domenica 12 maggio 2013

«La mafia è l’essenza della Sicilia»

@ementana decide che non cinguetterà più, la polemica divampa fino a lambire i massimi sistemi e della scintilla che ha appiccato il fuoco – l’affermazione fatta da Giuliano Ferrara nel corso di una trasmissione condotta da Enrico Mentana: «La mafia è l’essenza della Sicilia» (La7, 7.5.2013) – non se ne parla, come se gli insulti piovuti via Twitter addosso ai due fossero del tutto gratuiti. A chiudere la questione su questo punto – a pensare di averla chiusa – è stato lo stesso Ferrara, che su Il Foglio di venerdì 10 maggio, rispondendo alle proteste di una lettrice siciliana, ha scritto: «Io parlavo dell’essenza. Legga “Cose di Cosa nostra”, il bel libro di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani. […] [Falcone] ha detto quel che io ho ripetuto». Vi risulta che qualcuno si sia preso il disturbo di andare a leggere cosa avesse davvero scritto Falcone? A me non risulta. Bene, ci ho pensato io.
Mi ha mosso innanzitutto l’incredulità nel fatto che Falcone potesse aver detto una tale scempiaggine, ma ad andare in libreria, a procurarmi il libro, a leggerlo dalla prima all’ultima riga delle sue 190 pagine mi ha spinto il fatto che Ferrara avesse aspettato 48 ore per dare quella risposta. Perché? Semplice: non poteva farlo prima, non aveva ancora trovato l’intoccabile al quale mettere in bocca quella stronzata. A trovarglielo è stato Salvatore Merlo che in un articolo pubblicato sullo stesso numero de Il Foglio riportava un brano di quel libro: avrebbe dovuto dimostrare che «anche Falcone ne faceva una questione di essenza». Leggiamolo: «Un giorno ho assistito a Palermo a una scena di strada estremamente significativa. Un tizio protesta contro un altro che ha parcheggiato di traverso, intralciando la circolazione. Si agita, urla. L’altro lo osserva indifferente e poi continua a parlare con un suo amico come se niente fosse. Il tizio non fa una piega e se ne va senza fiatare. Aveva capito, davanti all’atteggiamento sicuro dell’interlocutore, che, se avesse insistito, le cose avrebbero preso una brutta piega e lui sarebbe uscito perdente dallo scontro. Questa è la Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere».
Dimostra che «la mafia è l’essenza della Sicilia»? A me non pare affatto, d’altronde, se «essenza» è «quanto individua e definisce la realtà di un oggetto materiale o ideale» (Devoto-Oli), la sua «realtà propria e immutabile» (Treccani), in tutto il libro non v’è traccia di tale relazione tra mafia e Sicilia. In quanto al termine, poi, «essenza» è usato una sola volta, nell’avvertenza in avantesto a firma di Padovani, e senz’alcuna attinenza alla mafia o alla Sicilia.
Nel libro ci sono altri passaggi che implichino una relazione tra mafia e Sicilia che consenta a Ferrara di poter affermare che,  nel dire: «La mafia è l’essenza della Sicilia», ha ripetuto quel che Falcone ha detto? Tuttaltro. Ogni volta che Falcone mette in relazione una caratteristica del mafioso a un aspetto della sicilianità, tiene a sottilineare con forza che si tratta di una degenerazione che lo rende «parossismo» (cap. II), di una sua «sublimazione a livello criminale» (cap. III)altra cosa che «essenza».
E dunque? Cosa è accaduto? Nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Mentana, Ferrara si è fatto prendere la mano e ha fatto un’affermazione che probabilmente voleva essere provocatoria, ma che di fatto era stupida e offensiva, e che successivamente avrebbe messo in bocca a Falcone, che non si era mai sognato di affermare nulla di simile. Qualche siciliano si è risentito e ha reagito con offese alle offese. Senza dissociarsi dall’affermazione di Ferrara, Mentana si è lamentato delle offese indirizzate a Ferrara, e così se n’è procurate altre indizzate a lui. Qui s’è turbato, ha cinguettato un addio ed è volato via. 

Da incorniciare (Internazionale, 999/XX - pag. 3)


[...]

Il consigliere del principe, il cortigiano leccaculo, la favorita, la plebe che si nutre delle briciole che cadono dal tavolo… Tutta gente miserabile, ma che almeno ti dà modo di sorridere, anche se amaro. Infinita tristezza, invece, pensando al cane da guardia.


venerdì 10 maggio 2013

@nonnodipanopoli


A quarantott’ore dal tweet col quale Enrico Mentana ha dato il suo «saluto finale a tutti», l’account @ementana non è stato ancora disattivato. Vuol conservare memoria della sua attività su Twitter? Potrebbe fare un copia/incolla e archiviare tutto in una cartella. Vuol continuare a seguire i suoi 134 following? Può aprire un altro account usando un nome di comodo per usarlo solo in lettura.  No, a mio modesto avviso, il fatto che l’account sia ancora attivo è segno che la decisione di non twittare più sia stata presa d’impulso e che inconsciamente, almeno fino ad ora, l’addio non sia sentito come definitivo. Con quel gesto, tuttavia, Mentana si è reso difficile il ritorno, perché un molestatore è annichilito solo dalla perfetta noncuranza, quando è possibile, sennò dagli strumenti che la legge offre a chi non sappia o non voglia opporre un muro di indifferenza alle sue molestie, mentre invece perde ogni freno quando la sua vittima gli offra prova della loro efficacia, che qui è stata data in modo pieno. D’altronde, finché l’account è attivo, cosa impedisce che Mentana sia fatto oggetto di altre molestie? Erano così intollerabili da costringerlo a smettere di twittare, ma non ha mai denunciato nessuno dei molestatori: da oggi in poi lo farebbe? «Non ho mai bannato nessuno», ha rivelato: comincerebbe a farlo adesso? Saremmo dinanzi a patenti incongruenze logiche che cadrebbero solo nel caso in cui l’account restasse attivo ma Mentana avesse deciso di non visitare più la sua homepage: e allora – ancora – perché tenerlo attivo?

A me pare evidente che a Enrico Mentana piacesse molto twittare (1.444 tweet in meno di un anno), ma che non avesse ben chiaro il rischio che ogni attività sul web comporta o che in ogni caso lo sottovalutasse. «Su Twitter – osserva Massimo Mantellini – [si] può lucchettare il profilo […] usare le liste […] leggere solo le persone che piacciano […] bloccare gli imbecilli. Esiste perfino un tasto apposito. […] Interessa tutto questo [a Mentana]? Ha tempo da dedicare a tutto questo? Non so, non mi pare. Nella sua testa è probabile che Internet dovrebbe adattarsi a lui, comprenderne ruolo ed intelligenza, sensibilità e diritti». È pretender troppo. Come mettersi a declamare in greco le Dionisiache di Nonno di Panopoli al mercato ittico e lamentarsi se arriva un pesce in faccia. Sia chiaro, tirare un pesce in faccia a qualcuno è reato, sicché si può denunciare il fatto e portare il pescivendolo in giudizio. Ma non farlo e lamentarsi quanto il mondo sia insensibile alla bellezza della poesia bizantina, se non da coglioni, è da sprovveduti.


Nota Per correttezza ho linkato questo post a @ementana. Al momento l’account era ancora attivo, ma i following erano stati eliminati: operazione che non aveva senso in vista di una disattivazione dell’account. Bene, ora l’account è stato disattivato. Mi pare, così, ci sia conferma di quanto ho scritto: «inconsciamente, l’addio non [era] sentito come definitivo».   

mercoledì 8 maggio 2013

Nessun mistero



Su Giulio Andreotti si è detto di tutto in questi giorni, ma mi pare che con la sua morte siano andate a ridimensionarsi notevolmente le estreme figure retoriche che in vita l’hanno rappresentato come genio del male o grande statista, e in mezzo, d’un tratto, s’è fatto spazio per un ritratto assai più rispondente alla povera realtà dei fatti: era un mediocre di gran successo che ha incarnato i peggiori vizi del paese, al mero scopo di durare, per il mero piacere di durare. Ciò non toglie nulla alla sua grandezza, sia chiaro, ma la ridefinisce, e per certi versi – finalmente – la depersonalizza: Giulio Andreotti non era un mistero, tanto meno era un uomo misterioso. Forse anche i tanti misteri, di cui per anni e anni si è ritenuto fosse depositario, altro non erano che dettagli irrilevanti: anche se fossero liberati dalla millanteria in cui egli li ha fatti diventare segreti di stato, quasi certamente non spiegherebbero molto. Direi che Giulio Andreotti fu capace di entrare nelle narrazioni di comodo che un popolo di merda veniva costruendo nel corso di lunghi decenni per trovare consolazione alle sue impotenze e alle sue viltà, e fu capace di entrarvi per andare a interpretare il ruolo che gli assicurasse il dover essere necessario a spiegarle o addirittura a giustificarle. Più che accanto a De Gasperi o a Moro, andrebbe messo accanto a Mike Bongiorno e ad Alberto Sordi. Più che accanto a Machiavelli, sta bene accanto a Guicciardini. Più del tragico gesuita che sa quanto il male possa tornar utile alla Provvidenza per realizzare il bene, era il salesiano intrallazzone che sa cavar sugo dalla pietra pomice.

Non mi pare sia stata segnalata la freddezza con la quale la sua morte è stata accolta da Avvenire e da L’Osservatore Romano: più algidi di Wikipedia, neanche un cenno – neppure di sponda – alle sue lunghe ed intime frequentazioni con cinque o sei pontefici e due o tre dozzine di cardinali. Come imbarazzati a farsi vedere ai funerali. Andreotti e il Vaticano si sono serviti a vicenda al massimo, ma adesso è meglio dimenticare, far finta si trattasse di cortesie. Faranno santi La Pira, De Gasperi, Moro, ma Andreotti, che fu il più servile, risulterà in futuro come la più inservibile memoria di fedeltà agli interessi vaticani.

Giulio Andreotti si è andato nascondendo sempre più nell’immagine che era necessaria ai suoi pochi complici e ai suoi tanti avversari, a quanti lo temevano e a quanti lo ammiravano, fino a diventare vivo solo nelle tante caricature, macabre o farsesche, che gli insufflavano vita. Il vero Giulio Andreotti era quello che Leo Longanesi ritraeva nei primi anni ’50: «Quella di un romano non si può mai chiamare vigliaccheria. I romani la sanno lunga sul modo di servire i padroni e, nello stesso tempo, i propri interessi e usano della loro apparente fierezza per far sembrare la viltà solo un adattamento. Loro si adattano a mille situazioni diverse e, per giustificarsi, attribuiscono ogni sbracata al loro cinismo, o meglio, alla loro indifferente superiorità secolare, di cui perfino Mussolini ha fatto le spese. Andreotti possiede questa specie di vigliaccheria e si adatterà, glielo dico io, quando sarà il momento giusto; si adatterà pur di non perdere niente, pur di restare. Ma lo farà con garbo perché è un giovanotto garbato. Non è un tipo da gesti clamorosi o volgari. È prete». Basta intendere per «garbo» l’affabilità di chi corteggia le altrui debolezze facendosene campione, e penso siamo alla migliore messa a fuoco di un personaggio che non ebbe mai bisogno di essere persona. Giulio Andreotti non conteneva alcun enigma: era anaffettività, pusillanimità, mediocrità e vanità, ma astratte da un quadro clinico o da un romanzo di formazione. Giulio Andreotti non si era venduto l’anima al Diavolo, se n’era sbarazzato a gratis perché gli dava impaccio.

lunedì 6 maggio 2013

I devoti della Confindustria


Un lettore mi segnala un dettaglio nella homepage di osservatoreromano.va che non avevo mai notato e mi chiede un commento. Non saprei che dire, può darsi che alla Confindustria piaccia questo nuovo papa per la sua grande attenzione alla povertà.


Consigli per gli acquisti




Luciano Canfora - Intervista sul potere - Editori Laterza 2013

giovedì 2 maggio 2013

Intollerabile

Non è una vecchia ciabatta democristiana, Ignazio Marino, né una pantegana post comunista. Viene dalla cosiddetta società civile, entra nel Pd da indipendente e presto ne diventa – meritatamente, a mio modesto avviso – un autorevole esponente, raccogliendo stima, simpatia e consenso. Serio, ma mai serioso, preparato, mai un filo di boria, mai un’ombra di spocchia, niente a che vedere con la figura del boiardo cinico e spregiudicato, che è tanto comune in quel partito. Persona pulita, poi, e chi ha cercato di sporcarlo (Il Foglio, Libero e il Giornale) ne ha pagato le conseguenze in tribunale. Laico, da sempre schierato in favore dei diritti civili, ha posizioni schiettamente progressiste in campo bioetico. Si fa fatica a trovargli un difetto, insomma, e tuttavia anche Ignazio Marino sembra averne uno: il paternalismo.



Già insopportabile quando si manifesta nel privato, in politica il paternalismo è un vizio intollerabile. Poggia sullassunto che la delega di rappresentanza che lelettore affida alleletto implichi la concessione di una fiducia che non dovrebbe venir meno neppure al più palese tradimento che è nel mancato impegno che il candidato ha solennemente preso nel chiedere il voto. Il voto, così, non costituirebbe la sottoscrizione di un patto, ma un atto di filiazione prossimo alla professione di fede. Colgo papà in patente contraddizione coi suoi insegnamenti, ma anche se non riesco a capirne il motivo, e questo mi indurrebbe a credere che sia un volgare ipocrita, a restarne sgomento, deluso, ferito, resta il fatto che è mio padre: non può che comportarsi a questo modo se non per il mio bene, sicché sospendo ogni perplessità, non azzardo alcuna condanna, e gli rinnovo la fiducia.
Così, Ignazio Marino sembra pretendere da chi ha votato Pd, sentendosi promettere fino a due giorni dell’incarico ad Enrico Letta che col Pdl non ci sarebbe mai stato un accordo di governo, oggi si limiti al disagio. Avendo dato il voto al Pd, mica si è in diritto di disapprovarne le scelte, tutt’al più sarà che non si comprendono. Incomprensibili, dunque, ma solo perché non sempre un figlio è in grado di comprendere le decisioni prese da suo padre. Ripeto: si tratta di un atteggiamento intollerabile. 


[...]

«La crisi rende carnefici le vittime»
Laura Boldrini

In condizioni di forte stress, qualunque ne sia la causa, l’individuo ha risposte che spesso sono irrazionali. Quando questo si protrae nel tempo e si estende a un consistente numero di individui che appartengono ad un gruppo, le risposte irrazionali tendono a cercare, e spesso trovano, spiegazioni che le giustifichino. In pratica, l’irrazionalità pretende, e spesso ottiene, statuto di «umanità», termine ambiguo quanto mai, che qui diventa intrinsecamente pericoloso, perché inscrive la risposta irrazionale nell’ambito del «naturale», cui il senso comune allega il principio di necessità, così, quand’anche inadeguata, anche fortemente inadeguata, o addirittura svantaggiosa, perfino nociva, alla risposta irrazionale si concede indulgenza. Per meglio dire, chi ha una risposta irrazionale a un forte stress sembra agito più che agente.
Un tempo, e per il tempo che le fu concesso, la sinistra riuscì a intercettare, reclutare e disciplinare gran parte di queste risposte irrazionali, e in tal senso prestò un servizio notevole all’emancipazione dell’«umano». Si potrà obiettare, e a buon motivo, che questo servizio non fosse disinteressato, ma in fondo è il concetto stesso di emancipazione che presuppone un interesse che dal particolare riesce ad acquistare forza di universale. A un certo punto, tuttavia, la sinistra ha perso questa capacità. È stato quando il progetto di emancipazione dell’«umano» che perseguiva ha mostrato limiti insuperabili proprio nei mezzi considerati indispensabili al fine. Quanto di irrazionale era stata capace di irreggimentare si è liberato con la violenza di una disillusione. Potremmo concludere che col fallimento del suo progetto la risposta irrazionale ai forti stress si è resa di nuovo disponibile all’uso che ne era stato fatto per secoli: quanto di inadeguato e svantaggioso era da sempre evidente nei suoi effetti ha ripreso ad essere considerato incoercibile, dunque altrettanto «naturale», ma per uno statuto di «umanità» che rigettava e rigetta ogni ipotesi di emancipazione dell’«umano». Che si tratti del peccato originale o del belluino istinto alla sopraffazione del simile, la risposta irrazionale a noxae stressanti ritorna essere emendabile solo se e quando cerca e trova una sua completa lisi nella proiezione. Il nocivo che sta nella risposta irrazionale trova così una spiegazione che lo giustifica nella commiserabilità della «natura umana».
Qui, a mio modesto avviso, si appalesano le ragioni più profonde di quello che altrimenti può essere considerato solo come assurdo paradosso. Dinanzi alla risposta irrazionale a situazioni estremamente stressanti, infatti, abbiamo sostanzialmente due soli modi di trattare quanto ne consegue di nocivo, che poi sono gli stessi coi quali trattiamo le forze a noi ostili con le quali siamo in lotta per la nostra sopravvivenza: cerchiamo di piegarle a nostro giovamento, con l’ingenuo ottimismo che le reputa addomesticabili, o ci pieghiamo ad esse, col tetro pessimismo che le reputa incoercibili; e tuttavia c’è sempre una maggior mitezza di giudizio nel primo caso che nel secondo.

martedì 30 aprile 2013

Nativi americani?

Su L’Osservatore Romano di sabato 27 aprile è pubblicato un articolo a firma di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, nel quale si dà conto di una scoperta fatta nel corso del restauro dell’affresco della Resurrezione, nell’Appartamento Borgia, opera del Pinturicchio: dal lavoro di pulitura del dipinto è emerso sullo sfondo un gruppo di sei uomini (tra il quarto e il quinto, da sinistra verso destra, potrebbe esservene un settimo, del quale sembra apprezzarsene parte del volto).



Due degli uomini sono visibili a figura intera, entrambi nudi, forse in posa danzante, mentre degli altri sono visibili solo i volti, e per due d’essi si riesce ad apprezzare anche qualche porzione dei rispettivi colli e busti, anch’essi nudi, mentre la figura più a sinistra sembra indossare un copricapo con una corta falda sul davanti.  Sulla destra del gruppo, inoltre, sono visibili due cavalli, uno raffigurato per più della metà anteriore del corpo e con gli arti anteriori in posa rampante, mentre dell’altro sono visibili solo la testa e il collo. Poco sembra possibile azzardare riguardo a questo gruppo di figure, ma il Paolucci l’azzarda: potrebbe trattarsi di nativi americani. Il ciclo d’affreschi dell’Appartamento Borgia, infatti, fu terminato nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, che nel suo diario di bordo descrive gli indigeni del luogo.
Molte cose, tuttavia, destituiscono di ragionevole fondamento questa ipotesi. In primo luogo, in Spagna fu possibile leggere qualcosa del diario di bordo del primo viaggio di Colombo non prima della seconda metà del 1493 ed è poco probabile che informazioni sui nativi siano state telegrafate prima alla corte papalina di Alessandro VI. È possibile, a quei tempi, che le notizie contenute in quel diario di bordo giungessero a Roma e arrivassero all’orecchio del Pinturicchio in meno di sei o sette mesi? Ammettiamolo pure, sta di fatto che la descrizione dei nativi americani data da Colombo non corrisponde affatto alle figure rappresentate sullo sfondo della Resurrezione. Per non parlare, poi, del dettaglio dei cavalli: arriveranno in America solo diversi anni dopo.
E allora? Cosa possono rappresentare quegli uomini nudi che sembrano danzare? Il pensiero corre ai gruppi di nudi raffigurati nella Resurrezione della carne e nei Dannati (Cappella di San Brizio) da Luca Signorelli, del quale cè notizia di un suo viaggio a Roma nel 1493. Tenuto conto che la discesa agli inferi di Cristo è articolo di fede, non è più probabile che il Pinturicchio abbia voluto rappresentare sullo sfondo della Resurrezione gli abitanti degli inferi che danzano per lannuncio che verrà giorno in cui anchessi resusciteranno in carne e ossa, come è scritto in 1Pt 4, 5? Più probabile che abbia voluto raffigurare dei nativi americani, credo, di sicuro.   


Nota (1.5.203) Un lettore mi fa giustamente notare che la bolla papale Inter Caetera fa ampio riferimento alla scoperta dell’America ed è del maggio 1493. Questo dà forza alla ipotesi del professor Paolucci e tuttavia la sola descrizione dei nativi americani di cui la corte di Alessandro VI poteva disporre era quella fatta da Colombo del diario di bordo del suo primo viaggio: «Eran benissimo conformati, di bella statura e vaghi di volto; avevano i capelli grossi quasi come i crini dei cavalli, corti e cadenti sino alle sopracciglia: una ciocca ne lasciavano al di dietro senza tagliarla. Non sono né bianchi né neri, bensì ve n’ha che si dipingono in nero, altri in rosso, altri col colore che rinvengono». Nulla di ciò nel gruppo dipinto dal Pinturicchio. In più, resta la già esposta questione dei cavalli.  

lunedì 29 aprile 2013

Atto dovuto

Non avendo mai risparmiato critiche a Pippo Civati, mi è d’obbligo fargli i miei complimenti per la coerenza e l’onestà intellettuale dimostrate oggi. 

«Abbiamo un ministro»



Ho scritto che con Emma Bonino al Quirinale ne avremmo viste di tragiche e di comiche in casa radicale. Avrebbe rappresentato il risultato più importante della scapestrata avventura politica di Marco Pannella, ma allo stesso tempo sarebbe stato un colpo micidiale inferto al suo narcisismo. Per qualche settimana si sarebbe sentito anche lui Presidente della Repubblica, poi questa sensazione sarebbe stata quotidianamente frustrata dall’impossibilità di manovrare una sua creatura finalmente libera, necessariamente libera, dai suoi giochi. Prima o poi non sarebbe stato più in grado di sopportarlo, avrebbe cominciato a sbarellare, chissà, poteva scapparci anche un satyagraha per proporne l’impeachment.
Forse non avrebbe ottenuto neppure la tanto agognata nomina a senatore a vita: non sarebbe mancato chi avrebbe malignato che Galatea aveva voluto sdebitarsi di quanto doveva a Pigmalione, e Emma Bonino tollera tutto tranne l’imbarazzo. Per la stessa ragione sarebbero andate deluse anche le speranze di tanti disoccupati che bazzicano in Via di Torre Argentina e che dall’elezione si sarebbero aspettati di essere assunti al Quirinale almeno come corazzieri. Immaginarsi i mal di pancia. «Perché la Gasparrini sì e io no?». «Cos’ha Di Palma ch’io non ho?». «Emma, tu sai che son poeta, potresti farmi avere la Bacchelli?».
Vabbe’, è andata come è andata, e ce ne siamo perse delle belle, peccato. E tuttavia qualche soddisfazione non mancherà di darcela la nomina che Emma Bonino ha ottenuto a ministro degli Esteri. Neanche il tempo di insediarsi alla Farnesina e già s’accordano gli strumenti per l’overture di quella che si annuncia una spassosa opera buffa.

In primis, c’è un problemino di non semplice soluzione. Perché Emma Bonino diventa ministro di una Repubblica che fino all’altrieri è stata definita «antidemocratica» e «criminale», e lo diventa in un governo di «buoni a nulla» e «capaci di tutto», che ha avuto per ispiratore quel Giorgio Napolitano al quale sono andati per mesi da Radio Radicale i peggiori epiteti, tanto che quello di essere stalinista era il più soffice. E dunque che ci fa, questa preziosa gemma della storia radicale, in un castone così infame?
Buttiamo al cesso l’analisi della realtà italiana fin qui difesa con le unghie e con i denti da chi la riteneva un pochino esagerata? Non se ne parla nemmeno, siamo arrivati a cucirci sul bavero la stella gialla degli ebrei ad Auschwitz. E allora l’analisi resta valida e sarà che Emma Bonino è usata dall’odiato regime partitocratico come foglia di fico? Bisognerà dirglielo, così si dimette subito. Sì, vabbe’, era per dire, come non detto. O sarà che è stata chiamata a far parte del governo Letta perché non si è data troppa importanza al fatto che è radicale ma solo per le sue rinomate doti tecniche? Potrebbe anche andar bene, ma questo significherebbe ammettere che la radicale più riuscita, il pezzo più pregiato della collezione, è tale solo perché è riuscita a tenersi in disparte di quel tanto che le era necessario per non compromettersi troppo con le pazzie di Marco Pannella e non sgualcire troppo la propria immagine. No, sarebbe la spiegazione peggiore.
Significherebbe riconoscere che fino a un certo punto Marco Pannella può pure esserti utile a far carriera, ma poi, se non vuoi fare la fine di quanti ne hanno ferito il narcisismo, devi con pazienza ritagliarti un ruolo che, da un lato, non gli faccia troppo ombra e, dall’altro, ti dia modo di apparire, se non essere, tanto devoto quanto autonomo, ma di un’autonomia che non entri mai in conflitto con l’assunto che il padrone è lui e che tutto ciò che ottieni per te è in funzione della sua gloria. Solo Emma Bonino e Massimo Bordin ci sono riusciti e non a caso sono gli unici di cui Marco Pannella è fin qui riuscito a tollerare una popolarità che è di gran lunga superiore a quella di cui gode lui.
Stavolta, però, con Emma Bonino allo zenit della sua corsa nel cielo della politica italiana e con Marco Pannella che è al nadir della sua, le cose si fanno più complicate. Se ne sono avuti sintomi eloquenti, domenica 28 aprile, in due vivaci scambi di battute che Marco Pannella ha avuto con Emma Bonino, nel corso della Direzione di Radicali Italiani, e con Massimo Bordin, durante la consueta conversazione domenicale sulle frequenze di Radio Radicale.

Nel primo caso, Marco Pannella ha lamentato l’assenza di iniziativa radicale per le elezioni comunali di Roma e ha accennato all’idea di candidare Emma Bonino al Campidoglio che gli era venuta alcune settimane prima, idea abortita per il mancato interessamento di chi si sarebbe dovuto attivare in tal senso. Un modo come un altro per lasciare intendere che quella decisione sarebbe stata nella sua piena disponibilità.
Qualcosa di analogo era già accaduto con la presentazione delle liste di Amnistia, Giustizia e Libertà alle ultime elezioni politiche: Emma Bonino aveva inizialmente espresso l’intenzione di restarne fuori, per poi cedere alle pressioni di Marco Pannella, ma dicendosi disposta a entrarvi solo se fosse stata messa in coda a tutti gli altri candidati. Stavolta è andata in modo diverso.


Chi non conosce la cattiveria e la meschinità dell’uomo avrà afferrato poco. Marco Pannella si intesta il merito della nomina di Emma Bonino: è stato laver rotto il cazzo a Giorgio Napolitano per mesi e mesi ad aver prodotto il miracolo. Con lo 0,19% di voti raccolti alle ultime elezioni politiche ai radicali non manca il radicamento sociale, e grazie a chi? Ma è ovvio, grazie a lui, che lotta, lotta e lotta, e in mezzo a tante sfighe raccoglie ogni tanto una botta di culo. Ecco cosè la nomina di Emma Bonino alla Farnesina: è il distillato delle fatiche di Marco Pannella. Certo, può darsi centri pure il fatto che Emma Bonino abbia dei meriti, ma senza leroica lotta di Marco Pannella cosa avrebbe ottenuto?
Beh, stavolta Emma Bonino ha da obiettare, e lo fa nel modo che sa bene risulterà più urticante: destituisce di ogni fondamento questa versione, prende le distanze, mette le mani avanti e si prende pure la soddisfazione, in coda, di indicare nella collaborazione coi socialisti di Riccardo Nencini una linea politica che potrebbe significare la ripresa del progetto della Rosa nel Pugno, di cui Marco Pannella non vuol nemmeno sentir parlare.


Di rilievo per nulla inferiore è la questione sollevata da Massimo Bordin, anzi, direi che è questione tanto centrale da meritare da parte radicale una posizione un po meno pasticciata di quella approntata al momento da Marco Pannella. Ed è anche su questo punto, forse soprattutto su questo punto, che i prossimi mesi ci riserveranno un divertentissimo spettacolo di piroette e contorsionismi da parte del Gran Barnum di Via di Torre Argentina. Perché è evidente che non è affatto facile far stare nella stessa narrazione la capra della dittatura partitocratica che attua una acerrima censura nei confronti dei radicali, in primo luogo nei confronti di Marco Pannella, col cavolo di una Emma Bonino, sua costola, nominata ministro. «Un felice infortunio del regime»? Gandhi ha fatto breccia nel cuore della Corona Britannica? Reggono cazzate del genere al quadro descritto nel Libro Giallo della Peste Italiana? Bah, può darsi, in ogni caso occorre crederci e per crederci occorre aver fede.




Ma la nomina di Emma Bonino alla Farnesina solleva anche altri problemi, già tutti evidenti, seppure in trasparenza, dalla notevole disparità di pareri in seno al gruppo dirigente radicale riguardo a ciò che è in gioco con la sua assunzione di responsabilità istituzionale in un momento politico come quello attuale e nell’ambito di un governo che rappresenta un’incognita sotto vari aspetti. Occorre dare appoggio solo a lei o anche al governo? Chi è per luna, chi è per laltra soluzione. Ne è parte integrante o è uninfiltrata della resistenza radicale in seno al regime partitocratico? Chi pensa vada bene la prima, chi dà per buona la seconda.
Qui si ripropongono le stesse questioni poc’anzi illustrate, ma acquistano un significato che va ben oltre la costruzione dell’immagine da offrire all’esterno: qui è in discussione quanto Emma Bonino possa tornar utile alle iniziative politiche radicali nella sua azione di governo. Sì, perché la «cosa radicale» non galleggia in buone acque.



Qui occorre stringere i nodi. In estrema sintesi direi che la Farnesina a Emma Bonino sarà un fattore di accelerazione di quel lento processo implosivo di cui la «cosa radicale» soffre ormai da tempo.

sabato 27 aprile 2013

In punta di becco



[...]

Ho scritto che il discorso tenuto da Giorgio Napolitano al Parlamento lunedì 22 aprile aveva l’ineccepibilità dello strumento retorico teso a dissimulare l’esortazione all’unità delle opposte fazioni in seno al regime partitocratico in un appello alla concordia nazionale sulla base di un solido realismo. «Sostanzialmente – ho scritto – è stato un parlar da ipocrita di gran classe a ipocriti da quattro soldi». Ripensandoci, aggiungerei che è stata un’omelia, nel senso etimologico del termine: un omilein, un parlare all’omilos, a un’assemblea che occorre compattare – stringere insieme (omoy-eilein) – su un comune interesse. In pratica – e anche questo l’ho già scritto – si è trattato di un drammatico allarme alla casta, che il suo più autorevole membro le ha rivolto nell’esortazione a far fronte comune contro la minaccia che saliva dalla piazza.
Torno sul discorso di Giorgio Napolitano con questo specifico rilievo, perché fra i tanti che l’hanno elogiato c’è un Giuliano Ferrara che, al contrario, afferma: «Non era un’omelia», e tuttavia sostiene che ci ha visto dentro una lezione di «teologia politica» (Il Foglio, 26.4.2013). Contraddizione patente, perché su cosa fonda la «teologia politica» se non sull’assunto che un ordine politico debba necessariamente avere in radice un correlato trascendente? E quale trascendenza, per far presa sull’immanente, può fare a meno di un apparato sacerdotale? Quale verità che si intenda affermare antecedente e superiore all’uomo non ha bisogno di una casta che sappia confermarla nell’esercizio della persuasione omiletica? In altri termini: se quello di Giorgio Napolitano è stato – come afferma Giuliano Ferrara – «un brusco richiamo al principio di realtà», e se questo principio altro non è che la necessità di riaffermare una verità antecedente e superiore all’uomo, cos’è stato quel «richiamo» se non un tentativo di omoy-eilein i parlamentari in sua difesa? E quale sarebbe, nello specifico, la verità antecedente e superiore all’uomo che una volta tanto era stata messa in discussione dalla piazza?
Se dobbiamo rimanere incollati ai fatti, questa verità sta nella sostanziale irrilevanza della volontà popolare dinanzi alle esigenze di una oligarchia retoricamente dissimulata in democrazia. È fin troppo evidente, infatti, che col tradimento del programma elettorale l’eletto non è più espressione dell’elettorato. Nel caso del Pd, questo tradimento è manifesto: i suoi dirigenti avevano chiesto voti escludendo ogni eventualità di collaborazione col Pdl, e ora si apprestano a farlo, in piena adesione al disegno di Giorgio Napolitano, che c’è da supporre abbiano contribuito in maniera determinante a riconfermare alla Presidenza della Repubblica, perché l’accordo avesse sostegno qualificato e soprattutto preventivato. Rimangono rappresentanti di chi li ha votati, i parlamentari del Pd, o diventano di fatto, e in proporzione alla quota di rappresentanza da essi espressa, gli attori di un vero e proprio sequestro della volontà popolare? Quando lo fanno in obbedienza all’apparato burocratico di un partito che con gli elettori aveva preso impegno di farsi alternativo all’opposto schieramento, a quale verità obbediscono?
Non è complicato rispondere a queste domande, basta sollevare il velo dell’ipocrisia cui accennavo all’inizio. Sotto il magniloquente appello al bene comune troviamo una «teologia politica» che lo identifica in un progetto di società creaturalmente intesa: plasmata a immagine e somiglianza della superiore intelligenza di un’élite che del voto popolare ha bisogno solo come avallo della creatura al creatore. Possono verificarsi momenti di ribellione, ma è relativamente semplice neutralizzarli, facendo del bisogno di personificare l’unità dell’ordinamento giuridico, del potere legislativo e dell’azione di governo, ancorché collegialmente espressa, il prodotto di un’unica volontà preordinata e cogente, imperscrutabile alla creatura, ma di cui la casta sacerdotale è interprete. È la lezione di Hans Kelsen (L’illecito dello Stato, 1913; Il concetto sociologico e il concetto giuridico dello Stato, 1922; Dio e lo Stato, 1923): come la teologia vede in Dio l’essere perfettamente trascendente, così la dottrina dello Stato va a rappresentare la sovranità come principio assoluto. E qui occorre rammentare un’altra etimologia, quella di assoluto, che è quanto ab-solutus, sciolto da ogni vincolo (immanente). La volontà popolare diventa solo l’amen in fondo all’omelia.
Non vorrei che i riferimenti teologici abbiano a sviare il senso di ciò che è veramente «teologia politica». Qui, uniti nel vanificare le intenzioni dell’elettorato del Pd, troviamo Napolitano, i post comunisti del Pd e Ferrara. Tutta gente che in un tempo assai lontano aveva fede – e torna la terminologia teologica – nel fatto che la volontà popolare dovesse trovare necessaria espressione nella dittatura del proletariato, nell’azione di un partito fatto Principe machiavelliano.

giovedì 25 aprile 2013

Segnalibro


Corre voce

Corre voce che dal 2015 all’Inps potrebbe mancare il denaro per pagare le pensioni. È quanto sarebbe contenuto in una lettera che il presidente dell’Istituto di Previdenza, Antonio Mastrapasqua, ha di recente inviato ai ministri Grilli e Fornero, sulla base dei riscontri effettuati dalla Corte dei Conti sul bilancio di previsione per il 2013. Non è difficile immaginare cosa accadrebbe, nel caso. Ancor meno difficile immaginare che per evitarlo non restano che due vie: aumentare la pressione fiscale sulle pensioni o andare a caccia di altri soldi nelle tasche degli italiani. Se Enrico Letta avrà la fiducia, quasi certamente toccherà a lui e la tentazione di un prelievo forzoso dai conti correnti sarà forte. Con Giuliano Amato avrebbe avuto effetto dirompente, con Enrico Letta basterà far presente che a Cipro è stato un furto, qui una robetta.  

mercoledì 24 aprile 2013

La rana e lo scorpione

L’operazione che si è aperta con la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica e che si va chiudendo con la nomina di Enrico Letta alla Presidenza del Consiglio ha i connotati dell’arrocco: gran parte della classe politica italiana sembra intenzionata a sottoscrivere una tregua, a sospendere l’aspra polemica che per anni si è consumata tra le opposte fazioni al suo interno, per unire tutte le sue forze nel tentativo di frenare l’onda di malcontento che minacciosamente sale da un variegato, scomposto, ma sempre più consistente fronte dell’opinione pubblica.
Sembra, dicevo, perché nel portare a compimento questa operazione, peraltro ancora assai lontana dal dare garanzie sulla sua efficacia, già si notano già le prime difficoltà. Sel e Lega si sfilano. Nel decidere quale profilo dare al governo fioccano i distinguo, ancor più nel concordare i punti del programma. Nel conciliabolo relativo ai nomi che andranno ad occupare le caselle ministeriali si riaccendono i mai sopiti appetiti delle cordate affaristiche in seno agli schieramenti. Pare, insomma, che non sia del tutto scongiurata l’ipotesi che Giorgio Napolitano ha lasciato balenare come una minaccia nel suo messaggio al Parlamento di appena tre giorni fa dandogli forma di ultimatum: scioglimento delle Camere e nuove elezioni.
Ben prima e ben oltre il loro esito, c’è da dubitare che segnerebbe un’accelerazione del processo di delegittimazione dei partiti che ormai sembra irreversibile? Siamo all’apologo della rana e dello scorpione: col riconfermare Giorgio Napolitano al Quirinale e con l’affidargli il ruolo di regista dell’operazione, lo scorpione sale in groppa alla rana, ma la sua coda già si tende.


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martedì 23 aprile 2013

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Nella piazzetta sulla quale affaccia la casa in cui nacque Aldo Moro, a Maglie, c’è una statua bronzea che lo raffigura in posa pensosa con una copia de l’Unità sotto braccio. A qualche centinaio di chilometri di distanza, nel Santuario di San Giovanni Rotondo, c’è un mosaico che raffigura Padre Pio nell’atto di benedire una pia donna che in mano stringe un’altra copia de l’Unità. Per capire la ragione che oggi vede in agonia il Pd a meno di sei anni dalla sua fondazione basta chiedersi su quale assunto può aver preso corpo la scelta dei due artisti: si tratta del luogo comune che dava per assodata una stretta affinità antropologica tra i cattolici che il Concilio Vaticano II aveva reso progressisti e i comunisti che dopo la morte di Palmiro Togliatti avevano messo in soffitta il marxismo-leninismo, della profezia che li voleva insieme a coniugare socialdemocrazia e dottrina sociale della chiesa. Come in tutti i luoghi comuni, anche qui cera un fondo di verità. Di fatto, però, le due sfere di appartenenza identitaria tentavano la fusione troppo tardi, quando già da tempo le parallele che si dicevano convergenti, dopo essersi velocemente incrociate, andavano irrimediabilmente divergendo. Il luogo comune diventava sempre più angusto, si finiva a stare gomito contro gomito, a guardarsi da troppo vicino, a riconoscersi troppo tardi come troppo diversi. Ed è allora, solo allora, che quella statua e quel mosaico sono diventati insopportabilmente farlocchi. 

Ineccepibile

Sul piano formale, sì, quello che Napolitano ha tenuto questo pomeriggio al Parlamento è stato davvero un discorso ineccepibile. Sostanzialmente, invece, è stato un parlar da ipocrita di gran classe a ipocriti da quattro soldi. L’ineccepibilità formale c’è stata nel magistrale uso dello strumento retorico col quale il suo drammatico allarme alla casta di cui è autorevole membro si è trasformato in un nobile appello al paese: è sembrato gorgheggiasse «stringiamci a coorte, Italia chiamò», ma in pratica ha detto «ok, teste di cazzo, vi salvo il culo, ma ora collaborate, ché non potrò salvarvelo più». Riuscirci non era facile, ma c’è riuscito. Non ha sbagliato una parola: era un discorso in difesa della casta ed è sembrato il severo monito del Padre della Patria.
Questo non vuol dire che chi oggi si è spellato le mani ad applaudirlo abbia capito. Era l’applauso di chi per ora tira un sospiro di sollievo, ma non è detto affatto che il rilegittimarsi al riparo di una große Koalition farà venir meno i loro vizi di sempre. Ormai li hanno nella carne. Li innervano. Napolitano li ha stigmatizzati come causa del malcontento che genera protesta contro il sistema. Perché il sistema regga – ha messo in guardia – sappiate moderarli, dissimularli nella cura del bene comune. Non siate come apparite – ha detto – o almeno procuratevi di non apparire come siete.
Ha rinnovato, insomma, la raccomandazione di Paolo ai Galati: «Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri» (Gal 5, 15), ma in modo obliquo: «Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Far parte dell’élite dei rappresentanti implica un interesse comune che i gruppi avversi sono tenuti a salvaguardare da ogni minaccia posta dai rappresentati: l’unica democrazia possibile è un’oligarchia ben organizzata, salvarvi il culo a vicenda ne torna a presidio.