giovedì 11 dicembre 2014

Non si capisce

All’opinione largamente prevalente che siano i cosiddetti valori a dare fondamento ad una società si oppone quella di chi ritiene che essi ne siano solo il prodotto, peraltro assai tardivo rispetto alla sua fondazione, che dunque deve attribuirsi ad altro, in primo luogo ai cosiddetti bisogni. Nel primo caso, non è mai abbastanza chiaro donde vengano, questi valori, né cosa riesca a renderli fondativi in certi casi e in altri no, cioè cosa sia in grado di renderli ampiamente condivisi o no, perché almeno una cosa è chiara: alcuni valori assumono forza nella misura in cui sono assunti come tali a discapito di altri, e non c’è accordo unanime su quali sarebbero fondativi e quali no, tutto dipende dal tipo di società che esalta questi e degrada quelli. Tutto è più chiaro col ritenere che una società li assuma in funzione dell’opinione che ha di se stessa, in pratica che li produca – se mi è consentito esprimermi con un ossimoro – come moventi a posteriori, rappresentazioni (non di rado sublimate) di ciò che l’ha resa tale. In quest’ottica i valori stanno alla società come lo stemma sta a una nobile casata, rivestendo di simboli la sua origine e i suoi caratteri, ma in fieri.
È chiaro che Giorgio Napolitano propenda per la prima ipotesi, e questo un po’ stupisce, perché la sua formazione culturale dovrebbe portarlo a propendere per la seconda. Però stupisce solo un po’, perché la tradizione di scuola marxista incorre spesso in contraddizione quando distingue tra struttura e sovrastruttura. Così riusciamo a chiudere un occhio quando afferma: «Nella prima metà del secolo scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi è, sia pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del rispetto: rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo, nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del Novecento».
È un’analisi che ci attenderemo da un crociano: la storia come manifestazione di uno spirito immanentizzato, il progresso come sua intrinseca natura, l’«oscuramento» come parentesi, come incidente, come transitorio smarrimento di valori che sono assoluti e non il risultato di ciò che una società elabora in forma di consapevolezza. Una relazione tra società e valori come quella che sembra suggerirci Giorgio Napolitano porta inevitabilmente a fraintendere la portata degli eventi che sono in gioco in una crisi (dando al termine il significato che assume in ambito scientifico): si fa una madornale confusione tra cause ed effetti, come appare evidente dalla necessità di dover ricorrere ad una peraltro non meglio definita «patologia dell’anti-politica» per spiegare – arrivando fin quasi a giustificare – le colpe della politica.
È di tutta evidenza che un sintomo venga considerato agente patogeno, ma quello che maggiormente sconcerta, tuttavia, è il ricorso ad una categoria come quella dell’«anti-politica», che appartiene alla più becera pubblicistica. Volendo riprendere l’allegoria che qui ci viene proposta, sembra che Giorgio Napolitano pensi che l’organismo soffra a causa della febbre, senza porsi il problema di quale microrganismo l’abbia causata, tantomeno afferrando la funzione che la febbre ha in un organismo affetto da un processo infettivo. Giacché sarebbe vilipendio del Capo dello Stato anche il semplice sospetto che si sia bevuto il cervello, si è costretti a pensare che Giorgio Napolitano voglia continuare a esorbitare dai poteri che contempla la Costituzione, anche agli sgoccioli del suo mandato, come a lasciare un protocollo d’intesa alle forze politiche che fanno sistema: liquidare come «patologia eversiva» ogni momento di critica allo status quo.
Di fatto, dalla crisi sarebbe possibile uscire solo col recupero di quei valori che sarebbero stati smarriti proprio dai partiti che fanno sistema. Perché li avrebbero smarriti? Non si sa, a stento ci viene suggerito il come. Ci sarebbe stato «uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. È stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione».
Con tutto quello che ha firmato in questi ultimi otto anni, Giorgio Napolitano si sente innocente? Ma come si possono recuperare questi valori? Non si sa, a stento ci viene suggerito che si dovrebbe «dare nuova vita e capacità diffusiva a quei valori [con] una larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole che definiscono il ruolo e il profilo della politica». Come nella premessa posta all’inizio: donde verrebbero ripresi questi valori? E come potrebbero essere rivivificati con una riforma delle istituzioni e delle regole che porta quanto mai lontano dal modello di società che li produsse? Non si capisce. 

mercoledì 10 dicembre 2014

[...]

La scorsa settimana ho commentato un articolo col quale Luigi Manconi perorava la causa di Bernardo Provenzano, che a quanto pare è in condizioni psicofisiche da far schifo,  e insomma sarebbe incompatibile col regime carcerario. Bene, pare che Totò Riina non stia meglio: due infarti, Parkinson, problemi al fegato. Possibile che solo quel fesso di Leoluca Bagarella sia sano come un pesce?

La simpatia


È davvero un peccato che Tocqueville decida di rivelarci l’intimità del suo animo solo in finale di carriera, dopo averci rifilato centinaia e centinaia di pagine. Lo leggevamo, non è che ci piacesse da morire ma ci sembrava un tipino sennato, forse un pochino frou-frou, ma insomma sempre meglio di un Chateaubriand. Ci metteva in guardia dalle derive violente della democrazia, e chi ama la violenza? Solo i bruti, via. Certo, ci stupiva che non riuscisse a trovare neanche una attenuante agli effetti collaterali della Rivoluzione – non è che l’aristocrazia puoi abolirla con un frego di penna, no? – ma ricacciavamo lo stupore nella simpatia, doveva essersi sporcato la redingote di sangue, poverino. Poi abbiamo letto quell’appunto e un dubbio ci ha trafitto: ma vuoi vedere che si trattava solo di uno furbo? Più elegante di un Talleyrand, senza dubbio, e soprattutto con un visino così pulito, un così bel periodare… No, via, furbo no. Diciamo che aveva un gran bel garbo.
Com’è che mi tornava in mente ’sta cosa di Tocqueville? Ah, ecco, mi tornava in mente leggendo Massimo Adinolfi su Il Mattino: «C’è qualcuno che vuole provare a difendere la politica romana, dopo l’inchiesta Mondo di mezzo? Nessuno. Dunque proviamoci. […] Si tratta di questo: l’inchiesta condotta dai pm romani ha portato alla luce una fitta trama di illegalità in alcuni settori dell’economia della capitale, che prospera grazie alla corrotta complicità delle burocrazie locali, e investe anche esponenti politici di rilievo, secondo responsabilità che devono essere accertate. È evidente che, posta in termini così asciutti, non vi sarebbe sufficiente materia per una settimana di titoli da prima pagina, o per parlare di mafia capitolina, o per evocare il clima di Mani pulite, secondo l’allarmata testimonianza di Raffaele Cantone, che al Corriere racconta come gli capiti sempre più spesso che la gente lo fermi per strada e gli chieda (o forse gli urli): arrestateli tutti. Ma si possono arrestare tutti? O anche: siamo sicuri che si devono arrestare tutti? Tutti chi, poi? Tutti i politici in quanto politici? Se parliamo di clima, non v’è dubbio che il clima sia quello, che il solo fatto di appartenere alla classe politica attira oggi sospetti e dicerie. […] Ma chi o cosa alimenta questo clima? La corruzione, certo. Il malaffare: è indubbio. Ma al momento il clima lo fanno le intercettazioni che finiscono sui giornali. Per carità: decida il Ministro, decida il Parlamento come e quando intervenire sulla materia, nel rispetto di tutti gli interessi coinvolti. Ma intanto non è forse un fatto che, ancora una volta, sulla base di intercettazioni che finiscono nei verbali di polizia indipendentemente dal loro rilievo investigativo e che vengono sparate come notizie prima e indipendentemente da qualunque accertamento, si travolge un’intera classe politica […]? […] Ma non è solo una questione di civiltà o di garanzie giuridiche […] No: la domanda più spregiudicata, ma necessaria, è la seguente: conviene? O forse, più precisamente: a chi conviene? A chi conviene questo bagno di sangue, questo lavacro purificatore, questa continua drammatizzazione mediatica e, suo tramite, la messa in stato d’accusa di un’intera classe politica? Al Paese non conviene».
Un gran bel garbo, no? E poi che c’è di più raccapricciante del Terrore? Leggevo e mi dicevo: «Bravo, Adinolfi!». Poi m’è tornato in mente l’appunto di Tocqueville. E allora mi son detto: «Bravo, ma pure furbo?». No, via, impossibile. Niente da fare, è la simpatia che mi fotte.

lunedì 8 dicembre 2014

Mondo di mezzo

Lo stampo è un arnese che serve a imprimere una data forma a un materiale e perché ciò si realizzi occorre che il materiale abbia natura congrua a prendere e a conservare la forma che lo stampo gli imprime. A me pare che un’associazione per delinquere sia materiale di per se stesso congruo a poter prendere e conservare la forma che può darle lo stampo dell’organizzazione mafiosa, basta aderisca in modo stabile ai tratti distintivi che caratterizzano lo stampo. Penso pure che l’art. 416 bis del Codice Penale dia una esauriente descrizione della forma che dobbiamo attenderci da una congrua azione dello stampo sul materiale: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali».
Bene, dopo aver letto le 1.228 pagine dell’Ordinanza di applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati nell’ambito dell’operazione che i media hanno battezzato Mafia Capitale,  a me pare di poter concludere che l’associazione, di cui Massimo Carminati era senza alcun dubbio il capo, fosse senza dubbio associazione per delinquere, e altrettanto senza dubbio rispondesse ai tratti della forma che è descritta dall’art. 416 bis: lo stampo mafioso è riconoscibile senza possibilità di errore dalle conversazioni tra i componenti dell’organizzazione, che in pratica con esse si autoaccusano di quel reato.
Al mio lettore non sarà sfuggita l’insistita ricorrenza del termine congruo nel primo capoverso di questo post. Non è casuale, perché congruo significa proporzionato, ma soprattutto corrispondente: ho scelto questo termine perché mi pare che a stroncare i poverissimi argomenti di chi anche in questo caso mette in discussione l’ipotesi d’accusa – dalle indagini non emergerebbe alcuna traccia di coppole o di lupare, né alcuno degli indagati si esprimerebbe in dialetto siciliano – sia la semplice considerazione che a rendere efficace uno stampo basti la riproduzione di una forma nei suoi tratti salienti, che sono tali se immediatamente corrispondenti a quella forma che lo stampo imprime conservandone le proporzioni. Se «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso», non c’è bisogno d’altro perché il capo d’accusa trovi fattispecie nell’art. 416 bis. Tutt’al più sarà necessario trovare un nome alla forma che lo stampo ha riprodotto a Roma e a me pare che il più adatto sia quello di Mondo di mezzo.
Si tratta dell’espressione con la quale Massimo Carminati descrive struttura, modalità e funzione dell’organizzazione di cui è a capo nella conversazione che l11 gennaio 2013 ha con Riccardo Brugia e Cristiano Guarnera (n° 1.710) e che, contrariamente a quanto qualcuno ha scritto nel tentativo di dare una intrigante caratura culturale al clan, non ha alcuna attinenza alla Midgard di Tolkien. Che alcuni membri dell’organizzazione criminale abbiano avuto un passato di militanza nella destra eversiva è fuor di dubbio, ma credere che il nucleo fondativo della banda possa aver avuto un pur aleatorio profilo ideologico, e che a ispirare la teoria del Mondo di mezzo esposta da Massimo Carminati a Riccardo Brugia possano essere siano le suggestioni ricavate da un autore di culto della destra, è da idiota, e pensare di poterlo far credere è da pataccaro. 

domenica 7 dicembre 2014

venerdì 5 dicembre 2014

D’un bel 625 KB cadauna


Non metto il link per risparmiarvi la pubblicità di un preservativo che si piglia un terzo della pagina, il banner sotto la testata sul quale scorrono i prezzi di caffè, prosecco e detersivo distribuiti da un ipermercato e il pop-up che reclamizza una società di spedizioni, che è quello che dà il maggior fastidio perché bisogna chiuderlo due volte ogni dieci secondi, però volevo segnalarvi lo stesso Le foto di Ignazio Marino e Salvatore Buzzi, un articolo col quale Il Post di Luca Sofri conferma il suo apparentamento ai rotocalchi che ci informano di che colore siano i calzini dei magistrati che rovinano l’appetito all’editore. Fedele alla bottega di Giuliano Ferrara, presso cui il babbo lo sistemò perché apprendesse i rudimenti del mestiere, Sofri il Giovane corre in soccorso di un uomo del «capo», l’iperrenziano Giuliano Poletti, che una foto ci ha mostrato attovagliato con un bel crocchio di indagati di Mafia Capitale, pubblicando alcune foto che mostrano Marino in compagnia di Buzzi.
Si sa che Giotto superò Cimabue, dunque non c’è da stupirsi che Ferrara si sarebbe limitato a scrivere: «Vedete? Essere fotografati assieme a un brutto ceffo non vuol dire sapere dei suoi affari o esserne socio», sennò, giusto per farci trasalire, il che lo eccita tanto: «L’arte del buongoverno è sempre un poco zozza, c’è da rivalutare Marino», mentre l’allievo va ben oltre, si vede che ha imparato il tratto ma lo risolve in nuance, e con riferimento a quanto Marino ha detto giovedì sera a Ottoemezzo: «O il sindaco di Roma ha mentito, come dicono oggi i quotidiani, o ha fatto un’esposizione un po’ confusa».
Ma che ha detto, Marino? Alla domanda se avesse mai avuto sospetti su ciò che andava combinando Buzzi, ha risposto: «Non ho neanche avuto mai conversazioni…». Eppure le foto rivelano che gli ha parlato, quindi mente, oppure voleva dire che dal poco che aveva potuto capire, per quel poco che gli aveva parlato, mai avrebbe pensato… D’altronde, ha ammesso di essere «stato anche molto tempo a visitare la cooperativa»: non è scontato che ad accoglierlo vi fosse chi ne era responsabile? Di fatto, Marino non ha detto di non aver mai incontrato Buzzi. E tuttavia, delle due, una: o mente o ha problemi con la lingua italiana, e tra le due, bontà sua, Sofri è disposto a concedere sia la seconda.
Articolo in apparenza inutile, dunque, se non in difesa del lessico, di cui solitamente Il Post fa scempio, ma in realtà bon pendant di quello che riporta l’autodifesa di Poletti (la sua lettera a la Repubblica in risposta alla questione sollevata da Roberto Saviano). In quanto alla foto della cena cui partecipò il signor ministro, inutile cercare, Il Post non la riporta. Né riporta quelle che almeno in altre due occasioni ritraggono Buzzi e Poletti insieme. Solo le foto in cui con Buzzi c’è Marino, e in una pagina senza pop-up, d’un bel 625 KB cadauna.

Er Cecato e la cecataggine

Lirio Abbate ci rammenta che un tempo, in Sicilia, politici, procure, preti e popolino negavano l’esistenza della mafia (Anno UnoLa7, 4.12.2014). Negarne l’esistenza sarà stato senza dubbio farle un favore, ma questo accadeva intenzionalmente? In qualche caso, sì, d’altronde a negarne l’esistenza erano innanzitutto padrini e picciotti, tuttavia non è difficile immaginare cosa spingesse tanti a definirla un’invenzione letteraria: la mafia in Sicilia era un sistema che in parte si sovrapponeva allo stato e in parte lo vicariava, sicché riconoscerla come entità criminale avrebbe assunto di fatto una valenza eversiva. Accadeva, così, che chiunque cadesse vittima della mafia, quando non potesse esser dato morto ammazzato per questioni di corna, fosse considerato, ancorché tacitamente, uno che non sapesse stare al mondo: era morto per questioni esistenziali, per non aver voluto accettare la realtà per quello che non c’era altro modo di immaginare potesse essere. Rigettare le regole di una società che la mafia aveva costruito per secoli a sua misura era un torto imperdonabile, ben oltre l’essere d’intralcio agli affari di Cosa Nostra: era un mettere in discussione la stessa idea di potere, così come venutasi a costruire nell’intreccio tra stato e mafia. Si negava l’esistenza della mafia per negare quell’intreccio, e a negarlo erano sia quelli che consentivano vi fosse, sia quelli che non lo vedevano perché del potere avevano un’idea sostanzialmente analoga a quella mafiosa, quella della violenza istituzionalizzata, del diritto degradato a favore, del privilegio esaltato a diritto, del cittadino corrotto a cliente o a famiglio, dell’amministratore come feudatario.
Ci sono voluti decenni, e molti morti per disagio esistenziale, ma che la mafia sia esistita e ancora esista lo sappiamo, e sappiamo come vive, come pensa, come agisce. Dopo aver sventato la tentazione di concepirla come entità metafisica, sappiamo come nasce, come cresce e come si riproduce. Dopo averla vista all’opera, e dopo alcuni tragici travisamenti della sua più intima natura, sappiamo cosa le dia forza e cosa gliela tolga. Con ciò è venuta a costruirsi, indagine dopo indagine, processo dopo processo, una vera e propria scienza delle cose mafiose. Fallibile come ogni scienza, ovviamente, e come ogni scienza in grado di correggere i propri errori.
Non più connaturata alla sicilianità, come si voleva col confondere storia e destino. Né più questione di teodicea, come si voleva col ritenerla trascendente nel vederne gli stampi fuori dalla Sicilia. Patologia sociale, con tanto di etiogenesi e patogenesi, con terapie assai valide, se correttamente applicate, e a partire da una diagnosi accurata, possibilmente precoce, senza dimenticare l’indispensabile ruolo della prevenzione e della profilassi. Lavoro duro, ma almeno sembrano finiti i tempi in cui la peste sembrava dovuta alla congiunzione di Giove con Saturno. Abbiamo perfino qualche vaccino. Superfluo dire che la lotta durerà ancora a lungo, ma a farcela perdere può essere solo il non vedere la mafia dov’è, sottovalutarne il pericolo, lasciare che la papula diventi bubbone.
In tal senso occorre denunciare come pericolo pubblico chi si spende nel liquidare come inutile allarmismo il solerte intervento su un focolaio. Non sarà untore, ma al pari dei politici, delle procure, dei preti e del popolino che decenni fa in Sicilia negavano l’esistenza della mafia – de facto – lavora perché la peste diventi endemica.  «Secondo me – dice – questa storia della cupola mafiosa a Roma è una bufala… Forse tutto questo è abbastanza per una delle solite retate nel mondo del delitto, ma non è un po’ poco per definire il contenuto di un patto mafioso corruttivo nella capitale del paese?... Niente è più credibile a Roma, città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora indagano su di essa, di una rete di piccola e media criminalità che si avvale di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano. Ma è allo stato delle cose totalmente incredibile la surrealtà di una cupola mafiosa, sia pure in forma originale, che si sia impossessata della città per realizzare fini di guida e orientamento politico della sua vita amministrativa nei modi e nelle forme che sono suggeriti dal linguaggio delle intercettazioni e dalla sua elaborazione nelle notizie relative all’inchiesta... Quella che vi stanno dando non è informazione su un’associazione delinquenziale ma una coglionatura ideologica per creduloni. » (Il Foglio, 4.12.1204).
È il fisiologico rosicchiar di topi dove c’è formaggio, insomma, e si tratta di topi che ruggiscono come leoni, ma topi restano, e chi gli corre appresso è un esaltato con la fissa dei safari. Er Cecato avrà un avvocato, ma pure la cecataggine ne ha uno. Sì, il morto ha un sasso in bocca, ma era un fimminaro e l’avrà fatto fuori un marito cornuto. 

martedì 2 dicembre 2014

Savastano


Nella penultima puntata di Gomorra, la serie televisiva andata in onda tra maggio e giugno su Sky Atlantic, don Pietro Savastano, al 41 bis da anni, è ridotto ad una larva umana: un volto totalmente inespressivo, un grave stato di decadimento psicofisico, un severo deficit cognitivo con patente azzeramento delle facoltà emotive, non riconosce i familiari, non parla, cammina solo se sostenuto dalle guardie carcerarie, insomma, è solo l’ombra esangue dello spietato boss che ha costruito un immenso impero economico grazie ad ogni genere di attività criminale.
Cosa sopravvive della bestia sanguinaria in quell’omone catatonico? Nulla, si direbbe, e dunque, quando arriva la revoca del 41 bis, nell’ultima puntata, il telespettatore può ritenere ingiusto il provvedimento? Solo se gli manca la cultura dello stato di diritto, che tutti sanno cosa sia, ma non sarà superflua una ripassatina: «La superiorità giuridica dello stato di diritto consiste in questo: nel fatto di essere indipendente da chi lo combatte così nella elaborazione delle leggi come nell’esecuzione delle pene. Di conseguenza l’amministrazione della giustizia non si fa influenzare da chi rappresenta la negazione assoluta dei principi che ispirano il sistema democratico, non ne adotta i metodi e non ne assume – mai – la ferocia. Se Provenzano venisse sottratto a una carcerazione incompatibile con il suo stato di salute, ciò costituirebbe una vittoria dello stato di diritto e il vecchio boss sarebbe restituito alla sua attuale e più autentica dimensione: quella di un “simbolo del male” ormai completamente vuoto e ridotto a un consunto simulacro del passato»Così Luigi Manconi (Il Foglio, 2.12.2014), e basta mettere Savastano al posto di Provenzano per ritornare alla trama della serie televisiva: arriva la revoca del 41 bis e questo consente al clan di far evadere il boss, che in un battibaleno ripiglia il colorito dei bei tempi andati, promessa di una seconda serie, la prossima stagione.
Meno male che solo nelle fiction le perizie mediche possono essere fatte a cazzo di cane e che in Gomorra non c’è un Luigi Manconi al quale rinfacciare i morti delle prossime dodici puntate, fra i quali non è escluso possa esservi lo stesso Savastano. 

lunedì 1 dicembre 2014

[...]

Nella lettera dedicatoria «al molto illustre e valoroso signore il signor Giovanni de’ Medici» (meglio noto come Giovanni delle Bande Nere) che Matteo Bandello fa precedere alla novella Messer Cocco e Domicilla si sfotte, e di brutto, «il nostro ingegnoso messer Niccolò Macchiavelli» per aver dato prova, a sue spese, di «quanta differenza sia da chi sa, e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani in pasta e dedutto il pensiero e concetto de l’animo suo in opera esteriore», a illustrare che «sempre il pratico et essercitato con minor fatica opererà che non farà l’inesperto, essendo l’esperienza maestra de le cose, di modo che anco s’è veduto alcuna volta una persona senza scienza, ma lungamente essercitata in qualche mestieri, saperlo molto meglio fare che non saperà uno in quell’arte dotto ma non esperimentato»: era l’estate del 1526 e nei pressi di Milano «messer Niccolò quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti secondo quell’ordine che aveva scritto [nel suo Libro de la arte della guerra], e mai non gli venne fatto di potergli ordinare», e «tuttavia egli ne parlava sì bene e sì chiaramente, e con le parole sue mostrava la cosa esser fuor di modo sì facile, che io che nulla ne so mi credeva di leggero, le sue ragioni e discorsi udendo, aver potuto quella fanteria ordinare», fino a quando, «veggendo che messer Niccolò non era per fornirla così tosto», «detto[gli] […] che si ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini ordinaste a quella gente in varii modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò». Ennesima avvilente conferma – vi accennavo qualche settimana fa – della «distanza che c’è tra studio e mestiere [sicché] si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto vero, anzi, […] sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza» (Malvino, 16.11.2014). Di questo mio sconforto relativo al fatto che «è nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare», piuttosto che da seguire, si stupiva un lettore (Romeo Sciommeri), il quale mi faceva presente che «di solito si scommette sulla grossolanità della scienza sociale rispetto alla complessità del suo oggetto di studio»: in pratica, dovremmo concludere che sia impossibile una qualsivoglia scienza sociale, con ciò dando per scontato che le scienze sociali siano inassimilabili alle scienze naturali. Per sostanziale differenza dell’oggetto o per inapplicabilità dello stesso metodo? Torno un attimo al post cui ho fatto cenno prima, al punto in cui liquido la questione – in verità, con una soluzione di comodo – scrivendo che «è nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare». Possiamo farcelo bastare per concludere che quanto la scienza dà come ottimo non è mai tale rispetto a ciò che l’arte giudica migliore? E in cosa, allora, l’arte del governare risulta sempre vittoriosa sulla scienza politica? In altri termini – per riprendere quelli che usavo qualche settimana fa – se «non si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza», bisogna dedurre che non c’è alcuna relazione tra l’arte di far soldi e le teorie economiche? Ancora: com’è possibile che il consenso si guadagni così spesso contro ogni ragione? Lo scienziato della politica risponde che il rapporto tra teoria e fatti diventa tanto più labile quanto più i fatti si carichino di intenzionalità, per l’essere azioni di cui sono titolari individui o gruppi, e che è proprio questo fattore a determinare quel contesto policondizionale in cui viene a perdersi la prevedibilità che è propria del sistema entro il quale i fatti provano la correttezza di una teoria; in più, ci dice che, per la loro natura, essi sono ambigui, dunque difficilmente comprensibili, sia quando siano causa di ciò che si è chiamati a prevedere, sia quando siano effetto che sembra smentire la previsione. Resta la questione che avevamo lasciato aperta nei pressi di Milano nell’estate del 1526: Giovanni delle Bande Nere la chiude sistemando le truppe dove Dio comanda e invitando Machiavelli a pranzo, dove lo prega «che con una de le sue piacevoli novelle ci volesse ricreare».  

Il momento del riscatto

Ancora mi brucia la figuraccia che ho rimediato col dar credito a una notizia che ha cominciato a circolare in rete a maggio e che già a giugno tutti sapevano fosse una bufala: rilanciata qualche giorno fa da Il Mattino, l’ho ripresa senza sottoporla ad alcuna verifica e, anche se ho espresso più d’una perplessità su quanto in essa «restava senza spiegazione», non m’ha neanche sfiorato il dubbio che potesse averla partorita un buontempone.
Figuracce del genere dovrebbero far riflettere, e io ci ho provato, ma ho dovuto constatare che l’orgoglio ferito piegava la riflessione alla mera ricerca di attenuanti, riuscendo pure a farmene trovare alcune assai spendibili, ma in fondo tutte un pochino disoneste: mi era d’obbligo una verifica e l’avevo omessa, stop. Severo con me stesso non meno di quanto lo sia col mio prossimo, eautontimorumeno, ho condannato Malvino a due mesi di silenzio. Anche questo, però, m’è sembrato un pochino disonesto: bloggare, alla lunga, stanca, e approfittare di quanto era accaduto per il riposino che già da qualche anno vado pensando di concedermi sarebbe stato come andarmene in villeggiatura dandomi per carcerato.
Che fare? Ho raccolto il suggerimento di diciottobrumaio: nessuna pausa, ma post rigorosi, seri, ineccepibili. E la conferenza stampa che Bergoglio ha tenuto sull’aereo che lo riportava in Italia dopo il suo viaggio in Turchia me ne dà la migliore occasione: non c’è stata, vi hanno rifilato una bufala.
Sì, lo so, ci sono centinaia e centinaia di siti che danno la stessa versione, fino all’ultima virgola, di ciò che Bergoglio avrebbe detto, e c’è perfino un video che sembrerebbe confermarlo in modo inoppugnabile. Tutto fasullo, si tratta di una bufala. Bravo l’attore che interpreta Bergoglio, senza dubbio, e in ogni caso occorre dire che si tratta di un lavoro fatto a regola d’arte visto che c’è cascata pure Radio Vaticana. Ma via, basta fare attenzione ai contenuti, e si capisce subito che è un falso grossolano e pure volgaruccio.
«Chi ha venduto armi chimiche alla Siria era forse proprio chi l’accusava di possederle». E chi l’ha accusata di possederle? Vi pare che un papa serio possa sparare accuse del genere agli Usa, all’Ue, all’Opac e all’Onu, così, a cazzo di cane?
«Il Sinodo non è un Parlamento, ma uno spazio dove parla lo Spirito Santo». E a dirlo sarebbe il primo papa che ha voluto fossero resi pubblici i risultati delle votazioni sui singoli punti del documento finale, con la specifica di quanti voti fossero a favore e quanti contrari, che ci mancava solo il tabellone luminoso che sta a Montecitorio e a Palazzo Madama? Così si esprime, lo Spirito Santo? A maggioranza?
Un papa vero, poi, fa confusione tra fondamentalismo e integralismo come farebbe un giornalista di Libero o del Tg4?  
E nel parlare di un tizio in coma – in questo caso, del prelato armeno dal quale il falso Bergoglio ha detto di essersi recato in visita – un vero papa lo avrebbe definito «un vegetale»?
E il Corano che sarebbe «un libro di pace»? E «Dio [che] ci ha dato un mondo di incultura primordiale per farne un mondo di cultura», che, al netto del lessico da camallo, è teologia da avvinazzato? Ma, via, è più che evidente: trattasi di bufala, al cento per cento.


sabato 29 novembre 2014

Ok, il prezzo è giusto!

Nella personale classifica delle migliori interpretazioni che la cronaca ci ha offerto nell’ultima settimana, al terzo posto metto l’originale rilettura de I monologhi della vagina (Eve Ensler, 1996) proposta dalla Moretti, al secondo – ex aequo – i due Mattei nel remake di Totò contro Maciste (Fernando Cerchio, 1962), mentre non ho esitazioni nell’assegnare la palma d’oro a Bergoglio nei panni di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (Mt 21, 12-13; Mc 11, 15-17; Lc 19, 45-46; Gv 2, 14-16): «Quante volte, entrando in una chiesa, vediamo che c’è la lista dei prezzi… Penso allo scandalo che possiamo fare alla gente con il nostro atteggiamento…», e giù mazzate, ardente come Robert Powell sotto la regia di Franco Zeffirelli. Non che nel tempio, adesso, si smetterà di far commercio, ma questo è un altro paio di maniche. Anche a Gerusalemme, d’altronde, il giorno dopo tornò tutto alla normalità, e così accade oggi, con la Cei che si precipita a chiarire che l’offerta è libera, ma tanto utile, praticamente necessaria, sostanzialmente indispensabile. Scompariranno i tariffari in bacheca, sarà la qualità della prestazione a calibrarne il prezzo, e chissà che in questo modo non ne vengano migliori entrate. Tutto sommato, in fondo, dov’era lo scandalo? I tariffari avevano una loro ratio.  Prendiamo quello stilato da don Valerio Mazzola, parroco di Villa di Baggio, ridente borgo del Pistoiese dal quale è partita la lettera di protesta che ha offerto a Bergoglio lo spunto per la sua performance.


A me pare che si tratti di prezzi onesti. Forse qualcosa restava senza spiegazione – un terzo gemello ha lo sconto del 30% sui 90 euro del primo battesimo o sui 60 euro del secondo? perché pagare solo le prime comunioni, visto che sul piano teologico non c’è alcuna differenza con quelle successive? solo 70 euro di differenza tra un matrimonio come Dio comanda e uno come Dio abbozza? nel caso in cui l’agonizzante non spiri, c’è un rimborso, anche solo parziale, del prezzo speso per l’estrema unzione? un miracolo a 1.000 euro, non è pochino? non sarebbe giusto rendere più elastico il prezzo del funerale in relazione alla tempestività della prenotazione? in quanto alle sanzioni: 5 euro per ogni squillo di telefonino, senza specificare un sovrapprezzo in caso di risposta alla chiamata? e un sms, poi, viene a costare più di un atto di libidine, per giunta in un luogo sacro? e non può capitare che a far ritardo sia lo sposo? – ma in generale, via, mi pare potesse andare.    
    


martedì 25 novembre 2014

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È la prima metà dell’editoriale che Marco Travaglio ha firmato per Il Fatto Quotidiano di martedì 25 novembre e chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non potrà negare che il pezzo sia costruito molto bene, da polemista di gran talento. Appagati i sensi da un così bel saggio di scrittura, tuttavia, c’è da chiedersi a cosa possa mai servire l’ennesima conferma che Matteo Renzi sia una gran merda d’uomo. Scoprirlo ancora una volta cinico, sleale, opportunista – falso come una banconota da ottanta euro – farà cambiare idea a qualcuno? Probabilmente neanche Marco Travaglio ci conta, ma è che quello è il suo lavoro: dare argomenti a chi già abbia le sue stesse convinzioni, confortarlo nella persuasione che avesse ragione, ieri, contro la maggioranza di italiani che sceglieva Silvio Berlusconi e che abbia ragione, oggi, contro la maggioranza di italiani che sceglie Matteo Renzi. Una sorta di assistenza psicologica, potremmo concludere. Ma un problema resta, ed è quello della patente inefficacia di argomenti che dovrebbero essere inoppugnabili – che un uomo politico sia in costante debito di coerenza verso l’opinione pubblica, che debba tener fede alla parola data, che non possa concedersi il lusso di una doppia morale – a fronte degli strumenti che a dispetto di tutto ciò procurano consenso: non basta aver ragione per vederla riconosciuta. Nel mio piccolo ho già messo in guardia dall’usare la ragionevolezza come genere di conforto, perché è pia illusione «pensa[re] che a far perdere consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a coglierlo in contraddizione con se stesso, dar prova che non sia uomo di parola, che non mantenga le promesse, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana passa da cliente a cliente», perché fare le pulci a un demagogo, se non è per mestiere, è per accanimento da ingenui «convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari. È che alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto la buona coscienza» (Malvino, 22.9.2014).  

lunedì 24 novembre 2014

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«I grow old … I grow old …»
Thomas S. Eliot


Dicono che Renzi sia un grande comunicatore, quindi tocca a me sforzarmi di capire cosa abbia detto se mi è risultato oscuro, ma con discrezione, senza dar da vedere lo sforzo, sennò passo per coglione. E dunque: «Possono tirarci le uova, ci faremo le crepes, o i lacrimogeni, li considereremo delle lampade». Alle uova e alle crepes – sia lodato Iddio – ci arrivo. È una battuta del cazzo, ma posso pure far finta di trovarla una sparata ganza. Ma i lacrimogeni e le lampade? La frase sembra mettere gli uni e le altre nella stessa relazione che regge uova e crepes (una fiera noncuranza ci consentirà di trarre un vantaggio da qualsiasi attacco), ma mi scervello nel prendere in considerazione ogni tipo di lampada (a olio, a gas, a petrolio, ad alcol, ad acetilene, e alogena, fluorescente, a raggi ultravioletti, e quella endoscopica, quella scialitica, perfino quella di Aladino) e non riesco a stabilire alcun collegamento logico con un lacrimogeno, anche a voler prendere in considerazione ogni possibile accezione dell’aggettivo sostantivato. Eppure tutti sembrano aver colto cosa volesse dire. Per meglio dire, nessuno solleva la questione. E a me resta il problema: «Possono tirarci i lacrimogeni, li considereremo delle lampade». Ma i lacrimogeni, poi, solitamente chi li tira, chi in piazza contesta il governo o la polizia su ordine del governo? Niente, non ne esco, buio totale. E neanche un’anima buona a spararmi un lacrimogeno.   

«Medico, cura te stesso» (Lc 4, 23)


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Se vi si ammoscia mentre scopate, fatevi furbi e prendete esempio da Grillo: tirate su la zip e buttate lì un «sapevi che Trotsky è morto di sinusite?». 

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In premessa alla sua deliziosa Antologia apocrifa (Bompiani, 1978) Paolo Vita-Finzi afferma che per una efficace parodia letteraria è necessario innanzitutto individuare il «codice d’uso» dell’autore che si intende scimmiottare. Questa raccomandazione mi è tornata in mente nell’apprestarmi a scrivere un editoriale à la Ferrara, ispirato dal suo Quando la libertà è una procedura schifosa e comoda di annientamento (Il Foglio, 24.11.2014), pezzullo in cui il suo «codice d’uso» è più scoperto del solito, come capita a chi si segga dinanzi alla pagina bianca senza sapere di che cazzo scrivere e, per chiudere il pezzo in tempo utile, ricorra ai suoi più collaudati automatismi, meglio se su un tema già affrontato mille volte: ça va sans dire, qui, l’aborto, e usando i consueti frattali di perifrasi che per modulo hanno la geremiade dell’anziana signora sull’autobus («non c’è più religione», «chissà di questo passo dove andremo a finire», «questa non è libertà, è libertinaggio», ecc.). Tutto così scontato, in questo suo editoriale, che mi è sembrato si parodiasse da solo, sicché m’è passata la voglia di farlo io, tanto più che, sul mugugno che chiude il pezzo, l’anziana signora m’ha dato un brivido: «Ogni tanto mi sorprendo a sognare che questa libertà venga sommersa dal sacro islam, in mancanza di argomenti migliori. E non escludo, io che non ho una fede confessionale, che finisca proprio così, in uno scontro di assoluti in cui l’assoluto dell’io soccomba di fronte all’assoluto di Dio». Passi dar del debosciato al giovanotto che non le cede il posto a sedere, ma qui siamo al «le auguro di perdere le gambe sotto un treno» e al «ciu-ciuf, ciu-ciuf, ciu-ciuf» che dovrebbe farlo cagare addosso. Non è bello, ecco.        

Prova a dargli torto


«Il mio partito – dice l’astensionista con un certo orgoglio – è assai più forte del tuo», e non ha importanza quale sia il partito del tizio cui si rivolge. «Alle ultime Europee – dice – eravamo più di 21 milioni, il 41,3%. Appena lo 0,5% in più del 40,8% andato a Renzi? Manco per niente, Renzi è stato votato da poco più di 11 milioni degli aventi diritto al voto, che fa il 23,3% del totale; meno di 6 milioni hanno votato Grillo, che fa poco più del 10%; e meno di 5 hanno votato Berlusconi, che dunque non ha superato il 9%; e per gli altri neanche spreco tempo a fare calcoli».
Non gli si può dar torto, e si capisce l’orgoglio: «Negli ultimi vent’anni – dice – non siamo mai scesi al di sotto del 15%, ma la crescita è stata costante e alle Politiche del 2013 abbiamo sfiorato il 25%, diventando il primo partito». A renderlo tanto fiero, manco a dirlo, sono i risultati che arrivano dalla Calabria e dall’Emilia Romagna, dove il suo partito ha stravinto, con una maggioranza assoluta che supera di parecchi punti il 50%, e tuttavia non dà segno di montarsi la testa, come fin troppo spesso è dato osservare in chi si lascia andare a invereconde capriole di giubilo per aver guadagnato appena una manciata di voti: «Erano elezioni limitate solo a due Regioni, non ci illudiamo di poter riconfermare questo exploit, e tuttavia – dice – si tratta di un risultato che consolida una linea di tendenza che ci vede ormai da anni come il partito di gran lunga più amato dagli italiani».
Non gli si può dar torto, ma provarci è un dovere morale. Non ha importanza quale sia il partito del tizio che senta questo dovere, ma all’astensionista arriva puntuale la regina delle obiezioni: «Quello dell’astensionismo non è un partito». «Sì, vabbe’ – è la risposta – sarà partito il tuo. Chiamalo comitato elettorale, chiamalo piede di porco per forzare il coperchio dell’erario, chiamalo proprietà privata di un leader, ma non chiamarlo partito».
«Ma il voto di chi non vota vale zero». «Sì, perché il tuo vale qualcosa? Voti la lista bloccata di un cosiddetto partito che non mantiene neanche la metà della metà della metà delle promesse che ti ha fatto in campagna elettorale, e ti senti protagonista per il solo fatto di aver lerciato una scheda con un frego?».
«Ma chi si astiene perde ogni diritto di lamentarsi». «E uno dovrebbe votare solo per poterlo fare avendone pieno diritto? Succede niente ad abusarne senza averne il diritto? E fa differenza col farlo avendone il diritto? Il lamento, dico, è il premio di consolazione che spetta a chi sa di fare una cazzata, e la fa?».
«Ma l’astensionismo è il buco nero che inghiotte tutto e il contrario di tutto: rabbia e strafottenza, destra e sinistra che hanno perso ogni rappresentanza, qualunquismo di andata e di ritorno…». «Il partito che hai votato tu, invece, ha un’identità bella precisa, vero? Non dico un’ideologia, che non si usa più. Non dico una classe o un blocco sociale, che con lo sfarinamento generale sarebbe come parlar di fisica delle particelle a un summit della ’ndrangheta. Mi limito a un elettorato che abbia un minimo di omogeneità sul piano culturale… Ma che dico, culturale? Sul piano della piana logica dove due più due fa quattro: forse che il tuo partito ce l’ha?».
«Resta il fatto che non votare è da irresponsabili». «E tu indicami quale sia il voto di cui un qualsiasi italiano possa dirsi responsabile appena un istante dopo aver fatto cadere la sua scheda nell’urna».
E prova a dargli torto.

domenica 23 novembre 2014

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Poco prima di dimettersi, un Presidente della Repubblica va a conferire dal Papa, proprio come, poco prima di dimettersi, un Presidente del Consiglio va a conferire dal Presidente della Repubblica. Certe notizie sono così disgustose che si possono punire solo negando loro ogni commento.

venerdì 21 novembre 2014

mercoledì 19 novembre 2014

Grattarsi il culo

Grattarsi il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base. Per grattarselo, tuttavia, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né a conoscerlo ce lo si gratta meglio.
Le cose vanno a questo modo anche con certi mezzucci retorici: volgari quanto grattarsi il culo, non hanno minore complessità strutturale, che tuttavia non c’è bisogno di conoscere per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta immediata a un stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la mano al culo, quando prude.
Un esempio: «Ci sono due modi di stare in un talk show televisivo. Il primo è quello prono al pubblico […] Poi c’è il secondo modo. Provare a dire la verità. […]  Quando vado in un talk show in tv o alla radio io scelgo sempre la seconda strada. […] Non ho mai cercato il consenso per il consenso. Preferisco la verità». Si tratta della struttura portante di un lunghissimo post col quale Mario Adinolfi prova a trarsi d’impaccio dalle obiezioni che gli sono state rivolte dal pubblico in studio a L’aria che tira (La7, 18.11.2014).
È il mezzuccio retorico che mira a neutralizzare la sostanza delle obiezioni eludendole e opponendo ad esse una «verità» che sarebbe tale solo perché trova dissenso in quanto irritante, e che perciò non avrebbe bisogno di altro argomento. In pratica: ho ragione per il solo fatto di essere irritante. Espediente retorico tutt’altro che lineare, ma il cui impiego non necessita di alcuna conoscenza del meccanismo che può renderlo efficace: ti prude, te lo gratti, ti passa.