martedì 11 dicembre 2012

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Lasciando perdere quello che diceva e ponendo attenzione solo a come lo diceva – tono, mimica, postura concludevo: «A mio parere, non è un addio e non è neppure una rinuncia alla leadership» (Malvino, 26.10.2012). È che il ringhio della bestia è sempre ambiguo, mentre orecchie e coda non mentono mai. Annunciava che non avrebbe presentato la sua candidatura a premier, ma quello scatto della spalla sinistra (0:09) rivelava un insopportabile fastidio alla sola idea.  


Corrispondenze

Non te l’ho mai detto, ma è un annetto che il cielo è vuoto, e non sono più cristiano. Non sono più niente, direi (non ho ancora capito le sfumature tra ateismo e agnosticismo). Vediamo poi come va. Va da sé che, se te lo scrivo, una ragione c’è: è anche colpa tua, fra gli altri. Non so se ringraziarti o essere arrabbiato, ma propendo più per la prima.
Andrea


Non darmi meriti o colpe che non ho, non ci voleva molto a smontare la truffa. Ti abbraccio,
Luigi

lunedì 10 dicembre 2012

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Scorro i nomi degli autori che riempiono tre scaffali alle mie spalle, quelli dedicati all’apologetica cristiana: Giustino, Cipriano, Tertulliano, Origene, Lattanzio, Agostino… Poi torno alla lettura di Francesco Agnoli e concludo che la difesa argomentata del cristianesimo – arte per alcuni, per altri vera e propria scienza – è andata a finire proprio nella merda. Contro gli ebrei, contro i pagani, contro i musulmani, contro i luterani e poi contro il razionalismo, l’illuminismo, l’agnosticismo, l’ateismo, intelligenze tese fino allo spasimo nella costruzione di sofismi nei quali le tautologie erano avvolte così bene da sembrare verità indiscutibili, e qui invece che c’è? C’è uno che s’arrampica sugli specchi nel tentativo di convincerci che, «se è vero che la chiesa ha alfabetizzato l’Europa, allora è giusto che non paghi l’Imu» (Il Foglio, 6.12.2012).
Miserabile il fine, risibile l’argomento: «Con il crollo dell’impero romano – scrive Agnoli – l’istruzione viene a mancare. Solo i monaci, indefessi lavoratori vivificati dalla virtù teologale della speranza, dopo aver arato e coltivato i campi, leggono, studiano e copiano nei loro scriptoria le opere antiche e moderne. […] I monaci non solo copiavano i testi, ma civilizzavano le popolazioni barbariche, scrivendo per loro poesie, preghiere, grammatiche e dotando quei popoli di un senso della storia. […] Durante i secoli dell’Alto medioevo l’istruzione è impartita dalle scuole monastiche e dalle scuole cattedrali, nelle quali si insegna il principio della fides quaerens intellectum, e che costituiscono l’antefatto delle università. […] Se ci spostiamo più avanti nel tempo, è con il Concilio di Trento che nascono numerosi ordini religiosi dediti all’istruzione dei poveri, altrimenti destinati all’analfabetismo…».
Bene, tante falsità meriterebbero soltanto un fitto lancio di fumanti palle di letame. Basterebbe rammentare che la chiesa è sempre stata contraria all’istruzione di massa, fino a non più di un secolo e mezzo fa, e a chi sapeva leggere ha sempre fatto divieto di leggere unenorme quantità di opere e, almeno fino al 1820, perfino di possedere una Bibbia. D’altronde il rogo di libri è usanza di cui non si ha notizia prima dell’avvento del cristianesimo (At 19, 19-20). Di quale «istruzione» va blaterando, allora, il nostro apologeta da quattro soldi? Di quella di cui la chiesa si fece monopolista per secoli, allo scopo di conquistare e mantenere una posizione egemone, per esercitare un’azione di controllo sulle élites e sul potere politico. La scuola cattolica cui Agnoli vorrebbe fosse esente dall’Imu non è che la forma residuale dello strapotere dei chierici lungo un arco di tempo che copre più di un millennio e che è stato lo strumento per foggiare l’Europa a misura dei loro interessi. Che oggi trovano difesa nello sgangherato bignamino di uno stronzetto.  

venerdì 7 dicembre 2012

Scendo in campo, dice



I “destrutti”


Martedì 4 dicembre, su la Repubblica, Pietrangelo Buttafuoco firma una pagina da incorniciare: è «Il dizionario dei “destrutti”», lemmario in 23 voci – da «Alfano, Angelino» a «Zanicchi, Iva» – di un centrodestra al marasma. Il cappello introduttivo è un epitaffio: «Fece di un acquitrino una città: Milano 2. Fece di una tivù da scantinato un impero editoriale: Mediaset. Fece di una squadra nobile ma decaduta un’invincibile armata: il Milan. Fece di una maggioranza politico-culturale un ventennio di lotta e di governo, quel berlusconismo che, al netto di avanspettacolo e arci-Italia, si conclude con un incredibile fallimento. Di strategia, tattica e visione. L’unica eredità lasciata da Silvio Berlusconi, alla fine, è quella della destra distrutta».
Non era la prima volta che Buttafuoco firmava una pagina su la Repubblica: l’esordio, venerdì 9 marzo, con «Le signorine dell’ironia – Da Franca Valeri a Geppi Cucciari, una risata seppellirà il mammismo». Pazzi per Repubblica la definiva «notizia dell’anno» e commentava: «Pietrangelo Buttafuoco è diventato una firma di Repubblica! E che dirà ora Giuliano Ferrara, che lo ha lanciato? E il Gruppo Mondadori, che lo ha foraggiato? E il berlusconismo salottiero, che lo ha incensato?».
Nessun problema, invece. Neppure due settimane dopo, quando sul quotidiano di Largo Fochetti usciva «Intellighenzia padana – Il Pantheon culturale degli eretici leghisti» e a sollevare analoghe perplessità era Dagospia: «Miracolo a Repubblica! Pietrangelo Buttafuoco, il cosiddetto “fascio-islamista”, giornalista “fogliante” i cui romanzi mai venivano recensiti, entra a vele spiegate tra i collaboratori delle pagine culturali del giornale di Ezio Mauro (grazie a Scalfari?)».
Era già da qualche mese, in realtà, che la censura era caduta: sabato 1° ottobre, a firma di Salvatore Ferlita, la Repubblica aveva pubblicato una benevola recensione del suo ultimo romanzo, Il lupo e la luna (Bompiani, 2011), intervistando l’autore. Le critiche di Buttafuoco al centrodestra e a Berlusconi, invece, erano cominciate almeno due anni fa, dalla sua rubrica quotidiana sulle pagine de Il Foglio. Che da mercoledì 5 dicembre è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione al lettore.
Solo una candida mammola può non vedervi uno stringente nesso causale con quanto Buttafuoco aveva firmato il giorno prima su la Repubblica, ma che è accaduto? Non è difficile intuirlo. «Il dizionario dei “destrutti”» ha mandato in bestia un bel po’ di cortigiani a Palazzo Grazioli ed è partita una telefonata altamente qualificata al Gruppo Mondadori. Possiamo provare a immaginarla.

«Pronto…»
«Ciao, Marina, sono papà…»
«Ciao. Dimmi…»
«Mi chiedono la testa di Buttafuoco per quella paginaccia uscita oggi su la Repubblica…»
«Ma infatti. Ho letto anch’io. Uno stronzo che sputa nel piatto nel quale mangia da anni…»
«Senti, facciamo valere il diritto di esclusiva che abbiamo, così impara…»
«Non preoccuparti, provvedo subito… Ma, lì, come vanno le cose?»
«Come le ha descritte Buttafuoco...»

giovedì 6 dicembre 2012

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Ulrich e Moosbrugger


A Filippo Facci scappa di penna che, con la condanna di Alessandro Sallusti a 14 mesi di carcere, siamo dinanzi a «una sentenza sproporzionata benché formalmente ineccepibile»: a mio modesto avviso, si tratta di un grave infortunio retorico. Si è tanto speso, infatti, nel tentativo di convincerci che al direttore de il Giornale sia stato riservato un «trattamento ad personam», e ha ripetutamente insinuato, cercando di dar forza di argomento all’insinuazione, che l’inusitata severità della condanna non possa trovare altra ragione che nell’odioso pregiudizio di cui l’imputato è vittima, sennò che la sentenza sia stata così dura perché il querelante era un magistrato, sicché nella condanna al carcere vi fosse un fine suppletivo a quello di fare giustizia, quello di intimidire chiunque voglia osare muovere una critica alla «casta» dei giudici. 
Tutta roba buona a costruire sul caso Sallusti «una questione di principio grande come una casa», poi la gaffe: «una sentenza sproporzionata benché formalmente ineccepibile» (Il Post, 5.12.2012).

È da decenni che Filippo Facci mastica diritto: non sa che in quel campo la forma e la sostanza sono (o dovrebbero essere) tutt’uno? Se formalmente ineccepibile, una sentenza ha sempre congrue proporzioni. E qui anche lui conviene che formalmente lo fosse. Alla condanna al carcere, infatti, si è arrivati per la preesistenza di condanne che l’imputato aveva collezionato per lo stesso reato e per l’esistenza di una legge che prevede il carcere per i recidivi. (Incidentalmente, si tratta di una legge voluta dal centrodestra e che il Giornale ha caldamente sostenuto lungo tutto il tormentato iter parlamentare, ma questo è del tutto secondario.)
Sarà espressione che suona male, dunque, ma la «spiccata capacità a delinquere» che la Cassazione ha riconosciuto nell’imputato sta nel combinato che la diffamazione è un reato e Sallusti è recidivo: formalmente – e sostanzialmente – il carcere non è pena sproporzionata.

Personalmente, ritengo che chi diffama non dovrebbe andare in carcere – anzi, ritengo che anche per reati più gravi dovrebbe essere l’ultima ratio – e in più ritengo che l’ex Cirielli (o salva-Previti, a piacere) sia una delle leggi più cretine dell’ultimo decennio. E tuttavia si tratta di norme vigenti delle quali un giudice deve tener conto sempre o solo quando ha davanti un signor nessuno?
Mi pare di averlo già scritto: qui ci troviamo di fronte ad un direttore responsabile che rivendica il diritto di essere irresponsabile, che si rifiuta di rettificare la mostruosa cazzata che ha mandato in pagina, che si ostina a non ammettere il suo torto anche quando validamente dimostrato, che non accetta le pene alternative al carcere cui le vigenti norme destinano un recidivo e che viola gli arresti domiciliari che gli sono stati concessi.

Viene il sospetto – delle due, una – che Sallusti abbia seri problemi psichici o lucidamente conti sul fatto che, giocando a fare la vittima, possa ribaltare la realtà in suo favore. In questo secondo caso, non ci troveremmo di fronte ad uno dei disturbi descritti da Heinz Kohut in Narcisismo e analisi del Sé (1971), ma di fronte a una patologia di sistema che eleva a martire un delinquente. Giacché non ci stupisce che per Moosbrugger il «suo diritto» sia la  «sua giustizia», ma che Ulrich voglia salvarlo sulla base di quello stesso assunto.    

mercoledì 5 dicembre 2012

martedì 4 dicembre 2012

Un uomo verticale?

Ma l’avete sentito? Un discorso da fare arrossire di vergogna chi ne aveva dette di cotte e di crude.
L’avevano dipinto come un moccioso ambizioso e spregiudicato, nel migliore dei casi, ma c’era stato pure chi s’era spinto a definirlo un corpo estraneo, una mutazione genetica della sinistra, una spora di berlusconismo portata dal vento in campo avverso, la punta di lancia di una oscura lobby d’affari con sede alle Cayman. E invece no, ne ha dato prova con un discorso da incorniciare, che ha strappato l’applauso anche ai suoi avversari: senza nulla recriminare ha ammesso la sconfitta, se n’è addossata tutta la colpa, se n’è scusato coi suoi, esortandoli a dare il massimo impegno per portare Bersani a Palazzo Chigi.
Ha detto che terrà fede a quanto solennemente promesso fin dall’inizio della sua corsa nelle primarie: sarà leale nei confronti di chi ha vinto, ne sosterrà il programma e la squadra, condividendone la linea e le scelte sulle alleanze. È quello che si aspettava dai suoi avversari se avesse vinto: si è impegnato a farlo lui, se avesse perso, e lo farà.
Soprattutto – e l’ha ripetuto due o tre volte – chi ha vinto ha vinto e chi ha perso ha perso: una scissione non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello, di costruire una corrente neanche a parlarne, non batte cassa per quel 40% che ha preso, non chiede poltrone per sé o per i suoi. Perché lui non inciucia. Lui non franceschineggia. Un uomo verticale, insomma.

Bello, eh? Oggi, poi, neppure sono passate 48 ore, apri Il Fatto Quotidiano e leggi uno dei suoi che già fa il vocione: «È un’esigenza di Bersani considerare questo 40%. Io sono a disposizione, sarei un ottimo ministro delle comunicazioni». Mica uno strapuntino, Mario Adinolfi vuole un dicastero.
Parla a nome di Matteo Renzi, non cè ombra di dubbio, ma avendone mandato? Se sì, ciò che sembrava verticale in realtà era obliquo: Renzi non avrebbe alcuna intenzione di tener fede all’impegno preso domenica sera, semplicemente non vorrebbe assumersene la responsabilità in prima persona. L’obliquo, però, si farebbe viscido nel dare il mandato proprio ad Adinolfi, invece, chessò, a un Ceccanti o a un Ichino.
Oppure no, Adinolfi parla a nome di Renzi, ma senza alcun mandato, però ritenendo di interpretarne le intenzioni, che sarebbero assai diverse da quelle dichiarate domenica sera: in pratica, Renzi sarebbe verticale, ma per Adinolfi è obliquo.
Non se ne esce: o Renzi smentisce Adinolfi e lo diffida dal prendere iniziative personali (meglio sarebbe, in realtà, che se lo levasse dai coglioni) o quello che di Renzi dicevano i suoi avversari era proprio vero (ma non faceva paura, faceva ridere).  


Aggiornamento
Adinolfi si rimangia quel che ha detto. O glielo fanno rimangiare. 

lunedì 3 dicembre 2012

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«I dissensi sono più visibili degli accordi come il male è più vistoso del bene. Ciò non toglie che la vita non sarebbe possibile, se in realtà i consensi non fossero superiori ai dissensi ed il bene più duraturo, più serio e più comprensivo del male. Sarebbe perciò desiderabile che gli italiani acquistassero il gusto di consentire e sperimentassero la gioia del dir sì».
Il giorno che ammazzarono Aldo Moro tirai un sospiro di sollievo. Povero ingenuo che ero, pensai che insieme a lui morisse pure un certo modo – tutto italiano – di far politica. Sbagliavo. Se ne era stato l’artefice, moriva troppo tardi: aveva già avvelenato i pozzi. In realtà – ci avrei messo una decina d’anni per capirlo – ne era stato solo la più esemplare espressione: con lui – in lui – quel modo di far politica trovava solo il più efficace stilema, facendosi proverbiale. Non ne era stato l’artefice, ma solo l’antonomasia. Fulgida, peraltro, perché anche la rogna può avere in certe croste qualche aspetto affascinante, e Aldo Moro ne aveva.
Difficile parlarne, oggi che è un santino. Fosse ancora vivo, fosse morto in altro modo, sarebbe più facile, ma la condanna delle Brigate Rosse lo ha reso ingiudicabile, si può solo venerarlo come martire, e guai a non farlo, si farebbe pessima figura. Mai come oggi, invece, andrebbe disseppellito e portato alla sbarra come il maggior responsabile del cancro che divora la politica italiana. Può darsi, infatti, che la molecola di base fosse già lì, qualcun altro l’abbia lavorata fino a trasformarla in tossina, ma è con Moro che diventa cancerogena. È Moro che promuove ad arte il mezzuccio della mediazione ad ogni costo, è lui che snerva il conflitto in trattativa, è lui che porta il diverso e l’uguale a quell’equilibrio che li corrompe entrambi. Per il «gusto di consentire», nella «gioia del dir sì».


domenica 2 dicembre 2012

2.12.2012


... e il trattore vroom
e il pulcino o-oh...


Daje

Voglio bene a Francesco Cundari, perciò con la delicatezza che non userei con altri – taglierei corto con un «ma va’ a raccoje cicche!» – correggo la lettura che egli dà de Er compromesso rivoluzzionario. Ciccio scrive che queste primarie gli hanno dato il dejà vu di tutti i mugugni sollevatisi dalla base a lamentare l’inclinazione all’inciucio che pare tentazione connaturata del vertice, dalla svolta di Salerno al compromesso storico, alla bicamerale, all’idea di un’alleanza con l’Udc di Casini, e scrive che trova la migliore obiezione a questi lamenti nei versi dell’Anonimo romano che scrisse:

Chi la vo’ cruda, ‘mbè, chi la vo’ cotta,
tutti però a volemme sur carvario
p’isolamme e potemme da’ ‘na botta.

Finché ho sbottato e a ‘sto catilinario
j’ho fatto: “Però er mio, porca mignotta,
è un compromesso rivoluzzionario”.

Bene, si tratta di una citazione infelice. L’Anonimo romano ha lo stesso disagio, le stesse riserve, gli stessi timori della base, ma è uomo d’apparato, deve obbedienza al capo e deve farne sue le ragioni, lasciando nell’intimo le sue perplessità. Che non mancano.


Daje, Ciccio, non è rivoluzzione, è ’na tattica: la plebe ha naso e lo storce, questo è tutto.  



Quanto rimane di Croce


A sessant’anni dalla morte, di Benedetto Croce ci rimane solo il «carattere». La sua logica e la sua estetica sono ormai coperte da uno spesso strato di polvere sotto il quale vanno a curiosare solo pochi eccentrici. Dei suoi studi storici, tolto quanto oggi sarebbe improponibile perché guasto già nel metodo, ci resta appena qualche pagina felice. Del critico letterario, invece, conviene tacere: non aveva altri strumenti che il gusto, peraltro assai discutibile. Così per il politico, che, visto alla giusta distanza, ha già da tempo rivelato tutti i limiti che stavano nel «carattere»: è a lui che dobbiamo il liberalismo meno liberale dEuropa, un liberalismo tutto metafisico, politicamente inerte, perfino un po codino.

Giudizio ingeneroso? A me non pare. D’altra parte, se vi è capitato di porgere l’orecchio a quanto si è detto di Benedetto Croce in occasione di questo anniversario, non avrete fatto fatica a cogliere qualche imbarazzo anche in chi ne incensava la figura, perché a levare tutto quanto è irrimediabilmente superato in ciò che scrisse resta appena il necessario per riempire mezza paginetta di enciclopedia: neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa, idealista di ritorno, insinuò nella cultura del paese lo sciagurato scetticismo verso la scienza che ci è costato, e ancora ci costa, il gravissimo ritardo che abbiamo accumulato nei confronti dell’Europa. Antifascista della secondora, attraversò il Ventennio senza  grosse difficoltà, accettando di buon grado il ruolo tacitamente pattuito col Regime, quello del dissidente al quale non veniva torto neanche un capello. Intanto pontificava: la vera libertà – diceva – è quella teoretica, che costruisce la realtà a partire dalla conoscenza, la quale, insieme all’intuizione, è espressione dello Spirito, che si manifesta nella Storia come ipostasi dell’Io trascendente. La tragedia è che due o tre generazioni di intellettuali si sono sciroppati questo beverone.

Tra i discorsi commemorativi vale la pena di segnalare quello di Giorgio Napolitano, che dà la misura di quanto Benedetto Croce sia davvero morto, morto del tutto. Il filosofo, lo storico e il letterato stavano sullo sfondo, meglio evitare di metterli in primo piano, sennò sarebbe giocoforza entrato in scena Antonio Gramsci: il commemorando si è dovuto accontentare di mostrarci il «carattere», per giunta affacciato alla finestrella temporale di otto mesi tra il 1942 e il 1943. Cadono le bombe su Napoli e il Padre della Patria scappa a Sorrento, però è tanto triste, perché può portarsi appresso solo qualche migliaio di libri. Poi Sorrento non si rivela tana sicura e gli Alleati lo portano in motoscafo a Capri. Anche lì don Benedetto è triste, dorme poco perché pensa all’Italia sventrata e riempie il suo taccuino di elevati concetti…
Insomma, sarà stato senza dubbio involontario, ma ne è uscito un bel gavettone.

Cosa rimane di Benedetto Croce, oggi, oltre il «carattere», oltre quella figura di madonna pellegrina portata a spalla da Badoglio e da De Nicola? Tutto sommato, rimane solo il suo Perché non possiamo non dirci cristiani. Più citato che letto, d’altronde, sicché per tanti è un libro, e invece si tratta solo di quindici paginette. Puzzano come l’autore e forse questa è la volta buona per leggerle e commentarle. L’occasione mi è data dall’ennesima citazione. Era su Il Foglio di giovedì 29 novembre: «I laicisti non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo: Perché non possiamo non dirci cristiani». Coraggioso e innovativo? Sorvoliamo su tutte le altre stronzate disseminate nel testo – una per tutte: «Amo vedere in lui il più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche» – e passiamo a contemplare il coraggio e l’innovazione che stanno in 



Prima osservazione: «cristiani» sta tra virgolette. Non possiamo non dirci cristiani, ma dando a «cristiano» un significato diverso da quello che ci suggerisce un termine che sta per «seguace di Cristo». Anche se non vogliamo, anche se non volessimo, siamo «cristiani»: lo siamo anche se non siamo «seguaci di Cristo». Dunque dobbiamo? No, sennò avremmo trovato Perché dobbiamo dirci «cristiani» (un salto qualitativo che toccherà a Marcello Pera, mezzo secolo dopo). Qui invece vuol essere rappresentata una tensione che va dal resistere al cedere: Croce ritiene di essere in grado di convincerci, e infatti non mette neanche un punto interrogativo. Nelle sue intenzioni non c’è quella di convertirci sul piano religioso, ma su quello dove «cristiano» piglia un’accezione – non tarderemo a scoprirlo – culturale, dove però «cultura» ha significato estensivo e assume valenza di stadio antropologico.
Ma leggiamo.


Cominciamo male, con una reticenza.  «L’oggetto di questo discorso», infatti, è proprio l’autocompiacenza:  anche qui – vedremo – «spirito cristiano» sta per rappresentazione (ypo-krisis). Infatti si tratta di un discorso...  


Il problema è che si tratta di una storia «cristianamente» intesa, di una verità che è il risultato di un processo di inveramento «cristianamente» perseguito: ci muoviamo in una tautologia. 


Siamo dinanzi a un esemplare saggio di idealismo: il cristianesimo non è un fatto nella storia, ma un pensiero che la penetra e la muove. Per crederlo non  c’è bisogno di essere cristiani (credere che Dio si sia incarnato), basta essere «cristiani» («crocianamente»   cristiani): dare per scontato che il pensiero sia qualcosa che non nasce nella materia biologica, ma la informa. Levento non si chiama Cristo  – può anche non chiamarsi Cristo – ma è comunque irruzione del trascendente nellimmanente: in premessa è assunto come dimostrato che lo spirito si manifesti nella storia come ipostasi di un io trascendente. In altri termini, siamo dinanzi alla spiegazione del cristianesimo grazie al dogma che lo fonda. La persuasione crociana si rivela espediente retorico da rubricare come fallacia. Da subito ci è chiaro che Croce sarebbe stato più onesto se avesse scelto un altro titolo: Perché non posso non dirmi cristiano. Prova del nove?


Non può darsi ratio di una rivoluzione cristiana così sentita senza dare per scontato che lanima nel cui centro essa operò stesse lì da tempo ad attenderla, inadeguata prima e finalmente pronta proprio quando Dio decise di incarnarsi. Un cristiano (senza virgolette) ci vedrebbe il progetto divino, il «cristiano» di Croce ci vede il lavoro dello spirito. E infatti scrive:


Un cristianesimo che perde i suoi connotati teologici per diventare la cifra storicamente leggibile di un procedere umano mosso dallo spirito. Cè però da fare la dovuta distinzione tra spirito e Spirito Santo, sennò la tautologia sarebbe evidente in quanto tale. E allora Croce ci mette una toppa:


Fatto. La «forza trascendente e straniera» è diventata «atto originale e creativo». Il fatto è che per Croce la creazione – nel pensiero, nellazione, nel linguaggio, nellarte, nella storia – è sempre «creazione spirituale». Lo vedremo più avanti, tra due capoversi, quando respinge lobiezione (la «parola di critica rampogna») che questo voglia dire «idealizzare» le dottrine e i fatti, facendo rientrare dalla finestra il trascendente fatto uscire dalla porta: afferma che in quell«idealizzarli» è attiva l’«intelligenza» che li intende. In parole povere, lo spirito si intellige in ciò che ha creato.
Tutto il procedere di Croce sta in questo tentativo di fondare uno statuto dello  «spiritual come trascendente immanentizzato, sicché potremmo dire che tra cristiano e «cristiano» la differenza sostanziale sta nel momento in cui si coglie l’ipostasi: nel cristiano si ha con  l’avvento di Cristo, mentre nel «cristiano» è antecedente, per cui l’avvento di Cristo realizza la possibilità, prima negata, che lo spirito si riconosca in ciò che ha creato. L’evento, che per il cristiano segna una rottura nella storia (al punto che tutto di lì in poi sarà a.C. o d.C.), per il «cristiano» segna il superamento di una tappa. Vediamo cosa accade.    


La «creazione spirituale» è di fatto una scoperta: il trascendente opera nell’immanente un progresso che gli consente il ri-conoscersi. 


Siamo dinanzi ad una interdizione che in qualche modo è analoga a quella della Pascendi di Pio X: lì vi era il divieto di leggere il cristianesimo come capitolo di storia, qui vi è il divieto di sottoporlo a critica. Altro che «coerente prosecutore di Nietzsche»! Croce ci ingiunge di sospendere ogni giudizio addirittura sui mezzi coi quali il cristianesimo realizzò la conquista dell’occidente. 


Quella che Karlheinz Deschner ha definito Kriminalgeschichte des Christentums trova in Croce una sistemazione nella naturale difficoltà che la verità incontra nel processo veritativo: cataste di morti come trascurabile effetto collaterale del progresso umano in tensione verso lassoluto. E qui – sia consentito il bisticcio incrociamo Croce in un luogo comune molto trafficato in tutto il Novecento.  


Comincia a farsi chiaro perché non possiamo non dirci cristiani: significherebbe perdere centralità, egemonia, primato antropologico, significherebbe svendere loccidente. Siamo ad una elaborazione neanche troppo sofisticata del cristianesimo come instrumentum regni: Croce si fa apologeta del patrimomio di famiglia e ci invita a chiudere un occhio su come lo abbiamo accumulato.


Sembra di scorrere le pagine nelle quali Karl Marx elogia le virtù della borghesia, ma almeno in quelle le presenti condizioni dello stato borghese non sono affatto estranee al discorso, anzi. Croce, invece, tronca.  


Sospeso ogni giudizio su come siamo allapice del progresso umano, seduti sul groppone dei barbari che a buon diritto possono non dirsi cristiani, concediamo un occhio benevolo allalbum di famiglia e riscriviamo la storia degli antichi dissapori: il cugino accoltellò lo zio, il nonno azzoppò il babbo, ma in fondo, via, eravamo e siamo sangue dello stesso sangue.


Di fatto e di diritto siamo cristiani quanto il papa, forse anche di più. 


Non se ne voglia, il papa, ma sappia che in Gesù era preannunciato Croce. 


Non fosse chiaro:


Sicché: 


Come dire: Santità, abbia pazienza, ché Croce ci sta lavorando.


E qui, se siete veramente liberali, distinto vi dovrebbe scappare un «amen». Andate in pace, il discorso è finito. 

*       *       *

Questo è quanto rimane di Croce. Andrebbe seppellito insieme al resto. 



venerdì 30 novembre 2012

Toh!

È da qualche tempo che in Nigeria i musulmani ammazzano i cristiani e i cristiani ammazzano i musulmani: netta prevalenza degli ammazzamenti ad opera dei musulmani, che nel paese sono la maggioranza, sicché nel lamentare vittime non c’è gara e stravincono i cristiani. Martiri della fede? Per i più autorevoli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, Benedetto XVI in testa, parrebbe non esserci ombra di dubbio e dunque non ve n’è neppure per gli organi di informazione che controllano, mentre per quelli che diffondono in modo acritico le loro dichiarazioni sollevare obiezioni è peggio che bestemmiare: in Nigeria i cristiani sarebbero fatti oggetto di persecuzione a causa della loro fede, della quale si fanno testimoni fino al sacrificio della vita.
Davvero pochi a mettere in discussione questa tesi. Tra quei pochi, io. Ho sempre sostenuto che bastasse leggere le notizie che arrivavano dalla Nigeria, bastasse liberarle dal bozzolo retorico in cui erano avvolte dai nostri vaticanisti, pappagallini appollaiati sui capitelli del colonnato di Bernini e che vivono delle croste di pane che cadono dalla tavola dei porporati della Curia.
Non starò qui a ripetere il già detto, mi limiterò a farlo dire da un nigeriano, cattolico per giunta, incidentalmente vescovo, e di una diocesi calda. Monsignor Matthew Hassan Kukah dice: «Personalmente ho serie riserve sul fatto che si possa classificare quello che sta accedendo in Nigeria come persecuzione contro i cristiani. Per di più, sembra essere troppo frettoloso attribuire il martirio alle vittime» (Agenzia Fides, 30.11.2012). Nessuna persecuzione, nessun martirio, toh!   

«Sembra una “smoking gun”…»


Il diagramma riprodotto qui sopra è quello che Associated Press ha diffuso due o tre giorni fa con un commento a firma di George Jahn dal titolo Graph Suggests Iran Working On Bomb e che Il Foglio ha ripreso ieri con un articolo a firma di Giulio Meotti dal titolo Ecco la bomba iraniana.
A lungo si potrebbe disquisire su come Meotti abbia letto Jahn, d’altronde, già nel titolo, tutta la prudenza espressa con «suggest» va a farsi fottere per diventare «ecco», mentre i tre o quattro condizionali presenti nell’articolo di Jahn vengono liquidati con gran disinvoltura in quello di Meotti, e fin dall’incipit: «Sembra una “smoking gun”…».
Un velo di pietà cada sull’aver reso «microsecond» (che sarebbe un milionesimo di secondo) con «millisecondo» (che invece è un millesimo di secondo), tanto i lettori de Il Foglio sono allergici alle scienze esatte, che è roba da senzadio, e non ci avranno fatto neanche caso.
Imperdonabile, invece, infinocchiarli scrivendo: «Secondo David Albright, il documento è autentico», mentre invece quello, stando a quanto riferisce Jahn, ha detto che «the diagram looks genuine but seems to be designed more “to understand the process” than as part of a blueprint for an actual weapon in the making», tenendo a precisare che «the yield is too big».
Ma lasciamo perdere Il Foglio, che già abbiamo pizzicato mille volte in questo addomesticamento della stampa estera ai comodi porci propri, e passiamo all’articolo di Associated Press.

Jahn scrive che a passargli il diagramma sarebbero stati degli «officials from a country critical of Iran’s atomic program to bolster their arguments that Iran’s nuclear program must be halted before it produces a weapon», l’avrebbero fatto «only on condition that they and their country not be named». Diamo per certo che così sia, anche se è lui stesso a segnalare qualche incongruenza nel tessuto narrativo. Ma è normale che prima di pubblicarlo quelli di Associated Press non gli abbiano dato un’occhiata?
Certo, «the diagram has a caption in farsi: “Changes in output and in energy released as a function of time through power pulse”», ma esisteranno bignamini di fisica in lingua iraniana? Sì, perché una curva più o meno uguale correda ogni capitolo di bignamino di fisica dedicato alle reazioni termonucleari. Dice niente, poi, che la didascalia sia in iraniano e tutto il resto (power, energy, time) sia in inglese? Bignamino scritto in farsi, ma tabelle rubacchiate da un bignamino scritto in inglese. Sennò bisogna dedurre che gli scienziati iraniani usano la lingua del Grande Satana.
Quel 5 tra parentesi che sta nella didascalia, poi. «The number 5 is part of the title, suggesting it is part of a series», certo, ma «series» di cosa? Delle tabelle di un bignamino di fisica.
Via, per costruire quella curva non c’è bisogno di avere uranio e centrifughe, che in ogni caso è già abbondantemente dimostrato non mancano agli ayatollah, basta scopiazzare da nuclearweaponarchive.org.   

giovedì 29 novembre 2012

Cosa è successo?


Non sono mai riuscito a farmi prendere dal pathos che allo stesso tempo nutre e divora chi tifa per questa o quella squadra di calcio, ma devo ammettere che forse non mi sono mai impegnato come sarebbe stato necessario. Non è che ne abbia sentito la mancanza, devo dire. Al contrario, le folle che si esaltano o si disperano per un pallone che entra in rete o meno mi hanno sempre procurato un misto di fastidio e pena, che peraltro non ho mai dissimulato bene, nemmeno quando a consigliarlo era la buona creanza. È che certe manie fanno fatica ad attecchire, se non si pigliano in tenera età. Te le attaccano gli adulti che ti si offrono come modelli, e a me è mancato quello del tifoso: nonni, genitori, zii, insegnanti, non ne ho mai visto uno scaldarsi a un goal di Sivori o Mazzola, tiepidi perfino alle vittorie e alle sconfitte della Nazionale. Tutti malati di politica, invece, ma malati di brutto.
Tutti comunisti, per giunta, o comunque di sinistra, ma d’una sinistra seria, tosta, per nulla incline al sentimentalismo, anzi anche troppo pragmatica, dunque perfino un po’ cinica. Lares familiares che più a sinistra di Ingrao c’erano solo velleitari e più a destra di Amendola solo fascisti o criptofascisti. Per dare un’idea: ho imparato a leggere a quattro anni sillabando con mio padre i titoli degli articoli su l’Unità. Mio nonno – ricordo come fosse ieri – mi portava a passeggiare, ma si finiva sempre al tavolino di un bar, io a leccare un gelato e lui a battibeccare col primo democristiano che gli capitasse a tiro. Un pranzo di Natale, un picnic di Pasquetta, un Ferragosto sotto l’ombrellone, di regola, erano occasione per discutere di politica, ma si legga il discutere come eufemismo. Così tutta l’infanzia, poi lezioni di letteratura, storia e filosofia che sembrava di stare alle Frattocchie: sarà stato un caso, ma fatta eccezione per un fascistissimo prof di matematica alle medie, una prof di italiano che al liceo ci indorava Benedetto Croce e le ridicole macchiette dell’ora di religione, ho avuto solo insegnanti che dell’insegnamento avevano un’idea militante, e suppongo sia superfluo dire di quale milizia. Tra tutti giganteggiava il mitico Salzano, baffi spioventi, lieve strabismo divergente che gli dava un’area perennemente assorta in cose alte, d’un marxismo tanto scientifico che potevi saggiarlo all’oscilloscopio. Il calcio? Per tutti, senza appello:  l’oppio dei popoli. «Roba da sottoproletariato o da piccola borghesia»
E allora perché queste primarie mi sembrano una partita di pallone? Non si tratta – quest’è il giudizio unanime – di una prova di «buona politica»? Perché non riesco a vedere altro che polpacci e urla? Perché tanta brava gente in fila per votare Renzi o Bersani mi sembra in tutto uguale a quella in fila per entrare allo stadio e tifare Milan o Inter? Com’è che tutto questo gran discutere mi lascia indifferente? Il nuovo che ci voleva proprio, l’usato sicuro che certo non si può buttar via – l’uno o l’altro, anzi no, l’uno e l’altro, perché i muscoli freschi, sì, ma pure l’esperienza conta – com’è che questa Tribuna Politica mi sembra una Domenica Sportiva? Li guardavo l’altra sera, su Raiuno. Si stringevano la mano e sorridevano: mi sembravano in pantaloncini e coi gagliardetti in mano, pochi istanti prima del lancio della monetina. Chi accidenti ha ridotto a derby quello che un tempo avrei seguito come uno scontro politico? Ripenso ai congressi del Pci e della Dc e questa qui mi pare una partita tra le Coop e la Compagnia delle Opere. Lì il fair play era un obbligo pesante e non se ne dissimulava il peso, qui sembra quasi faccia punteggio.
D’istinto mi domando: cosa è successo? Prima la politica era merda e sangue, poi è diventata solo merda, vorranno mica farla diventare pubblicità comparativa tra marche di carta igienica che si contendono il primato del rotolo più lungo e più morbido? Subito arrossisco e umilmente mi correggo: cosa mi è successo? 

domenica 25 novembre 2012

Il compromesso

L’amabile colloquio tenuto qualche giorno fa da Giuseppe Vacca e Francesco D’Agostino (Bioetica, stop alle «doppie morali»Avvenire, 21.11.2012) mi ha fatto tornare con la memoria agli ultimi mesi del 1973.
A quei tempi ero poco più di un ragazzino ed ero iscritto alla Fgci. I quattro articoli coi quali Enrico Berlinguer annunciava su Rinascita la svolta del compromesso storico portarono bufera nella sezione del Pci che frequentavo con grande assiduità. C’era chi era favorevole a prescindere, perché «le decisioni del Partito non si discutono», e chi più o meno efficacemente provava ad argomentarle, quelle decisioni, per lo più riprendendo gli argomenti di Enrico Berlinguer, e mettendoci del suo, secondo le possibilità. Questo era il donde di un Partito con la p maiuscola: una comunità che si fa chiesa non regge che sullobbedienza, puoi chiamarlo Spirito Santo o centralismo democratico. Poi, ovviamente, c’era chi era contrario, ma quello era il Pci ed essere contrari alle decisioni del Partito significava per lo più mugugnare un po’, per poi accettarle, oppure andarsene. E infatti alcuni andarono via, e io con quelli.

Furono mesi di un gran discutere, la passione faceva volare le sedie, insomma, tesi e antitesi cercavano la sintesi. Non voglio tirarla troppo per le lunghe, dal quel gran discutere traggo solo una battuta che in quei mesi fu assai ricorrente: «È solo tattica». In pratica, sì, il Pci si offriva al dialogo e alla collaborazione col mondo cattolico (sineddoche di Dc) ma rimaneva il Pci di sempre. Era proprio quello che affermavano i cattolici (sineddoche di democristiani) contrari all’ipotesi di compromesso storico (non tutti, ma la maggioranza, sì). Era un modo di leggere la posizione del Pci sulla «questione cattolica» che era tornata comodo a Pio XII e a Palmiro Togliatti, ma era davvero quello il punto? In altri termini: le due culture erano poi così inconciliabili? C’era davvero antitesi irriducibile tra i due modelli di individuo – anzi, di persona – che proponevano?
Be’, io non l’ho mai creduto. Anzi, per dir meglio, ho cominciato proprio allora – una quarantina d’anni fa – a credere che le innegabili differenze tra un cattolico e un comunista siano tutte di superficie: nel fondo, lì dove le dottrine si riducono a un umore, a un atteggiamento, a una postura psicologica, un comunista e cattolico – un Giuseppe Vacca e un Francesco D’Agostino, per tornare all’incipit – si somigliano più di quanto sembrerebbe lecito supporre.

Qualche esempio? «Nella vita concreta e nell’evoluzione della orale comune hanno un’influenza esorbitante i processi di secolarizzazione a prospettiva nichilistica», chi può averlo detto? Il «vecchio comunista italiano di impronta togliattiana», come si autodefinisce Giuseppe Vacca.
«Invochiamo una nuova alleanza tra credenti e non credenti che ci pare la premessa fondamentale per evitare il bipolarismo etico e cercare di rompere la spirale secolarizzazione-nichilismo facendo crescere un umanesimo condiviso», chi può averlo detto? Sempre lui, Giuseppe Vacca.
«È difficile affermare che la disponibilità sulla mia vita sia un diritto individuale, poiché non mi sono autogenerato», chi può averlo detto? Sempre lui, Giuseppe Vacca.
«L’amore l’affetto, la solidarità sono importanti, ma quello che definisce la famiglia o la generazione», l’avrà detto Francesco D’Agostino? Macché, l’ha detto Giuseppe Vacca. Francesco D’Agostino si limita a chiosare, comprensibilmente soddisfatto: «Sono affermazioni molto impegnative queste di Vacca… Apprezzo moltissimo quanto ha detto Vacca…».
Comune umore, comune atteggiamento, comune postura psicologica – dicevo. Poi, certo, può darsi che l’art. 7 della Costituzione sia stata una furbata di Togliatti, può darsi che l’elogio di santa Maria Goretti fatto da Berlinguer sia stato un strizzar d’occhio, può darsi, insomma, che si sia consumato anche del tatticismo. Ma quanto Vacca dice a colloquio con D’Agostino rivela affinità profonde che hanno in solido lo stesso modello di persona e di società.

«È giunto il tempo che cattolici e no capiscano che bisogna rimboccarsi insieme le maniche, perché il bene umano non è né confessionale, ne meno che mai ideologico: semplicemente è il bene di tutti», auspica D’Agostino: è la sua offerta di compromesso storico. Ora che i comunisti non sono più pericolosi – lo dimostra il fatto che a loro nome parla uno spelacchiato togliattiano che la storia ha chiuso in una stanza piena di libri – il compromesso è possibile: in nome del «bene comune», che poi è l’unico bene valido per tutti, quello che a tutti può e deve essere imposto – per il loro bene, appunto – e quale sia ce lo faremo spiegare da chi ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Tutt’altra cosa del bene di ciascuno nel rispetto del bene altrui – quello, si sa, è nichilismo.


Nota
Mi accorgo solo adesso che Sandro Magister commenta il dialogo tra Vacca e  D’Agostino, titolando Da Gramsci a Ratzinger. Ecco, perfetto.