sabato 20 agosto 2011

L’estremo rifugio nel mistero

La sacrosanta protesta degli indignados, il bacio collettivo dei chicos, i cartelli di denuncia delle vittime degli abusi sessuali commessi da preti cattolici ai danni di minori nelle diocesi di Valencia e di Segovia-Castellón, le presenze anche stavolta assai inferiori a quelle registrate dalle GMG ai tempi Giovanni Paolo II – tutta roba che si può far finta di non vedere. Poi arriva un bambino su una sedia a rotelle, malato di cancro, e in apparenza sembra voglia solo vedere Benedetto XVI da vicino, toccarlo, farsi fare una carezza. E invece gli mette in mano un bigliettino sul quale ha scritto: “Santo Padre, se Dio è buono e onnipotente, perché permette che malattie come la mia colpiscano persone innocenti? Se non mi risponde, mi darà una grande delusione perché sono anni che mi pongo questa domanda”. Ed ecco che ci sarebbe davvero da sprofondare sotto terra, improvvisamente nudo della grande menzogna di cui si è sommo sacerdote. Anche qui, però, si può far finta di non vedere, di non sentire, si può eludere la questione riponendola nel mistero, l’estremo rifugio di una faccia di culo vecchia di due millenni.
Sappiamo già cosa risponderà Zia Pina, dirà più o meno ciò che disse alla bambina giapponese che in aprile gli chiese del perché Dio avesse permesso la morte di tanti bambini come lei sotto un’onda alta dieci metri: “Anche a me vengono le stesse domande… E non abbiamo le risposte… E rimane la tristezza… E un giorno capiremo…”. E per dare una risposta del genere, che poi, al netto degli orpelli teologici, è proprio quella cristiana e cattolica al perché del male – per rispondere “non so, però un bel dì ci sembrerà tutto bello, buono e giusto” – c’è bisogno di essere visitati dallo Spirito Santo? Sulle sofferenze degli innocenti costruire la mostruosità di un Dio che se ne nutre? Ma tienitelo per te un Dio così, non puoi essere meno mostruoso di lui. Se pure esistesse – ma non esiste – varrebbe la pena di sputargli in faccia e andarsene contenti all’inferno. D’intanto porgi la guancia e prendi questo sputo per lui.



Più di un editoriale

Si consoli con la musica

Cominciamo col dire che “oogenesi” era corretto e cambiarlo in “ovogenesi” non era necessario. Poi diciamo che la risposta elude il problema da me posto, riducendolo a questione “grammaticale”. E questo è disonesto, perché io chiedevo, in ordine: (a) ma ’sto cazzo di musicologo che si diletta di embriologia sa di cosa parla se confonde la meiosi con la fecondazione? (b) suppongo che leggiate quello che mandate in pagina: devo dedurre che un errore ripetuto tre volte vi sia scappato tre volte o che anche voi ignoravate il significato di meiosi? (c) la mia lettera è stata spedita alle 7,47 di giovedì 18 e su Il Foglio di venerdì 19 non c’era ancora alcuna rettifica dell’errore, né da parte vostra, né da parte di qualche lettore, anzi, la rubrica delle lettere aveva come titolo “Note sul formidabile manifesto anti aborto di F. M. Colombo”: a me pare formidabile soltanto il fatto che nessuno tra i 7-8 redattori e i 7-8.000 lettori de Il Foglio abbiano notato lo strafalcione. (Qui ho una mezza idea: quando Il Foglio e i foglianti si danno alla liturgia antiabortista, perdono il lumicino dell’intelletto. Come ai patiti della messa in latino si può tranquillamente rifilare un brano di Cicerone, così a chi vorrebbe abrogare la legge 194 si può tranquillamente rifilare uno “zigote nel momento in cui la meiosi l’ha prodotto”.)
Poi ci sarebbe da parlare del “manifesto”, che in realtà, come ho già scritto sul mio blog (glielo consiglio: senza godere di finanziamento pubblico, ha più lettori del suo giornale), è il solito temino scritto col sentimento, zeppo dei luoghi comuni cari ai nemici della legge 194, nel quale lo strafalcione sulla meiosi si incastona a meraviglia. Lei ne spreme il succo scrivendo che, “quando un maschio e una femmina si accoppiano, il risultato è un bambino, anzi, quel bambino”, e che “l’insorgere della persona è il frutto di una copula”. Bene, questo le sembrerà espressione di “un pensiero forte, realista, autoritativo e veritativo”, ma in realtà si tratta di affermazioni rozze e superficiali, che non fondano alcuna verità. Infatti, quando un maschio e una femmina si accoppiano non sempre il risultato è un bambino: anche quando avviene la fecondazione, il risultato è assai spesso un aborto spontaneo. Dire, quindi, “quel bambino” è una retroproiezione. Tutto questo, ovviamente, se parliamo del maschio e della femmina della specie umana, sennò, “quando un maschio e una femmina si accoppiano”, il risultato può essere anche un bacarozzo.
Altrettanto rozzo e superficiale, dunque, è affermare che “l’insorgere della persona è il frutto di una copula”: tra copula e persona ci sono di mezzo molti passaggi, né sufficienti, né necessari. Qualunque definizione si possa dare di “persona”, infatti, non si dà nel frutto di una copula che generi un essere inadeguato ad assumerla, come è nel caso di un feto anencefalo o di una mola vescicolare, che pure hanno una identità nuova e distintada qualunque altra. In realtà (questa sì vera realtà, di là da interpretazioni retroproiettive), si ha persona solo se (e quando) il prodotto della fecondazione arriva a raggiungere un grado di sviluppo tale da renderla possibile. Prima di tale grado non si ha bambino, se non nelle aspettative, ma un feto. E fuori da tali aspettative un feto è un feto, non è ancora persona. Potrebbe non diventarlo mai. Può dispiacere, ma è così. Si consoli con la musica.

La presente replica non le sarà inviata, perché anche in questa occasione lei dimostra palesemente di non essere in grado di sostenere uno scambio di opinioni: elude le questioni sollevate e si rifugia in sciatti luoghi comuni che pretende siano considerati tabernacoli di verità. E in fondo questo spiega perché sul suo giornale vadano in pagina stratosferiche cazzate come quelle di Francesco Maria Colombo sulla meiosi, se solo soddisfino il requisito di foderare i luoghi comuni contro l’aborto di soffici sentimentalismi.

venerdì 19 agosto 2011

giovedì 18 agosto 2011

La domanda malvagia


Come fare cassa? Tagliare gli sperperi, innanzitutto. Il 15 luglio scrivevo: “Una voce mai neppure presa in considerazione è quella che fa dell’Italia il maggiore finanziatore di una confessione religiosa: tra contributi diretti e sgravi fiscali, il Vaticano costa ogni anno all’Italia circa 4 miliardi di euro”. Ma subito aggiungevo: “Questo onere è da considerare un salasso inevitabile, visto che la Casta ecclesiastica è ancor più intoccabile di quella della classe politica” (“Il paese è grato al parlamento” - Malvino, 15.7.2011). 
Un mese dopo, mostrando un’ingenuità che non ci si aspetterebbe da commentatori tanto acuti, Massimo Gramellini, Beppe Severgnini e Filippo Facci hanno fatto l’errore di sollevare il problema. O forse l’avranno fatto solo per saggiare l’intoccabilità della Casta ecclesiastica. Se è così, la prova ha dato esito positivo, perché la loro voce è caduta nel vuoto, come se rivedere i privilegi di cui gode la Chiesa in Italia fosse un’idea indecente, tutt’al più provocatoria, buona solo a costruire un brillante corsivo. A destra, al centro e a sinistra non s’è sentita voce di un solo uomo politico che ritenesse degna d’attenzione la questione sollevata dai tre, e le stesse gerarchie ecclesiastiche hanno pensato bene di non darvi troppo peso, per lasciar scivolare la cosa nella generale indifferenza. Quando scrivevo di un “salasso inevitabile”, mi riferivo proprio a questo: alla impossibilità del metterlo in discussione.
A onor del vero, tuttavia, bisogna segnalare un cenno di fastidio, pigro e strafottente, da parte del giornale della Cei, che con un editoriale di Umberto Folena liquida l’idea di un taglio dei mostruosi privilegi dei quali godono le gerarchie ecclesiastiche nel nostro paese come lo schizzo cattivo di un laicismo che intende eliminare ogni presenza sociale e pubblica della Chiesa” (Avvenire, 18.8.2011).
Siamo alle solite. A trattare la Chiesa come una qualsiasi realtà sociale, la si uccide, o almeno così la si sente lamentare. In quanto al merito: “Fa caldo, non vogliamo dare ai nostri lettori ulteriori motivi per sbuffare. L’abbiamo scritto e riscritto fin troppe volte, dati alla mano contrapposti a vaghe stime senza fonte . I dati alla mano sarebbero quelli offerti dallo stesso Umberto Folena in un libercolo di 80 pagine (La vera questua), scritto in risposta a La questua di Curzio Maltese, nel quale, come oggi e come sempre, non si dà vera risposta alla domanda: perché la Chiesa non deve pagare le tasse che pagano tutti gli altri? Semplicemente  si elude la domanda, liquidandola come malvagia.

Logo e Logos


“Accortosi che volevano rapirlo per farlo re, Gesù si ritirò in solitudine sulla montagna”

Gv 6, 15


mercoledì 17 agosto 2011

“È contro i nostri principi”


Quando lo stato vuole ficcare un sondino in gola a chi non vuole, piazzare un prete a sentinella di uteri ed ovaie, schierare motovedette in mare a difesa della razza, Marcello Pera non si sente o, se si sente, è per spiegarci che la vita è indisponibile, che l’ovocellula fecondata è persona e che il meticciato insidia l’occidente. Quando però “lo stato vuole mettere le mani nelle nostre tasche”, ecco che si sveglia il liberale e grida al tradimento: “È contro i nostri principi”, sottinteso: “principi liberali” (Libero, 17.8.2011). Sarà che arriva alla Facoltà di Filosofia dall’Istituto di Ragioneria, via banca e camera di commercio, sicché il liberalismo gli è venuto guercio.

Francesco Maria Colombo, musicologo


“Con la fecondazione e l’unione dei corredi cromosomici dei nuclei dei gameti maschili e femminili – scrive Francesco Maria Colombo, musicologo – si crea una cellula dotata di un corredo cromosomico completamente nuovo”, e questo è giusto. Poi aggiunge: “Prima non c’era, dalla meiosi in poi c’è”, e questa è una cazzata stratosferica, perché la meiosi non è il processo che porta alla formazione dello zigote, ma a quella dei gameti, cioè di ovocellule e spermatozoi. Non è una svista, perché si insiste: “Con la meiosi avviene un reset del corredo genetico e si genera un’identità nuova, distinta da qualunque altra”. E a fugare ogni dubbio sul fatto che il musicologo abbia le idee confuse sull’argomento, si arriva al punto in cui troviamo “lo zigote nel momento in cui la meiosi l’ha prodotto”. È come se un biologo affermasse che una semibiscroma ha un valore pari a 64 semibrevi.
Siamo sulla prima pagina de Il Foglio, che sull’embrione, dopo aver dato voce ai preti, adesso la dà ai critici musicali, poi probabilmente sarà la volta dei patiti di filatelia, degli arrotini o dei maestri di ikebana. Quello di Francesco Maria Colombo è presentato come un manifesto, ma in realtà è il solito temino scritto col sentimento, zeppo dei luoghi comuni cari ai nemici della legge 194, nel quale lo strafalcione sulla meiosi si incastona a meraviglia.
“Io, tu, tutti siamo stati uno zigote… Tutti noi abbiamo attraversato lo stadio blastemico… Tutti noi siamo stati, a un certo punto della nostra storia, un essere umano che poteva impunemente essere ucciso…”. E se non bastasse il repertorio delle strazianti suggestioni letterarie del narcisismo squisitamente retroproiettivo, che fonda la persona dove non ce ne sono i requisiti, ecco l’immancabile foto dei simpatici freak che “io, tu, tutti” potevamo essere, eugenetica permettendo: “due donne palesemente minorate e malformate”, by Diane Arbus.
Cose così, alla Ferrara. Quando vuole distrarci dai suoi imbarazzi, ci parla di aborto.




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Riflettere


La reazione di Nicola Zingaretti è stata pronta: “Non possiamo tacere sulle parole e sui paragoni sprezzanti rivolti dal leader della Lega nei confronti del senatore a vita e Premio Nobel, Rita Levi Montalcini, uno scienziato di valore internazionale, uno dei cervelli più acuti del mondo, una donna impegnata che tutti ci invidiano”. Reazione pronta, ma istintiva e del tutto immotivata, perché Umberto Bossi si era limitato a dire: “Fino a che c’era Fini era più facile governare, ma, quando si ha bisogno, ci si regge con quello che si può trovare, e allora è meglio Scilipoti che la Montalcini”. Solo enucleando l’ultima parte della frase abbiamo un “paragone sprezzante” che offende la Montalcini, mentre il contesto rende chiaro che l’offesa, peraltro involontaria, è indirizzata a Scilipoti, al quale va l’unica stima di tornare utile col suo voto di fiducia al governo.
Ora, senza dubbio Bossi è una bestia, ma qui è Zingaretti a ricavarci una figura da cane, di quelli utilizzati da Ivan Pavlov per i suoi esperimenti sul riflesso condizionato.



martedì 16 agosto 2011

Ferragosto


Devo correggere un inestetismo nel quale sono incorso in uno dei post qui sotto, scrivendo “ferie di Ferragosto”. Si tratta – insieme – di un pleonasmo e di un bisticcio, perché Ferragosto ha già in sé l’essere feriae, per la precisione feriae Augusti, perché istituite appunto da Cesare Augusto, quasi mezzo secolo prima che Cristo pronunciasse la famosa frase: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, un’altra delle ambigue sue, quasi tutte escogitate per salvare il culo dai severi custodi del Tempio (fatica sovrumana e alla fin fine inutile). Festa eminentemente laica, dunque, ma alla quale i cristiani, per il loro malvezzo di parassitare tutto il parassitabile, hanno voluto sovrapporre la Festa dell’Assunta, che celebra peraltro il più cretino dei dogmi, l’ultimo in ordine cronologico, che vuole sia accettata per fede l’assunzione in cielo di Maria, viva, in carne e ossa, priva di capsula depressurizzata, e tuttavia non esplosa in aria intorno agli ottomila piedi.
Me lo rammenta il cardinal Ravasi che con la sua immarcescibile faccia di cazzo, dalla Domenica de Il Sole-24 Ore (via Luca Massaro), se ne esce con una robetta del tipo: “Si preferisce la terminologia più neutra [*] di  «Ferragosto», ma un po’ tutti sanno che il calendario reca domani la titolatura «Assunzione della Beata Vergine Maria», e via col suo consueto scacazzare citazioni dotte, come è tipico dei preti che hanno urgenza di segnalarsi al di sopra della infima e nota media.
Il dogma che scippa a Cesare quel che non è Dio è del 1950 e come gli ultimi (l’infallibilità del papa, nel 1870, e l’immacolata concezione nel 1854) viene nei momenti in cui la Chiesa è in difficoltà col mondo che le cambia d’intorno: lì la Grande Meretrice sente l’irresistibile bisogno di arroccarsi nell’assurdo e di chiamare alla prova chi ha paura di restare scoperto dalle sue natiche. Accadde pure del 1950. Finita la guerra, il mondo riprese il gusto di andare a rilassarsi al mare. I costumi da bagno diventavano succinti... 


[*]  “Più neutra”, un cazzo: è la terminologia originaria, Eminenza.

 

Erano promesse da marinaio


Di fronte all’impossibilità di onorare gli impegni assunti col programma che ha sottoposto all’approvazione degli elettori, ottenendola, un governo dovrebbe dimettersi. A maggior ragione, dovrebbe dimettersi di fronte all’eventualità di essere costretto a fare tutto il contrario di quanto fosse negli impegni presi, vuoi per congiuntura non prevista, che a posteriori è prova della debolezza del programma, vuoi per forza maggiore, che a priori è prova della debolezza del governo: in entrambi i casi sarebbero venute le premesse sulle quali fondava il patto tra rappresentati e rappresentanti, che dunque andrebbe rinnovato. Naturalmente questa regola non vale quando il programma elettorale è poco più un depliant pubblicitario.
Quello che il Pdl presentò nel 2008 agli elettori prometteva “meno tasse sulla famiglia, sul lavoro, sulle imprese”, “più consumi, più produzione, più posti di lavoro”, “più entrate nelle casse dello Stato per aiutare chi ha bisogno, per realizzare le infrastrutture, per diminuire il debito pubblico”. Era quanto Silvio Berlusconi prometteva dal 1994 senza mai essere stato in grado di mantenere, probabilmente senza neanche averne l’intenzione: il patto tra elettori e governo era far finta di crederci sapendo che non sarebbe stato ragionevole aspettarsi troppo. E dunque non ha senso chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, forse neanche è giusto, tanto più che alternative di governo non sono oggi immaginabili più di quanto fossero alla caduta del governo Prodi. È la mancanza di una credibile alternativa a questo governo che obbliga a non tener conto della patente contraddizione tra il programma presentato agli elettori nel 2008 e le decisioni prese dal Consiglio dei Ministri in questi giorni.
Sarà penoso e senza dubbio superfluo, ma occorre ribadire che ogni paese ha il governo che si dà e che in fondo merita. Poi, però, c’è chi pretende di strafare.

C’è chi pretende di rinsaldare il patto tra paese e governo sul mancato rispetto del programma elettorale. “Crediamoci ancora”, esorta Alessandro Sallusti (il Giornale, 14.8.2011). Ma è sempre possibile far meglio (o peggio, secondo i gusti) e allora ecco Giuliano Ferrara, l’intelligentissimo, che non cede alla constatazione della congiuntura non prevista o dell’evenienza di forza maggiore. Via, siete italiani, siete della pasta di Silvio Berlusconi, anche voi fate promesse in quasi buona fede, dovendo crederci per darlo a credere. Siate indulgenti, dunque. Prim’ancora che verso il governo, verso voi stessi: il patto sia rinnovato sulla necessità della menzogna e dell’inganno.
“È un imbroglio ideologico dire che il governo si è accanito sul ceto medio, mettendo le mani nelle tasche degli italiani contrariamente alle promesse fatte da Berlusconi… Era una promessa da marinaio escludere, appunto «tassativamente», che il governo Berlusconi potesse mai prelevare quattrini dalle nostre tasche a fronte del debito pubblico al 120 per cento e in circostanze di crisi finanziaria generale particolarmente pericolose per l’Italia. Temeraria la promessa, enfatica e grossolanamente demagogica la delusione… Date le circostanze, probabilmente non si poteva agire altrimenti, e Padoa Schioppa o Bersani non avrebbero fatto niente di diverso da quello che hanno fatto Tremonti e soci…” (Il Foglio, 15.8.2011).
La constatazione che Silvio Berlusconi abbia chiesto voti nel 2008 proprio per “agire altrimenti” sarebbe recriminazione “ideologica”, e la pretesa che il patto tra rappresentati e rappresentanti sia espresso da un programma di impegni sarebbe “demagogica”. Ecco che ad essere “demagogica è la democrazia, e il demagogo è un povero cristo non diverso da voi, come potete impiccarlo alle sue promesse? Erano promesse da marinaio, i navigati non potevano non saperlo. Gli altri? Dei poveri stronzi. Vi conviene non essere fra questi ultimi e non dar luogo a delusioni enfatiche. Avete votato il Pdl? Il programma era un elenco di promesse impossibili da realizzare, dite che lo sapevate, così non avrete bisogno nemmeno di sforzarvi nel “crederci ancora”. Farete un figurone.

domenica 14 agosto 2011

Cucù

Se c’erano guardie del corpo a proteggerla, non erano riconoscibili. Aveva un tailleur nero, forse antracite, che sembrava preso ai grandi magazzini, e anche a dieci metri di distanza mostrava tutte le sue rughe e due grosse borse sotto gli occhi color cenere. Nell’insieme dava l’impressione di una preside e tuttavia, sforzandosi, si doveva riconoscere in lei il Cancelliere della Germania, la donna che qualche giorno fa ha potuto annunciare ai tedeschi un’ulteriore riduzione del deficit e un significativo taglio delle imposte, robe che da queste parti non si promettono, ma – appunto – si annunciano. Sarà stata l’occasione – si commemorava la costruzione del Muro di Berlino, stamane, in Bernauerstrasse – ma Angela Merkel aveva un sorriso sospeso in un indugio, come trattenuto, e forse nemmeno era un sorriso.
Da italiano fuggito dall’Italia con la scusa delle ferie di Ferragosto, non ho potuto fare a meno di pensare che era la donna alla quale, non più di qualche anno fa, Silvio Berlusconi faceva cucù. Settanta chili di merda insaccati in un Caraceni, la quintessenza del cretino di successo, il furbo che ora annaspa nel suo bavoso sentimentalismo, faceva cucù questa opaca democristianona che guida la prima economia d’Europa. Dio, fammi morire qui.

venerdì 12 agosto 2011

giovedì 11 agosto 2011

La cosiddetta rivolta



In relazione ai disordini che hanno funestato il Regno Unito in questi giorni, si dovrebbe innanzitutto evitare l’uso del termine rivolta. Si è trattato senza dubbio di violenza collettiva, ma ad essa mancava l’unità di causa e di fine che nel moto rivoltoso è una costante. In quanti danno vita a una rivolta, infatti, potremo riscontrare quasi sempre ragioni diverse, variamente articolate, addirittura contraddittorie, e scopi differenti, differentemente espressi anche quando comuni, e anche qui contraddittori, ma che sono sempre componenti di un vettore univoco: date tutte le variabili, la rivolta ha sempre causa e fine nel potere costituito (o in una sua rappresentazione) che intende mettere in discussione.
È per questo che una rivolta ha sempre una parola d’ordine che mira a reclutare forze, anche quando è solo implicita nei simboli che produce. Anche quando è velleitaria, la rivolta si dà come mezzo. Anche quando degenera in follia collettiva e si esaurisce nella drammatizzazione di basse pulsioni istintuali, la rivolta non perde mai di vista, o almeno mai del tutto, l’interlocuzione col potere costituito (o una sua componente).
Tutto questo non è accaduto nel Regno Unito, anzi, tutto ciò che ha sembrato giustificare l’uso del termine rivolta – la protesta contro un presunto abuso delle forze dell’ordine – si è da subito rivelato inconsistente, buono tutt’al più a offrirsi come pretesto. Nel Regno Unito non è accaduto altro che quanto abbiamo visto a New York, col black out del 1977.
E anche stavolta è stato fatto lo stesso errore di analisi, per fretta, pigrizia intellettuale, cedevolezza a suggestioni di comodo, secondo questo o quel comodo. Così abbiamo sentito madornali paragoni con le rivolte di Tunisia, Egitto, Libia e Siria, perfino con gli indignados di Madrid. Giacché il teatro dei disordini erano i suburbs, c’è chi ha pensato di poter vedere un analogo con le banlieues. E naturalmente c’è chi ha visto Londra stretta nel tristo nodo di “multiculturalismo”, “relativismo” e “islamismo” (Roger Scruton – Il Foglio, 10.8.2011). Non c’è stato nulla che autorizzasse tali congetture: i teppisti erano bianchi, neri e asiatici; indigenti, ma non solo; ragazzini, ma anche quarantenni; in gang, ma anche individualmente; miravano al saccheggio di beni di lusso, non erano espressione della “rabbia sacrosanta” dei morti di fame (Paolo Flores d’Arcais – Il Fatto Quotidiano, 10.8.2011), né erano parte del fronte di “un fenomeno di portata continentale” (Nichi Vendola – il manifesto, 10.8.2011).


[...]




mercoledì 10 agosto 2011

“Guardate come ce l’ha piccolo! Guardate come ce l’ha moscio!”



Non so se conoscete quella dell’avvocato che difende un novantenne accusato di stupro. Storiella scema, ma oggi può tornarci utile. E dunque, l’avvocato fa abbassare i pantaloni al suo cliente, gli prende in mano il pene grinzo e flaccido, lo mostra alla giuria e chiede: “Ma vi pare che con un pene simile si possa commettere uno stupro?”. Qui, avendo colto sui volti dei giurati l’effetto desiderato, già certo dell’assoluzione dell’imputato, si accalora nell’arringa: “Guardate come ce l’ha piccolo! Guardate come ce l’ha moscio!”, e accalorandosi scuote e strapazza il pene del suo assistito. Fino a quando quello gli sussurra in un orecchio: “Avvocato, io direi di smetterla, sennò perdiamo la causa”.

Bene, con Ferrara che difende Verdini, ci troviamo in situazione analoga: Verdini avrebbe dovuto attenersi a un codice di prudenza, di riservatezza e di astensione da pressioni e richieste di informazioni che le intercettazioni, unico riscontro probatorio in campo, segnalano. Ma tutto questo cos’è? E’ un processo serio per associazione a delinquere, basato su reati accertati, cose realizzate, ipotesi chiare di concussione o di ostruzione della giustizia? […] C’è per Verdini qualcosa di diverso da una eticamente discutibile propensione a mescolare politica e lobbismo? C’è un reato? Occuparsi del lodo Alfano, cercare di sapere in anticipo gli orientamenti della Corte, dare spazio a qualche più o meno goffo o sinistro maneggione che assicura di essere in possesso di contatti utili, è reato? Il familismo amorale, in un caso, e la spregiudicatezza nel raccogliere informazioni sensibili intorno al contenuto decisivo della politica contemporanea, e cioè l’orientamento delle Corti in fatti di alta politica istituzionale, sono comportamenti criminali, integrano il reato associativo, già di per sé molto discutibile, con le severe conseguenze del caso? Promuovere l’eolico con un paio di telefonate di raccomandazione a un presidente di regione del tuo partito e un invito a pranzo di piccoli uomini d’affari, senza peraltro realizzare alcunché, è roba da benefattori dell’umanità o roba da gangster?” (Il Foglio, 10.8.2011).

“Basta così, Giulia’, basta così – sembra di udire il povero Denis sennò conviene andare a patteggiamento”.


Chessò, una proctite acuta

Benedetto XVI non viaggia a spese sue – abitudine da parassita, ma ormai tanto inveterata da sembrare un onore concesso al parassitato – e il viaggio che tra qualche giorno lo porterà in Spagna costerà 60 milioni di euro: a un paese che di certo non naviga in buone acque. Dopo aver faticosamente spiegato agli spagnoli che dalla crisi economica non si esce senza i consistenti tagli al welfare decisi dal governo su pressione dei partner europei, non sarà facile trovare una spiegazione decente a questo indecente sperpero di denaro pubblico. Quelle spagnole sono state le proteste più pacifiche finora viste in Europa a fronte di analoghi provvedimenti di “macelleria sociale”, e a tutt’oggi sembrano in gran parte sopite, per stanchezza o rassegnazione: il viaggio di Benedetto XVI potrebbe risvegliarle e stavolta renderle assai più agguerrite, condannabili, se vogliamo, ma comprensibili, perché dopo l’indignazione viene quasi sempre la rabbia.
Ecco, io mi permetterei di suggerire a Sua Santità di dare una prova di somma saggezza: trovi una scusa – chessò, una proctite acuta – e annulli il viaggio. Potrà comunque assicurare la sua presenza alla Giornata Mondiale della Gioventù, ma in videocollegamento: la vocina da proctite acuta ce l’ha già di suo, di bugie non sarebbe la prima e certo non arrossirebbe. Insomma, potrebbe funzionare, e comunque non sarebbe meno credibile del solito. Eviterebbe di prestarsi a pietra di un enorme scandalo e potrebbe addirittura conquistarsi la simpatia di qualche indignato.

martedì 9 agosto 2011

“Una multinazionale sicuramente onesta”.


“All’ammalato sembra amaro ciò che mangia, mentre per chi è sano
è ed appare il contrario. Non bisogna considerare nessuno dei due
più sapiente dell’altro, né si deve affermare che l’ammalato è ignorante
perché ha tale opinione, o che il sano è sapiente perché ne ha una diversa…
Ciò che il medico fa con i farmaci, il sofista fa con i discorsi”

Teeteto, 166E-167A  

Protagora, il sofista, avrebbe trovato assai ficcanti le meditazioni di Ivo Silvestro sull’omeopatia. Almeno a quanto Platone ci illustra nel Teeteto, infatti, sull’omeopatia Protagora sarebbe stato altrettanto indulgente. Prendendo le difese di un Boiron – i sofisti erano filosofi, ma anche un po’ avvocati, quasi sempre difensori di imbroglioni – Protagora avrebbe cominciato col minare il pilastro dell’accusa: “L’omeopatia è un imbroglio?”, avrebbe chiesto, e infatti così chiede Ivo Silvestro, aprendo il post.
Certo, l’omeopatia è un imbroglio – imbroglio è la teoria che tenta di conferirle dignità di terapia, imbroglio è la pratica che della terapia non ha niente – ma un bravo avvocato, filosofo per giunta, sofista nella fattispecie, non potrà e non dovrà capitolare dinanzi all’evidenza: cos’è, in fondo, un imbroglio? Meglio: siamo poi sicuri che – in fondo, in fondo, in fondo – il paziente non voglia proprio essere imbrogliato affidandosi all’omeopatia? Ma un imbroglio voluto da chi poi si fa effettivamente imbrogliare, che imbroglio è?
La regola che Protagora – pardon, Ivo Silvestro – ritiene sia alla base del rapporto omeopata-paziente starebbe proprio in questo voler essere imbrogliato del paziente e in questo imbrogliare dell’omeopata: né il primo deve sospettare sia un imbroglio, né il secondo deve rivelarlo tale, sennò la terapia non funziona. Si tratta di un genere di medicina che è tanto più efficace quanto più somiglia alla truffa che il truffato non riesce a riconoscer tale.
Per dire: pretendere che un flacone di pilloline omeopatiche rechi la scritta “truffa” sarebbe come pretendere la scritta “placebo” su una confezione di placebo. E il costo? Com’è che un preparato omeopatico costa in media 50 volte più di un placebo? Domanda alla quale un sofista vi risponde con un sorriso carico di pena: più è truffa, più funziona, e in fondo non c’è un sacco di gente disposta a credere e a spendere? Vorrete mica spezzare il mirabile equilibrio sul quale è costruito l’impero di Boiron, il benessere di chi sta da Dio a mandar giù costose pillole di niente, e il bell’argomentare del sofista? Sì? E in nome di cosa? Della trasparenza del prodotto alla quale sottoponete un qualsiasi altro farmaco? Ma leggete il Teeteto, stupidini, e senza dubbio capirete, e cambierete idea: ciò che Boiron fa con i suoi preparati omeopatici, Protagora fa coi suoi discorsi, e Ivo Silvestro col suo post. La smetterete di rompere il cazzo a “una multinazionale sicuramente onesta”.

Le tasse sono impopolari




Siamo con l’acqua alla gola, saprete, e c’è bisogno di misure straordinarie: nuove tasse o altri tagli? Il giornale di Giuliano Ferrara non ha dubbi: Elettoralmente, così come economicamente, le tasse sono impopolari: i tagli, invece, sono bellissimi”. Cominciamo da quei 3.745.345,44 euro di finanziamento pubblico che Il Foglio si pappa ogni anno? No? E allora ficcarsi la proboscide in culo e star zitto?