martedì 20 settembre 2011

Il rispetto che si deve a un malato

Silvio Berlusconi merita il rispetto che si deve a un malato. Comprensibile l’esasperazione di chi non vede l’ora che il governo del paese venga tolto dalle mani di un malato, ma ritengo che gli insulti e gli sberleffi siano controproducenti, oltre che impietosi, così com’è del tutto inutile, oltre che provocatorio, chiamarlo a una qualsiasi forma di responsabilità. Non può dar conto di se stesso, di ciò che dice, di ciò che fa, sarebbe il caso di prenderne atto. Si dovrebbe essere cauti nel farlo bersaglio del biasimo e del dileggio che tuttavia – sono disposto a concedere – è pressoché impossibile frenare, perché la sua è una malattia incurabile, per di più pericolosa tenuto conto dei mezzi che sono a disposizione del malato, senza dubbio alimentata dalla convinzione di essere oggetto di attacchi ingiusti a fronte della sua sconfinata voglia di essere amato da tutti. Siamo al punto in cui basta un niente, anche una battuta più crudelmente azzeccata delle tante, a poter scatenare una reazione violenta, certamente autodistruttiva, ma anche distruttiva. Si dovrebbe smettere di parlarne rivolgendosi a lui, anche indirettamente, ma discuterne come un caso clinico la cui diagnosi è indiscutibile, il decorso imprevedibile, la prognosi infausta, la terapia impossibile, rammentando che l’eutanasia, dove e quando sia consentita, è praticabile solo su chi la chieda.
Chi proprio non riesce a provare per Silvio Berlusconi i sentimenti che bisogna imporsi di provare per un malato accumuli tutta la sua esasperazione in attesa di saldare il conto con quanti hanno alimentato la sua malattia con la cieca adulazione. Il malato va sempre rispettato, chi lo ha portato all’ultimo stadio può essere scorticato vivo. Prendete, per esempio, quello che ieri sera, su Raiuno, gli continuava a consigliare di chiedere scusa, come aveva già fatto domenica su il Giornale, dopo averlo drogato per anni di lodi e complimenti. Ecco, prendetevela con quello, ma promettete di non torcere un capello al poveretto. 

lunedì 19 settembre 2011

“Si tratta di una uscita disperata”

L’ipotesi di Andrea Petrocchi merita molta attenzione.

La stampella


Non vale neanche la pena di discutere sulle prodigiose qualità del liquido che la fede vuole sia il sangue di San Gennaro, non in assenza dell’analisi chimica su un suo campione, sempre negata. Non vale la pena di discutere neanche sulla fede, perché la fede non tollera discussioni, certe volte neanche dubbi, ritenendoli offensivi. Meno che mai varrà la pena di discutere su cosa muova i napoletani a credere che alla periodica liquefazione del contenuto di due ampolline, ripetutamente agitate in una chiesa affollata di gente sudata, non sappiamo se previo trattamento nei giorni antecedenti, sia legata la certezza della buona sorte. Varrebbe la pena di discutere, eventualmente, su cosa sarebbe Napoli, oggi, dopo che il prodigio si è verificato più di 1.800 volte (3 volte ogni anno, dal 1389 ad oggi), se solo la metà della metà della metà delle speranze riposte nel miracolo avessero trovato riscontro nei fatti, lungo i secoli: sarebbe un paradiso terrestre. Oppure, rivoltando la questione, potremmo chiederci cosa sarebbe Napoli, oggi, se non avesse goduto, lungo i secoli, della benevola protezione di San Gennaro, comprovata dalla costanza del prodigio, ma è possibile immaginarla peggio di com’è? No, neanche su questo varrà la pena di aprire una discussione.
Pensandoci bene, converrà evitare pure di discutere sul perché la Chiesa non considera un “miracolo” la periodica liquefazione del contenuto di quelle due ampolline, ma consente che la tradizione religiosa popolare lo ritenga tale, e un suo cardinale, Crescenzio Sepe, lo definisca proprio “miracolo”. Converrà evitare pure di discutere sul perché la Chiesa abbia consentito lo slittamento delle feste patronali alla domenica più vicina, fatta eccezione per quella di San Gennaro, santo che ha depennato dal suo calendario. Insomma, dobbiamo lasciar perdere ogni questione che richiederebbe l’uso della logica: siamo di fronte a un problema che non tollera alcun genere di analisi, siamo di fronte a un fenomeno che non consente alcun tentativo di decostruzione. Al massimo ci è consentito chiacchierarne, come si fa quando ci si intrattiene a parlare del tempo che fa? Piove? Sì, ne viene giù tanta. Fa caldo? Come no, non si respira.

E dunque anche quest’anno, puntuale come proprio quest’anno era davvero indispensabile, il 19 settembre, un lunedì che più feriale non si poteva, San Gennaro non ha mancato all’appuntamento. Anzi, non hanno fatto in tempo a tirar fuori la lipsanoteca dal suo ripostiglio che subito s’è avuta la lieta notizia: il sangue, o quello che è, era già bello fluido.
Sarà stata la tripletta che Edison Cavani ha rifilato ieri sera al Milan o il fatto che sulla linea intransigente del cardinale Sepe, fermo nell’opporsi allo slittamento della festa patronale, c’è stato il tempestivo e pieno appoggio di De Magistris (Comune), di Cesaro (Provincia), di Caldoro (Regione) e, ancora non è chiaro a quale titolo, di Lepore? Non importa, l’importante è che anche quest’anno i napoletani possano sentirsi sul capo la mano protettrice del loro santo, sennò chissà in quale degrado sarebbero precipitati. Camorra, disoccupazione, immondizia, cose così, ma per fortuna il santo ha detto no e in città – Deo gratias – si respira.
Perché si tratterà di gente maltrattata dalla storia, come recitano i volumi lassù in alto, o di plebe inetta a diventare popolo, com’è evidente già da un qualsiasi quarto piano, ma quello che le dà la forza di tirare avanti è la stampella delle sue superstizioni, e guai a toccargliela. Anzi, se non si vuole offendere la sua zoppia e vedere come è lesta a inseguirti e a pigliarti a calci, conviene rispettarla come terza gamba.
Chiedevano a De Magistris, ieri: “Che farà, signor sindaco, bacerà o non bacerà la teca che contiene il sangue di San Gennaro?”. “Si vedrà sul momento – rispondeva – non mi sembra una questione importante”. “Non mi sembra importante”, un cazzo. Quanto ci mette la plebe a fare a pezzi un Masaniello? Vieni, Giggi’, ti conviene, bacia la stampella. La Chiesa non dice che si tratti di un miracolo, non sai se davvero è sangue quello che sta lì dentro, ma ti basti sapere che si tratta di onorare una superstizione e, se non lo fai, i superstiziosi si sentono traditi. E sia chiaro che non lo stai facendo a titolo personale: portati appresso la fascia e il gonfalone, così si capirà che la stai baciando a nome di tutta la città, compresi i non credenti che ti hanno votato ritenendoti il primo menopeggio che passava, compresi i musulmani di Piazza Mercato ai quali hai chiesto il voto non più di qualche mese fa.  

Pastorale sulla patonza

Gian Antonio Stella rileva che “le autorità vaticane sembrano aver scelto di tacere, per ora”, e si chiede cosa faranno “dopo aver letto quei dialoghi finiti su tutti i giornali del pianeta” (Corriere della Sera, 18.9.2011). È probabile che il rilievo sia provocatorio e la domanda sia retorica, ma non è difficile immaginare cosa stia accadendo e cosa accadrà. Lo schema dovrebbe essere lo stesso di due anni fa, quando il sepolcro imbiancato andava scoperchiandosi.
La base cattolica è divisa. La maggioranza, che nonostante tutto rimane filoberlusconiana, è molto imbarazzata, ma si sforza di non darlo a vedere: in parte tace, in parte mugugna, in parte taglia corto col cinico buonsenso di chi è disposto a chiudere un occhio sui peccati mortali del premier, purché questo governo continui a farsi garante dei valori non negoziabili. La minoranza antiberlusconiana, invece, comincerà a stracciarsi le vesti per lo scandalo, anche rumorosamente.
La Cei rifletterà questa composita gamma di reazioni: qualche vescovo sarà duro, anche durissimo, forse arriverà perfino a essere esplicito; i più condanneranno il peccato ma risparmieranno il peccatore, diranno che il tutto il problema sta nel fatto che la patonza giri, non già in chi la fa girare; i vertici si produrranno in pastorali d’ampio respiro sociologico, stigmatizzando il gran girare di patonza, dal ’68 ad oggi. Avvenire sarà polifonico e Tarquinio orchestrerà meglio di Perosi, a meno che non abbia pure lui una condanna per molestie in qualche casellario giudiziario.
La Segreteria di Stato e L’Osservatore Romano saranno molto vaghi, allusivi forse, comunque ambigui come conviene, sicché chi ha orecchie per intendere potrà intendere, ma a proprio rischio. Infine, però, parlerà Benedetto XVI: en passant, tra una catechesi su Santa Irmgarda e un appello in favore dei cristiani perseguitati nel Borneo inferiore, dirà che Satana ci tenta, incessantemente, e spesso con la patonza.
Niente di più, niente di meno, pregiatissimo Stella.

domenica 18 settembre 2011

Prima puntata della nuova serie di In Onda

Luca Telese non è riuscito a trovare neanche una parola sulla cravatta o sulla pettinatura di Nicola Porro.

sabato 17 settembre 2011

Vanity Fair, 37/2011 - pag. 84



 Tranquilla, Barbara, a chi mai potrebbe saltare in testa di farti certe proposte?  

venerdì 16 settembre 2011

C’è teatrino e teatrino



Ci vorrebbe il genio di Makkox. Un Berlusconi che muove i fili di una marionetta dalle sembianze di un Ferrara che a sua volta muove i fili di una marionetta dalle sembianze di un Berlusconi intento a scrivere: “Caro direttore, è vero, come Lei scrive, che il mio comportamento…”. Come titolo metterei: C’è teatrino e teatrino.

Fakfa

Blažek, lo scarafaggio, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nella sua tana, in un minuscolo e lindo impiegato. Giaceva sulla schiena, curva com’è dei dipendenti del catasto, e sollevando un po’ la testa vide un ventre molle, chiaro, coperto da peli lunghi e radi. Il mucchietto di terriccio sul quale s’era addormentato gli si era appiccicato addosso e due gambe e due braccia, mostruosamente grosse rispetto al tronco, si muovevano davanti ai suoi occhi.
“Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno. La sua tana, un bel buco da blatta, anche se un po’ piccolo, stava lì come l’aveva lasciato prima di addormentarsi…

If

Ho visto alla tv, su un palco, Bersani, Vendola e Di Pietro far le prove generali per una coalizione di programma. Facciano pure, poi, quando hanno un minutino, trovassero modo di farmi sapere se in questo programma c’è o non c’è l’impegno a mettere in discussione il regime concordatario, a provvedere alla drastica riduzione dei benefici di cui gode la Chiesa cattolica, a istituire il registro nazionale delle unioni civili di coppie dello stesso sesso e di sesso diverso, a consentire il matrimonio ai gay, ad abrogare la legge 40/2004, a depenalizzare il consumo delle cosiddette droghe leggere e sperimentare il regime di somministrazione controllata per quelle cosiddette pesanti, a facilitare il ricorso all’aborto farmacologico e l’accesso ai metodi contraccettivi, a istituire corsi di educazione sessuale nella scuola dellobbligo, a consentire il testamento biologico e a favorire  la libera e responsabile scelta eutanasica, alla regolamentazione e al controllo della prostituzione, a difendere e a sostenere la libertà di ricerca scientifica, all’abrogazione del reato di clandestinità e a una dozzina di cosette che adesso, preso alla sprovvista, non saprei mettere in questo elenco. Se ne manca una sola, andassero a cagare tutti e tre.

In gioco è il valore della vita umana


In Argentina, l’aborto è dichiarato “delito contra la vida” ed è punito con la “prisión de tres a diez años”, tranne che in due casi: se praticato “con el fin de evitar un peligro para la vida o la salud de la madre y si este peligro no puede ser evitado por otros medios” e se la gravidanza è frutto “de una violación o de un atentado al pudor cometido sobre una mujer idiota o demente” (Código Penal, art. 85).
Si capisce perché in Argentina vengano praticati ogni anno più di 500.000 aborti clandestini. Si capisce perché siano morte oltre 3.000 donne, quasi tutte appartenenti ai ceti meno abbienti, da quando è in vigore questa severissima normativa. Non si capisce, invece, perché l’Argentina sia il paese sudamericano col più basso indice di crescita demografica, pur avendo adottato il criterio legislativo che gli antiabortisti di casa nostra ritengono sia la più efficace ricetta per combattere la crisi di natalità che affliggerebbe il nostro paese, arrivando a chiedere l’abrogazione della legge 194/1978 come espediente anticrisi.

Avranno una legge stronza, gli argentini, ma non sono poi così cretini. Non tutti, almeno. E infatti il 27 settembre è convocata la Commissione della Legislazione Penale dei Deputati per affrontare la questione. All’ordine del giorno non è la liberalizzazione dell’aborto, ma solo la modifica dei parametri restrittivi all’autorizzazione di interrompere una gravidanza. Chi volete sia entrato subito in agitazione?
“Ribadiamo la nostra convinzione circa il valore della vita umana, dal momento del suo concepimento fino alla morte naturale. Quando una donna rimane incinta, non si parla più di una vita ma di due, quella della madre e quella di suo figlio o di sua figlia: devono essere preservate e rispettate entrambe” (Commissione Permanente della Conferenza Episcopale Argentina, 14.9.2011).
Tutto rimanga com’è: mezzo milioni di aborti ogni anno, con una media di 100 donne che muoiono per emorragia o sepsi che potrebbero ben essere evitate se l’interruzione di gravidanza fosse praticata in condizioni decenti. In gioco è il valore della vita umana, è questione non negoziabile. 

[...]


Le lodi che in queste ore piovono addosso a Manuela Arcuri sono francamente eccessive, quasi a voler sottolineare l’eccezionalità della sua retta condotta morale. Eccezionale perché a parità di condizioni il suo no sarebbe stato difficile per qualsiasi altra donna o perché da lei ci si sarebbe aspettato un sì? Tutte queste lodi, insomma, o sono il risarcimento per aver nutrito su di lei un pregiudizio, rivelatosi ingiusto, o sono l’implicito riconoscimento che al suo posto, per chiunque altra, sarebbe stato assai conveniente dire sì?

La “reale volontà” del legislatore


Chi in Italia è ostile al matrimonio tra persone dello stesso sesso si appella alla legge divina e/o a quella naturale e/o alla Costituzione. Il fatto è che la legge divina contempla il matrimonio come sacramento, sicché quello celebrato con rito civile sarebbe solo una blasfema parodia del matrimonio vero, che è quello celebrato con rito religioso: invocare la sola legge divina per negare a due persone dello stesso sesso il diritto di sposarsi porterebbe a doverlo negare anche a un maschio e a una femmina che si uniscano in matrimonio con rito civile.
Si tentò di farlo, almeno fino a metà degli anni Cinquanta, ma non ci si riuscì. E allora, ferma restando la norma che “tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia per ciò stesso sacramento” (Catechismo, 1055) e che “sono validi soltanto i matrimoni che si contraggono alla presenza dell’Ordinario del luogo o del parroco o del sacerdote oppure diacono delegato da uno di essi che sono assistenti” (ibidem, 1108), si preferì chiudere un occhio, smettendo di chiamare “pubblici peccatori” i coniugi che non si fossero sposati in chiesa.
Per il matrimonio celebrato con rito civile non si usò più la definizione di “concubinaggio” e, per continuare ad avere il controllo su un istituto che si andava sempre più secolarizzando, si cominciò ad invocare la legge naturale, come estensione di quella divina. Anche quando un ministro di Dio non era chiamato a fare da notaio per la stipula del contratto, e dunque il matrimonio non aveva carattere sacramentale, qualcosa di sacro gli era conferito dalla legge naturale, che si riteneva dovesse (e ancora si ritiene debba) ispirare il legislatore.
 Tutto era destinato a reggere fino a quando la “natura” avesse mantenuto il suo statuto di dimensione pre-storica e pre-culturale, ma anche questo non durò a lungo. Si fece strada l’idea che per “naturale” si dovesse intendere il modello che storia e cultura ne avevano elaborato nel corso delle epoche e, così, molto di quanto si era pensato fosse “secondo natura” divenne intollerabile. Era già accaduto con la schiavitù, considerata per millenni “secondo natura”, e poi, quasi all’improvviso, presa ad essere considerata “contro natura”. Molto ancora doveva seguire la stessa sorte, e molto ancora dovrà seguirla, quasi a voler dimostrare, anche a chi non voglia accettarlo e si ostini a opporre resistenza, che nulla è più storico e culturale del concetto di “natura”.

Se la legge naturale è stato un espediente in fin dei conti inefficace a conservare la sostanza della legge divina, tanto più disperato appare il tentativo di conservare la sostanza pre-storica e pre-culturale della “natura” appellandosi alla nostra Costituzione, come d’altra parte vediamo fare da molti conservatori, almeno quando sono presi dal pudore di appellarsi a Dio o alla Natura (rigorosamente con la maiuscola) per negare a due persone dello stesso sesso il diritto di sposarsi.
Si argomenta che l’ostacolo sarebbe posto dalla sacralità dell’art. 29, che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. In realtà non si capisce dove sarebbe posto l’ostacolo, ma i conservatori ritengono che non si faccia fatica a rintracciarlo nella “reale volontà del legislatore”. Visto che non fece espresso divieto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso, quale “reale volontà” dobbiamo pensare fosse, la sua? Non tracciò discrimine sessuale tra i coniugi perché si lasciasse ammissibile il matrimonio omosessuale o, più verosimilmente, perché in quel tempo nel nostro paese non si poneva neanche lontanamente un caso politico e civile di tal genere? Qualche giovanarduzzo afferma che non ci siano dubbi: “La seconda ipotesi è certamente la più probabile e, se così è (ed è così), allora basta: il matrimonio omosessuale è anticostituzionale”. In pratica, giacché in quel tempo nel nostro paese non si poneva neanche lontanamente un caso politico e civile di tal genere, il non averlo posto farebbe prova che, a porlo, il parere sarebbe stato negativo.
Qui, in buona sostanza, siamo alla degenerazione ultima del principio di conservazione: Dio non basta più a negare il diritto di sposarsi a due persone dello stesso sesso; la Natura fa sempre più fatica; rimarrebbe la Costituzione, che però non nega quel diritto troppo esplicitamente; e allora cosa opporre? La “reale volontà” del legislatore, desunta con questa geniale deduzione: se i Padri costituenti non si sono trovati davanti al problema, il problema non aveva ragione di essere posto, ergo non si pone; chi lo pone, se lo pone, lo fa contro la Costituzione. Più geniale dell’idea di un Dio che manda all’inferno i ricchioni, perché ricchioni.
 

Ritratto di artista con carrello

Ancora sulla «verità»


Di recente ho scritto che “ogni definizione di «verità» è una tautologia” e che dunque il termine rimanda a se stesso senza dimostrazione ultima di ciò che sarebbe «vero». Ho scritto anche che spesso la definizione di «verità» rimanda a quella di «realtà», che però a sua volta rimanda invariabilmente a ciò che è «vero», perché ciò che è «reale» pretenderebbe uno statuto di autonomia dal sensibile, sicché la tautologia prende forma di un cortocircuito, ma continua a restare vuota di un significato.
Rimarcando tale autonomia del «reale» dal sensibile, un lettore ha obiettato che “la «realtà» esiste indipendentemente dal soggetto che la conosce, e in questo caso quindi può dirsi sinonimo di «verità»”: in pratica, ha fatto cortocircuito. Però ha detto anche che per «realtà» può intendersi anche “la punta dell’iceberg della «verità», o il suo prodotto finale”, sicché “la «verità» [sarebbe] un processo che va conosciuto e compreso, mentre la «realtà» [sarebbe] un fatto che si manifesta nel presente”.
Avrei voluto far presente che la «manifestazione» di una cosa non è la cosa stessa, ma ho evitato di farlo, nel timore di essere frainteso usando l’espressione «la cosa stessa», che mi puzzava troppo di metafisico, ma senza avere lì per lì a disposizione un termine che non corresse il rischio di dare a «reale» la valenza di «vero», correndo perciò il rischio di fare cortocircuito anch’io. Bene, un’intervista a Leonard Susskind, sull’ultimo numero di Le Scienze (517/2011, pagg. 56-59), mi consente di chiarire perché ritengo che «la cosa stessa» sia cosa ben diversa dalla sua «manifestazione», senza con ciò doverle riconoscere lo statuto di cosa «vera», cioè di un possibile “prodotto finale” (definitivo) di un “processo” cognitivo. Con Rudolf Carnap ritengo che in questo ambito si possano fondare assunti solo su pseudoproposizioni metafisiche.
“La realtà ci rimarrà sempre incomprensibile”, sostiene Susskind, e aggiunge: “Siamo prigionieri della nostra architettura neurale”. Non è un atto di resa della ragione, anzi, Susskind ritiene che si può e si deve ancora spingerla fino i suoi limiti, ma che appunto questi limiti esistono e si possono oltrepassare solo creando modelli di «realtà» destinati sempre a rivelarsi inadeguati. Come affermavo riguardo alla «verità», ogni sua ricerca si risolve sempre in una fuga nel metafisico.
Susskind dice: “Continuiamo a inventare nuovi realismi [rappresentazioni della realtà], che non soppiantano del tutto le vecchie idee, ma le sostituiscono in gran parte con modelli che funzionano meglio, descrivono meglio la natura, e che sono spesso molto strani, spingendo le persone a chiedersi che cosa significhi la parola «realtà»”. Questo accade perché nulla come la «realtà» sembra indiscutibile al senso comune, ma “poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – conclude – dovremmo sbarazzarci della parola «realtà». Discutiamo senza impiegare la parola «realtà», è solo un ostacolo, trascina con sé cose che non servono a niente”. A maggior ragione dovremmo sbarazzarci della parola «verità».

  

giovedì 15 settembre 2011

Per la precisione


Confesso che di shibari sapevo poco o niente, ma adesso qualcosina sì e, ferme restando le osservazioni che ho già espresso sul caso Mulè (qui), vorrei rilevare che la tecnica non prevede l’impiego di corde strette attorno al collo. Si trattava di bondage, dunque, e includente la tecnica del cosiddetto breath control, ma parlare di shibari mi pare improprio, almeno nel caso di specie.

mercoledì 14 settembre 2011

L’imputabilità c’è



È difficile che si arrivi a una condanna, impossibile che i condannati arrivino ad espiarla, e tuttavia è evidente che Joseph Ratzinger, William Levada, Angelo Sodano e Tarcisio Bertone siano imputabili del reato di crimine contro l’umanità, anche se quasi certamente il Tribunale Penale Internazionale non arriverà a formalizzare l’accusa, ma per ragioni di mera opportunità.

Prima di analizzare gli elementi che rendono imputabili i quattro, bisogna precisare che la loro responsabilità è posta all’attenzione dei giudici in relazione ai ruoli di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger e Levada) e di Segretario di Stato (Sodano e Bertone), e dunque non è corretto dire che si voglia processare il Papa: la condotta di Ratzinger è in questione solo in relazione alla carica rivestita fino all’elezione al Soglio Pontificio (1981-2005). In discussione, infatti, è l’impunità che i titolari della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Segreteria di Stato hanno garantito a numerosissimi esponenti del clero cattolico che si erano resi responsabili di abusi sessuali a danno di minori loro affidati, dall’anno in cui ai vescovi fu imposto l’obbligo dell’assoluto silenzio su questi delitti (Instructio de modo procedendi in causis de crimine sollicitationis, 1962).
In tal senso, c’è un’unica ragione perché l’accusa non sia rivolta pure ad Alfredo Ottaviani e a Franjo Šeper (Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede rispettivamente dal 1959 al 1968 e dal 1968 al 1981), né ai predecessori di Sodano alla Segreteria di Stato, e cioè ad Amleto Giovanni Cicognani (1961-1969), Jean-Marie Villot (1969-1979) e ad Agostino Casaroli (1979-1990): sono morti. C’è però da precisare, in sede storica, che le responsabilità coprono un arco di tempo assai maggiore, perché la Instructio del 1962 era solo una riedizione di analogo decreto licenziato nel 1929, sul quale però non è possibile dir nulla, giacché non è mai stato reso pubblico. Della stessa Instructio del 1962, peraltro, si è saputo solo quarant’anni dopo e lì se n’è compresa la ragione, perché s’è visto che recava in frontespizio la seguente raccomandazione: “Servanda diligentiter in archivio secreto curiae pro norma interna non pubblicanda nec ullius commentariis agenda”.
 Con la scoperta della Instructio del 1962 si è capito come i preti pedofili potessero godere della massima libertà d’azione, grazie alla copertura dei loro crimini assicurata da norme severissime: “Nel trattare queste cause la cosa che deve essere maggiormente curata e rispettata è che esse devono avere corso segretissimo e che siano sotto il vincolo del silenzio perpetuo una volta che si siano chiuse e mandate in esecuzione; inviolabilmente, tutti e ciascuno, a qualsiasi titolo si appartenga al tribunale o se a conoscenza dei fatti per incarichi relativi a queste cause, sono tenuti ad osservare quello strettissimo segreto che è comunemente definito segreto del Santo Uffizio, sotto pena di incorrere nella scomunica latae sententiae, immediatamente e senza altra dichiarazione”.
Appena la notizia di un abuso sessuale commesso da un prete ai danni di un minore arrivava al responsabile della diocesi, una coltre di omertà veniva stesa sui fatti perché non fosse in alcun modo intercettata dalla giustizia civile: si poteva contravvenire, certo, ma si usciva dalla grazia di Dio.

Almeno a quanto è dato sapere dopo aver ricostruito la carriera di molti preti pedofili, la giustizia ecclesiastica era mitissima, limitando per lo più la condanna al trasferimento dei colpevoli in un’altra diocesi. In pratica, li si autorizzava a reiterare i loro crimini, protetti da una rete che assicurava loro, insieme all’impunità, un facile approvvigionamento di nuove vittime.
Si è sempre reputato saggio affidare la cura di casi tanto delicati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, tradizionalmente assai meglio armata nell’opera di controllo delle coscienze. La motivazione è sempre stata di quelle che svelano la natura più profonda della Chiesa: nell’abusare sessualmente di un minore, il prete pecca innanzitutto contro un sacramento, quello dell’ordinazione, e nel rivelare pubblicamente i crimini commessi da un suo pari, com’è nel caso in cui si rivolga alla giustizia civile per segnalarli, pecca contro un altro sacramento, quello della confessione. La vittima? Sì, nessuno nega sia in questione, poverina, ma la priorità sta nella difesa dei sacramenti. All’ex Sant’Uffizio, dunque, la cura delle norme che ne assicurino la tutela, e alla Segreteria di Stato, per il tramite delle Conferenze episcopali locali, la sorveglianza sui casi critici che possano farla venir meno. Un meccanismo efficace, lungamente collaudato, destinato a funzionare per chissà quanto tempo, soprattutto perché ignoto alle vittime e ai loro genitori, quasi sempre fervidi credenti, prima e, nonostante tutto, perché no, anche dopo l’abuso. La consegna del silenzio dietro minaccia di scomunica, l’allontanamento del pedofilo in una diocesi lontana, due caritatevoli carezze al piccino, un pugno di soldi ai familiari, e i sacramenti sono al sicuro. Tutto può durare in eterno, basta saper tenere segreto il meccanismo.
E infatti tutto fila liscio fino a quando la De crimine sollicitationis del 1962 rimane chiusa a chiave nel cassetto del vescovo e nessuno ne sa niente. Poi, la rete comincia a sfilacciarsi. Le vittime degli abusi sessuali cominciano a parlare e una lettera inviata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ai Vescovi di tutta la Chiesa Cattolica e agli altri ordinari e membri della gerarchia ecclesiastica, che reca la firma del cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto, e che è del maggio 2001, rivela l’esistenza dell’Instructio del 1962, che ritocca in qualche punto, ribadendo: “Ogniqualvolta  un ordinario o un membro della gerarchia ecclesiastica abbia una notizia almeno verosimile riguardo a un delitto riservato, dopo avere in precedenza compiuto una investigazione, segnali questa notizia  alla Congregazione per la Dottrina della Fede che, qualora non avochi a sé la causa per circostanze concomitanti particolari, ordina che l’ordinario o il membro o della gerarchia ecclesiastica vada avanti attraverso il proprio tribunale trasmettendo le opportune norme”, le solite. La più significativa: “Casi del genere sono soggetti al segreto pontificio”.
 È per questo riaffermare il principio che un prete cattolico debba essere sottratto alla giustizia civile che tra il 2004 e il 2005 la Corte Distrettuale del Texas dà avvio alla procedura di incriminazione del cardinal Ratzinger per obstruction of justice. L’elezione al Soglio Pontificio e l’acquisizione della carica di capo di stato estero gli procurano la suggestion of immunity e l’indagato non dovrà mai più rispondere del capo di imputazione che stava per essere formulato a suo carico: l’aver dato direttive generali al fine di coprire i responsabili di centinaia di abusi sessuali e, in particolare, di non aver dato seguito alle reiterate segnalazioni che gli giungevano da vescovi statutinensi (ma poi si è visto che era accaduto anche per casi analoghi in Germania), se non per ribadire, infastidito, la consegna al silenzio. 

[segue] 

martedì 13 settembre 2011

La schifezza


La piena unanimità di giudizio è cosa più unica che rara in campo artistico, ma sulla statua di Giovanni Paolo II alla Stazione Termini di Roma, pur nella varietà di accenti, si è raggiunta: anche se c’è chi ha eufemisticamente zufolato che peccasse di una “scarsa riconoscibilità” (Sandro Barbagallo, per L’Osservatore Romano), chi ha ellitticamente rilevato che “il bozzetto era molto diverso” (il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura), e perfino chi all’ellissi ha preferito la spirale, limitandosi a dire che “le Autorità Vaticane e il Ministero dei Beni Culturali hanno seguito questa cosa passo passo e c’era un consenso obiettivo” (Gianni Alemanno, sindaco di Roma), tutti hanno espresso, più o meno esplicitamente, lo stesso parere: una schifezza.
Ora, a quattro mesi dall’inaugurazione, apprendiamo da Avvenire che proprio quanti sono a vario titolo responsabili della schifezza fanno fatica a prenderne atto:



Nessuno si aspettava che Oliviero Rainaldi si impiccasse per la vergogna, ma chi si aspettava che si offrisse per il rifacimento di un’opera già firmata ed esposta? Nessuno si aspettava che il Comune decidesse di rimuovere la statua sostituendola con un’altra, ma chi si aspettava che avesse tanta faccia tosta di annunciarne il rifacimento come “completamento? Nessuno si aspettava che le gerarchie ecclesiastiche facessero pubblica richiesta di una riparazione a quello sfregio, ma chi si aspettava che dopo averne avuto garanzia facessero sfoggio di sufficienza dichiarando che la schifezza è addirittura meta di pellegrinaggi? Manca solo il tocco finale. Una targa recante la parafrasi: “Se mi sbagliate, mi rifacerete”
  

“E noi il senso tradizionale lo dobbiamo rispettare”


Sabrina Ferilli vorrebbe tanto adottare un bimbo, ma le leggi italiane non glielo consentono perché non è sposata, e allora affida il suo amaro sfogo ad Alfonso Signorini: “Io mi domando se sia giusto non poter adottare come genitore singolo, visto poi che oggi un bambino che nasce all’interno di un matrimonio ha gli stessi diritti di un bambino che nasce fuori dal matrimonio” (Chi, 14.9.2011).
Occorre rammentare alla signora – anzi, signorina – che la legge che le vieta di coronare il suo sogno è stata scritta per garantire all’adottato di crescere in una famiglia così come intesa nel senso tradizionale, “e noi il senso tradizionale lo dobbiamo rispettare, perché invertire delle tendenze che sopratutto son cose giuste, quindi si appoggiano su fondamenti e principi giusti, non è mai positivo”. Il virgolettato è suo, da una puntata di Chiambretti Night del gennaio 2010, e dunque – col dovuto rispetto – non rompesse il cazzo.

Qui pro quo


C’è da promuovere il nuovo album, bisogna concedersi alla stampa, offrire a ciascuno la faccia che torni più simpatica. Ecco, è qui che dev’essersi creato il qui pro quo, perché Luca Carboni offre al giornale dei vescovi il mea culpa di un ribelle che s’era illuso di poter cambiare il mondo: “Ci sentivamo illuminati, pensavamo di aver capito tante cose, ma abbiamo portato avanti quegli stessi schemi che avevamo rifiutato” (Avvenire, 13.9.2011); e ai fascistoidi che comprano il giornale di Feltri e Belpietro offre il ritratto di uno che trova “certezze e speranze nella fede”, per il quale “i valori principali sono quelli del cristianesimo”, che però sente trascurati, lamentando addirittura una preoccupante “mancanza di preti” (Libero, 13.9.2011).
Si tratta di due interviste che probabilmente sono state concesse nella stessa giornata, a poca distanza l’una dall’altra, e l’artista deve aver fatto un po’ di confusione con le istruzioni avute dal suo agente. Insomma, il disgraziato scambio è evidente. D’altra parte – tutti sanno – “si piega tutto, tutto, dalle spalle alle antenne della tv” (Solarium, 1985).

lunedì 12 settembre 2011

Fatti in tempi certi

“Mi è venuta la curiosità – scrive nonunacosaseriadi sbirciare sul sito web della Lega Nord per vedere quante delle proposte programmatiche avanzate nel 2008 sono state poi messe in atto [e] ho scoperto – conclude – che le uniche richieste accolte dal governo Berlusconi sono la tassazione delle rimesse degli immigrati irregolari e l’apertura, in una villa brianzola, di qualche stanza travestita da ufficio ministeriale decentrato”. Vorrei aggiungere: non è tutto.
Sono passati tre mesi dal raduno di Pontida che pose a Berlusconi il terribile ultimatum riprodotto qui sotto. A tutt’ora, non uno dei “fatti in tempi certiha visto realizzazione e il fiero popolo padano fa finta di niente, tutt’al più mugugna.