lunedì 24 febbraio 2014

Si fidino, siore e siori, si fidino!



Fare per fare / 2


Sarebbe ingenuo, prima che ingiusto, considerare Matteo Renzi un avventuriero con straordinarie capacità di impostura. Com’è stato per Silvio Berlusconi, è piuttosto da intendersi come sintomo di una patologia, e della stessa patologia, come vedremo, ma ad uno stadio notevolmente più avanzato. Come non è dato impostore, infatti, senza platea di gonzi che ne esprima il bisogno, ancorché inconscio, legato all’illusoria aspettativa d’inclusione in quella narrazione che Helen Deutsch ha definito «pseudologica phantastica» (Neuroses and Character Types, 1965), allo stesso modo non è dato carisma, weberianamente intenso come «qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle persone normali» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922), che non sia espressione di un investimento emotivo che tende ad acquisire i benefici effetti di una «grazia» (χάρις): in entrambi i casi, l’apparente ineffabilità della relazione si scioglie nello spostare l’attenzione dall’offerta alla domanda. Nella promessa di un interesse assai più alto di quello un promotore finanziario può ragionevolmente assicurare ai suoi clienti c’è sempre la richiesta di un doppio investimento che in buona parte è sui suoi «poteri magici» (Max Weber, ibidem): tale domanda trova ineluttabilmente adesione nel bisogno di essere toccati da questa «magia», della quale si presume esser fatti degni dall’atto di fede alla narrazione che l’impostore o il leader carismatico affidano alla cifra simbolica della propria persona, che si offre come fattore «legante». E non è un caso, infatti, che il termine «legatura» ricorra nelle pratiche magiche come sinonimo di sortilegio che implica mandante e mandatario.
Lo straordinario caso di Silvio Berlusconi, che mostra la natura di questo vincolo pattizio anche nei suoi effetti residuali, laddove la «magia» si è rivelata deludente per oltre un terzo della platea che aveva sottoscritto il mandato, si offre come paradigma di questo meccanismo di fidelizzazione, e trova le ragioni che ne hanno reso possibile la parabola non già nella sua persona, o comunque non solo, ma innanzitutto nelle aspettative di quello che per una lunga stagione è stato un vero e proprio blocco sociale, la risultante di un profondo mutamento della società italiana. Per dirla in altro modo, la tv di Silvio Berlusconi non ha creato ex novo dei bisogni, ma li ha solo liberati dalla rimozione che li traduceva in nevrosi, sicché è stato facile, per chi si offriva come «liberatore», accreditarsi come più genuina espressione di un profondo che esigeva legittimazione. È così anche per Matteo Renzi, ma in uno stadio ulteriore di questo venir meno della denevrotizzazione del rimosso, che denota una palese tendenza all’ingravescenza della peraltro cronica incapacità degli italiani ad assumersi responsabilità. Questo, d’altronde, è il motivo per cui la personalizzazione della politica, che è orientamento cui solitamente inclina la democrazia nelle sue più gravi crisi, in Italia assume ancora e ancora le fattezze dell’Uomo della Provvidenza, quelle del decisionista le cui decisioni nascono da un cieco senso della volontà, dell’innovatore che rappezza il vecchio in patchwork neanche tanto originali, del rivoluzionario che ha per orizzonte un rimpasto del presente. Non è un caso che da trentanni non si abbia idea di Rinascita, che non debba dirsi in debito con la profetica visione di Licio Gelli.        

domenica 23 febbraio 2014

Fare per fare

In questi ultimi giorni ho ascoltato, in gran parte riascoltato, gli interventi coi quali Matteo Renzi ha chiuso le quattro edizioni della Leopolda [(2010) 1, 2, 3, (2011) 4, (2012) 5, (2013) 6], tutte le interviste televisive di più ampio respiro che ha concesso dal 2008 ad oggi [(Le invasioni barbariche) 7, 8, 9, 10, 11, (Che tempo che fa) 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, (Ballarò) 19, 20, (In mezz’ora) 21, 22, (Porta a porta) 23, (Otto e mezza) 24, 25, 26, 27, 28, (Virus) 29, 30], tutto ciò che ha detto nel corso dei confronti televisivi tenutisi in occasione delle primarie del 2012 per la candidatura a premier [(Raiuno) 31, 32, 33, 34, 35, 36] e di quelle del 2013 per la segreteria del Pd [(Sky Tg24) 37] e una dozzina di suoi discorsi, per lo più tenuti nell’ultimo anno, in occasione di comizi elettorali e riunioni di partito [38, 39, 40, 41, ecc.], per un totale di circa 42 ore, una vera e propria full immersion nel suo vacuo scilinguagnolo, dalla quale sono riemerso senza essere riuscito a cogliere traccia, non già di una Weltanschauung renziana, nella quale d’altronde non contavo di imbattermi, ma neppure di un suo pur vago progetto di società, e non dico di un progetto originale, ma renziano anche solo per scopiazzatura, sicché mi sembra di poter concludere in serena coscienza che, dietro la mimica da personaggio di cinepanettone e le battute da piazzista di biancheria intima in lycra, in Matteo Renzi c’è il grado zero della politica intesa come idea di polis e che, dunque, lo stato delle cose che trova sintesi d’immagine nel suo arrivo a Palazzo Chigi consente di disertare ogni valutazione di merito su un eventuale orizzonte strategico in cui sia ragionevole pensare la linea politica del suo esecutivo: ammesso e non concesso che il suo governo riesca a tracciarne una che non sia la mera risultante delle resistenze interne ed esterne che si opporranno al suo velleitarismo, è impossibile immaginarne un’articolazione, quindi è del tutto inutile intrattenerci a ipotizzarne la direttrice. Sarà un fare per fare, nel tentativo di durare per durare. 

venerdì 21 febbraio 2014

E qui ho lasciato


Comincio a scrivere:

Serracchiani arriva ad insinuare che Barca sarebbe affetto da una stravagante forma di mitomania: dietro al rifiuto di entrare nell’esecutivo di Renzi malcelerebbe l’inconscia, ma forse neanche tanto inconscia, smania di entrarvi, tanto più prepotente quanto più denegata. Miserevole rivalsa sul severo giudizio che l’economista ha espresso nel colloquio telefonico col finto Nichi Vendola de La Zanzara, ma almeno le sue guanciotte hanno un pur lieve accenno al rossore, e l’evidente imbarazzo nel ferire il piano buonsenso, in buona misura, l’assolve.
Altro discorso per Adinolfi: con l’insuperabile faccia di corno che è il suo tratto peculiare, dice che a uscire a pezzi dalla telefonata non è Renzi, ma Barca, che sarebbe «la sinistra da dimenticare», «una sinistra sostanzialmente vanesia e velata di ipocrisia, che vede con terrore l’avanzata della giovane leadership e prova ad esorcizzarla con la maldicenza, condendo il tutto con l’invenzione del complotto plutocratico teso a minare la virtù del duro e puro».
Niente a gratis, ovviamente, perché Adinolfi mette sempre all’incasso ogni sua sfrontatezza, e poco importa se spesso non ne abbia a ricavare quanto era nel calcolo: difettando di ogni senso del ridicolo, riesce a trovare gratificazione anche dalle peggiori figure di merda, prontamente rubricate in curriculum vitae al capitolo delle nobili battaglie cui er monno ’nfame ha negato la vittoria.
È che di giorno in giorno diventa sempre più difficile che il cerchio magico ormai consolidatosi attorno al segretario del Pd lo accolga in seno, e allora occorre che l’offerta dei suoi servigi sia oltremodo generosa, accompagnata dalla promessa di una fedeltà che in lui non troverebbe alcun intralcio da importuni scrupoli morali: in pratica Adinolfi si offre pure per i lavoretti sporchi, basta che in cambio  gli si dia almeno l’opportunità di un provino per la parte di consigliere del Principe...

Mi fermo un attimo. Mi chiedo: sto scrivendo un post su Adinolfi, il mio lettore me lo perdonerà? E allora metto da parte il foglio e ne prendo un altro:

L’uomo di scienza non si sottrae all’attenta osservazione di ciò che causa disgusto anche al fuggevole sguardo dell’uomo comune, e al moto propulsivo che regola l’avanzamento delle feci nell’intestino crasso, alla formazione dell’essudato nell’ozena purulenta, alle variabili delle fratture scomposte che negli incidenti automobilistici esitano dall’impatto del massiccio faciale contro lo specchietto retrovisore, agli insetti che accompagnano le fasi della putrefazione cadaverica, eccetera, riesce a dedicare la stessa premurosa cura che un maestro d’ikebana pone nell’allestimento d’una composizione floreale. Tanto mi auguro basti a dar ragione dell’intento meramente scientifico che mi muove a parlare di Mario Adinolfi, e stia a mo’ d’avvertenza per il lettore dallo stomaco delicato.
Adinolfi scodinzolava già da qualche tempo attorno a Renzi, quando all’indomani della sconfitta che questi riportò nei confronti di Bersani al ballottaggio delle primarie del 2012 ebbe l’improntitudine di avanzare la pretesa di un ministero nel caso in cui il centrosinistra avesse vinto le Politiche del 2013. In quota renziana, ovviamente, e dopo che Renzi aveva già esplicitamente rifiutato di voler mettere all’incasso il 40% ottenuto contro il 60% di Bersani. Riuscì ad ottenere solo un «va’ a cagare» da Bersani, per giunta imbarazzando Renzi, trovandosi così dapprima escluso dalle liste elettorali del Pd e poi anche da quelle di Monti, presso il quale si era precipitato a scodinzolare, sperando gli si buttasse un osso. Nisba, e sì che aveva tentato un aggancio perfino col M5S: ohilà, ragazzi, non è per dire, ma nel 2001 ho messo su una cosetta che si chiamava Democrazia Diretta, in pratica sto a Grillo come San Giovanni Battista stava a Gesù. Neanche un «va’ a cagare», qui. Non restava che rassegnarsi, aspettare tempi migliori, ammazzare il tempo con qualche provocazione omofoba sui social network, il poker, qualche comparsata in tv…

Mi fermo ancora e mi chiedo: ma ti ha dato così tanto fastidio quel post su Barca? Evidentemente, sì. Ma al punto di sentirti in dovere di rammentare chi sia Adinolfi? E qui ho lasciato.  

lunedì 17 febbraio 2014

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Avere un figlio piccolo regala l’opportunità di fare scoperte di rara bellezza che altrimenti rimarrebbero sepolte per sempre nella nostra ignoranza.

[...]


Qualche giorno fa, Bergoglio ha incontrato la delegazione dell’American Jewish Committee e ieri L’Osservatore Romano ha pubblicato il testo del discorso che ha tenuto in quell’occasione. Niente di eccezionale, le solite carinerie che da qualche decennio i pontefici spalmano su secoli e secoli di feroce antigiudaismo. Tra queste, la più ruffiana: gli ebrei sarebbero i «fratelli maggiori» dei cristiani.
Ora, si dà il caso che le brutture della cronaca politica italiana mi costringano a distogliere lo sguardo dalle miserabili panzane che in questi giorni vanno accreditando come soluzione emergenziale quello che di fatto è un colpo di stato strisciante. Lascio, dunque, a chi ha stomaco più forte del mio, e lodevole fiducia nel fatto che dimostrarne la fallacia possa neutralizzarle (io ho miei dubbi, gli italiani sono in gran parte stupidi e in fondo un Renzi, dopo un Berlusconi, lo meritano), per dedicarmi a una panzana assai più grossa, e che per giunta gode di gran credito: che gli ebrei sarebbero «fratelli maggiori» dei cristiani.
Panzana che trova basi solide su un assunto che anche autorevoli studiosi danno per scontato, e cioè che tra il I e il II secolo dell’era volgare l’ebraismo avrebbe subìto uno scisma: i cristiani sarebbero gli scismatici che abbandonarono l’antica fede per fondarne una nuova, tuttavia ramo di quel tronco. Bene, le cose non stanno affatto in questo modo: né l’ebraismo è così «antico», né il cristianesimo è così «moderno», come abitualmente si ritiene. Del tutto errato, dunque, concepire il dissidio che tra di essi si consumerà per oltre quindici secoli, dalle Homiliae contra Iudaeos di Giovanni Crisostomo alle pagine de La Civiltà Cattolica a cavallo tra XIX e XX secolo, in termini di «superamento», come vorrebbero i cristiani, o di «tradimento», come vorrebbero gli ebrei.
Nel II secolo, quando ormai il cristianesimo ha assunto già buona parte dei suoi caratteri distintivi, l’ebraismo non è affatto la religione dell’Antico Testamento, ma il risultato di ciò che ha prodotto la riforma rabbinica del I secolo, che ha corso parallelo a quella che dall’antica fede porta al cristianesimo, nel quale molti elementi ne continuano ad essere presenti. In sostanza, la nascita dell’ebraismo (così come è oggi) è coeva a quella del cristianesimo: sono due rami dello stesso tronco, dal quale si dipartono nello stesso arco di tempo. Ma c’è di più, perché nel cristianesimo persistono alcuni elementi che la riforma rabbinica del I secolo espunge dall’antica fede: né il cristianesimo, dunque, è così «rivoluzionario» come si dà per inteso dietro sua pretesa, né l’ebraismo che conosciamo noi esisteva ancora ai tempi di Cristo, e dunque non è così «tradizionale» come pretende di darci a intendere.
È che con la distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C., si ebbe la chiusura di un arco storico – quello che appunto è relativo al cosiddetto «Giudaismo del Secondo Tempio» – nel quale si fa davvero fatica ad individuare un’ortodossia di fede tra le numerose correnti di pensiero che orbitano nella galassia giudaica (sadducei, farisei, zeloti, esseni, samaritani, battisti, ecc.), e in fondo Cristo non è che il fondatore di una nuova setta in questo variegato contesto, come d’altronde più che ampiamente documentato negli Atti degli Apostoli: fino al 70 d.C. i seguaci di Cristo sono considerati membri di una delle tante sette giudaiche, dai membri delle altre sette e dai pagani, ed essi stessi si considerano tali.
Cade così l’assunto che il cristianesimo abbia radici nell’ebraismo così come lo conosciamo oggi, per il semplice fatto che questo ebraismo non esisteva ai tempi di Cristo. Tanto meno l’assunto regge dopo il 70 d.C., con la nascita di questo ebraismo, che è soltanto, al pari del cristianesimo, un prodotto della riforma del vecchio, che d’altronde è solo quanto dal Primo al Secondo Tempio è venutosi a sedimentare in un corpo dottrinario assai poco univoco, e nel quale si distinguono tre prevalenti tendenze (quella sadducea, quella farisea e quella essena) che per lungo tempo troveranno modo di convivere senza troppe difficoltà.
Qui, allora, si pone la questione: da quale di questi filoni Cristo prende le mosse per la sua riforma dell’ebraismo che andrà in divergenza con quella rabbinica? L’ipotesi di un Gesù esseno, scartata dopo il ritrovamento dei Manoscritti di Qumram, è da riprendere in considerazione dopo la scoperta che a scriverli furono membri di una comunità assai esigua in ambito esseno, quasi certamente in dichiarato dissidio con la gran parte degli esseni, e su un punto fondamentale, cioè il rapporto tra Dio e il Male. A differenza del gruppo che si ritirò sulle sponde del Mar Morto, la comunità essena traeva le proprie convinzioni sul punto da quanto andò a confluire, tra il IV e il I secolo a.C. nel Libro di Enoch, che non a caso non trova alcuna eco nei testi di Qumram ed è considerato apocrifo anche dagli ebrei che seguirono la riforma rabbinica.
Bene, basta leggere il Libro di Enoch per trovarvi spiegazione di più d’uno di quei punti oscuri che sono sparsi nei Vangeli, soprattutto quelli in relazione a massime che escono dalla bocca di Gesù: volendone negare il tributo che devono alla tradizione enochica, com’è d’obbligo per chi deve presentare il cristianesimo come inedita «rivoluzione», si è costretti a inverecondi salti mortali, mentre a cercarne spiegazione nel Libro di Enoch, soprattutto nelle due prime sezioni (Libro dei Vigilanti e Libro delle Parabole), di cui da qualche tempo abbiamo prova che in origine fossero stesi in aramaico, tutto si scioglie e il Padre di cui parla Gesù trova pieno riscontro. Così col senso che il cristianesimo darà alla personificazione del Male. Così col senso che il cristianesimo darà al Regno dei Cieli. In pratica, Gesù si limita allo scandalo del porsi a nodo tra Figlio dellUomo e Figlio di Davide, e in fondo pagherà solo per questo con la vita. Un libro, quello di Enoch, che così è sottratto ad ogni attenzione: per gli ebrei  «riformati» è materiale inservibile, per i cristiani è una placenta da divorare.  
Altro che «rivoluzione», il cristianesimo è di derivazione enochica come l’ebraismo nella forma che conosciamo (quella che deve il massimo contributo alla riforma di rabbi Yehudah HaNasi) è di derivazione sadducea. Altro che «fratelli maggiori» e «fratelli minori», si tratta di due gemelli eterozigoti partoriti dalla stessa grande crisi che nel I secolo travolge il «Giudaismo del Secondo Tempio».  


Vabbe’, era per dire



La logica che affida la memoria alle scansioni temporali periodiche che sono diventate d’uso corrente mi è sempre parsa – insieme – coatta e arbitraria, perciò detesto le ricorrenze date dai multipli di quei segmenti cronologici – anni, decenni, secoli, ecc. – che in fondo, senza neanche farne troppo mistero, pretendono di conferire un valore alla durata, secondo la gerarchia che dall’istante sale fino al millennio. A mio modesto avviso, invece, la durata non ne ha alcuno. La persistenza di ciò che si tiene in vita – fosse pure in quella particolare forma di vita che è surrogata dalla memoria – non ha, infatti, altro merito che l’essersi data – spesso senza volerlo, sennò con una volontà che sta sempre a un passo dal fine – la forma dell’approssimazione all’eterno, e cioè l’ipocrisia (qui intesa in senso letterale, come infedele rappresentazione) della resistenza. Per quanto piccola possa essere, questa porzione di eterno che si rosicchia alla morte o all’oblio pretende un riconoscimento di durata che le scansioni temporali periodiche segnano come traguardi di una corsa che si dà per infinita, sicché direi che col festeggiare un compleanno o commemorare un centenario tifiamo per la tartaruga contro Achille, e diamo fiducia al fatto che la sfida abbia un senso. A me questo è sempre parso assurdo, né ho trovato mai una spiegazione convincente al perché – farò un esempio che solleverà più di unobiezione, ne son certo –  le 83 annate de La Settimana Enigmistica dovrebbero avere un valore superiore alle 3 di Acéphale, e cioè il valore di quella durata che in fondo sta solo nel cercare e trovare i mezzi per durare. Di mezzo dev’esserci senza dubbio il valore che diamo alladattabilità allambiente, ma questa non implica una duttilità che ineluttabilmente modifica i caratteri di chi aspira a resistere? Cosa persiste, quando persiste? Non ciò che voleva persistere: persiste la sua sola volontà di persistenza, sennò il suo persistere oltre la sua volontà. In pratica, si muore di traguardo in traguardo: solo l’effimero ha il diritto di dirsi vivo, finché può. 

Vabbe’, era per dire che a marzo Malvino compie dieci anni, che in questi ultimi mesi ho riletto i suoi 11.451 post e che è bastato a farmi passare del tutto la già poca voglia di festeggiare. 


[...]


«Coloro che amministrano o tengono le redini del governo, qualunque misfatto commettano, sempre si studiano di adombrarlo con l’apparenza del diritto e di persuadere il popolo di aver agito onestamente: e ciò riesce loro anche facilmente, quando tutta l’interpretazione del diritto dipende soltanto da essi»

                                             Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico (XVII)

venerdì 14 febbraio 2014

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L’ho scritto tre anni fa e non ho cambiato idea. Oggi la nausea è così forte che non mi va di commentare, sicché mi limito a ripeterlo: «Renzi è la larva che il berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».

martedì 11 febbraio 2014

Il «beato» Stepinac

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A me pare che non ci sia proprio alcun dubbio sul fatto che Napolitano abbia esorbitato in più di un’occasione dal ruolo che la Carta assegna al Presidente della Repubblica. Se poi la cosa abbia gli estremi del reato di attentato alla Costituzione, non saprei dire, né la questione riesce ad appassionarmi. Quello che solleva in me un certo interesse, invece, è il fatto che tra chi lo difende dalle accuse di aver giocato un ruolo che non gli competeva ci siano persone che stimo per la loro onestà intellettuale e tuttavia negano l’evidenza. Potrebbero trovargli mille attenuanti, dire che si è assunto l’onere di colmare il pericoloso vuoto di potere che in questi ultimi anni si è prospettato in molti frangenti, che in fondo per il Quirinale, e da sempre, è sempre valsa una Costituzione materiale un po’ più larga di quella formale, che sarà pur venuto meno all’imperturbabilità dell’arbitro ma sempre in nome di quanto in buona sostanza era il superiore interesse dello Stato. E invece no, niente di tutto questo, si limitano a negare l’evidenza. Anche abbastanza infervorati, devo dire. Ci ricavano figura assai migliore di chi chiede per Napolitano quello che impropriamente è detto impeachment sulla base di accuse risibili come l’aver avuto un ruolo nella cosiddetta trattativa Stato-Mafia o, peggio, di aver tramato per ottenere il secondo mandato o, peggio ancora, anche solo di averlo accettato. E tuttavia mi pare che anch’essi, certo in misura di gran lunga minore, certo con un aplomb di cui gli assaltatori del Quirinale sono del tutto privi, siano mossi da un umore partigiano, che in qualche modo autorizza l’opposta fazione a parlare di un Partito del Presidente, strumento metà politico e metà mediatico di cui Napolitano si sarebbe servito per compiere le sue subdole mosse. Passi per quanti, a torto o a ragione, lo hanno sentito, lo sentono e probabilmente lo sentiranno sempre come «uno dei nostri», qualunque cosa dica o faccia. Passi per chi dalle scelte di Napolitano ha tratto qualche vantaggio o conta di trarne. Passi anche per chi considera intoccabile il Quirinale, chiunque ci sia dentro, qualunque cosa faccia. Ma gli altri? Hanno sotto gli occhi le prove indiscutibili di un attivismo che da mesi e mesi detta modi e tempi alla politica, del continuo venir meno a star sopra le parti, come d’altronde era in premessa all’accettare il secondo mandato sub condicione di poter dare indirizzo a Governo e a Parlamento: come possono negarlo?       

lunedì 10 febbraio 2014

Intorno al cacozelo




Ignorato dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal De Mauro, il lemma cacozelo (dal greco κακός ζήλος) è definito «inusit. a noi» perfino dal Tommaseo, e sta per «imitazione o emulazione di quel che è vizioso, o men bello per affettazione di bellezza», anche se la sua miglior definizione è in Quintiliano (Institutionum Oratoriarum Libri Duodecim, VIII, 56-58), per il quale sta nel ricorso alla congerie delle «tumida et pusilla et praedulcia et abundantia et arcessita et exultantia» ed è perciò «omnium in eloquentia vitiorum pessimum», perché «mala adfectatio», aspirazione (al bello) con esito infelice (di caduta nel lezioso). Col cacozelo, insomma, possiamo dire che siamo al più goffo infortunio dell’artificio retorico: l’eloquenza manca il suo fine e si esaurisce in ostentazione compiaciuta della sua vacua ridondanza.
A parte, sarebbe da considerare che nel Tommaseo, come d’altronde dà conto il Pianigiani, l’«affettazione» è già il fine mancato cui mirava la pretensione dell’«adfectatio»: nella retorica dev’essere accaduto qualcosa – vedremo cosa – che ha fatto prendere coscienza delle infauste conseguenze delle eccessive libertà che, col passaggio dal Rinascimento al Barocco, la Maniera si è presa nei confronti della Misura. Basti pensare a come il severo giudizio di Quintiliano si ammorbidisca, e di molto, nel Seicento. Per François de La Mothe Le Vayer, ad esempio, «quelli che si sottomettono troppo scrupolosamente a tutti precetti dellarte [retorica] senza volerne trasgredire alcuno sono simili a quei funamboli o ballerini sopra la corda, che contano i passi che fanno e stanno in apprensione continua di cadere. Questo timore glimpedisce di sollevarsi in alto e, non pensando che a tenersi lontani dal vizio, trascurano sovente le parti più nobili e più cospicue delleloquenza. Non è per tanto che debbansi sprezzare le sue regole [...] [ma], ancorché le ridondanze o le superfluità siano molto viziose, le magrezze e le aridità del discorso lo sono ancora molto più» (Scuola de’ prencipi e de’ cavalieri, cioè la geografia, la rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica, e la fisica; cavate dall’opere francesi del sig. Della Motta Le Vayer, che le ha distese per istruzione di Luigi 14. re di Francia, tradotte nella lingua italiana dall’abbate Scipione Alerani - In Bologna, per Giacomo Monti, 1677).
Ma qualcosa accade – dicevamo – con l’uscita dal Barocco, anzi non è di troppo azzardo il ritenere che se ne esca proprio per ciò che accade: il retore cambia ruolo sociale, non importa quale sia il suo foro. Non è una scelta: è la società che gli cambia d’attorno, e in primo luogo si trova dinanzi un altro uditorio. Per meglio dire: l’argomentazione impone regole nuove. In altri termini: si vanno ponendo le basi alla nascita della logica proposizionale, nella quale «le parti più nobili e più cospicue delleloquenza» stanno nella capacità di dimostrare, piuttosto che in quella di mostrare. Ne è prova il fatto che la metafora, dapprima considerata banco di prova, lascia il posto all’analogia, che ben presto sarà guardata anch’essa con sospetto. Non a torto, perché anche oggi che non è affatto bandita dalle terre del «dominio retorico» è l’ultimo rifugio il cui il cacozelo riesce a trovare accoglienza. 



domenica 9 febbraio 2014

Quasi un manifesto

La bufala di Michelangelo neurologo



Mauro Covavich dà credito alla bufala, degna al più di una puntata del Voyager di Roberto Giacobbo, che, nella Creazione di Adamo affrescata sulla volta della Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia voluto «inscrivere il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano», e di suo ci aggiunge il dirsi «colpito» dal «fatto che, nella religiosità tormentata di Michelangelo, Dio apparisse in forma d’Intelletto (Nous), ipostasi neoplatonica di qualità cerebrali che l’uomo riceve in dono» (la Lettura/Corriere della Sera, 9.2.2014 – pag. 21). Da dove cominciare per dimostrare che in meno di sei righe è concentrato un gran bel mucchio di puttanate?
Cominciamo col dire che nella prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso. Bisogna aspettare il Cerebri anatome di Thomas Willis, che è del 1664, giusto cent’anni dopo la morte del Buonarroti, e poi gli studi di Marcello Malpighi, di Giovanni Battista Morgagni e di Xavier Bichat, per avere una descrizione anatomica del cervello degna di questo nome, e in qualche modo approssimabile a quella che Michelangelo avrebbe avuto per modello.
Stupisce che il primo a intravvedere nella Creazione di Adamo una sezione sagittale mediana del cervello umano sia stato un neurologo? Tutt’altro, basta non avere dimestichezza con la Storia della Medicina, cosa relativamente comune tra i medici, soprattutto quelli d’Oltroceano, e farsi prendere dalla tentazione, da nefrologi per esempio, di intravvedere l’anatomia microscopica di un tubulo renale, descritta per la prima volta nell’Ottocento, nell’organo idraulico ideato da Ctesibio nel III secolo avanti Cristo. Questo è il genere d’infortunio occorso a Frank L. Meshberger (An Interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam Based on Neuroanatomy Journal of American Medical Association, 1990 – 264 [14]: 1837-41), che in realtà stupisce solo fino a un certo punto, perché anche le correlazioni che egli imbastisce tra i dettagli del dipinto e quelli che dovrebbero essere i corrispettivi anatomici cerebrali sono a dir poco forzati: in buona evidenza, siamo al tragicomico dei fatti sacrificati in una ipotesi nella quale vanno troppo stretti. Non è un caso isolato, d’altronde, basti pensare al più recente tentativo di Ian Suk e Rafael Tamargo, ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, che qualche anno fa, su Neurosurgery, scrivevano di aver intravvisto l’anatomia della base cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio nel pannello della Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre.
Passi per lo svarione del dottor Meshberger, che non possiamo neanche escludere abbia voluto prendersi gioco dei lettori del  Journal of American Medical Association se la sua ignoranza della Storia della Medicina nasconde una sofisticatissima provocazione intellettuale, ma cosa dire del Covacich, che Wikipedia ci assicura avere una laurea in filosofia? In Platone v’è più d’un cenno a una correlazione tra Nous e cervello, questo è vero, e sappiamo che i neoplatonici Marsilio Ficino e Pico della Mirandola ebbero contatti con Michelangelo: anche ammettendo, tuttavia, che per prodigiose virtù divinatorie il Buonarroti avesse nozioni anatomiche del cervello che sarebbero state conosciute solo un secolo dopo, con un committente come il Papato di quei tempi, di solito attentissimo all’aderenza dell’opera d’arte a dettami ritenuti indiscutibili, un artista poteva prendersi certe libertà? Quale era, ai tempi di Giulio II, la posizione della Chiesa riguardo alla filosofia di Platone? Non benevola, diciamo. Bisogna aspettare il primo Novecento per trovare un teologo cattolico che riesca a liberare la teoria platonica delle Idee dall’accusa di contraddire la dottrina, che l’accompagnava fin dal III secolo. In tale contesto, Michelangelo poteva ritenersi libero di raffigurare Dio come un Nous in forma di cervello? Avrebbe mai potuto rappresentarlo come «ipostasi neoplatonica di qualità cerebrali che l’uomo riceve in dono»? 




 

Senza titolo, al momento

« La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante dogni sua parte»
Eugenio Montale, Gerarchie

Riprendo la riflessione sui sistemi elettorali che ho interrotto in questo punto: «In mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e che anzi abbia inclinazione a frammentarsi, considerare assolutamente preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente all’ingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di governabilità porta ineluttabilmente a limitazioni del diritto di rappresentanza» (Una premessaMalvino, 23.1.2014). Qui pongo la seguente questione: con la forte limitazione del diritto di rappresentanza che si è avuta coi sistemi elettorali in adozione dai primi anni ’90, si è ottenuta la tanto agognata governabilità?
Ad evitare che sul termine governabilità si possa cadere in fraintendimento, cerchiamo di metterci d’accordo sul suo significato affidandoci a ciò che Gianfranco Pasquino afferma nell’omonima voce dell’Enciclopedia Treccani: parrebbe che in se stessa la governabilità sia concetto assai vago, ma che acquisti un senso a considerare il suo rovescio, l’ingovernabilità, intesa come instabilità del quadro politico cui consegua l’impossibilità di una salda azione di governo da parte di una maggioranza democraticamente designata a quel ruolo. E tuttavia questa stabilità è in se stessa garanzia di governabilità? Non ancora, perché anche una stagnazione è stabile. Quanto alla salda azione di governo, poi, siamo dinanzi ad un concetto politicamente neutro, perché non dà alcuna misura della sua efficacia.
Potremmo azzardare che la governabilità sia il miraggio più frequente nel deserto della ingovernabilità: un mito che nasce dal bisogno di dare allo Stato la forza che lo giustifica in quanto Stato (sull’assunto troviamo singolarmente d’accordo Lenin, Schmitt e Weber), e di trarla, quando la democrazia non riesca a ricavarne dalle urne una adeguata, da un’applicazione del principio maggioritario che la renda tale sottraendo proporzionalità alle opzioni espresse, facendo così prevalere artificiosamente la maggioranza relativa (spesso assai relativa) con un premio aggiuntivo per il numero di eletti. In pratica, si crea forza di governo sottraendone alle opposizioni nella misura necessaria a renderla adeguata alla governabilità.
Non occorre un occhio di lince per scorgere che in questo modo la forza di governo è frutto di un mero artificio, e che la sua legittimità è surrettizia. 

[segue] 

mercoledì 5 febbraio 2014

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Non ho trovato un solo argomento valido tra quelli usati da chi è sceso in polemica col M5S in questi ultimi giorni, e sì che non ne mancavano. E invece sono piovute accuse risibili, tanto più ridicole quanto più si strepitava all’inaudito, perché in parlamento e fuori, in settant’anni circa di vita repubblicana, c’è stato chi è riuscito a far ben peggio, contro il codice e contro il galateo. Non me ne stupisco più di tanto, perché ad essere più critico nei confronti dei grillini è stato proprio chi è corso appresso a loro con più affanno, e fino a poche settimane fa: se gli argomenti validi non li trovava allora, perché aspettarsi li trovasse ora? Il sospetto è che chi in questi giorni ha sparato ad alzo zero sul M5S voglia rimuovere l’imbarazzo di aver fatto male i propri conti, di essersi illuso che si trattasse di una bestia addomesticabile, di un’anomalia riassorbibile: incapace di coglierne il precipuo, ieri, incapace di coglierlo, oggi, perciò costretto a rappresentarselo come accidente. La stessa cecità dei sussiegosi panzoni dello Stato liberale in crisi dinanzi agli strambi manifesti di futuristi e sansepolcristi: il socialismo era in piena mutazione genetica, e i fessi arricciavano il naso alla volgarità di quei pantaloni alla zuava, di quegli incomprensibili vocalizzi da barbari. Non voglio tediare il mio lettore, rimando ai numerosi post che ho dedicato al M5S, e aggiungo che rimango saldo nell’opinione che ho espresso in quelle occasioni. Non sarà un bel giorno quando il M5S arriverà al 30% o addirittura al 37% – so bene che oggi sembra impossibile, anche il 25% sembrava impossibile l’anno scorso di questi tempi – però almeno di una cosa potremo consolarci: un’oclocrazia belluina divorerà una oligarchia inetta.


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Non mi sono mai spinto a chiedere che «the Holy See assess the number of children born of Catholic priests, find out who they are and take all the necessary measures to ensure the rights of these children to know and to be cared for by their fathers, as appropriate», confesso che a questo non ero mai arrivato. Riguardo al resto, lo dico con un sorrisetto da stronzo dipinto sulle labbra, il documento che l’Onu ha licenziato sugli abusi sessuali commessi da membri del clero cattolico a danno di minori sembra un copia-incolla di ciò che ho scritto tante volte su queste pagine negli anni passati. 


martedì 4 febbraio 2014

Barbaria, barbaria, barbaria...


... che detto tre volte fa barbarie.

L’ossessione della «famiglia normale»


La famiglia è l’ossessione di chi ha vissuto la propria infanzia in una famiglia problematica, e non c’è affatto bisogno che essa avesse notevoli particolarità per causare problemi al piccolo, perché anche una famiglia cosiddetta normale è in grado di causarne. È che «normale» vien da «norma», che vuol dire «legge», e in questo caso rimanda a «natura», che però è pure sinonimo di quella che in statistica è detta «moda», cioè «il valore che compare il massimo numero di volte in una successione finita». Non è il caso di tirarla troppo per le lunghe, però anche «valore» ha il suo ambiguo, perché rimanda – insieme – a un punto posto su una scala e ad una logica che pretende di informare il senso di un bene, e non fa differenza che sia materiale o immateriale. Un gran bel guaio quando si è costretti a ricorrere a termini cotanto ambigui, e il guaio più grosso si rivela nel fare i conti con la cosiddetta «famiglia normale», che da un lato potrebbe definirsi come realizzazione di un disegno trascendente anche quando la si concepisce come espressione di una «legge» di «natura», perché mai come in questo caso la «natura» è intesa tanto «dentro» all’uomo da stargli in realtà «sopra» e «prima», e dall’altro coincide col modello di famiglia conforme alla «moda» in un dato tempo e in un dato spazio, che di solito costituisce il posticino più rassicurante sotto una campana di Gauss. È questo che dà un tono tragico al tizio con l’ossessione della «famiglia normale»: a dover rendere conto di quale «norma» sia informato il modello di famiglia che per lui è ideale, non può far altro che indicare una «legge» di «moda», rivelando che il suo «valore» è dato esclusivamente dalla misura del suo esservi conforme. Si presenta come il difensore di un disegno trascendente, ma a grattarne via il superficiale strato retorico che lo ricopre emerge il conformista.
Un esemplare campione di questo genere di ossessione è Giuliano Ferrara e ad illustrarne il tragico è il suo editoriale in prima pagina su Il Foglio di martedì 4 febbraio, che prende a spunto la vicenda di cronaca che ha per protagonista Woody Allen, che una sua figlia adottiva, oggi ventisettenne, ha accusato di atti di pedofilia che si sarebbero consumati oltre venti anni fa. Dice di non essersi fatto un’opinione precisa su ciò che Dylan Farrow ha raccontato al New York Times, anzi, dice di credere sulla parola a Woody Allen, che ha dichiarato trattarsi di falsità, e aggiunge di non volere approfittare di un’accusa che «sulla scala spettrale del desiderio rimosso» potrebbe nascere solo dal «rapporto anaffettivo tra una figlia e un padre» per vendicarsi di quel «nichilismo relativista», che a lui sta terribilmente sul cazzo, di cui i film di Woody Allen sarebbero il manifesto. In pratica, lo fa. E non ha alcun pudore ad ammetterlo: «Se non mi vendico, e limito la vendetta alla sua sconcia e cinematicamente efficace attitudine al relativismo etico, per lui non piango. Faccio come lui. Non piango, ma non insinuo. Non ne ho bisogno. In fondo, basta che funzioni». Non ha bisogno di insinuare che storiacce del genere possano verificarsi solo in un ambiente moralmente degradato e culturalmente tarato: comunque stiano realmente i fatti, un presunto pedofilo che ha un modello di famiglia alternativo a quello «normale» (qui è preso ad esempio quello illustrato da Woody Allen in Whatever works) non merita le garanzie che, fosse soltanto in termini di solidarietà, sono dovute a un presunto pedofilo che su questo piano sia un sano conformista.
Superfluo sottolineare che siamo all’ennesimo sproposito di argomentazione cui Il Foglio ci ha abituato fino alla noia, ma forse non è del tutto inutile rammentare che al «relativismo etico» dei nostri tempi bui Giuliano Ferrara riusciva ad imputare pure gli abusi sessuali commessi su minori da membri del clero cattolico. Pedofilo o no, insomma, chi è per una famiglia diversa da quella «normale» sarebbe in parte responsabile, ancorché involontario, di ogni atto di pedofilia, compresi quelli commessi da chi, almeno a chiacchiere, professa fede incrollabile nel modello di famiglia «normale». Quanto sia assurda questa posizione, che pure ha l’estremo pudore di andarsi a rintanare in un volvolo logico sfacciatamente specioso, è inutile dire: basti il rilievo storico che la pedofilia è sempre esistita, e si trasmette da abusato ad abusante come il cognome paterno nelle famiglie perbene. Quanto, poi, all’ossessione per la «famiglia normale», non c’è bisogno di scavare troppo nella biografia di Giuliano Ferrara, basta chiedersi donde vengano i suoi disturbi alimentari. In quanto alla famiglia che si è costruito, infine, non si capisce dove sia la «norma» che dichiara necessaria, se non nel fatto che la signora Selma è indubitabilmente femminuccia, come lui è indubitabilmente maschietto.  

domenica 2 febbraio 2014

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«Non c’è più differenza reale fra tempo libero e tempo del lavoro: fusi nella travolgente rapidità della vita odierna, annullati dall’ansia del vuoto che spinge a riempire ogni spazio della giornata, i due momenti si confondono in un assillante attivismo, condizionato dall’invadenza delle nuove tecnologie. La smaterializzazione del lavoro e l’assunzione in prima persona di una serie di microattività che prima erano svolte da altri, nell’illusione di risparmiare e godere di maggior autonomia, hanno cancellato i confini di ciò che si fa per gli altri e ciò che si fa per sé. La grande innovazione (o la grande impostura, a seconda dei punti di vista) della società postindustriale è proprio quella di essere riuscita a unire otium e negotium, senza distinzioni sociali. Gli apocalittici potrebbero obiettare che una società in cui non c’è differenza fra tempo libero e tempo del lavoro è oppressiva e falsamente democratica, esercita il controllo totale sugli individui con l’alibi di una libertà senza limiti. Che l’homo ludens sia tornato e non abbia bisogno di imposizioni per lavorare è un’illusione rafforzata dalla tecnologia. Invece, senza saperlo, lavora anche quando si diverte, nella convinzione, già propria di Schiller, che “l’uomo è interamente uomo solo quando gioca”».

Carlo Bordoni (la Lettura-Corriere della Sera, 2.2.2014)