lunedì 20 maggio 2019

La tragica fibrillazione, la farsesca tachicardia




Nell’intervista che Jean Ziegler ha concesso ad Aline Wüst e che Blick ha mandato in pagina la scorsa settimana («Die Kinder müssen nun das System angreifen») cè un passaggio che mi ha inflitto un blando riverbero della fibrillazione che lanno scorso massalì alla rilettura delle ultime pagine del secondo di tre libroni della Utet che non toccavo da decenni. Solo un riverbero, stavolta, e blando, ripeto, ché con gli epigoni dei Grandi Vagolitici accade che la tragica fibrillazione si ripresenta come farsesca tachicardia, e tuttavia la mano a un certo punto è corsa al petto.
Un pugno di multinazionali fa la metà del pil mondiale, dice lo Ziegler, siamo a uno strapotere che ci mette davanti a bivio: o distruggiamo il capitalismo o il capitalismo ci distrugge. Ok, dice la Wüst, vada per distruggerlo, ma poi? E qui lo Ziegler: «Boh, si vedrà! In fondo, la mattina che fu presa la Bastiglia nessuno aveva idea di cosa sarebbe venuto dopo...».
Bellesempio del cazzo, faccio tra me e me, nessuno lo sapeva quella mattina, certo, ma noi lo sappiamo, eccome: al posto di un re si ebbe un imperatore. E sempre tra me e me: se è lecito inferire, dove siamo andati a finire tutte le volte che siamo partiti per distruggere il capitalismo? Vertigine, affanno, m’è d’uopo un controllino: 182/84, frequenza 102, meno male, va’, pensavo peggio. Comunque è meglio prendere qualcosa, chessò, qualche milligrammo di Prezzolini... Dove ho messo quell’appunto? Ah, sì, sta nel librone della Utet.

Non fa una previsione, Prezzolini, quando dice – siamo alla fine degli anni Sessanta – che, «se il progressista è luomo del domani, il conservatore è luomo del dopodomani»: non dice che a una stagione di entusiastica adesione a un moto di rinnovamento ne segue necessariamente una di disillusione e di pentimento (eventualmente di resipiscenza, semmai pure operosa): niente di tutto questo (peraltro tiene a precisare che il «conservatore» – il «vero conservatore», dice – non è un «reazionario», né un «tradizionalista»): no, Prezzolini si limita a evocare lobiezione che è in radice alla sfiducia nel progresso, quella basata sulla convinzione, espressa in forma di timore saldamente motivato, che da un domani migliore del presente (sospesa la questione se poi lo sarà davvero o no) possa discendere un dopodomani che ne risulti assai peggiore, peraltro dandola come ipotesi altamente probabile, se non certa: è la sfiducia che non fa mistero di trovare ragione in una visione dichiaratamente pessimistica della natura umana, stolta più che malvagia (la via che porta allinferno, eccetera), considerata ineluttabilmente incline a far guai: visione che però implica anche un giudizio di merito sul presente, qualunque esso sia: quandanche sembri pessimo, perfino al punto da far credere che qualsiasi domani diverso non possa che essere migliore, il peggio è sempre possibile, anzi è così gravemente incombente da essere pressoché sicuro: dal progredire, insomma, si avrebbe sempre qualcosa da perdere e, se pure non si avesse altro da perdere che le proprie catene, se pure questo fosse assicurato per il domani, cè il caso – probabilità che per il «conservatore» abbiamo visto essere prossima alla certezza – che dopodomani ci si possa ritrovare molto più strettamente avvinti in catene molto più pesanti, e tutto questo – dice il «conservatore» trova conferma nellesperienza: l’esperienza mostra che alla lunga ogni progresso tradisce sempre le sue promesse, e spesso in modo tragico: tanto gli basta per poter vantare merito di una lungimiranza protetta dallinsidiosa minaccia degli entusiasmi che menano a rovina il «progressista», sempre incapace di vedere oltre la punta del proprio naso, e perciò incline allavventura, fonte d’ogni genere di disastro.

Gesù, come m’è uscita ’sta glossa? Sembra una parafrasi speculare del Totò che sbotta: «Poi dice che uno si butta a sinistra!». Basta, basta, devo tenermi alla larga dagli Ziegler, sennò il 26 maggio finisco per votare +Europa.

*       *       *

«Nelle cose economiche e sociali, la via diritta,
salvo eccezioni rarissime, è la via falsa.
Solo la via storta, lungo la quale gli uomini cadono,
ritornano sui propri passi, esperimentano,
falliscono e ritentano e talvolta riescono,
è la via sicura e, di fatto, più rapida»

Luigi Einaudi,
Prediche inutili

domenica 19 maggio 2019

[...]


Quando il nobile decaduto porta il quadro al monte dei pegni, i contorni del rettangolo che sul muro rivela i tre o quattro punti di clarté in più che la carta da parati aveva originariamente corrispondono a quelli della cornice, non della tela. Così è accaduto con la definizione del fascismo uscita dal XIII plenum del Comintern, perché, caduta in disgrazia, la sinistra ha smesso di pensare al fascismo come alla «dittatura terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario» e ha cominciato a percepirlo come «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni», labietta antropologia borghese che incorniciava il fascismo inteso come mero strumento del capitale in funzione antioperaia, a dar per implicito che il più genuino antifascismo potesse essere solo anticapitalista, e cioè comunista: svenduta la lotta di classe, sulla parete del salone in cui il Partito invitava lintellighenzia a prodursi nei suoi deliziosi valzer è rimasto lalone della condanna morale. Niente affatto antitetiche, daltronde, le due interpretazioni del fascismo, perché, dal canto suo, la borghesia ha sempre amato darsi precursori nella natura umana più che nella storia, pienamente convinta che il mercato sia dimensione innata alluomo, che la proprietà privata stia scritta nel dna specie-specifico, offrendosi così a chi lavversava come incubatrice di quel «fascismo eterno» che è innanzitutto metafisica della bestia.
Ora, però, cè chi ha raggranellato il necessario per riscattare il quadro al monte dei pegni, me ne dà notizia il buon Luca Massaro, segnalando leditoriale del n. 16 della rivista tedesca Exit a firma di Thomas Meyer (Criseet critique de la société marchande) e una sua traduzione in italiano a cura di Franco Senia (Capitalee Fascismo): il salone è ancora in pessime condizioni, ma è evidente lintenzione di tornare ai fasti del passato, quando un invito del Partito alla serata di ballo era motivo di orgoglio per ogni intellettuale – sia lode alla feconda contraddizione! – borghese.
Nemici della classe operaia, in quanto liberaldemocratici, noi non siamo invitati. Poco male, perché non sappiamo ballare. In quanto alla scena mitologica ritratta in quel dipinto – il fascismo come invenzione del capitale finanziario in risposta al Biennio rosso – ci è sempre sembrata farlocca. Toccherà rimetter mano a Le interpretazioni del fascismo di Renzo De Felice per argomentare sulla natura socialistoide del mussolinismo?

venerdì 10 maggio 2019

Pretesto imperdibile


[La polemica che montò intorno al brano che Joseph Ratzinger trasse dalla settima διάλεξις di Manuele II Paleologo e ficcò nella lectio tenuta a Ratisbona nel 2006 oscurò il tema che affrontava in quel testo con la logora riproposizione del trucchetto tardo-ellenistico di mettere la maiuscola a λόγος (pensiero) per farlo diventare Λόγος (Dio) e così costringere la ragione a far la colf della fede: le isteriche reazioni nel mondo musulmano e lindecorosa marcia indietro che portò a ben tre riscritture del passaggio misero in ombra il numero da treccartaro di scuola agostiniana.
Così è accaduto con gli «appunti» destinati alla pubblicazione su Klerusblatt: imputare al Sessantotto la pedofilia dei preti e ringraziare Dio per aver fatto crepare Franz Böckle prima che potesse contestare la Veritatis splendor hanno fatto velo alla questione affrontata in quel testo che in buona sostanza riafferma la pretesa del primato etico della Chiesa come indefettibile interprete del dettato morale intrinseco allordine creaturale.
Pretesto imperdibile per un quarto dora di evasione da Twitter.]


Quando parliamo dei principi cui le nostre azioni devono aderire per perseguire il bene, siamo nel campo della morale, mentre invece siamo in quello dell’etica, quando parliamo delle modalità con cui questi principi devono essere messi in pratica. In entrambi i casi si può avere la sensazione di stare a discutere di norme antecedenti e superiori all’uomo, sennò intrinseche alla sua natura, comunque universali ed eterne, valide per tutti, ovunque e sempre, e tuttavia siamo costretti a fare i conti, fin dall’etimo, col fatto che i mores che fanno la morale e l’ethos che fa l’etica altro non sono altro che usanze, consuetudini, abitudini: che usus è participio passato di uti, che è trarre utilità da, servirsi di, avvantaggiarsi da; che cum-suetum è quanto di proprio, cioè di suum, sta in ciò che solemus, diverso da quello che in passato altri solebant, quasi certamente diverso da quello che in futuro altri ancora solebunt; che habitus è abito, costume, non quello che c’è dentro. Siamo costretti, insomma, a prendere atto della natura eminentemente culturale delle regole che una data società in una data epoca si dà come ottimali.
Non dovrebbe darci da pensare che per quanto così spesso siamo inclini a considerare universale ed eterno – cosa sia il bene, come esso sia efficacemente perseguibile – abbiamo a disposizione solo termini che rimandano al particolare e al temporaneo? Sembreremmo essere alle prese con un assoluto, mettiamo la maiuscola a Bene, ma le nostre parole rimandano alla relatività di un ethos che nel suo significato originario è il posto in cui si vive (dunque ambito, contesto, che dà un senso a ciò che, fuor d’esso, ne ha un altro, o addirittura non ne ha alcuno) e a quella di mores che in radice sono misure dell’agire (e dunque ne caratterizzano il valore parametrandolo, dandogli significato in funzione di incidenza, distribuzione, frequenza, durata, ecc.).
Basterebbe questo a smascherare l’impostura che si cela nella cosiddetta teologia morale, «la scienza procedente dalla divina rivelazione che ordina gli atti umani alla beatitudine soprannaturale», dove già la definizione mostra un altro controsenso, perché la rivelazione cade giocoforza in un certo posto e in una certa epoca, e dunque non può esser recepita che nei modi dati come possibili in quel luogo e in quel tempo, cristallizzandosi in usanze, consuetudini, abitudini, che possono ragionevolmente trovare senso presso una tribù di pecorai sprofondata nel medioriente di due millenni fa, ma altrettanto ragionevolmente non trovarne alcuno altrove, né prima, né dopo.
È che, al pari della «legge di Natura», anche la «legge di Dio», che spesso le è coincidente per la cogente relazione tra Creatore e Creato, e che diventa addirittura inferenza di «immagine e somiglianza» nella Creatura, è un prodotto storico, precettistica che può pretendere obbedienza solo al perpetuarsi delle condizioni che l’hanno resa funzionalmente efficace quando è stata adottata. Dovrebbe bastare questo a rendere evidente che la pretesa di un sistema morale valido per tutti, sempre e ovunque, cela in realtà il disegno di perpetuare il tipo di società che l’ha prodotto, a dispetto di ciò che ineluttabilmente la trasforma.
Ma cosa la trasforma? In sostanza a trasformarla è l’insorgenza di nuovi bisogni, individuali o collettivi, che riescono ad acquistare forza fino a porsi come problemi, e a chiedere soluzioni adeguate, cioè conformi a una ratio, che, prima di essere ragione, è calcolo, misura, proporzione. A ben vedere, tutti i momenti dell’insanabile conflitto tra fede e ragione, cui tante anime pie si affannano vanamente a trovar rimedio, sono già tutti in nuce a questo inevitabile conflitto tra una morale che si pretende universale ed eterna e una morale che si dichiara autonoma e razionale: tra una morale che si esaurisce nelle interpretazioni della rivelazione, anzi nell’interpretazione che è stata capace di imporsi su tutte le altre, e una morale che trae consapevolezza (cum-sapio) interrogando la coscienza (cum-scio). Una morale, quest’ultima, specularmente opposta alla teologia morale, che – dicevamo – è «la scienza procedente dalla divina rivelazione»: qui è la scientia che procede dalla sapientia, che ovviamente è quella somma di Dio, ma è tenuta a procedere con la permanente assistenza della Chiesa, che «è il luogo della conoscenza dello Spirito Santo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 688).
La situazione cui Joseph Raztinger fa cenno nella prima delle tre parti di cui si compone il testo destinato alla pubblicazione su Klerusblatt fotografa il momento storico in cui la tradizionale soluzione del conflitto tra ragione e fede, da Tommaso risolta nell’assegnare alla prima il ruolo di ancella della seconda, comincia ad essere avvertita come inadeguata perfino nel mondo cattolico e, incredibile a dirsi, addirittura nella cerchia dei teologi morali, in particolar modo quelli di scuola tedesca. Il più autorevole esponente di questa scuola, Franz Böckle, sostiene che «la coscienza esige dall’uomo un giudizio ben fondato, perciò la decisione può essere presa solo sulla base di motivi ragionevoli [sicché] le norme morali insegnate dal Magistero obbligano solo nella misura in cui la coscienza viene convinta dalla ragionevolezza degli argomenti posti a loro sostegno». In sostanza, è come dire che sono valide solo le norme morali che la coscienza ritiene razionalmente fondate: un cattolico potrebbe rifiutarsi di obbedire ai precetti della Chiesa di Roma, laddove non ne fosse persuaso, in forza di quell’autonome Moral che non è mera opinione personale, ma rifiuto razionalmente argomentato dell’interpretazione che il Magistero dà del dettato evangelico; oppure, pur persuaso dell’interpretazione che ne dà il Magistero, potrebbe ritenere legittimo uno scarto tra principi generali e norme concrete.
Non è difficile immaginare come possano suonare questi tesi all’orecchio di chi, facendo propria la lezione di Tommaso, trova disobbediente pure il cattolico che segua, sì, gli insegnamenti della Chiesa, ma solo perché trova che essi coincidano con le proprie opinioni: l’obbedienza vera si realizza pienamente nel non averne di proprie, né prima, né dopo la ricezione del Magistero.
Qui possiamo cedere il racconto a Joseph Ratzinger: «Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose».
Si sarebbero rimesse a posto in questo modo: «Sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la concezione tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e, in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile “argomentazione biologista o naturalista” sarebbe presente anche in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in quelli riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale. In base ad una concezione naturalistica dell’atto sessuale, sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale. Ora, secondo il parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell’uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono che l’uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo “decidere il senso” dovrà tener conto, ovviamente, dei molteplici limiti dell’essere umano, che ha una condizione corporea e storica. Dovrà, inoltre, prendere in considerazione i modelli comportamentali ed i significati che questi assumono in una determinata cultura. Questa teoria morale non è conforme alla verità sull’uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice gli insegnamenti della Chiesa». (Veritatis splendor, 47).
Li contraddice, perché insinua che «la Parola di Dio si limiterebbe a proporre unesortazione, una generica parenesi, che poi solo la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni normative veramente oggettive, ossia adeguate alla situazione storica concreta [e questo non è ammissibile, perché] unautonomia così concepita comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate riguardanti il cosiddetto bene umano» (ibidem, 37), il quale deve essere considerato sempre uguale a se stesso e, ciò che più conta, avere una sola possibile interpretazione, che dunque non può essere messa in discussione perché sussunta nel depositum fidei...

Ops, stavo sforando il quarto dora. Torniamo all’avvincente derby fascisti-antifascisti su Twitter. 




martedì 7 maggio 2019

Tanto va il peplo a Cesarino che gli tocca la corsa in quadriga





«... segna e depenna Ben Hur...»


La laudatio funebris tratta il morto da faraone. Comincia con l’eviscerarlo, lasciandogli solo il cuore, sempre straordinariamente grande. Poi, lo imbalsama con una lunga serie di procedimenti retorici che gli conferiscono una fissità assai poco naturale, ma in compenso lo rendono profumatissimo. Quindi, lo ficca in un sarcofago sul quale ne è dipinto il volto, tanto idealizzato da risultare spesso irriconoscibile. Sempre riconoscibilissima, invece, la mano del ritrattista, che in questo modo cerca di scroccare al morto un’oncia dell’eternità cui mira il trattamento.
Tutto nelle migliori intenzioni, sia chiaro, perché corpo e memoria, senza adeguata procedura di conservazione, sono parimenti oggetto di decomposizione. Dopo la laudatio funebris, tuttavia, di quello che fino a ieri era un uomo – con quanto di contraddittorio e ambiguo c’è sempre in ogni uomo, e insieme di ineffabile e scontato, e di tragico e comico, e di dio e bestia (ingredienti fissi, da uomo a uomo cambiano solo le proporzioni) – resta solo una carcassa vuota, chiusa nell’affettazione di un mummificatore, spesso seriale.
Con Massimo Bordin l’operazione è stata assai più semplice, perché già in vita, almeno ai più, si offriva eviscerato d’ogni intimità, lasciando dietro di sé una profumatissima scia di balsamiche virtù, bello d’una bellezza già idealizzata di suo. Direi che lavorasse alla sua laudatio funebris da almeno un quarto di secolo, ma «direi» sta a cerniera tra quanto ha fin qui fatto da premessa e ciò che segue, perché una volta mi capitò di dirglielo, più o meno come l’ho detto qui: «Bordin, lei si sta costruendo il monumento da vivo».

Eravamo al Ghetto, da Piperno, alla seconda grappa postprandiale, e al tavolo si avvicinò un tizio sulla settantina per chiedergli se potesse avere l’onore di stringergli la mano, e stringendogliela disse quello che hanno detto tutti in questi ultimi giorni: «Mi sveglio con la sua voce, lei è la preghiera laica del mattino, ecc.». Ringraziò schermendosi con la sua abituale ironia: «Mi pagano», rispose, e il tizio parve estasiato dalla risposta, perché il commento fu: «Sublime!».
«Bordin, lei si sta costruendo il monumento da vivo», dissi appena il tizio si fu allontanato, e lui: «Allora mi toccherà il guano dei piccioni», e io, imitando il tizio appena andato via, cercando di farlo imbestialire: «Sublime!». Inutilmente. Come sempre. Tutt’al più scrollava il capo, come a esprimermi il suo biasimo. «Bordin, ho come l’impressione che certi suoi colpi di tosse siano studiati, come a mettere la firma sotto un passaggio che intende sottolineare», e lui: «Non me ne rendo conto, ma sì, può darsi». Una volta sola – fu quando gli rammentai la sviolinata che aveva fatto a Scalfaro nel ’91 per quell’assegno da cinque milioni a Radio Radicale che ipotizzai potesse spiegare perché di lì a poco Pannella si fosse speso per mandarlo al Quirinale – al biasimo diede forma compiuta: «Castaldi, lei è molto più stronzo di quanto si dice».

Non venimmo mai meno alla regola di darci del lei, tacitamente stipulata fin dal primo incontro. Fu all’Hotel Ergige, sull’Aurelia, al I Congresso di Radicali Italiani del 2002, che quell’anno, a differenza dei successivi, si tenne a luglio. Da qualche tempo mandavo letterine a Il Foglio che riteneva degne di infilare nella sua rassegna stampa accompagnandole a qualche commento che trovai inspiegabilmente lusinghiero. Solo qualche tempo dopo venni a sapere che quelle letterine avevano goduto dell’anticipo di simpatia che ai suoi occhi avevo guadagnato nei miei scambi con Welby sulle pagine del forum di radicali.it.
Mi è d’obbligo premettere gli estremi di quel primo incontro. Ero arrivato al web appena un anno prima e intrattenere rapporti con perfetti sconosciuti, ancorché di sensibilità affine alla mia com’era per i frequentatori di quel forum, mi dava le vertigini. Quel congresso era l’occasione per conoscerli di persona. Mettendo in conto il rischio di un impatto che avrebbe potuto sconvolgere le impressioni così pazientemente, seppur molto arbitrariamente, costruite su di loro, avvisai che sarei stato lì, ero curioso di sapere che faccia, che voce avessero.
Fu meno traumatico di quanto avessi temuto. L’unica sorpresa fu sentire: «Bordin ha saputo che sei qui, mi ha chiesto se ti conoscessi di persona e se ti avessi visto», e poi: «Ah, ma eccolo lì... Bordin, qui c’è Castaldi!». Ci venimmo incontro e a due passi di distanza, quasi avessimo concordato, ci scappò in sincrono la parodia di un reverenziale inchino.
Ci appartammo in una saletta a fumare due o tre sigarette, tempestandoci a vicenda di domande. L’incidente probatorio incrociato fu interrotto da qualcuno che ci annunciò: «Sta per parlare Pannella».
Qualche mese dopo, mi pare fosse a settembre, ero a Roma. Due o tre anni prima avevo scoperto una libreria in Corso Vittorio Emanuele che vendeva a prezzi stracciati giornali e riviste del tempo che fu e di tanto in tanto andavo a riempirci il trolley. Arrivo prima dell’apertura, intorno alle 8.30, e in cuffia ho il finale di Stampa e Regime. Lì mi salta in mente la cosa inopportuna: aspetto che la trasmissione finisca, telefono alla radio e chiedo di Bordin.
«Che sorpresa!».
«Tanta sfacciataggine sorprende anche me, comunque era che mi trovavo a Roma e mi chiedevo se per caso lei accettasse un invito a pranzo».
«Ma certo, con piacere».
«Per lei va bene a Santa Maria in Trastevere, alle 13.00?».

Prese strada a questo modo l’abitudine che per uno o due lunedì al mese durò per ben dieci anni. Poi c’erano i congressi e i comitati nazionali di Radicali Italiani, che a quei tempi, da direttore di Radio Radicale, non si poteva ancora concedere di disdegnare. Due o tre volte ci incontrammo a Napoli, e un Natale lo passammo assieme, a casa sua, con Teodori, Pellicani e relative signore, cena preparata dalla Bartoccelli, io e lui addetti allo sparecchio. Nonostante questo, non ho mai avuto l’ardire di considerarla un’amicizia e, se lo fu, avemmo entrambi il buon gusto di non farvi cenno: una premura di natura estetica, in tempi in cui l’amicizia è siglata con un clic tra due nickname. Per qualche tempo ci fu un po’ di reciproca confidenza, ecco, niente di più. Poi nel 2011 mi nacque un figlio, i lunedì romani appassirono di botto, le lunghe chiacchierate si striminzirono in sempre più laconici sms. La memoria del mio cellulare data l’ultimo scambio diretto al 10 gennaio 2016, una domenica: aveva contestato a Pannella l’uso del termine «magistratura» riferito a organi deliberativi e io gli rammentavo che nell’Antica Roma la figura del «magistratus» era associata alla funzione di governo. Uno indiretto, invece, l’ultimo in assoluto, data al 2 giugno dello stesso anno, quando su Il Foglio scrisse che uno solo era arrivato ad augurare la morte a Pannella, ma ora era forse tra i più dispiaciuti, perché si trattava di un «falso cinico»: fu la prova che ci eravamo del tutto persi di vista, perché né a Pannella avevo augurato la morte (mi ero limitato a twittargli che morire poteva essere un contributo a rimuovere un ostacolo alla formazione di un polo laico), né ero dispiaciuto fosse morto (e dunque «falso cinico» era un’offesa gratuita).

Leggo lermetico «segna e depenna Ben Hur» in Don Giovanni di Panella-Battisti in questo modo: «non sono l’eroe che credete, cancellate limmagine che vi siete fatti di me». Qui ho messo in esergo il verso a dar voce al Bordin che ho conosciuto io, assai diverso da quello dipinto sul sarcofago, più Oblomov che Bartleby. Ma è possibile che negli ultimi anni abbia voluto arrendersi a quellimmagine, si sa come va il mondo: tanto va il peplo a Cesarino che gli tocca la corsa in quadriga.

sabato 13 aprile 2019

Vi invitassero al Colosseo...


Ricordate la Giornata del Perdono? Fu celebrata nel corso del Grande Giubileo del 2000 e voleva dar da credere che Wojtyla intendesse ammettere le colpe che la Chiesa aveva cumulato fino ad allora lungo secoli e secoli di scempi ed efferatezze. In realtà, la Chiesa chiedeva perdono a Dio, non alle vittime dei suoi crimini, e di avere quel perdono era sicura, sicché chiederlo poteva ben ridursi a una formalità.
Si sarebbe pure chiuso un occhio – cosa pretendere da quel monumento allipocrisia che è la Chiesa? – se non fosse che Wojtyla esordì a questo modo: «Perdoniamo e chiediamo perdono!». Proprio così: prima «perdoniamo» e poi «chiediamo perdono». In quanto al pentimento, tutto si riduceva a questo insuperabile esercizio di eufemismo: «Chiediamo perdono per le divisioni che sono intervenute tra i cristiani, per luso della violenza che alcuni di essi hanno fatto nel servizio alla verità, e per gli atteggiamenti di diffidenza e di ostilità assunti talora nei confronti dei seguaci di altre religioni». I dieci volumi della Storia criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner sintetizzati in cinque righe.
Altre responsabilità? Non essere stati in grado di imporre il proprio credo a tutti in cambio di unostia ai sazi e di una ciotola di minestra ai morti di fame: «Dinanzi allateismo, allindifferenza religiosa, al secolarismo, al relativismo etico, alle violazioni del diritto alla vita, al disinteresse verso la povertà di molti Paesi, non possiamo non chiederci quali sono le nostre responsabilità».
Vi invitassero al Colosseo per guardare come i leoni sbranano un tal mascalzone, rifiutereste?

Troppo impegnato a scendere da un aereo per salire su un altro, Wojtyla non aveva tempo per scriversi i discorsi. Chi era il suo ghostwriter? Non si sapesse, basterebbe una scorsa al testo che Ratzinger ha di recente firmato per Klerusblatt per riconoscerlo come autore del discorso tenuto da Wojtyla diciannove anni fa: il modulo è lo stesso, la pedofilia di tanti preti pare più unoffesa a Dio che un crimine ai danni dei minori affidati loro; straziante sofferenza per ciò che il clero ha patito e patisce da imputato di abuso, favoreggiamento, connivenza, mentre alle vittime va a stento un pigro sospiro di rincrescimento, quasi fossero stati complici, in solido con chi ne ha devastato corpo e mente, nell’arrecare offesa al Sesto Comandamento.
Ripeto: vi invitassero al Colosseo per guardare come i leoni sbranano un tal mascalzone, rifiutereste?

[...]

[Non so se tornerò su questo testo: molto altro ancora andrebbe detto, ma in fondo Ratzinger è sempre uguale a se stesso, e su di lui ho detto tanto, per anni. Nel caso non ci tornassi più, vorrei segnalare un dettaglio che mi pare sia sfuggito a tutti: si firma «Benedetto XVI», come se ancora fosse assiso in trono. Dunque lasciate perdere quellipotesi di invito al Colosseo, le mancava una solida base: i leoni non mangiano merda.]

venerdì 12 aprile 2019

L’alito del coccodrillo


Se questa mia Le sembrerà fluviale, gentile Li Ruiyu, sappia che è solo perché in ossequio alla saggezza che trabocca da un proverbio delle Sue parti, quello che recita: «在告诉鳄鱼他的呼吸发臭之前你必须过河» («Devi attraversare il fiume prima di dire al coccodrillo che gli puzza l’alito»). In sostanza, vorrei intrattenerla su quel che accadde in Polonia tra il XVI e il XVII secolo, per mettere in guardia, tramite Lei, chi in Cina pensa di poter trarre qualche vantaggio da un accordo con la Santa Sede: se mi dà modo di illustrarLe quel che accadde, comprenderà quanto imprudenti siano stati i passi finora fatti dal Suo paese in tal senso. Tanto imprudenti da sollevare un dubbio: dov’è andata a finire la leggendaria lungimiranza del politico cinese che da come scoreggia il bruco – si dice – sa prevedere quali colori avrà la farfalla? E dunque.
Nei primi decenni del XVI secolo, la piccola e media nobiltà terriera polacca godeva di un’invidiabile condizione rispetto a quella del resto d’Europa, che invece già da qualche tempo pativa i primi effetti di quello che di lì a poco avrebbe preso piena forma di Stato assoluto. L’avanguardia di questo processo aveva testa d’ariete nella cattolicissima dinastia asburgica, che non aveva mai fatto mistero delle sue mire sulla Corona polacca. In difesa dei privilegi che fin lì erano riusciti a conquistare, i signorotti del latifondo polacco trovarono nella Riforma protestante il più naturale sbocco alla loro avversione agli Asburgo e al Papato che li spalleggiava, e così, intorno alla metà del XVI secolo, la Polonia divenne per tre quinti luterana.
Tutta sovrastruttura, Lei capirà, compagno Li Ruiyu, fatto sta che, nei venti, trent’anni successivi, col montare del sentimento di identità e di indipendenza nazionale, la cosa divenne sempre più marcata, convertendo al Protestantesimo anche la stragrande maggioranza dell’aristocrazia polacca, e appendicolare plebe tardo-feudale (o popolino pre-borghese che dir si voglia) a seguire.
Abituati, come oggi siamo, a considerare quello polacco un popolo che il cattolicesimo ce l’ha nel sangue, e da sempre, dà un poco di vertigine pensare a una Polonia che a quei tempi avrebbe di gusto impiccato il Papa con le budella dell’Asburgo, e tuttavia questa era la situazione: a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, i polacchi rimasti fedeli a Roma erano tre gatti, mentre nella vicina Ungheria, per ragioni in tutto simili a quelle fin qui descritte per la Polonia, per il cattolicesimo le cose andavano anche peggio, con qualche vescovo sgozzato e monaci a cagarsi addosso sotto il saio.
Robe brutte, gentile ambasciatore, ma proprio brutte brutte. Così brutte che, al confronto, le vostre robette ai tempi della Rivoluzione culturale possono essere tranquillamente rubricate come innocenti intemperanze.
Bene, Lei cosa si sarebbe aspettato da parte del Papato? Le do un aiutino? Il piano fu in tutto simile a quello che da qualche tempo è messo in atto con le autorità della Repubblica Popolare Cinese. Al momento Lei ne può vedere solo le premesse, per sapere come butterà in futuro ci tocca tornare alla Polonia di cinquecentoedispari anni fa.
Semplifico la cosa dando viva voce alla posizione della Santa Sede nei confronti della Corona polacca: «Vabbè, Maestà, è andata come è andata, la Polonia è protestante e rinunciamo alla pretesa del primato spirituale sul popolo polacco. Però, Maestà, noi siamo pure un’entità statuale: un minimo di relazioni diplomatiche dobbiamo averle, eccheccazzo! Faremo in questo modo, se Lei consente: daremo insegne di ambasciatore a quello che chiamavamo “nunzio apostolico” e che fino all’altrieri aveva la funzione di esattore per la riscossione delle decime dal gregge che ora ci è scappato per sei settimi dall’ovile; continueremo a chiamarlo “nunzio apostolico”, giusto per evitare le spese che ci comporterebbe cambiargli la carta intestata...».
No, vabbè, qui m’ingarbugliavo nel parallelismo, sarà il caso di continuare fuori dalle virgolette.
La richiesta fu accettata, d’altra parte che fastidio poteva dare un legato del Papa in un paese in cui il Trono era arrivato addirittura ad assumere il controllo sulla nomina dei vescovi? E qui viene il bello, perché da quel momento il Papa affida il da farsi in terra polacca alla Compagnia di Gesù. Tanto per intenderci, sono gli stessi anni in cui a Pechino cominciano a vedersi in giro «gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming». Quelli che sul finire del 1564 arrivano in Polonia sono vestiti da addetti di ambasciata, però, si sa, quando l’entità statuale sta in mano al capo di una confessione religiosa, va’ a capire dove finisce il temporale e dove inizia lo spirituale nel maneggio dei suoi funzionari. Puoi negare al signor ambasciatore di avere una biblioteca? Se glielo concedi, puoi negargli di averci dentro il personale che ordina, cataloga, copia, studia? E che differenza c’è tra un siffatto cenacolo culturale e una vera e propria scuola? Se c’è chi trova interessante le materie di studio, perché negare ai dotti chierici di strutturarsi in corpo docente e darsi assetto in collegio? E se non c’è nulla di male nell’avere un collegio di gesuiti tra un castello e l’altro, che male c’è nell’averne due? Ma poi che differenza c’è tra l’averne due e l’averne tre, o cinque, o sette, o undici?
Il bordo dell’unghia, l’unghia con tutta la falange, e il dito, e la mano, e il braccio – con la pazienza che il ragno mette nel tessere la sua tela, ecco che nel giro di dieci o quindici anni sulla Polonia si stende una rete di scuole che copre tutti i gradi d’istruzione presenti nella società del tempo. Scuole che ovviamente sono ad appannaggio dei rampolli della nobiltà, ma è quello il terreno più fertile in cui piantare idee che possono rivoltarti come un guanto il comune sentire di un popolo, almeno nel XVII secolo.
La faccio breve, gentile Li Ruiyu, ché ormai vedo il coccodrillo a una distanza di poche bracciate, e l’alito si sente: lo dico? Lo dico: in breve fu monopolio dell’istruzione e, nel giro di una generazione, la società polacca tornò più cattolica di quanto fosse stata un secolo prima, e sorvolo sulla fine che fecero i protestanti. Ha presente quella simpatica ambiguità della doppia fedeltà al Trono e all’Altare che dalla Lettera ai Romani, passando per la Lettera a Diogneto, ti trasforma un devotissimo a Maria, mosso da ardente amore per Gesù crocifisso, in un sindacalista di Solidarnosc, che con una mano sgrana il rosario e con l’altra piglia la mesata da monsignor Marcinkus? Ma sì che l’ha presente, via.
Chiudo con una domanda: ma voi cinesi siete sicuri-sicuri-sicuri di essere più previdenti dei polacchi? Non sia precipitoso nel darmi una risposta affermativa, ché nulla ci dà fretta.
Cordialmente, Suo


giovedì 11 aprile 2019

«Certi pregiudizi, diventati nazionali...»


«In Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», scrive Michele Serra (la Repubblica, 9.4.2019), sicché «eventuali eredi del vecchio Adolf avrebbero certamente provveduto a cambiare cognome», mentre «in Italia, si sa, le cose sono molto diverse», e il fatto che qualcuno, che di cognome fa Mussolini, non soltanto non abbia provveduto a cambiarlo, ma addirittura ne faccia motivo di vanto, al punto da servirsene per far politica senza altro merito da offrire (il riferimento, qui, è a un Caio Giulio Cesare Mussolini, che le cronache di questi giorni danno candidato alle prossime Europee nelle liste di Fratelli dItalia), è il più emblematico dei segni che qui da noi «i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de Lamica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dellorrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».

Due pregiudizi sono evidenti in questa analisi.
Il primo è relativo a quel carattere italiano che a ogni tentativo di definizione rivela essere mera invenzione letteraria, ma che secondo molti sarebbe il primum movens della nostra storia patria, le cui origini sarebbero di almeno sei secoli antecedenti all’Unità dItalia. Nel variegato spettro dei suoi tratti peculiari spiccherebbe un connaturato deficit di responsabilità individuale e collettiva, e allora ecco spiegata quellincapacità di fare i conti col passato che rimuove di ogni senso di colpa, rendendoci insensibili a tutto ciò che la evoca.
Tanto più deprecabile, questirresponsabilità, se si fa proprio anche il secondo pregiudizio, quello che nel fascismo vede «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» (Umberto Eco): tratti peculari anchessi del carattere italiano, se è in Italia che per la prima volta sono stati in grado di dar vita ad un regime politico.

[Nellepoca in cui la lotta ai pregiudizi metteva in discussione tutto, un illuminista ammoniva: «Certi pregiudizi, diventati nazionali, devono essere risparmiati da ogni uomo retto», e aggiungeva: «Chi si cura più del bene degli uomini che della propria gloria non farà trapelare la propria opinione su questi pregiudizi» (Moses Mendelssohn). Sulla pagina trovo un tratto di matita a sottolineare il «diventati nazionali» nella prima frase e, a fianco, un punto esclamativo: puoi anche staccar dal muro il crocifisso, ma non tazzardare a toccare lautopercezione di un popolo, soprattutto quando espressa da un moralista. Un punto interrogativo, invece, trovo a fianco alla seconda frase: che gloria ci si procura a mettere in discussione le convinzioni che non hanno saldo fondamento, ma che pure sono care a tanti? Lodio, piuttosto, o, peggio, il ludibrio. Proseguiamo, dunque, ma consci del rischio che si corre col mettere in discussione Michele Serra. I suoi sono pregiudizi «diventati nazionali», anzi, per meglio dire, sono pregiudizi già da tempo cari alla parte più qualificata della nazione, quella che al carattere italiano ha da tempo offerto occasione di riscatto con la sua «protezione paterna e padreternale» (Antonio Gramsci) alternando, alla bisogna, pietà e disprezzo, esortazione e biasimo. Proseguiamo con cautela, perché a voler proporre una tesi alternativa alla ragione per la quale in Italia i conti col passato non si sono fatti come in Germania, e a provarci suggerendo che nazismo e fascismo sono due cose assai differenti, il pericolo è grosso.]

Perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero»? La differenza sta tutta nella diversità caratteriale tra tedeschi e italiani? Non è possibile, invece, che la ragione stia in quella «profonda differenza» che Renzo De Felice segnala tra fascismo e nazismo, e che al netto di tutto ciò che li accomuna sul piano storico, destinando entrambi a una condanna senza possibilità di appello (sottolineo e risottolineo: condanna senza possibilità di appello), è innegabile sul piano culturale, su quello ideologico e soprattutto su quello psicologico? Non è possibile che proprio questa differenza possa spiegare quel che altrimenti si spiega solo facendo propri i pregiudizi paternamente e padreternalmente offertici da Michele Serra?
Rileggendo Intervista sul fascismo, più che possibile, pare necessario: fascismo e nazismo nascono da condizioni diverse, servono istanze diverse, e hanno diversa visione delluomo e del mondo, diversa rappresentazione della società e della storia, diversa dimensione psicologica in cui si muovono; diversa è la natura del rapporto che Duce e Führer mirano a stabilire con le masse, diverse le liturgie che allestiscono, diverso il disegno totalitario cui mirano; c’è più differenza tra nazismo e fascismo di quanto ce ne sia tra tedeschi e italiani, perché in ultima analisi il nazismo fu un tentativo di uscire dalla storia, in parte riuscito, mentre il fascismo fu un tentativo di progresso, platealmente fallito. Non è difficile capire cosa possa far più paura, dopo aver tentato, ed è questo che spiega perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «non sono stati mai fatti per davvero».


domenica 7 aprile 2019

Il lemma trendy





«I comunisti che stanno in carcere?
Sarebbero peggio dei fascisti. Perché almeno questi
sono dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa
le fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi
e le bestialità le fanno bene»

Vitaliano Brancati, Il bellAntonio



Anche se il nostro patrimonio lessicale comprende un numero di voci che il computo dei linguisti stima tra le 215.000 e le 270.000, raramente ci si imbatte in chi correntemente ne impiega più di 7.500, mentre in media se ne usano poco più di un migliaio, e il dato è in calo, perché negli ultimi decenni è considerevolmente aumentato il numero di quanti riescono a farsene bastare 300, a dispetto del tanto digitare sulle tastiere di pc, tablet e smartphone, da cui ci si poteva attendere che gli italiani traessero un arricchimento del lemmario personale, come solitamente accade quando la comunicazione si amplia e diventa più frequente. Attesa vana: si scrive assai più di un tempo, ma in una lingua sempre più povera, refrattaria alla scelta del più appropriato sinonimo di cosa, del verbo che dia precisione al vago fare, dell’aggettivo che chiarisca se con grande sia da intendere voluminoso o rilevante, abbondante o importante.
Ai lemmi d’uso più comune, ridotto a numero tanto esiguo, si aggiungono, però, di tanto in tanto dei termini che godono di un’improvvisa ed estesissima ancorché effimera fortuna, per riaffondare di lì a poco, più o meno lentamente, nelle profondità dell’inconsueto o del desueto dal quale erano stati pescati. In questo modo accade che in un discorso pubblico sempre più piatto e opaco, anonimo e incolore, caschi un termine che fin lì aveva avuto incidenza solo episodica, per giunta assai datata.
Si prenda fuffa, per esempio. Fino a vent’anni fa, era ignorata perfino dal Treccani e dal Sabatini-Coletti. La si trovava sul Devoto-Oli, dove però se ne contemplavano solo le accezioni di «merce dozzinale, ciarpame, paccottiglia» e di «chiacchiera senza alcun fondamento o significato», considerandola «voce onomatopeica di origine lombarda», con ciò disconoscendo il significato originario di «ingarbugliamento dei fili di una matassa» dal toscano «fuffigno», come correttamente segnalato solo dal De Mauro. Poi, d’un tratto, il termine appare in ogni dove, e così per due o tre lustri, mentre oggi, invece, s’usa assai meno. Diremmo stia lentamente scivolando nel démodé.
Démodé? Possiamo sussumere nelle leggi della moda il processo che traccia la parabola di popolarità di questi termini? Se sì, non è difficile capire cosa ne decreti il declino: il lemma non ha le caratteristiche necessarie per diventare un classico e, al pari del capo di vestiario che non riesce a diventare un must nel guardaroba, viene dismesso appena ha smesso di esser trendy. Ma cosa ne decreta il successo? Qui le leggi della moda sono imperscrutabili, consentono solo di essere intuite. Per fuffa, restando al nostro esempio, deve aver senza dubbio avuto un peso il fatto che il lemma suona bene, è insieme buffo e incisivo, dà efficace colore al suo significato. In tal senso si apparenta alla locuzione francese à gogo, che ebbe grande popolarità nei primi anni Settanta, basta sfogliare i quotidiani e le riviste dell’epoca per ritrovarsela dovunque. Ma cosa decreta il successo di termini che non hanno queste caratteristiche? Perché d’un tratto escono dall’ombra per vivere la loro breve stagione di gloria? Se mi si fa passare la metafora, accade che dal baule degli abiti sotto naftalina ne venga tirato fuori uno preconfezionato che riserva la piacevole sorpresa della vestibilità di quello su misura. Fuor di metafora: è la costellazione dei tratti che fanno il significato a cercare un significante, e a trovarlo, quasi per caso, scoprendolo sorprendentemente aderente. In altri termini, la realtà produce un evento, dà vita a un modello, si struttura in una situazione, che non riescono a farsi bastare nemmeno in perifrasi i 300 o i 1.000 lemmi più comunemente usati per darsi un’adeguata definizione; poi, all’improvviso, dal dizionario spunta il lemma che in due o tre sillabe riesce a darne la sostanza per intero.
Anche qui non sarà inutile ricorrere a un esempio. Prenderemo il termine cialtrone che da alcuni mesi furoreggia dappertutto.

Nella persona del cialtrone confluiscono ben sei caratteri, e tutti ben distinti, come è reso evidente dallimpossibilità di trovare sovrapposizione o interscambialità tra i relativi sinomini:
- è innanzitutto persona che mostra assai poca correttezza nei confronti del prossimo, e senza farsi scrupolo di arrivare al dolo (è imbroglione, mascalzone, furfante, lestofante, ecc.);
- né si dà cura nel conferire almeno un minimo di plausibilità all’impostura, che è lo strumento di cui fa più frequente uso (è impudente, volgare, sfacciato, villano, ecc.);
- impostura che è quasi interamente affidata alla sua ciarla (è linguacciuto, parolaio, vaniloquente, ecc.);
- un ciarlare che per lo più è un millantare (è spaccone, pallista, borioso, spocchioso, ecc.), e che si rivela tale nella vistosità di due difetti:
- il cialtrone è sciatto, trasandato, pasticcione, abborracciatore, ciabattone, ecc.;
-  ed è indolente, fannullone, poltrone, scansafatiche, ecc.
Detimo incerto, cè chi ipotizza sia un incrocio tra ciarlone e poltrone (De Mauro, Devoto-Oli, Casalegno-Goffi), ma è evidente che la sua persona non possa esaurirsi in questi due soli aspetti, sicché, se fosse esatta lipotesi, si dovrebbe supporre che la persona del cialtrone sia venuta a costruirsi attorno a quel nucleo. Cosa le avrebbe conferito il resto? Dar carriera a quei due vizi morali: da ciarlone farsi ciarlatano, riscoprire in poltrone la variante di paltone (accattone), diventare impostura ambulante per il mondo, tra immeritate fortune e rovinosi rovesci, per guadagnare linfamia della persona «di volgarità sudicia e moralmente vile» (Tommaseo), «volgare e spregevole, priva di serietà e correttezza nei rapporti umani o che manca di parola negli affari» (Devoto-Oli), che «ricorre a trucchi scoperti per giustificarsi» (Sabatini-Coletti).
Tanto scoperti, i suoi trucchi, da rendere di regola la sua impostura assai irritante, ma talvolta anche divertente. Nel primo caso, il cialtrone è sentito come minaccia sociale, perché della risma dei gabbapopoli (un esempio ne Il viaggio di un ignorante di Giovanni Rajberti, del 1854, dove il cialtrone è per la prima volta accostato al populista, ovviamente ante litteram); nel secondo, la maldestrezza dei suoi mezzucci muove a una sorta di tenerezza (si pensi al «sofisticato cialtrone» affibbiato a Vincino nel necrologio de Il Foglio). Diremmo che labiezione che bolla il cialtrone mira a condannare innanzitutto loffesa che ci fa col ritenere di poterci abbindolare con eccessiva facilità: è un impostore che sottovaluta le nostre capacità di difesa allimpostura, e dunque merita due volte il nostro disprezzo.

Qui possiamo richiamare lassunto relativo alle ragioni che decretano limprovviso ed enorme successo che un termine inconsueto o desueto viene a riscuotere in un determinato momento, chiedendoci quale sia levento, il modello, la situazione che trovano in cialtrone la felice soluzione lessicale. Domanda superflua, basta considerare in quale contesto si registra la più frequente ricorrenza del termine: cialtroni sono i grillini: imbroglioni e villani, parolai e spacconi, fannulloni e pasticcioni.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrà dare un senso al brano tratto da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati posto in esergo, chiedersi se la soluzione lessicale, di cui qui si è cercato di spiegare la ragione, non esprima nel profondo un bisogno di «bestialità fatte bene»