martedì 14 gennaio 2014

Corrispondenze

Riproduco qui sotto una email inviatami da Nane Cantatore.

Credo che la posizione antispecista non stia in piedi per una patente contraddizione logica, tanto grossa da renderla insostenibile: essa infatti sostiene una continuità tra l’uomo e l’animale, a partire dalla comune capacità di sentire e di soffrire. Lasciamo perdere l’evidente arbitrio per cui proprio tale capacità dovrebbe essere fondativa di diritto, anche solo nella limitatissima accezione del diritto a non provare sofferenza, e concentriamoci sulla contraddizione, talmente grossa da essere, a mo’ di purloined letter, invisibile: proprio tale condizione, tanto primaria da abolire ogni differenza tra uomo e animale, sarebbe all’origine dell’imperativo etico, il quale varrebbe però soltanto per l’uomo, appunto perché solo l’uomo è soggetto morale. A riprova di tale affermazione, valga il fatto che i comportamenti crudeli dei delfini, che stuprano e uccidono i cuccioli di focena e della loro stessa specie, o dei leoni, la cui violenza intraspecifica è molto superiore a quella umana, non vengono giudicati moralmente, salvo essere accusati, per l’appunto, di antropocentrismo. In altre parole, l’identità tra uomo e animale sancirebbe un dovere fondato sulla differenza tra uomo e animale.
Se questo approccio è insensato, non credo però che lo sia la domanda a cui cerca di rispondere, e a cui credo siamo comunque chiamati tutti a dare una risposta. La pongo nei termini con cui viene espressa in un commento al suo secondo post: Prima di tutto dovrebbe spiegare perché non è giusto provocare sofferenze agli animali?”
Perché se pensassimo che le sofferenze provocate agli animali fossero un che di moralmente indifferente, il problema non si porrebbe, e non solo per la sperimentazione ma per qualsiasi crudeltà. Invece, riteniamo che tali sofferenze siano comunque un male, che può essere accettabile per un bene maggiore (il topo sacrificato per la ricerca medica), e comunque da limitare al massimo (il topo sia sedato, gli esperimenti effettuati solo quando necessario e così via), ma non in tutti i casi (non, ad esempio, per la sperimentazione di cosmetici). Si potrebbe porre la questione in termini puramente quantitativi, come una contabilità della sofferenza accettabile per un dato bene, ma tale risposta avrebbe innanzitutto il difetto di essere arbitraria e imprecisa, tanto da faticare a immaginarla davvero dirimente: anche una volta accettata la sperimentazione limitata e controllata, cosa fare dell’uccisione di animali a scopo alimentare? E cosa fare, spostando l’asticella, dell’uccisione di animali a scopo ludico? Perché, in altre parole, la bistecca sì e la corrida no? Soprattutto, però, la questione resta: mentre è facile trovare dei motivi razionali per vietare l’omicidio, il furto o la menzogna, è difficile giustificare, una volta messa fuori causa l’empatia verso altri senzienti dalle motivazioni razionali delle prescrizioni morali, l’immoralità, o comunque la connotazione negativa, dell’infliggere sofferenza agli animali.
Per provare a rispondere, devo cercare di chiarire un carattere fondamentale di ogni proposizione morale che abbia un senso: essa ha un carattere necessariamente intersoggettivo, ossia passa per il riconoscimento di un’alterità a cui si riconosce una validità o, per dirla in termini più pregnanti, una dignità. È nei confronti di questo altro che sono moralmente obbligato: in un mondo assolutamente solipsistico non ho obblighi, mentre già nel paradossale universo idealista di Berkeley, o nei primi passaggi cartesiani in cui ci sono soltanto l’ego cogitans e Dio, esiste per lo meno una matrice di moralità.
Uscendo dalle iperboli metafisiche, la morale vincola rispetto a soggetti reali e interagenti, a partire dal loro riconoscimento. Un riconoscimento che non ha ancora, in questa fase, le caratteristiche della reciprocità: quando il vincolo è reciproco, dalla morale si passa alla norma, al diritto. Ma, e qui sta il punto cruciale, questa fase primigenia della morale senza reciprocità, in cui l’altro non è coobligato insieme a me, è una pura finzione filosofica: se devo agire verso altri secondo dei principi conformi alla mia condizione rispetto a questi altri, o tale condizione è fondata sul riconoscimento reciproco o i diritti che riconosco loro, in quanto non danno luogo ad alcun obbligo intersoggettivo, sono semplici diritti passivi, ossia concessioni, revocabili in qualsiasi momento, e un obbligo revocabile e dipendente dalle circostanze o dalla volontà non è un obbligo morale. Mi chiarisco: è chiaro che ogni ingiunzione morale può essere disattesa, ma il suo valore resta a dispetto dei fatti; se, invece, tale ingiunzione non ha un fondamento vincolante, ma riposa integralmente nella volontà, o nell’arbitrio, di chi se la impone, allora essa perde il suo carattere imperativo. Insomma, la morale è subito diritto, e credo che Hegel abbia ragione (anche) su questo.
Vorrei essere chiaro: nel definire imperativi gli obblighi morali non intendo fare riferimento a dettami provenienti dall’alto di una rivelazione o comunque legati a una qualche immutabilità ontologica o esistenziale (come mi pare facciano gli antispecisti con la loro scaturigine dell’etica dal dato ontologico della sensibilità), ma a un carattere formale della norma. Essa è tale soltanto se ha un carattere generale o se riconduce comunque a esso, anche quando tale carattere fosse nel criterio generalissimo della maggiore utilità possibile per il maggior numero di individui, e tale carattere resta a dispetto di ogni convenienza o contingenza che, semmai, concorre a determinare e a specificare la norma.
Provo, finalmente, ad arrivare al punto: da quanto detto finora, risulta che gli animali non possono essere soggetto di diritti, ma soltanto oggetto di concessioni. Detto questo, vorrei però esaminare il carattere del rapporto dell’uomo con gli animali, cercando di muovermi su un terreno di continuità, proprio per recuperare un piano di reciprocità. Credo che questo terreno sia quello dell’etologia e dell’ecologia, vale a dire della struttura dei comportamenti all’interno di modelli non morali ma comunque generatori di risposte complesse, vale a dire di significato, e delle interazioni tra specie all’interno di uno stesso ambiente.
Ora, l’addomesticamento di numerose specie animali è avvenuto su un piano di reciproca convenienza, ossia di simbiosi: le diverse specie addomesticate hanno visto un netto incremento del loro successo riproduttivo, della disponibilità di cibo e riparo, dell’estensione stessa del loro habitat. L’uomo, a sua volta, ne ha ricavato a sua volta fonti di cibo più variate, affidabili e abbondanti, oltre a tutta una serie di altri benefici per attività che lo caratterizzano in modo peculiare rispetto agli altri animali, dal vestirsi al guerreggiare. In altre parole, se l’uomo non si nutrisse (anche) di bistecche, ci sarebbero molte meno mucche sul pianeta. Del resto, da quando non si usa più la trazione animale, ci sono molti meno cavalli e asini: l’introduzione dei veicoli a motore è stata, in questi termini, una catastrofe ecologica per tali specie.
A queste condizioni, la sofferenza del singolo animale è, dal punto di vista di questa economia simbiotica, accettabile nella misura in cui essa fa parte delle condizioni del successo evolutivo di tale specie: il maiale può essere macellato per farne salsicce, dal momento che le salsicce sono la ragione per cui la specie del suino domestico è enormemente più numerosa di quella del suino selvatico. È altrettanto chiaro che questa sofferenza va tenuta al minimo necessario, dal momento che ogni specie, e ogni individuo di ciascuna specie, ha il chiaro interesse a non soffrire. In questo senso, il mutare delle condizioni reali può spostare il livello di sofferenza accettabile: il cavallo di un carrettiere faceva una vita indubbiamente peggiore di un cavallo da maneggio, ma in entrambi i casi la specie equina godeva di un vantaggio simbiotico.
Fin qui, il tentativo di inquadrare la questione in senso ecologico. Passando al versante etologico, ritroviamo l’intero universo di relazioni e di empatia che osserviamo tra ogni animale, uomo ovviamente compreso. Insomma, è palese il fatto di un reciproco investimento emotivo tra uomo e animale, che avviene secondo forme di fatto codificate: si riconosce quando un cane è amichevole, esistono segnali e comportamenti che possono indurre alla tranquillità o all’aggressività mammiferi di specie diverse, e così via. Si riscontra una notevole continuità nel comportamento umano e in quello animale, e non sembra peregrina l’ipotesi che alcuni comportamenti degli aggregati umani siano più simili a quelli dei canidi che degli altri primati, fino a poter ritenere, come fanno diversi paleoantropologi, che alcuni caratteri delle prime società umane siano stati fortemente informati dalla presenza dei cani.
Ciò giustifica ampiamente la repulsione che proviamo verso le sofferenze di altri esseri senzienti,  e persino la legittimità di legiferare per il loro massimo contenimento: infliggere sofferenze senza uno scopo è crudele, e la crudeltà è repellente e socialmente distruttiva; di conseguenza, reprimiamo la crudeltà. Detto per inciso (giuro, è l’ultimo inciso), questa proposizione vale anche in una prospettiva morale di utilitarismo debole, ma ciò è dovuto al fatto che l’utilitarismo debole (vale a dire, una prospettiva che non ponga la massima utilitarista come imperativo morale, ma come semplice criterio organizzativo) non è una dottrina morale, neanche intesa come morale “dal basso”. Lo è invece  l’utilitarismo forte (alla Bentham), che, proprio perché si dota di una massima semplice e dotata di una certa evidenza, è una dottrina morale abbastanza elegante ed efficace.
Allo stesso modo, limitare le sofferenze degli animali da laboratorio o garantire buone condizioni di vita agli animali da allevamento non è ipocrisia, come sarebbe se esistesse un imperativo morale a cui si tributasse l’ossequio della forma per poi tradirlo nella sostanza, ma una scelta dettata dalla nostra empatia animale e, a fortiori, umana; scelta che è perfettamente funzionale all’economia simbiotica di cui sopra.
Da qui al diritto, però, c’è un abisso.

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Lascito in sfacelo




L’americano è fesso, il giapponese anche di più, per non parlare dello svizzero, che oltre ad esser fesso non sa neppure cosa sia, la bellezza. Vengono, guardano, cercano di annodare un nome a un’immagine col naso spiaccicato su una guida, ma non hanno neppure la più pallida idea di quanto sangue… Pensano sia un museo, non riescono neppure a capacitarsi che la bellezza, qui, è quel che resta di una violenza senza pari. Non c’è un palazzo, né una chiesa – né affresco sacro, né profano – né fontana, né lucernaio, che non abbia avuto per committente un delinquente. E più era delinquente, e meno aveva scrupoli, e più era feroce, più aveva d’appresso artisti e storici a imbellettargli il grugno: «Prego, duca, si metta di profilo, così evitiamo di ritrarre la cicatrice»; «Santità, copra l’orecchio col camauro sennò si vede la papula luetica». Sembra un museo, ma a saper leggere le didascalie, tra le righe, è un catalogo di nefandezze, nequizie, vizi. Roba superlativa, in ogni caso, sicché con l’avvizzirsi della rigogliosa crudeltà del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco, coll’avvento dei parassiti che hanno preso il posto dei delinquenti, la bellezza non ha prodotto altro che rifacimenti, copie in quarto o in ottavo, e lo stucco ha sostituito il marmo, il nemico non veniva più sventrato, ma strozzato, e la pennellata ha preso maniera. Per dirla al modo dei villani, la bellezza è diventata estetica, ha perso l’allusione all’atroce che doveva diluire fino a estinguerlo nel mirabile, e s’è data in «wonderful». Per le vie lungo le quali s’accatastavano cadaveri passeggia oggi, in pantaloni bianchi e giacca gialla, il custode di questo lascito in sfacelo, e dietro si trascina una lunga coda di turisti.  

lunedì 13 gennaio 2014

[...]


Temo di essere stato troppo sbrigativo nella risposta a chi mi ha chiesto di esprimere la mia opinione sulla sperimentazione animale in campo medico, ma nel dichiarami a favore, nell’aggiungere di esserlo senza riserve e nell’affermare che ritengo assurde le ragioni di chi è contrario, pensavo fosse implicito il rimando agli argomenti che la dimostrano necessaria, e che anche stavolta, col riaccendersi del dibattito sulla questione, autorevoli voci del mondo scientifico sono state costrette a riproporre, e con una pazienza che ritengo eroica, a fronte di esaltate frange di fanatici, convinti assertori di un’assoluta parità di diritti tra uomo e topo. Temo di essere stato troppo sbrigativo, perché scrivendo su queste pagine che, «fosse in mio potere, costringerei costoro alla coerenza, negando loro la somministrazione di ogni molecola che abbia richiesto il sacrificio anche di un solo animale per i test necessari al suo impiego clinico», ho offerto il fianco all’obiezione – cito testualmente – che «l’incoerenza non inficia per nulla la verità di quello che viene detto ma solamente mina l’autorità di colui che lo dice» [Carlo]. In pratica, mi sono beccato l’accusa di ricorso ad una fallacia argomentativa, e devo confessare che questa mi ha irritato assai più delle ingiurie e delle minacce piovutemi addosso, e che d’altronde mi sono limitato a cestinare, perché negli anni sono giunto a conclusione che dare ad esse una qualsiasi forma di visibilità è un modo, ancorché subdolo, di esercitare la più perversa forma di vanità del blogger, che è quella di posare a vittima.
Non ho risposto all’accusa, al mio posto l’hanno fatto altri lettori, chi in modo assai spiritoso, e tuttavia – ritengo – non risolutorio («Quando vedrò un animalista farsi operare da un chirurgo alle prime armi che non ha aperto manco un ratto, ma s’è esercitato con Surgeon Simulator 2013 su xbox, allora potrò affrontare l’argomento con lui» [Stefano]), chi col fare presente che in questioni di natura etica (e l’animalismo e l’antispecismo rivendicano di muoversi in questo ambito) i principi sostenuti vanno «verificati sul campo e non trattati in astratto» («Nel momento in cui ci si cura con le stesse cure di tutti gli altri - ci si dimostra cioè disponibili a mettere la vita animale su un piano diverso da quella umana - si tende giocoforza a divellere il preteso fondamento etico e morale che si è appena sostenuto […] quindi l’incoerenza inficia certamente la verità di quello che viene detto, perché essa è a tutti gli effetti un piccolo pezzo di dimostrazione della falsità del principio etico sostenuto» [Paolo]). Ottimo collegio difensivo, devo dire, ma in campo etico davvero la coerenza è un argomento? Come vedete, ho ribaltato la questione posta implicitamente dal mio post e – ahimè – devo dare una risposta negativa: no, perché si può affermare moralmente disdicevole masturbarsi (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2352), farlo, pentirsi di averlo fatto, rifarlo, ripentirsi, e tuttavia continuare ad affermare che è offesa al sesto comandamento, dunque peccato mortale. Intendo dire, se l’ellissi aveva curva troppo larga, che in campo etico un assunto si fa principio senza avere alcun bisogno di «verifica sul campo»: si dà «in astratto» e chiede, quasi sempre con forza, di farsi concreto, ma, se non ci riesce, non rinuncia certo a venir meno.
Si obietterà che questo vale per l’etica che si dà come superiore e antecedente all’uomo, eterna e immutabile, e dunque come espressione di un disegno trascendente, ma che esiste, o almeno è possibile, un’etica che sale dal basso, come tentativo di risposta al bisogno di una logica che informi la norma, un’etica, cioè, che ha come fine un utile sovraindividuale senza aver bisogno di figurarselo a immagine e somiglianza di un dio. Sono d’accordo, anzi, ritengo che questa sia l’unica etica tollerabile, perché fa i conti col divenire umano, avendo come solo fine la convivenza di individui liberi e responsabili, perciò rispondendo al più genuino significato di ciò che è ethos, luogo in cui si vive, spazio destinato alla vita.
Ora, a me pare evidente che chi è contrario alla sperimentazione animale in campo medico lo sia perché ritiene che a topi, conigli, maiali, ecc. debba essere garantita una tutela giuridica pari a quella di cui godono gli esseri umani, in risposta ad un’istanza etica che sarebbe comune a tutti i viventi, anzi, per meglio dire a quelli che appartengono al mondo animale, visto che la loro conseguente scelta vegetariana (qui evitiamo di prendere in considerazione chi è contrario alla sperimentazione sugli animali, ma se ne nutre), non risparmia altri organismi viventi come rape, carote, zucchine, ecc. In altri termini, ad informare la norma dovrebbe essere una logica (etica) che sia valida per uno spazio destinato alla vita (ethos) in cui dovrebbero considerarsi inscritti, e con parità di certi diritti, uomini, topi, conigli, maiali, ecc. (e dico «certi diritti» perché nessun animalista o antispecista si spinge a chiedere per essi, ad esempio, il diritto di voto). [Non credo di essere andato troppo oltre nell’interpretazione della filosofia che sta in premessa alle loro richieste, perché ho attinto dalle loro bibbie (Peter Singer, Animal Liberation, 1975; Tom Regan, The Case of Animal Right, 1983).]
Bene, a questo punto vorrei mi si consentisse una domanda: questa logica – questa etica – è del tipo che sale dal basso o del tipo che scende dall’alto? Per meglio dire: è un’etica che è da considerare superiore e antecedente al mondo animale, eventualmente ad esso intrinseca, da sempre disattesa fino alla scoperta che la vita del topo è in qualche modo sacra quanto quella umana, oppure è un’etica che si fa carico di mutate condizioni nell’ambito degli equilibri che reggono il regno animale? Potrei porre la domanda anche in un altro modo, forse un po’ più brutale: i diritti degli animali per cui si spendono animalisti e antispecisti sono nati con gli animali o sono acquisiti? Nel primo caso, mi pare evidente che a rispettarli fin da subito, da quando l’uomo è comparso su questo pianeta, non saremmo qui a discuterne: è ampiamente dimostrato, infatti, che senza lo sfruttamento di alcune specie animali, in primo luogo per esigenze alimentari, ma non solo, e in ogni caso con patente lesione dei diritti che oggi dovremmo riconoscere ad esse, non avremmo fatto fronte ad una innumerevole serie di problemi. Nel secondo caso, invece, c’è da chiedersi se tali problemi siano risolti per sempre, al punto da poter rinunciare allo sfruttamento di tutte le specie animali, facendo coincidere la norma antispecista alle mutate condizioni di quella che fino a ieri, in modo arbitrario, abbiamo chiamato specie umana. [Un esempio: è possibile un corretto sviluppo nel bambino senza apporto di proteine animali?] Mi pare del tutto pacifico, infatti, che un’etica che scende dall’alto non abbia alcun bisogno di fare i conti con le esigenze che si muovono dal basso, semmai è il contrario, mentre un’etica che sale dal basso può ritenersi fondata solo se l’utile sovraindividuale può ragionevolmente includere tutti gli individui per i quali dichiara parità di certi diritti.
Mi si dirà: stai per caso tentando di dare per scontato che l’etica debba necessariamente avere un fondamento di tipo utilitaristico? È la domanda che via email mi ha posto un antispecista dai modi non tanto aggressivi da essere subito mandato a cagare, e a lui ho risposto che, sì, ce l’ha anche quando lo nega o lo afferma in vista del guadagno della vita eterna. [Peraltro cè da rilevare che unetica diversa, di quelle che scendono dallalto, comè quella che dichiara moralmente disdicevole masturbarsi, consente lo sfruttamento e luccisione di animali, ma vieta che vengano maltrattati perché il maltrattamento configurerebbe unoffesa non già alla dignità del maltrattato, ma a quella del maltrattante.] A questo mio assentire, mi sono visto muovere come obiezione che un animalista ante litteram è stato proprio il padre dell’utilitarismo, e cioè Jeremy Bentham, il quale invitava a «non porsi la domanda se [gli animali] sanno ragionare, né se sanno parlare, bensì se possono soffrire». Lì non ho potuto far altro che invitarlo a non limitarsi a leggere le sette o otto righe che i fanatici come lui sono soliti citare da Principles of Morals and Legislation, ma di andare a fare la scoperta che, due capoversi prima, Jeremy Bentham dichiara pienamente legittimi lo sfruttamento e l’uccisione di animali, ma evitando loro sofferenze. E l’ho mandato a cagare.
E dunque direi che qui potrei tirare i fili. Anche a voler recepire le istanze di un utilitarismo non insensibile alla dignità del vivente non umano, con ciò rientrando nell’ambito di quell’etica che non ha alcuna difficoltà a dichiararsi norma che viene dal basso, per rispondere ad esigenze poste dalla ricerca di un utile che varia al variare delle condizioni, l’impiego di animali da parte dell’uomo è pienamente legittimo, fatta salva la clausola del rispetto che impone il risparmiare ad essi sofferenze, peraltro inutili.
La questione, a questo punto, mi pare notevolmente semplificata, e può essere esposta riducendola alla sua mera sostanza: è utile il sacrificio di alcuni animali? Sì. Senza alcun dubbio? Senza alcun dubbio. E su quest’ultimo punto, per non dilungarmi oltre, rimando a ciò che Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini scrivevano sul domenicale de Il Sole-24 Ore di ieri. Qui riporto solo quattro dei dieci punti che i due ricercatori hanno tenuto a precisare, ma sono quelli che ritengo abbiano maggiore rilevanza.

Almeno per quanto attiene agli aspetti presi a oggetto in questo post, posso fare a meno di richiamare gli altri sei punti («non è vero che la sperimentazione animale si fa normalmente anche su gatti, cani e primati», «non è vero che gli scienziati sono indifferenti alle sofferenze degli animali», «non è scientificamente fondato sostenere che gli animali hanno un livello di coscienza equivalente a quello umano», «è offensivo sostenere verso le persone umane malate che gli animali hanno i loro stessi diritti», ecc.), penso addirittura siano di mero corredo psicologico. E con questo penso di avere abbondantemente espiato la leggerezza di una presa di posizione senza esplicita argomentazione.

venerdì 10 gennaio 2014

giovedì 9 gennaio 2014

«Imparare dalla storia che da essa non c’è niente da imparare» (Elias Canetti)


Le analogie tra Renzi e Berlusconi sono tutte aleatorie. Se somiglia a qualcuno, il nuovo segretario del Pd, è al Craxi del 1976: arriva alla segreteria, occupa i gangli vitali del partito coi suoi uomini, mostra modi spicci, indulge nella battuta liquidatoria e strafottente, e una gran fame di governo lo spinge a muoversi con un’irruenza da cinghialone che a lungo non trova resistenze. Ma forse le analogie, in politica, sono tutte aleatorie, e dunque lo sono anche queste.

mercoledì 8 gennaio 2014

[...]


Cerco di seguire il dibattito sulla libertà di espressione sul web con tutta l’attenzione che riesco a impormi, ma confesso che mi infligge una noia indicibile. Senza dubbio dev’esser colpa mia, evidentemente non sono ancora riuscito a capire quale sia il problema nello specifico, perché almeno una cosa mi è chiara, e cioè che in tanti danno per assodato che sul web la libertà di espressione ponga questioni del tutto peculiari, che invece a me pare siano in tutto analoghe a quelle poste dalla comunicazione veicolata da altri mezzi.
Voglio dire che a mio modesto avviso dovrebbero valere anche per l’agorà virtuale le regole vigenti per quella reale: abbiamo un codice civile e uno penale per sanzionare quanto abbia gli estremi dell’illecito, tutto il resto potrà eventualmente buscarsi la condanna morale di chi non ne condivida il portato etico-estetico, ma è bene che resti intoccabile.
Nel caso che ha riacceso il dibattito in questi ultimi giorni – i commenti all’ictus occorso a Pierluigi Bersani – io davvero non riesco a capire dove sia il problema, e leggo il lamento di Michele Serra, la sennata risposta di Massimo Mantellini, ma l’impressione è che si metta insieme il tutto e il niente. Augurarsi la morte di qualcuno è un reato? Non mi risulta. È cosa disdicevole sul piano morale? Può darsi. In ogni caso, se non vogliamo uno Stato etico, dobbiamo rinunciare a tradurre in sanzione giudiziaria una condanna morale o a pretendere sia censurato quanto non incontri il nostro gradimento.
Si obietta: sul web si può essere attivi in forma anonima, dunque l’eventuale illecito non è attribuibile in modo diretto e immediato, sicché il controllo deve essere effettuato in via preliminare sul mezzo. Non sono d’accordo, anche perché alla responsabilità personale di un abuso della libertà di espressione si può arrivare con gli strumenti di cui è ampiamente fornito chi è deputato a far rispettare la legge.
Rimane possibile, ovviamente, che in rete si urli: «Devi morire!», come accaduto nei confronti di Pierluigi Bersani, proprio come si urla allo stadio nei confronti – faccio per dire – di Mario Balotelli. Può disturbare la sensibilità di qualcuno, ma ritengo improponibile la soluzione di far disputare le partite a porte chiuse o quella di negare l’accesso agli spalti a chi urli a questo modo. Altra cosa è l’ingiuria, specie se motivata da pregiudizio razziale, ma in questo caso siamo dinanzi a un reato. Ben venga, allora, la sanzione a chi a Mario Balotelli urli: «Negro di merda!». Allo stadio torneranno utili le telecamere per individuare i colpevoli da punire, sul web non sarà più macchinoso individuarli dall’IP.
Virtuali o reali, le piazze sono piene di ogni cosa: qui si può pretendere che le leggi garantiscano la repressione dei reati, non che assicurino un’atmosfera di nostro gradimento. Questa pretesa può trovare soddisfazione nell’iscrizione a un club privato, in cui di solito vigono regole liberamente accettate da chi ne chiede l’ammissione e che rispondono a standard di comportamento opportunamente normati, ma l’idea che il web debba dotarsi di analoghi requisiti, prim’ancora che irrealizzabile, è inauspicabile. D’altronde, chi trovi fastidiosa la piazza può restare a casa. Chi in rete s’imbatta in qualcosa che lo irriti, può cambiare pagina.              

«Il “Bacon-De Sica”»



Nella puntata di Che tempo che fa di domenica 5 gennaio, Christian De Sica ha raccontato di un quadro di Francis Bacon che per qualche tempo fu di proprietà della sua famiglia: dalla descrizione che ne ha dato non ci sono dubbi sul trattarsi della tela che reca per titolo Woman emptying a bowl of water, and paralytic child on all fours (1965), appartenente al ciclo ispirato alle foto di Eadweard James Muybridge (1830-1904). Penso valga la pena di soffermarci su quanto ha detto a proposito dellopera e del suo autore, perché offre spunto a più d’una riflessione sul degrado culturale del nostro paese, e preciso subito che scelgo la soluzione di riportarne il testo, piuttosto che allegare in video il passaggio, per risparmiarvi l’inutile sovrappiù di volgarità in mossette e ammicchi.
Probabilmente è superfluo premettere che a me Christian De Sica non piaccia affatto. È che in certi attori non v’è studio, né tecnica, né esperienza, né  d’altronde se ne coglie la mancanza, perché si limitano ad essere se stessi, non importa quale sia il personaggio che sono chiamati ad interpretare, tanto più che quasi sempre si tratta di un personaggio costruito a misura, al punto che non è possibile trovare alcuna differenza tra come sono nella scena e fuori. Christian De Sica è appunto uno di questi attori, e i personaggi che ha finora interpretato sono in realtà uno solo, sempre lo stesso, anzi, più che di un personaggio, si tratta di un carattere, lo stesso che ha esibito da ospite di Fabio Fazio. Un carattere deteriore, ma è da millenni che la rappresentazione di ciò che è deplorevole ha funzione che risponde a un fine eminentemente sociale, e che continua a mantenere il suo valore anche se da alcuni decenni ha cambiato di segno: se prima era il cattivo esempio da evitare, oggi è il modello in cui ci si può riconoscere per cercare in esso ragioni, e trovarle, per accettarsi per come si è, e perfino con autocompiacimento.
L’universo intellettivo ed emozionale di Christian De Sica è il cinepanettone. L’inevitabile difficoltà di confrontarsi con l’enorme figura del padre, dunque, non può risolversi che mantenendo un costante equilibrio tra l’aneddoto e lo sketch, avendo cura di non sottrarre al primo il candore del ragazzino che racconta del suo grande papà, né al secondo l’efficacia del meccanismo che produce la risata: è lavoro assai più complicato della sacerdotale cura del tempio paterno, che in fondo necessita della sola capacità di confetturare la memoria in apologo e metterci a sentinella seriosità e sussiego, ma implica lo svilimento di una pagina di storia e di cultura del paese. In sedicesimo, direi, è ciò che accade quando un’epoca si riduce ai divertenti pettegolezzi che lhanno intessuta e che di generazione in generazione sono arrivati fino a noi. Il ruolo di testimone privilegiato ci autorizza a prendere confidenza coi grandi che ne sono stati protagonisti, invitandoci a lasciare in secondo piano la teoria della relatività per concentrare la nostra attenzione sul fatto che Einstein portasse spesso calzini spaiati.
Ma forse riesco a spiegarmi meglio venendo al «Bacon-De Sica».


   

«Mio padre era un collezionista perché era molto amico di Cesare Zavattini, il suo sceneggiatore, che era un grande conoscitore d’arte e quindi lo consigliava su quali quadri comprare, e gli consigliò di comprare questo quadro di Francis Bacon. Era un quadro enorme... Poco prima di morire Francis Bacon ha detto: “È il quadro mio più bello”. Io sono andato con mio padre a Londra a casa di Bacon. Era un matto, la casa era tutta sporca, piena di roba, di colori... Sai, quei matti… Però era un genio assoluto, uno dei più grandi pittori contemporanei…
Insomma, mio padre compra ’sto quadro e paga una grossa cifra, che era otto milioni di lire… Era una cosa terribile: c’era un utero che sembrava un ponte. Sopra quest’utero c’era una donna che lanciava un secchio con dell’acqua e un bambino poliomielitico che camminava su ’sto utero. ’Na cosa che quando papà l’ha portato a casa, mamma l’ha messo in uno sgabuzzino dicendo: “Che è, ’sta porcheria?”. E non sapeva che era un capolavoro, però era una roba inguardabile, in più cera il viola...
Papà fa un film che si chiamava I girasoli, che non va tanto bene, e dice: “Questo è il quadro: dobbiamo venderlo, perché porta una sfiga terribile”, e lo vende per diciotto milioni di lire. Però, prima di venderlo, l’avevano messo nella stanzetta dove io andavo a fare i compiti…
E allora ci avevo ’sto quadro vicino, e facevo i compiti, e mi rompevo le scatole, e con la penna biro facevo così col cappuccetto, ed è partito, e pum!, gli ha fatto un buco così… Allora ho detto: “Madonna mia, adesso mio padre me mena”, e allora che ho fatto? Di dietro ci ho messo lo scotch e poi sopra ci ho fatto un fiorellino… ’Na schifezza, perché, poi, l’utero, il poliomielitico, io che ci faccio il fiorellino, che non c’entrava un cacchio… Mio padre si vende il quadro a diciotto milioni di lire, viene comprato da una signora miliardaria che lo rivende a centosessanta milioni, poi va a un’asta… Insomma, praticamente, non questo quadro, ma un altro di Bacon è stato venduto un mese fa per centosettanta milioni di euro…  Gli ho detto [a mia moglie]: «Silvie, ma te rendi conto?»...
[Qualche tempo fa] vado in una libreria e vedo un libro: l’opera omnia di Francis Bacon. Allora lo compro, vado a casa, apro, e non vedo il quadro mio? Aò, ci aveva ancora il fiorellino col buco. ’Na cosa meravigliosa… L’avevo fatto pure io!».
Al che, sinceramente divertito, Fabio Fazio chiosa: «Il Bacon-De Sica».

Come accade nel cinepanettone, occorre piegare i fatti in barzelletta. Per quanto scagliato con violenza, il cappuccetto di una biro riesce a forare da parte a parte una tela, per giunta indurita dal pigmento che la ricopre? Era noto in Vittorio De Sica il vizio del gioco: è verosimile che il quadro sia stato venduto perché portava sfiga? Non sapremo mai. Di fatto, Bacon non ha mai detto che il suo quadro più bello fosse quello che è stato in casa De Sica. Di fatto, anche per Christian De Sica, Bacon rimane un genio, anche se dipingeva «schifezze» ed era un «matto»: in cosa, dunque, la genialità? Per finire, l’inscriversi da garrulo cazzaro nella storia del cinema italiano e in quella della pittura contemporanea. Una pagina televisiva orrenda, perché ben vengano gli iconoclasti, ma non si limitino ad amputare un mignolo alla statua per poi farsi ritrarre in foto accanto ad essa con un sorriso da deficiente. 


[No, temo di non essermi spiegato bene neppure con lesempio offerto da Christian De Sica. Troppo incazzato per riuscire a ordinare gli argomenti, chiedo scusa.]


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Questo giocare coi personaggi famosi incrociati in gioventù per costruire storielle brillanti è inevitabilmente a rischio di infortunio. Denis mi segnala il caso della millantata conoscenza di Alfred Douglas («Sai chi è? Dorian Gray, quello che ha mandato in carcere Oscar Wilde» - 3:14-4:14), morto sei anni prima che il millantatore nascesse.  

martedì 7 gennaio 2014

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Ho passato un intero pomeriggio a rileggere cosa scrivevo quarant’anni fa o giù di lì, era una vita che non ci ritornavo, e molto l’avevo completamente rimosso. Assai sgradevole la sensazione di scoprire un quadernetto di poesie dedicate – ho stentato a crederci – a Julius Evola.    


lunedì 6 gennaio 2014

In breve

Alcuni lettori mi hanno chiesto quale sia la mia opinione riguardo alla sperimentazione animale in campo medico. Rispondo loro che sono a favore, senza riserve, e che  ritengo assurde le ragioni di chi è contrario. Fosse in mio potere, costringerei costoro alla coerenza, negando loro la somministrazione di ogni molecola che abbia richiesto il sacrificio anche di un solo animale per i test necessari al suo impiego clinico.

#tranneiradicali


Dove sarebbe, dunque, la «rivoluzione»?

Sono fra quanti hanno criticato Scalfari per ciò che ha scritto su la Repubblica della scorsa domenica («Di fatto ha abolito il peccato» - Malvino, 30.12.2013), dunque mi tocca prendere atto della sua replica, e controreplicare, perché quello scrive stavolta non lascia dubbi al fatto che si sia bevuto il cervello.

A parere di Scalfari, dunque, Bergoglio avrebbe sostenuto che, a scegliere il bene così come ce lo si raffigura, il peccato scompare. Non si può escludere che tra una settimana smentisca ancora, ma al momento consideriamo quanto afferma e cominciamo col porci due domande. La prima: Bergoglio ha veramente sostenuto questo? La seconda: ammesso e non concesso che lo abbia sostenuto, poteva farlo?
Inizio col rispondere a questa seconda domanda, ripropondendola in altri termini: può un pontefice contraddire la dottrina? Per ammissione dello stesso Scalfari, no. Dunque dovremmo concludere che la dottrina offra modo di ritenere che unazione compiuta in buona fede, nella personale certezza di compiere il bene, sia per ciò stesso indenne dal potersi ritenere peccaminosa.
Bene, chiunque abbia un minimo di confidenza col Catechismo della Chiesa Cattolica sa che le cose non stanno affatto a questo modo: il peccato non si realizza quando l’uomo liberamente sceglie di compiere unazione che in cuor suo ritiene malvagia, ma quando questa lo è di fatto, ancorché la ritenga buona. Infatti, «soltanto conoscendo il disegno di Dio sull’uomo, si capisce che il peccato è un abuso di quella libertà che Dio dona alle persone create perché possano amare lui e amarsi reciprocamente» (387), e a chi è legittimamente affidato il compito di tradurre in regole il disegno Dio, se «Cristo consegnò alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli, in virtù delle quali potesse perdonare a qualsiasi peccatore pentito i peccati commessi» (979)? Mi pare sia preclusa ogni possibilità di «rivoluzione» in questo ambito: cosa sia peccato, e cosa non lo sia, tocca alla Chiesa dirlo, né basta ritenere in buona fede che un peccato non sia tale perché di fatto non lo sia. D’altronde, «Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rom 2, 6), non già secondo le sue buone intenzioni, che semmai possono lastricargli la via per lInferno. 
C’è poi la delicata questione della misericordia divina. La scorsa domenica, Scalfari ha scritto che per Bergoglio «l’uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia». Stendiamo un velo pietoso su quel «sia pure nell’attimo che precede la morte», col quale sembra che Scalfari voglia farci presente daver fatto per tempo la prenotazione per un posto in Paradiso, e limitiamoci a considerare che la misericordia di Dio ha per indispensabile premessa il pentimento, e il pentimento deve giocoforza prendere le mosse dal riconoscimento che le buone intenzioni non sono bastate a compiere buone azioni, il che implica di fatto che esistano azioni che ai suoi occhi sono oggettivamente buone e oggettivamente cattive, e queste ultime sono da considerare peccati. Possono essere perdonati, e con ciò l’anima si affranca dalla colpa, ma in sé restano azioni cattive, anche se prima erano erroneamente considerate buone.
Dove sarebbe, dunque, la «rivoluzione»? Tutto è esattamente come prima, la sola differenza sta nel fatto che Bergoglio calca la mano sulla bontà di Dio, mentre Ratzinger la calcava sulla sua giustizia: è il solito alternarsi di carota e di bastone, secondo le necessità del momento. Scalfari non lo capisce e parla a vanvera: «Se la coscienza è libera e se l’uomo non sceglie il male ma sceglie il bene così come lui lo configura, allora il peccato di fatto scompare e con esso la punizione». Non c’è neppure bisogno di essere cattolici per rigettare tale interpretazione della dottrina, e abbiamo detto che Bergoglio non ha alcuna possibilità di metterci mano per adattarla a tale interpretazione. Di più: si tratta di una logica che non regge su alcun piano etico, perché anche il più disinvolto relativismo non può rinunciare a fare i conti con le conseguenze delle azioni, e a dover dare ad esse un valore, che, quantunque relativo, ha un segno positivo o negativo secondo il contesto in cui vengono a determinarsi. Così non c’è bisogno di essere cattolici, né di credere in Dio, per concordare sul fatto che, fatta salva la libertà di coscienza, la scelta di compiere unazione ritenuta buona non la rende tale in assoluto, tanto meno la risparmia dal doverne render conto. 
Ma Bergoglio ha veramente detto ciò che Scalfari sostiene abbia detto? Niente affatto. Potremmo disquisire a lungo su quanto il compito affidatogli implichi necessariamente un costante ricorso allambiguità, e su quanto, almeno fin qui, il gioco è sembrato reggere, e in modo eccellente. Smettesse di reggere, d’altronde, i guai che Ratzinger ha lasciato a Bergoglio diverrebbero di colpo assai più seri. Sta di fatto che di tanto in tanto, per lo più quando è costretto a rassicurare i suoi che la missione del suo pontificato non tocca i pilastri ma solo lintonaco della facciata, Bergoglio è chiaro: la dottrina e la morale non sono in discussione, ci mancherebbe altro, solo che per un po’ si terranno nel fodero, evitando di sguainarle di continuo come si faceva prima.
   

sabato 4 gennaio 2014

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Mentre la buona politica ha un progetto di società e a partire dalle condizione date lavora per costruire consenso e partecipazione alla sua realizzazione, la politica mediocre si limita a rincorrere il presente. La politica di merda neanche quello, perché vive solo dell’umore del momento. Non può essere che di questo terzo tipo, la politica che discute di una nuova fattispecie di reato da introdurre nel codice penale, e parlo del cosiddetto omicidio stradale. 
Dalla tabella che apre questo post, e che ho costruito coi dati elaborati dall’Istat per gli anni dal 2001 al 2012, risulta evidente che sono progressivamente calati, e senza alcun cenno ad inversione di tendenza, sia il numero degli incidenti stradali, sia quello dei feriti, sia quello dei morti su strada. Di fatto, il fenomeno cui Anna Maria Cancellieri intende mettere un freno con apposito decreto legge è in frenata già da tempo, sicché credo sia legittimo il sospetto che  l’iniziativa abbia tutt’altro fine che ridurne la portata. Sarà quello di lisciare il pelo alla bestia? Cerca di guadagnarsene le simpatie perché sia dimenticato il caso Ligresti? Dubbi da malpensante, lasciamo perdere, sarà perché i suoi esperti avranno scoperto  nel colposo un altro sottinteso di doloso, l’ennesimo.
Politica mediocre o politica di merda? Direi siamo nel mezzo. Quando all’annuncio del decreto legge, però, la Lega si precipita a rivendicare che l’idea era sua, e strepita come se glielavessero rubata, il passo è fatto, e siamo nella merda. Quando poi interviene Matteo Renzi e dice: «Basta annunci!», come a dire che è perfino inutile discuterne, si faccia, e si faccia subito, ci si sguazza dentro, apparentemente fieri di esprimere la volontà del popolo.
Già, ma in fondo non è il popolo a chiedere pene più severe per i pirati della strada? Sarebbe un’ottima obiezione se si trattasse davvero di un popolo. Intendo dire: se si trattasse di individui che pretendessero di «conoscere per deliberare». E invece si tratta di plebe cui i media un giorno buttano l’osso del rapinatore albanese, e il giorno dopo quello dello stupratore rumeno, e l’altro ancora, ieri, quello del marocchino ubriaco che investe e ammazza la bambina di otto anni: dàlle qualcosa da mordere e la tieni buona.  

venerdì 3 gennaio 2014

Puzza di pecora, ma è l’unico che c’è

Con molta delicatezza, bisogna dire, Mancuso fa presente a Scalfari che ha pisciato, e ha pisciato di brutto, nell’affermare che Bergoglio «ha di fatto abolito il peccato»: «La libertà umana esiste – scrive – ed esistendo opera, e quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia».
Sembrerebbe spiegazione che rimetta il peccato lì dov’era, per giunta dandogli una logica algebrica che alla quota parte di rottura dell’ordine e dell’armonia della creazione di cui l’uomo è responsabile fa corrispondere una congrua proiezione di colpa, la quale implica una necessità di riparazione, secondo i gusti, per espiazione o per misericordia, sicché al posto di Dio può andarci pure il Karma.
In realtà, come tutte quelle che cercano di dare un senso razionale al cristianesimo, nel tentativo di presentarcelo come Teoria del Tutto, anche questa è spiegazione che ha un bel buco. Se, infatti, il bene e il male si inscrivono nella sfera dell’azione, come afferma Mancuso, chi non è in grado di agire può a buon diritto dirsi innocente perché nell’impossibilità stessa di peccare, il che non spiega la sofferenza dell’innocente come espiazione di una colpa, tanto meno come dono di misericordia. Per dirla in altri termini, rimane aperta la questione della sofferenza nei bambini, spesso nei neonati, che in Ivan Karamazov pone in discussione la somma bontà e la somma giustizia di Dio, dunque la sua stessa esistenza.
Fatto sta che invece il cristianesimo ci spiega perché un bambino possa soffrire, ed è una spiegazione delle sue, ma pur sempre migliore di quella di Mancuso: anche il bambino porta con sé il peccato, e fin dalla nascita, anzi fin dal suo concepimento, dunque non ha bisogno di agire male perché Dio consenta che soffra, e in ciò trova un senso la sua sofferenza. Potrà non bastare al bambino, tanto meno ai suoi genitori, ma basta al teologo, e questo gli consente di poter andare a cena con lanimo sereno. Ma Mancuso non ci sta, e anche qui solleva in chi legge i suoi scritti più d’una perplessità sul suo dichiararsi cristiano: «La dottrina cattolica – dice infatti in questa occasione – risponde mediante al dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna».
In realtà, il peccato originale non è cosa cattolica, ma cristiana, e prima d’essere cristiana è giudaica, sicché dirla «soluzione teoricamente insufficiente e moralmente indegna» significa mettere in discussione ogni possibile ermeneutica di ciò che ci racconta il Genesi e il fine stesso dell’incarnazione come occasione di riscatto umano dal male che ci porteremmo dentro fin dal concepimento. È da ben prima di Agostino che si è solititi esclamare: «Puttana Eva!», Mancuso rileggesse il Salmo 51, ci troverà che «nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre», e che la cosa alluda alla riproduzione sessuale o a un’intrinseca inclinazione della carne al male, non si scappa, «er nascituro se carica er peccato origginale, so  deve carica», come dice il don Pizzarro di Corrado Guzzanti.
Ma cè di più: cè che quel «volenti o nolenti» di Mancuso merita un asteriscone bello grosso anche per il peccato che si inscrive nella sfera dell’azione. Se infatti oggi il Pater noster recita «non abbandonarci alla tentazione», fino a pochi anni fa, e per due millenni, ha recitato  «non ci indurre in tentazione», segno evidente che pure nell’agire abbiamo chi fa tutto per metterci in difficoltà, e non è Satana, sennò si sarebbe recitato «non consentire al Maligno di tentarci» e roba simile. Senza dubbio imbarazzante un Dio cui non basta imprimerci lo stigma della colpa allo stadio di ovocellula fecondata ma che addirittura trova gusto a tentarci in continuazione, comprensibile che si sia messa una pezza. Il fatto è che mai come in questo caso è stata necessaria una manipolazione del testo evangelico delle più schifose tra le tante, perché sia in aramaico (oo’la te-ellan l’niss-yoona), sia in greco (μη εισενεγκης ημας εις πειρασμoν), sia in latino (ne nos inducas in tentationem), il concetto di induzione al peccato è espresso da verbi che non lasciano interpretazioni alternative: nulla di più lontano dal senso di abbandonare al male, è proprio un portare verso o dentro.
Insomma, si legge Scalfari, si legge Mancuso, e ci si chiede: ma invece di discutere di un cristianesimo che non esiste, perché  sti due non fanno in conti con quello che c’è? Puzza di pecora, è vero, ma è lunico che c’è.


giovedì 2 gennaio 2014

«Il coraggio degli italiani»


Non vorrei sbagliare, può darsi ch’io ricordi male, ma questa dovrebb’essere la prima volta che per il suo messaggio di fine anno un Presidente della Repubblica adotta una soluzione formale suggestiva come quella della rubrica della posta che ieri sera apriva, dopo un breve cappello introduttivo, il testo letto da Napolitano agli italiani: solo Scalfaro, nel 1997, abbozzò qualcosa del genere, ma si tenne sulle generali, accennando solo alle questioni che gli erano poste da chi gli scriveva, mentre stavolta, invece, insieme a qualche cenno biografico, di «Franco, da Vigevano», di «Serena, da un piccolo centro del catanese», di «Veronica, da Empoli», c’era il milieu, con tanto di guillemets. Ammesso che quelle lettere siano state scritte da persone realmente esistenti – e in questo caso occorrerebbe spendere due paroline sul malvezzo di ometterne i cognomi, neanche si trattasse della Posta del Cuore tenuta da Donna Letizia – occorre riconoscere che si è trattato di un ottimo espediente retorico, perché ha la resa dell’interlocuzione con persone reali piuttosto che con un astratto campione di categorie  sociali, producendo un effetto di notevole tensione empatica, perché una cosa è rivolgersi agli «italiani», come facevano Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat e Leone, un’altra è dire «cari concittadini», com’era solito fare Pertini, ma un’altra ancora – e tutt’altra cosa – è rivolgersi a «Vincenzo, che mi scrive da un piccolo centro industriale delle Marche», o a «Daniela, dalla provincia di Como».
Ammesso che quelle lettere siano state scritte da persone realmente esistenti, necessariamente devono aver superato la stessa selezione che premia quelle che arrivano ad essere pubblicate su un giornale: nella forma e nella sostanza, anche quando in apparenza sembrerebbero dover imbarazzare o addirittura irritare il destinatario, devono tornare utili allo scopo, che è quello di costruire un interlocutore virtuale di comodo, e tuttavia dotato di quel tanto da non essere del tutto assimilabile alla logica che informa il testo che funge da risposta. In pratica, la «forte denuncia della condizione degli “esodati” mi è stata indirizzata da Marco, della provincia di Torino, che mi chiede di citare nel messaggio di questa sera la gravità di tale questione, in quanto comune a tanti», serve solo a poter aggiungere «lo faccio», costruendo una relazione analoga a quella che c’è tra il dj e il pubblico che segue la sua trasmissione, quando sul piatto gira il disco di cui un radioascoltatore ha fatto richiesta al telefono, in diretta: si tratta di una relazione che presuppone un filtro unidirezionale, attraverso il quale passa solo quanto serve a costruire un interlocutore che corrisponda alla proiezione desiderata.
Bene, le lettere di cui Napolitano s’è servito per il testo del suo messaggio di fine anno – non ha molta importanza, ripeto, se le abbia davvero ricevute o se le sia inventate – costruiscono un interlocutore che corrisponde esattamente all’italiano che è chiamato a guardare al nuovo anno «con serenità e con coraggio»: intendo dire che tale disposizione d’animo, per chi si trovi in condizioni analoghe a quelle descritte nelle lettere di cui Napolitano ci ha esposto il contenuto, è possibile solo ad avere una particolare postura etico-estetica dinanzi a gravi difficoltà. E per non farla troppo lunga direi non sia difficile individuarla in un modello di cittadino che non esiste più, se mai è esistito anche fuori dalle pagine dell’Almanacco del Pci. Parlo dell’operaio, dell’impiegato, dello studente, che il Pci aveva irreggimentato in un esercito composto e dignitoso, mai stanco di sacrifici: l’eroica classe dei lavoratori, tanto più degna di andare al governo, quanto più in grado di assumersi la responsabilità in nome di tutto il paese, rinunciando a velleitarismi, a massimalismi e soprattutto a lacerazioni dell’unità nazionale. È da almeno vent’anni che non esiste più, questo popolo, ma vive ancora nel Wille e nella Vorstellung di un vecchio comunista e gli dice che «di sacrifici ne ho fatti molti, e sono disposto a farne ancora», che ha fatto «giuramento di pagare le tasse sempre e comunque» anche se non è lavoratore dipendente ed è di fronte al dilemma «se pagare alcune tasse o comprare il minimo per la sopravvivenza dei miei due figli», che nonostante tutto si dice «fiero del mio paese». Qui non si osa mettere in discussione che questo popolo possa anche esistere, ci si chiede solo quanto sia rappresentativo di un’Italia che per un terzo si astiene, vota scheda bianca o nulla e per un altro terzo vota Berlusconi o Grillo. Si tratterà, per caso, della base del cosiddetto  «partito del Presidente»?
Il messaggio di fine anno dal Quirinale in fondo non è che un genere letterario, dunque credo che il modo più appropriato di commentare quello di ieri sera sia l’analisi formale del testo, che aveva la misura delle 15.430 battute (spazi inclusi), divise in sette sezioni: (a) un breve cappello introduttivo (0-735); (b) il capitolo delle «lettere indirizzatemi ancora di recente», di cui abbiamo fin qui parlato (736-5.010); (c) «il coraggio degli italiani», una sorta di manifesto che intenderebbe dare legittimità di guida del paese al  «partito del Presidente» (5.011-6.950); (d) una sezione dedicata a governo, parlamento, opposizioni (6.951-10.417), dove a ciascuno è assegnata una parte in commedia, e guai a non interpretarla a dovere, sennò si è per lo sfascio del paese; (e) una miscellanea di temi vari (10.418-12.531), di quelli che non possono mancare, sicché basta un richiamo di cortesia; (f) un’autodifesa (12.532-14.969) che ha eluso tutti gli addebiti con un «conosco i limiti dei miei poteri» (giocoforza esigeva un po’ di faccia tosta, e non è mancata); e (g) un brevissimo commiato (14.970-15.430), quasi a tagliar corto dopo aver detto il necessario, cioè che Napolitano non si sente re, ma papa. 

mercoledì 1 gennaio 2014

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«Pensa a quante dita stanno saltando via in questo momento».
«Sempre romantica, tu».