naturalmente diversa»


Nel 1945, per i tipi della University of Pennsylvania Press, usciva un volume di Arcangelo William Salomone dal titolo Italian Democracy in the Making, che apriva con una lunga Introduzione di Gaetano Salvemini, dalla quale Claudio Cerasa estrae due passaggi (pagg. XV e XXVIII-XXIX) che finiscono nelleditoriale col quale sapre Il Foglio di giovedì 18 ottobre.
Prima di riportare qui il virgolettato, per poi passare a considerare luso strumentale cui viene piegato, occorre precisare che i due brani tratti dallIntroduzione sono riportati fedelmente (fa eccezione linciso «ed era» del primo periodo, racchiuso tra due virgole su Il Foglio e tra due trattini nel testo originale, il che ovviamente è irrilevante) e che il loro accostamento non tradisce il pensiero di Salvemini per quanto viene ad essere eliso nel mezzo. Precisazioni che potrebbero sembrare superflue, ma che qui invece sono necessarie, perché negli ultimi anni Il Foglio non si è fatto scrupolo di servirsi anche di infimi mezzucci per il suo piccolo cabotaggio nella palude della cronaca politica italiana: premettere che stavolta non se n’è fatto uso vuol far da viatico alla speranzuola che il giornale fondato da Giuliano Ferrara possa tornare ai tempi in cui mistificava in modo assai più raffinato, ruminando i paralogismi di Ratzinger invece di sfondarsi coi popcorn di Renzi. Ma veniamo al Salvemini di Cerasa.

«Mentre noi riformatori assalivamo Giolitti dalla sinistra accusandolo di essere, ed era, un corruttore della democrazia in cammino, altri lo assalivano dalla destra, perché era anche troppo democratico per i loro gusti. Le nostre critiche non favorirono una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia, ma favorirono la vittoria dei gruppi militaristi, nazionalisti e reazionari che trovavano la democrazia di Giolitti anche troppo perfetta... Se mi trovassi nuovamente in Italia fra il 1900 e il 1914 con quel tanto di esperienza che ho potuto mettere insieme nei trent’anni successivi, non tacerei nessuna delle mie critiche al sistema giolittiano, ma guarderei con maggior sospetto a coloro che si compiacevano di quelle critiche, non perché essi volessero condurre l’Italia dove noi avremmo voluto che arrivasse, ma precisamente nella direzione opposta».

Un ripensamento sul giudizio dato nel 1910 con Il ministro della mala vita? Macché, Giolitti rimane il «corruttore della democrazia» che era. Se sul «sistema giolittiano», dunque, non ha cambiato idea, di cosa si cruccia, Salvemini? Del fatto che le sue critiche a Giolitti «non favorirono una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia». Lo indebolirono, probabilmente, ma più da destra che da sinistra. Non nasconde la sua amarezza al riguardo, Salvemini, ma si sente in colpa per averlo indebolito con quelle accuse? Niente affatto: «Se mi trovassi nuovamente in Italia fra il 1900 e il 1914 [...] non tacerei nessuna delle mie critiche». E allora di cosa si sente colpevole, se in ciò che scrive cè proprio da leggere un rimprovero a se stesso? Del non aver guardato «con maggior sospetto» al compiacimento che «militaristi, nazionalisti e reazionari» traevano da quelle sue critiche.
Io qui azzarderei unipotesi. Salvemini sapeva che «militaristi, nazionalisti e reazionari» non volessero affatto «una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia»? Non cè da dubitarne. E allora perché afferma che, potesse tornare al 1910, non si farebbe scrupolo di riscrivere Il ministro della mala vita? Le sue critiche hanno indebolito Giolitti aprendo la via al fascismo (ne «favorirono la vittoria», dice), e ciò nonostante pensa che fossero ugualmente necessarie? Lonestà intellettuale, per Salvemini, imponeva costi così gravosi? La sua biografia risponde: sì. Quale cruccio, allora? Quale senso di colpa? Credo che ce lo riveli il seguente passaggio: «guarderei con maggior sospetto a coloro che si compiacevano di quelle critiche». È un termine appropriato, quel «compiacimento»? Non è più probabile che fosse stato lui a compiacersi del fatto che quel suo pamphlet incontrasse un plauso trasversale, a sinistra e a destra? E non è più probabile, dunque, che nel 1945 Salvemini si penta solo di quel suo peccato di orgoglio intellettuale, che dinanzi alla tragedia del ventennio fascista rischia di essere rubricabile a sciocca vanità? Lasciamo perdere, in fondo questa era solo una digressione. Torniamo alleditoriale di Cerasa, per il quale la «lezione di Salvemini» torna buona ai nostri giorni, a biasimo di chi ha criticato i guasti della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica, rendendosi con ciò «complice» – sì, dice proprio «complice» – dei barbari che oggi devastano il sancta sanctorum della democrazia italiana: «La fase storica è naturalmente diversa – scrive Cerasa – ma a voler osservare con attenzione il modo in cui chi doveva combattere gli anticasta è finito invece per essere spesso complice degli anticasta, viene naturale ricordare una riflessione fatta da Gaetano Salvemini alla fine della Seconda guerra mondiale relativa al logoramento della democrazia liberale generato dalla battaglia senza quartiere organizzata contro il giolittismo prima dell’avvento del fascismo»; e qui segue la citazione sopra riportata.

«La fase storica è naturalmente diversa» serve a stornare lattenzione dal fatto che, come vedremo, il parallelo è in realtà assai sghembo. Perché, se non lo fosse, significherebbe che Cerasa, come Salvemini in Giolitti, individua in Craxi, in Berlusconi e in Renzi tre «corruttori della democrazia». Verso chi erano rivolte, infatti, le critiche di chi denunciava un deficit di democrazia in Italia? Se il parallelo non è sghembo, perché non avrebbero dovuto rivolgerle ai quei «corruttori della democrazia», visto che neppure il senno del poi fa cambiare idea a Salvemini? Irricevibile, allora, linvito con cui Cerasa chiude il suo editoriale: «Provate a sostituire la parola “Giolitti”con la parola “casta”e avrete forse chiaro perché quella che abbiamo cominciato a chiamare casta in realtà non era altro che qualcosa di più prezioso: il nostro amore per la parola democrazia».
Dovremmo dedurne che Salvemini amasse Giolitti, ma non ne fosse conscio, visto che gli dava del «ministro della malavita» nel 1910 e del «corruttore della democrazia» nel 1945.

Salvemini morirà nel 1957: avrà tempo per dare occasione a Cerasa di poter dire che in fondo, seppur in fondo in fondo, amasse Giolitti? Per dirla alla francese, manco per il cazzo.
Nel 1952, per Il Ponte, una rivista fiorentina, Salvemini firma un lungo articolo dal titolo «Fu lItalia prefascista una democrazia?», nel quale c’è tutto l’impeto antigiolittiano del 1910 e neanche un po’ del senso di colpa – se senso di colpa era – del 1945. Ora, se ciò che viene dopo (1945) è sempre da considerare più ponderato e saggio di ciò che viene prima (1910) – così sembra farci intendere Cerasa – con ciò che viene dopo il dopo (1952) dovremmo essere al culmine della ponderazione e della saggezza. E cosa scrive, Salvemini, in questo articolo?
Giolitti non è più il «corruttore della democrazia», ma il «precursore» di Mussolini. Il sistema giolittiano non anticipò cronologicamente il regime fascista, ma ne fu la premessa. «La differenza fra Mussolini e Giolitti era in quantità e non in qualità. Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada». Proviamo anche qui a «sostituire la parola “Giolitti” con la parola “casta”»?

mercoledì 17 ottobre 2018

Giuro che poi


Un’ultima cosa sui marxisti, e dunque inevitabilmente su Marx, giuro che poi non ci tornerò più sopra, passando ad altro. Si tratta della controbiezione che nel repertorio del marxista militante ha lo stesso rilievo che in quello del prestigiatore ha il numero del coniglio estratto dal cilindro: all’obiezione che Marx non è uno scienzato, perché la sua teoria non supera il vaglio del metodo scientifico per poter essere qualcosa in più di una teoria (e ciò, sia chiaro, al pari di ogni teoria formulata nell’ambito delle cosiddette «scienze sociali»), si controbietta che anche il metodo scientifico è «irrimediabilmente segnato dal processo riproduttivo del capitale» (virgolettato come estratto dal cilindro del prestigiatore capitato a me), come daltronde lo è tutto ciò che oppone resistenza a Marx.
Coniglio gnostico, a ben vedere, perché riproduce lo schema che nega la possibilità di cogliere lineffabilità dello spirito se non uscendo dalla carne degradata dal peccato: in sostanza, Marx è compreso a dovere solo quando gli si dà completamente ragione; se questo non accade, è dato solo il fraintenderlo, poco importa se in buona o in cattiva fede, perché in entrambi i casi cè sempre lo zampino del Maligno – pardon, del capitale.
Poi si incazzano quando dici che la loro è una religione.

domenica 14 ottobre 2018

Fine



Il difetto principale di ogni dialettica, compresa quella del cosiddetto «materialismo dialettico», sta nel considerare ineluttabile che la tesi e lantitesi abbiano culmine in una sintesi che da esse è prefigurabile. Con Marx è accaduto – per dirla come ce la racconta Engels – che «la dialettica hegeliana veniva raddrizzata», ma senza perdere il suo carattere teleologico: lumanità continuava ad avere un fine prestabilito, cui ineluttabilmente tendeva in «un ininterrotto processo di origine e di decadenza, attraverso il quale, malgrado tutte le apparenti casualità e malgrado ogni regresso momentaneo, si realizza, alla fine, un progresso continuo». Una storia umana che ha un fine, e dunque, necessariamente, anche una fine. Con quanto di assiologico viene così a sussumersi nel teleologico.
Se alla storia assegniamo un «senso», cui la teleologia dà laccezione di «direzione» e lassiologia quella di «significato», non ne possiamo fare oggetto di «scienza», la cui natura è congetturale e avalutativa. Ne consegue che, a dispetto di ciò che di sé millanta, quella di Marx non è scienza. La scienza non può assolutamente servirsi della dialettica, che in sostanza è rigetto del principio di non-contraddizione, che è la base di ogni discussione razionale: rigettarlo apre la via ad ogni genere di arbitrarietà, come in realtà accade con Marx, in cui ogni conclusione si piega alla premessa, in forza del fatto che la realtà è contraddittoria e che la contraddizione è lessenza del pensiero.
Quella di Marx non è una scienza, è unideologia a carattere religioso, e dalla dimensione del religioso trae i suoi più distintivi connotati: religiosi sono i suoi tratti profetici e chiliastici; religioso è il culto della sua «verità»; religiosa è la sua postura messianica; religioso è il tenore del suo attivismo; religiosa è la smania proselitaria dei suoi accoliti; di natura religiosa sono i conflitti che sono nati al suo interno, tutti consumatisi sulla corretta esegesi del «verbo», di per sé abbastanza ambiguo e vago da consentire la sporulazione di mille sette, tutte convinte di incarnare lortodossia. Tipicamente religioso è lanelito che impronta la sua dimensione esistenziale. Tipicamente religiosa è la sua incapacità di pensare all’individuo (sia a quello che appartiene a una classe, sia quello che apparterrà ad una società senza classi) altrimenti che a unità-base di una comunità omogenea per portato motivazionale. Tipicamente religioso è il suo rifiuto di saggiare la bontà della sua dottrina sulla effettiva possibilità di metterla in pratica.
Su questultimo aspetto è evidente lipoteca hegeliana che pesa sul marxismo. Alla scoperta di Urano, che smentiva la teoria esposta nel suo De orbitis planetarum, si dice che Hegel abbia obiettato: «Se i fatti non si accordano alla teoria, tanto peggio per i fatti». Non dissimile è l’obiezione dei marxisti al rilievo che non una – non una – delle esperienze storiche ispirate alla dottrina che promette il paradiso in terra è stata poi capace di rivelarsi troppo diversa da un vero e proprio inferno: se era inferno, non era marxismo.
Non è lecito il sospetto che questa religione, al pari di ogni religione, abbia in sé stessa la vocazione totalitaria? Non è lecito credere – come dice Monod – che «il profetismo storicistico fondato sul materialismo dialettico era fin dalla nascita gravido di tutte le minacce che si sono poi effettivamente realizzate»? No, il sospetto suona a insulto al «Grande Vecchio» e a denigrazione del socialismo. Perché, per il marxista comme il faut, socialismo e marxismo coincidono, a dispetto del fatto che il primo si limita a voler porre leconomia sotto il controllo della società, mentre il secondo vuole in sostanza abolire leconomia in quanto tale, realizzando lomnipervasività dello stato. Non è stato proprio questo stato che abbiamo visto all’opera nei paesi del cosiddetto «socialismo reale», quello che di ogni altro socialismo segnalava la pecca di non essere «scientifico»?
C’è stato chi lo aveva previsto: «Nello stato popolare di Marx, ci si dice, non ci saranno classi privilegiate. Tutti saranno uguali, non solo dal punto di vista giuridico e politico, ma anche dal punto di vista economico. […] Secondo Marx, il popolo non solo non deve distruggere lo stato, ma al contrario deve rafforzarlo, renderlo ancora più potente e, sotto questa forma, metterlo a disposizione dei suoi benefattori, dei suoi tutori e dei suoi educatori, i capi del partito comunista: in una parola, a disposizione di Marx e dei suoi amici, che cominceranno subito a liberarlo a modo loro. Prenderanno in mano le redini del governo, perché il popolo è ignorante e ha bisogno di tutela; creeranno la banca di stato unica che concentrerà nella proprie mani il commercio, l’industria, l’agricoltura e perfino la produzione scientifica, mentre la massa del popolo sarà divisa in due armate: l’armata industriale e quella agricola, al cui comando ci saranno gli ingegneri di stato che formeranno una nuova casta privilegiata».
Era Bakunin, che aveva il grave difetto teoretico di essere un ubriacone, certo, ma perché ostinarsi a leggere in altro modo una profezia – quella marxista – che si è sempre realizzata solo in questi termini? Cosa può dar forza a questa ostinazione, se non la fede? Un altro tratto religioso. Che, da un lato, conferma ciò che qui si è detto sulla reale natura del marxismo e, dallaltro, giacché «le idee camminano sulle gambe degli uomini», lascia prevedere forma e sostanza dei commenti che pioveranno su questo post.
Io li leggerò come proteste di credenti che hanno visto frainteso – e perciò insultato – il «verbo»: accetterò con un sorriso la beffa e lo sdegno, la condanna per blasfemia e il pietoso tentativo di soccorrere il peccatore sullorlo dellabisso, la diagnosi di disperata resistenza al Dio di cui ho fatto esperienza e la prognosi di infausta ricaduta nel liberalismo di quei finocchi di Russell e Popper. Tutto con un sorriso, riservandomi di cestinare tutto ciò che mi parrà trolling. In fondo, questo blog – per il momento – è proprietà privata.