lunedì 9 dicembre 2013

«Mica deve essere un orologio filosofico»



leva’ fumo a le schiacciate

Comunque non avrei più votato Pd dallalluce allattaccatura della coscia già assaporavo il piacere del calcio in culo che avrei dato a chi fosse venuto a chiedermi di votarlo ancora ma la vittoria di Renzi alle primarie per la segreteria del partito sigilla la decisione solennemente presa dopo l’immonda manovra dei 101 in Parlamento e il tradimento del mandato elettorale che, per chi avesse memoria corta, era «mai col Pdl». D’altronde avevo votato Pd solo perché Berlusconi, Monti e Grillo s’erano messi d’accordo nello spacciarmi Bersani come menopeggio, ahimè, riuscendoci. E dire che meditavo l’astensione, m’ero praticamente liberato da quel senso di colpa che poteva pure essere considerato un sintomo di inestirpabile fede nella democrazia, nel Novecento, quando ancora c’era il proporzionale, dove se non riuscivi a trovare un partito da votare, coi trenta che ti erano offerti sulla scheda elettorale, be’, era chiaro che avevi qualcosa di marcio dentro, e tutti a dirti «chi non vota non ha poi alcun diritto di lamentarsi» e «se non voti, c’è chi vota al tuo posto», robe che col maggioritario erano destinate a diventare cazzate, e col Porcellum micidiali cazzate. Meglio non pensarci, via, torniamo a Renzi. Che ne avrà dette pure due ai 101, avrà pure avuto da ridire sul governo Letta, ma ai miei occhi resta col grave handicap di essere Renzi. 
Mai piaciuto. Dice: «Ma ne fai una questione di gusto?». E cos’altro dovrebbe essere? Anche per lui la politica è questione di nome, faccia, posa, battuta, e allora se permettete io lo giudico da quello: nome da bottegaio, faccia di cazzo, posa da bullo, battuta da piazzista. Ci tiene a sottolineare che è post-ideologico, lui, gli farei torto a fare paralleli coi prototipi. D’altronde, anche se avesse dovuto scegliere una filosofia politica da indossare per ottenere quello che voleva e poi togliersela di dosso una volta che l’avesse ottenuto, l’avrebbe indossata male. Non è fatto per le idee, si vede subito che le considera superflue, figurarsi a metterle insieme per farne un sistema, ci picchierebbe dentro con la zucca ad ogni passo. Immagini, quelle sì, per di più raccattate dall’album del già visto e rivisto. Almeno Vendola ripesca dal desueto, arrischia qualche neologismo, tenta una sua fattispecie di lirismo, torna ridicolo al punto che si inorridisce sentirlo al telefono con Archinà. Renzi, no. Renzi si compiace di un’estetica da cafone del terzo millennio, rivernicia luoghi comuni senza nemmeno levar via quello che ci si è andato ad incrostare sopra. Sembra il nuovo, ma è il vecchio che ritorna con un’altra faccia, a illudere, come meritano, quelli che il nuovo lo temono, anche se lo invocano, e in fondo per colonna sonora gli sta bene Jovanotti, quello del vuoto ingombro di ogni cosa. Meglio così, però, perché, quando un’ideologia – una qualsiasi ideologia – incrocia un volitivo per tre quarti ambizioso e per il resto becero il tanto da potersi dire a buon titolo uomo dei propri tempi, surfista sullonda del momento, allora può venirne fuori un mostro. Qui, invece, al massimo ne verrà fuori un succedaneo di berlusconismo, liberalismo di cartapesta, meritocrazia da casting, modernità da guida turistica. Non ha un progetto di società, questo è tutto, devessere che quei 48 milioni di vecchie lire guadagnate alla Ruota della Fortuna gli hanno lasciato credere che tutto filasse liscio comprando la vocale giusta.
Oppure no, può darsi l’abbia, una visione, fatto sta che, se ce l’ha, sta sotto a un mucchio di parole, e quello che qui e lì ne affiora non sembra affatto convincente. Prendi i diritti civili, per esempio. «Dopo», dice. «Dopo» cosa, se quelli stanno a fondamento di tutto, e sempre? Quand’anche tu riuscissi ad alzare il Pil e abbassare il debito pubblico – e non si capisce come, perché anche il programma, se ne hai uno, sta sotto un mucchio di parole, e quello che qui e lì ne affiora sono solo ideuzze buone a tappare qualche buco, e male – quand’anche tu riuscissi a creare un milione di posti di lavoro e a innescare la tanto agognata crescita, che strapaese sarebbe mai quello che appresso a te considera i diritti civili dei lussi da concedersi solo dopo aver riempito la pancia? Costano? No, però dividono, questo è il punto, ed è per questo che Renzi non può permettersi di avere una tradizione politica, tanto meno ideali, principi o simili cazzabubbole d’impiccio. Deve fare il pienone, e per farlo deve mettere insieme, nel partito e nel paese, quello che da sempre nel paese e partito confligge a basso regime di conflittualità, nello statuto della dilazione che media e non risolve, e in fondo solo a questo si riduce il suo essere democristiano, per tutto il resto è costretto a fare lhomo novus, come ogni scaracchio di demagogo. 
Dice: «Vabbe’, ti sta antipatico e calchi la mano». Non saprei, può darsi, però io le persone, nel pubblico e nel privato, le giudico per quello che mi danno da vedere. E per uno che in mancanza di altro in curriculum non smette di scassarci la minchia con la sua esperienza di sindaco di Firenze, a me basta la faccenda dell’orologio della Torre d’Arnolfo di Palazzo Vecchio, per il quale Renzi non trova pace, perché è a lancetta unica che, a suo parere, inganna i turisti sull’ora esatta o, peggio, potrebbe dar da credere che l’amministrazione guidata da cotanto sindaco non lo regoli a puntino (e speriamo non s’accorga che il David di Michelangelo ha le gambe un po’ più corte di quanto ci aspetterebbe considerando la lunghezza delle braccia sulle curve auxologiche). Non che sia mancato chi gli abbia fatto presente che quel tipo di orologio fu creato dalle mani di Niccolò di Bernardo, e che ad aggiungere una lancetta si dovrebbe sostituire la meccanica, che è di Giorgio Lederle. Macché, «troveremo uno sponsor, la gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio filosofico». Non avrà le idee chiare neanche su cosa sia la filosofia, ma come biasimarlo? Lo fa per la «gente». E a chi gli obietta che sarebbe uno stupro a storia e cultura della sua città risponde piccato: «Mica voglio metterci un orologio al quarzo, è che così un funziona». Lasciando perdere il resto, l’aggiunta del pisello che Berlusconi decise per la statua di Marte che è a Palazzo Chigi, al confronto, è niente. 

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Ci tornerò sopra, al momento basti dire che a rallegrarsi della vittoria di Renzi è pure l’ex colf degli Angelucci.

sabato 7 dicembre 2013

Ratzinger era testo, Bergoglio è gesto






«Cuando os diga un jesuita que ha estudiato mucho,
no lo creáis. Es como si os dijeran que ha viajado mucho
uno de ellos que cada día hace quince kilómetros de recorrido
dando vueltas al pequeño de su residencia»
 Miguel De Unamuno, La agonía del cristianismo


Ratzinger era testo, Bergoglio è gesto. Nel raffronto ci si aspetterebbe di trovare più ambiguità in Ratzinger che in Bergoglio, perché i piani di lettura sono sempre più complessi nel testo che nel gesto, ed è nella complessità dell’interpretazione che solitamente si fa largo l’ambiguo. E invece è tutto il contrario: Ratzinger non dava modo di essere frainteso, Bergoglio pure troppo.
Ora, s’io fossi cattolico, la cosa mi procurerebbe ansia. Così s’io fossi un ateo devoto, basta buttare un occhio ai problemi dispeptici di Giuliano Ferrara, che per digerire Bergoglio ci ha messo nove mesi e ancora di tanto in tanto gli sale in gola un po’ d’acido. Peggio sarebbe, addirittura, s’io fossi uno di quei non credenti che prega Dio perché gli mandi un papa mite e tollerante, possibilmente socialdemocratico. Niente di tutto questo, perciò Bergoglio riesce solo ad annoiarmi, come una telenovela sudamericana.

Di più: rimpiango Ratzinger. C’era da decostruire, cazzarola. Qui, come metti mano, t’invischi nel molliccio che non ha forma, né consistenza. Chiacchiere, Bergoglio è tutto chiacchiere e borsone (con dentro Bibbia e rasoio). Insomma, stavi su un’enciclica di Wojtyla o di Ratzinger per notti intere, smontavi, sezionavi, isolavi… Qui, prendi un’intervista di Bergoglio, leggi, e che ha detto? Un cazzo.
Diciamola tutta: Bergoglio non è cattolico, è un esperto di pubbliche relazioni chiamato dal Vaticano a tappare i buchi che con Ratzinger si erano aperti in voragini. Presto per dire se riuscirà a tapparli, ma la sensazione è che stia mettendo la sporcizia sotto il tappeto buono. Verrà il momento in cui non basterà più, probabilmente sarà col suo successore, e allora sarà più chiaro cos’è accaduto realmente tra febbraio e marzo di quest’anno: quello che è parso un conclave di rimonta si rivelerà per ciò che veramente è stato, disperato tentativo di restare a galla dopo il crollo della diga.

Ho provato a trattare Bergoglio da papa, ma mi è riuscito impossibile. Troverei meno imbarazzo nel riportare su queste pagine le furiose diatribe che a dodici anni incrociavo con la mia zia suora sulla Trinità che a perdermi nell’analisi dei suoi fervorini da parroco piacione. In questi nove mesi non mi son perso una sua parola, ma ogni volta che ho messo mano alla penna l’ho subito riposta dicendomi: «Sii serio, hai di meglio da fare che scrostar vernice fresca dal ferro vecchio».
Così con quel polpettone dell’Evangelii gaudium, di cui mi ero imposto un commento: più andavo avanti a leggerlo, più sentivo in imbarazzo, io al suo posto. «Questo non è cattolicesimo – mi dicevo – e forse non è neanche cristianesimo. “Cristo sorrideva”, dice. E dove cazzo l’ha letto?». Insomma, mi sono sentito solidale con quei poveracci della Tradizione ai quali Ciccio I fa giustamente venire l’orticaria e il torcimento di viscere (consiglio la lettura di un post di Almanacco romano che in tal senso è veramente delizioso). Sicché, salvo sortite occasionali, con questo papa non vi aspettate da parte mia l’assiduo interessamento che ho concesso al suo predecessore: preferisco guardare con mio figlio documentari sui dinosauri su Youtube succhiando ghiaccioli. Lui preferisce quelli allamarena, io quelli al limone.  

venerdì 6 dicembre 2013

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Palazzo. Interno, giorno. Saggi discutono attorno a un tavolo – tavolo bellissimo – di legge elettorale. Tramestio, si spalanca la porta, entra la canaglia e fa carneficina. Qualcuno si lascia andare ad atti di cannibalismo…

Resta solo da scegliere il regista, e questo è un bel problema. Per come tira il mercato, la tentazione sarebbe quella di affidarsi a Tarantino, che però affogherebbe l’allegoria nel sangue, budella appese ai lampadari, tutto già visto. Si potrebbe rimediare con un Greenaway, ma il rischio è che ne venga fuori una robetta troppo algida. Buñuel, peccato, è morto. Lascerei perdere Almodovar, appiattirebbe tutto a melodramma pop. Tra i nostri, non vedo chi (la tentazione sarebbe Sorrentino, ma ormai ha già dato). Insomma, abbiamo questa magnifica sceneggiatura, dialoghi limati a puntino, attori che febbricitano in attesa del primo ciak, una marea di comparse che il produttore neanche ha fatto una piega quando ha saputo il costo dei cestini, e ci manca il regista, puttana la miseria zozza.

giovedì 5 dicembre 2013

Nella puttana



Notiziona: «Papa Francesco, su proposta del consiglio degli otto cardinali ha deciso di costituire una specifica commissione per la protezione dei minori con la finalità di consigliare il Pontefice nell'impegno della Santa Sede nella protezione dei bambini e la protezione pastorale delle vittime degli abusi» (ansa.it, 5.12.2013).
Notizietta: «Il Vaticano si è rifiutato di comunicare a una commissione dell’ONU le informazioni relative a una indagine interna sugli abusi sessuali commessi sui bambini e sulle bambine da parte dei membri del clero» (ilpost.it, 4.12.2013).
Nella puttana, in fondo, cosa si nota di più: il fondotinta o la pellaccia che c’è sotto?

Sul luogo comune dell’«amnistia mascherata»

Mi sono sempre detto a favore di un’amnistia, e non ho cambiato idea, ma ho sempre tenuto a precisare che la considero una soluzione squisitamente emergenziale, resa ormai indispensabile a fronte dell’incapacità dello stato di rispettare i diritti umani di chi è detenuto nelle sue carceri, ma sostanzialmente inadeguata a risolvere in via definitiva il problema che la rende necessaria: senza strumenti di pena alternativi alla detenzione in carcere, senza una revisione della misura di carcerazione preventiva, senza la depenalizzazione di alcuni reati, ci troveremmo in breve a dover considerare indispensabile un’altra amnistia, come d’altronde insegna l’esperienza dei tempi in cui se ne decideva una ogni tre anni, con la stessa filosofia che consigliava la concessione dei condoni edilizi.
Anche per questo ho sempre ritenuto, e non ho mai mancato di rimarcare su queste pagine, che cercare di far forte la necessità di un’amnistia col darle il valore di soluzione definitiva o addirittura «strutturale», come qualcuno si ostina a sostenere con sprezzo di onestà e buonsenso, significa giocare sporco sulla pelle di chi sta in carcere, poco importa se per basso calcolo o vacuo umanitarismo.
Questo insistere sulla necessità di un’amnistia di là dallo stretto necessario che la richiede come soluzione emergenziale, d’altronde, produce anche altri argomenti fallaci, tra i quali il più frequente è quello che ce la propone come sanatoria a fronte di un’«amnistia mascherata», per di più «di classe», dunque tanto più odiosamente ingiusta, che si sostanzia nell’impunibilità dei reati che arrivano ad essere prescritti grazie ad avvocati tanto più costosi quanto più bravi che si può permettere solo chi è ricco. Qui, credo, siamo dinanzi a un singolare sproposito che coniuga un luogo comune, vedremo quanto malamente fondato, con la convinzione che l’equità sociale si ottenga segando le gambe a chi è troppo alto, piuttosto che a dare trampoli a chi è troppo basso.
Lungi da me negare che un buon avvocato costa e che il costo è spesso proporzionale all’abilità sul campo e alla conoscenza delle variabili che lo rendono scorrevole o accidentato, d’altra parte, come ogni luogo comune, anche quello dell’avvocato Coppi che sicuramente ti farà assolvere in Cassazione ha un fondo di verità. Di fatto, i numeri dicono che più di un terzo delle prescrizioni maturano nel corso delle indagini preliminari, fase del procedimento in cui il ruolo dell’avvocato è irrilevante. Non è tutto, perché anche gran parte delle prescrizioni che maturano nel corso del processo sono in gran parte dovute a disfunzioni della macchina giudiziaria (difetti di notifica, assenza dei giudici, cambio del collegio giudicante, testimoni che non compaiono in udienza, ecc.), che è non certo il difensore a causare. In pratica, le prescrizioni che si ottengono grazie alla strategia difensiva sono assai meno di quelle che gli stessi avvocati tendono a far credere ai propri clienti per ovvi motivi, senza voler tener conto del fatto che gli espedienti per cercare di far arrivare a prescrizione un reato li conoscono anche i praticanti dopo due o tre anni di esperienza in un qualsiasi studio legale.