sabato 23 maggio 2015

«Gomblotto!»

La Consulta sul taglio dell’indicizzazione delle pensioni, Bruxelles sul reverse charge dell’Iva alla grande distribuzione, ora manca solo un avvisetto di garanzia e un cazziatone di Avvenire, poi la paranoia che è tipica d’ogni Ghepensimì potrà finalmente uscire dalla tana. Ne avremo preavviso al primo dei suoi claqueur che urlerà: «Si tratta di un gomblotto!».

Crunch!



«Mi piacerebbe che si arrivasse a un sindacato unico»
Matteo Renzi (Bersaglio mobile – La7, 22.5.2015)



«Sa di nuovo, no? Tanto chi lo ricorda più, il sindacato unico del 1926? Dammi retta, Meb, il paese ci vedrà un’altra semplificazione. In fondo è bastato cambiarle nome e chi si è accorto che abbiamo reintrodotto la legge Acerbo?» 

«Ok, capo, però evitiamo di offrire il fianco ai rompiballe. Facciamo come col partito unico, che a chiamarlo partito della nazione fa tutto un altro effetto. Invece di sindacato unico, sindacato della nazione, buonsindacato, chessò, sbloccacontrattazione...»

«Uhm, sboccacontrattazione non è niente male... Tu intanto avverti i ragazzi che, quando avremo un partito unico e un sindacato unico, a nessuno scappi di chiamarlo corporativismo. Rubrichiamo tutto sotto l’hashtag #cambiaverso, così il verso continua a rimanere nel vago»

«Lo dico a Luca...»

«Bene. Passami le patatine...»

E così il cerchio si chiude


Neanche candidarli, quelli condannati. Via dalle liste, a ogni tipo di elezione. Anche se condannati solo in primo grado? Sì, anche quella era condizione ostativa. Valeva solo per le liste del Pd? No, il Pd lo pretendeva anche per le liste dei partiti della coalizione che guidava.
Era ieri, si tratta di quanto recitava il Codice etico in allegato al programma che il Pd sbandierava alla vigilia delle elezioni politiche del febbraio 2013. Potevano chiamarlo in altro modo – chessò, Galateo elettorale – e invece no, quelle disposizioni volevano avere la cogenza del codice, vantando di trarre ispirazione da un imperativo morale.
E allora suppongo mi sia lecito affermare che nel Pd, nel giro di due anni, dev’esserci stata una profonda revisione critica di quanto prima era etico e oggi, palesemente, non lo è più. Palesemente, perché sostenere nel 2013 la candidatura di De Luca a governatore della Campania avrebbe sollevato un impedimento di natura morale, non ha importanza se solo nella forma dello scrupolo, mentre oggi, a quanto pare, non lo solleva più, neppure declassando lo scrupolo a dubbio, a tatto, a ultima premura.
Oggi il Pd sostiene la candidatura di uno che due anni fa sarebbe stato incandidabile, e il sostegno è espresso nel modo più qualificato, dal segretario del partito. Il quale pare non abbia lesinato qualche scrupolo nel tentativo di evitare la candidatura che oggi appoggia senza porsi alcuno scrupolo. E così il cerchio si chiude.

venerdì 22 maggio 2015

[...]

Senza dubbio attraente, per gli amanti del genere, lipotesi di Sandro Veronesi sul Vangelo di Marco (la LetturaCorriere della Sera, 17.5.2015): sostiene che la raccolta di detti di Gesù nota come fonte «Q», trasfusa nei Vangeli di Matteo e di Luca, non fosse ignota a Marco, come si è sempre creduto, ma che da questi sia stata deliberatamente espunta, perché poco adatta al pubblico romano, cui il suo Vangelo sarebbe stato espressamente indirizzato. «Hai davanti – scrive – il più grande impero della storia, gente ricca, evoluta, che ha già l’acqua calda in casa e schiavi a volontà, non puoi dire loro di porgere l’altra guancia, o convincerli con le altre parole contenute nel Discorso della Montagna. [...] Marco ha tagliato delle parti per una questione di composizione: aveva chiaro che doveva dialogare con l’immaginario epico dei romani. Il Vangelo di Marco è il Vangelo dell’azione: è lungo la metà delle pagine degli altri, e che cosa manca? Le parole, non le azioni. Ma i romani non avevano alcun interesse nelle parole di un popolo che non significava niente per loro. Le azioni, le guarigioni, i miracoli, gli esorcismi invece erano entusiasmanti». Brillante, ma non del tutto convincente, perché il Vangelo di Marco non è affatto privo di affermazioni che potessero suonare estremamente fastidiose alle orecchie dei romani, comè nel caso di Mc 10, 23 («Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di Dio!»). Basti pensare al modo col quale la società romana di quei tempi reagisse a discorsi simili, comè nel caso di Seneca, che godé sempre di ottima reputazione, anche nei momenti bui sotto Claudio, prima, e sotto Nerone, dopo, fatta eccezione per le critiche, anche abbastanza acide, che gli piovvero addosso quando osò svilire lattaccamento ai beni materiali, e che lo costrinsero subito a precisare che essere ricchi non fosse comunque ostacolo alla saggezza (De vita beata, 21). Se il suo Vangelo mirava eminentemente a un dialogo con i romani, Marco avrebbe lasciato quel paragrafetto? 

[...]

«Lamore è un’invenzione del XII secolo» (Charles Seignobos), già questo basterebbe a scoraggiarci dal porci la questione di come si possa più appropriatamente immaginare, ai nostri giorni, un matrimonio plasmato sul modello di amore coniugale che Paolo illustra nella Lettera agli Efesini, per giunta liquidandolo in mezza dozzina di versetti. Si pensi, dunque, quanto insostenibile avrebbe da essere la fatica di chi volesse farsi anche soltanto uno straccio di idea sullarmoniosa corrispondenza di affetti che, in unintervista concessa a Lettera 43, la moglie di Mario Adinolfi ci assicura sia perfetta proprio grazie allosservanza del dettato paolino. Perciò mi scuso con quanti mi hanno chiesto di commentare questintervista, confessando che non posseggo tutta sta forza. Mi limiterei ad una sola annotazione, a margine del passaggio in cui si legge che, «nella esegesi dellAdinolfi pensiero, i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo»: chiamate la polizia! 

giovedì 21 maggio 2015

[...]


Un po stupisce che Vilfredo Pareto, sempre acutissimo, qui incorra in un incidente argomentativo tanto increscioso. Il brano è tratto dal IV capitolo di Trasformazione della democrazia (1921) e a rivelarne il difetto logico non è neanche il fatto che dia la democrazia in ottima salute praticamente alla vigilia della Marcia su Roma, per giunta in una stagione in cui è messa in discussione innanzitutto sul piano teorico, quanto invece la confusione tra fede e religione, e quindi, mutatis mutandis, tra sostanza e forma della democrazia, che altrove sa peraltro tenere ben distinte, seppur critico verso entrambe. Riprendendo il suo esempio dalla novella del Boccaccio, cosa persiste alle male opere dei prelati romani, la fede o la religione? E cioè: quale prova di sostanza democratica è data dalla mera forma democratica? Si finge ciò che a molti è ben accetto, è vero, ma questo non dà alcuna ragione del perché lo sia, né rende conto di cosa esattamente sia ben accetto. Sempre per tenerci sullesempio proposto, Boccaccio può dare una spiegazione della conversione dellisraelita prendendo per buono il motivo che da quello gli è offerto (o attribuendoglielo nella finzione narrativa), ma questo non scioglie il dilemma se le male opere dei prelati romani indeboliscano e al contrario rafforzino quella che di fatto non è la reale potenza della fede, ma la sua mera rappresentazione (υποκρισιη). 

martedì 19 maggio 2015

Di quanti avete riso?

Non ho alcuna intenzione di unirmi ai tanti che pare non riescano a trovare altro che una ridicola macchietta in Gerardo Bevilacqua, anzi, vorrei invitare il mio lettore ad una riflessione seria, pregandolo di astenersi da ogni commento anche solo delicatamente beffardo. Il video che qui sotto allego, quindi, valga esclusivamente come materiale dal quale traggo le ragioni della mia riflessione, non come bersaglio che intendo offrire allirrisione o, peggio, allinsulto, che in ogni caso provvederò a censurare.
Ciò detto, comincio col dire che devo la scoperta di Gerardo Bevilacqua a un tweet di @makkox e che questo post è concepito come risposta ai commenti che ha sollecitato. Bene, visto che chi ha qualche dimestichezza con queste pagine non dovrebbe essere del tutto alloscuro di cosa io pensi della politica che si fa vanto di aver perso la dimensione ideologica in favore della narrazione di una vicenda personale, quella del leader carismatico, che è offerta a militanti, simpatizzanti ed elettori come un genere di consumo, qui potrò tagliar corto limitandomi a porre solo tre domande.
La prima: a quanto assomma in percentuale il bacino di consensi che va a quei leader che offrono questo tipo di prodotto? Non meno dell80%, forse addirittura il 90%: Renzi (35-37%), Grillo (20-24%), Berlusconi (12-17%), Salvini (12-14%), Pannella (0,2-0,4%). Dovrebbe esser chiaro che, se il mercato del consenso politico è contraddistinto da un certo tipo di domanda, lofferta di chi scende in campo non potrà che andarle incontro, e occorre avere due spesse fettine di salame sugli occhi per non riuscire a cogliere che i prodotti commerciali sopra citati sono tutti presi a modello nei dieci minuti di comizio di Bevilacqua. Con risultati scadenti, mi si dirà, e qui concordo, ma solo per porre la seconda domanda.
La piazza di Cerignola era stracolma come mai sarebbe riuscito ad ottenere chi vi avesse portato un altro genere di offerta, e a quanto pare, per ciò su cui un po tutti ormai convengono, limportante in democrazia è quanta gente hai sotto il palco. E dunque: che c’è da ridere?
Concordo anche sul fatto che una cosa sia riempire le piazze e unaltra le urne, ma allora conviene sospendere ogni giudizio su Bevilacqua, soprattutto se sarcasticamente liquidatorio, in attesa del risultato che otterrà. Nel caso sarà buono, non si potrà biasimare chi lo ha votato, ma solo, eventualmente, chi ha fin qui resi vincenti i modelli cui si ispira. E qui chiudo, con l’ultima domanda: di quanti avete riso, perché sembravano patetici buffoni, di cui ora non potete che aver paura?

lunedì 18 maggio 2015

Siamo alle solite

Siamo alle solite, Ferrara crede di potere aver la meglio sugli altrui argomenti distorcendoli a suo piacimento. Vi risulta che fra quanti sono contrari a un preside che possa scegliersi i docenti che vuole (e va a capire dovendone dar ragione a chi) ce ne sia uno solo che sollevi lobiezione che quello possa essere un coglione? No, eh? E infatti. Lobiezione è che di questo potere un preside possa facilmente abusare, creando odiose situazioni in cui capriccio o peculato possano dar vita a discriminazione o a mobbing. E dunque quale funzione assume il controargomentare che coglioni possono essere pure gli studenti, i loro genitori, gli insegnanti, i rappresentanti sindacali della scuola, eccetera? Ma è di piana evidenza: stornare lattenzione dal vero nodo della questione, per ridicolizzare chi la solleva. Certo, chiunque può essere un coglione, di fatto lo è soltanto chi si fa infinocchiare da mistificazioni tanto dozzinali, mentre la differenza che cè tra una gestione monocratica ed una collegiale, soprattutto su punto tanto delicato come il criterio della selezione del corpo docente, resta immutata. Ma coglione di gran lunga più grosso è chi si beva quel «crocianesimo di Togliatti», che non merita nemmeno un commento, ma solo una smorfia che compendi disgusto e compassione. 

«Ah, però, che forza!»


A voler essere spietato con me stesso, non devo escludere che possa esserci un fondo dinvidia nellindignazione che provo dinanzi alla sfacciataggine di chi riesce a farsi vanto pure di un fallimento: mi chiedo quanta di tanta disonestà intellettuale sia finalizzata a preservare unautostima che in questo modo diventa a prova di tutto, e quanta a difendere una reputazione pubblica che quella stessa autostima non riesce a figurarsi altrimenti che lusinghiera, ma poi rinuncio a darmi una risposta, resta lo sdegno, nel quale non mi stanco di scrutare temendo – realmente temendo, giuro – che affiori un «ah, però, che forza, più invulnerabile ai rovesci della vita di quanto lo sia una blatta ai fallout nucleari!».

@FedericaMog


Di grazia, gentile @FedericaMog, come verrebbe disrupted ’sto business che sappiamo avere numerose basi, delle quali tuttavia in molti casi si sa poco o niente, ma che è certo siano tutte sulla terraferma, sparse qua e là su un territorio immenso, che si estende dalla Siria all’Algeria? Con una naval operation – dice – ho letto bene? Do per scontato che lidea non sia quella di mandare sul lastrico smugglers e traffickers affondando i loro carichi a colpi di cannone, in modo da rovinarne la reputazione di operatori nel settore dei trasporti. E allora? Come si fa a colpire chi lucra sul traffico di migranti nel Mediterraneo – quella sembrerebbe la mission – con delle navi, che al massimo potranno entrare in acque libiche o tunisine, ammesso che sia loro consentito, il che al momento neppure si può dare per scontato? I toni del suo annuncio sembrano trionfali, ma neanche la sfiora il sospetto che la Ue le abbia offerto un contentino perché almeno per un po non rompa più i coglioni? O lo sa bene e con questo tweet cerca di rifilarci lanodino?

Appunti

Un fondo di giacobinismo è presente in ogni populismo dal basso, ma nel tratto peculiare che ne fa un modello dei processi di commutazione di una democrazia in dispotismo è presente anche in quella declinazione della post-democrazia nota come populismo dallalto, che al carattere disgregante del populismo dal basso somma quello normalizzante del potere istituzionalizzato, piegando così il malcontento degli oppressi al disegno degli oppressori, nella logica che è tipica della rivoluzione restauratrice, sicché potrà apparire grottesco, ma ha una sua ratio, che in questi casi lautoritarismo riesca ad essere ottimamente spacciato come espressione della volontà popolare finalmente liberata da freni ad essa posti da superflue procedure di garanzia, che una controriforma riesca ad essere ottimamente spacciata come riforma, che al vecchio basti un maquillage nemmeno troppo elaborato per essere ottimamente spacciato come il nuovo. In entrambi i casi, che il populismo sia dal basso o dallalto, chi si intesta il merito delloperazione deve invariabilmente vestire i panni di un uomo in cui siano rappresentati in sommo grado tutti i tratti caratteriali della platea dalla quale aspira a raccogliere il consenso, riuscendo a dare forma di virtù a ogni difetto che in quella cerchi aspirazione ad un avallo, accreditandosi così come mero strumento della volontà popolare in ogni passaggio che sia contraddistinto da una resistenza alla sua azione, sicché possa agevolmente trovar modo di rappresentare ogni conflitto che ne possa sorgere come il capitolo di un’epopea di liberazione. Ogni diritto che intenderà negare a una parte della società dovrà assumere l’aspetto di un privilegio lungamente e ingiustamente goduto da una minoranza a scapito dell’intera collettività, in modo tale che il più generale processo di negazione dei diritti acquisiti dall’intera società venga diffratto in episodi che possano essere narrati come vittorie contro caste, lobby, corporazioni, categorie che fin lì erano riuscite a difendere i propri egoistici interessi a danno del bene comune: ogni volta, contro ciascun settore che si intenderà colpire si chiamerà a sostegno tutto il resto della società, reclutato contro un nemico pubblico, e non sarà neppure necessario che la chiamata ottenga un reale sostegno perché questo sarà sempre dichiarato solido, ancorché surrettizio, per il solo fatto che l’azione isolerà il bersaglio dell’attacco. Di qui la necessità di non esplicitare mai nel dettaglio il progetto di società cui si mira, ma di tenerlo invece nel vago di un felice organicismo che può essere raggiunto solo se saranno espunti i particolarismi che ne impediscono la realizzazione: un miraggio di società, quindi, nella quale i conflitti siano annullati in una generale condiscendenza, dalla quale possa sottrarsi solo chi coltivi pulsioni antisociali, vuoi nella forma degli estremismi politici di opposto colore, che si delegittimano per il solo fatto di avere un colore (ideologismi), vuoi in quella della devianza morale o psichica (gufi, rosiconi, ecc.), comunque a prezzo della condanna di un senso comune incoronato a buonsenso. Giocoforza, perché il diritto sia inteso come privilegio, il vecchio presentato come nuovo, la critica liquidata come disfattismo, lopposizione come sabotaggio, larroganza promossa a decisionismo, il cinismo e lopportunismo a metodi dalta politica, è opportuno che venga dispiegato tutto larmamentario della mistificazione semantica, che sortirà il miglior esito quanto più i processi di formazione dellopinione pubblica verranno piegati al servizio del disegno populista, con l’acconcio dosaggio di minaccia e di blandizie, di furto e di mancia, di spietato ricatto e di condiscendenza complice. In ciò, col singolare paradosso di una democrazia formale a paravento di un regime autoritario che si autolegittima come governo di salute pubblica, siamo dinanzi ad un altro aspetto del giacobinismo: laffermazione della legittimità a piegare le leggi, secondo una incontestabile logica, ad un incontestabile stato di necessità, che sul piano semantico trova piena rispondenza nel sopruso della distorsione dei termini più comunemente usati nel dibattito pubblico, per piegarli a strumento di persuasione occulta. Chiunque si azzardi a segnalare e a denunciare questo sopruso dovrà aspettarsi di essere trattato almeno come con un petulante scassacazzi, se non addirittura come un guastatore della rinascita della nazione. 

domenica 17 maggio 2015

E il resto vien da sé


Rinunciando ai tecnicismi, sennò sai quanti sbuffi duggia, potremmo pure abborracciare in questo modo: chi detiene il potere deve necessariamente dedicare cura intensa e costante allo scopo di non perderlo, in pratica deve vivere per quello, e questo dalle masse non si può pretendere, daltronde neppure sembra ne abbiano appetito, i villici, se non a tratti, e quasi sempre brevi, e per lo più senza sprecare altra fatica che in mugugni, urla, qualche violenza tutto sommato innocua, roba che di regola rientra quando il potere passa di mano da un fetente patente a un fetente latente. Abborracciando, insomma, potremmo dire che sta cazzo di democrazia è fatta al massimo per essere formale, perché per sua natura il κρατος tende al centripeto, pretendere sia dato al δεμος, e al δεμος resti, comporta un insostenibile spreco di energie. Cazzarola, mi è scappato un po di greco, chiedo scusa, torno subito al prosaico.
Dunque. Ci abbiamo messo qualche secolo, ma infine l’abbiam capito: c’è chi è nato per comandare e chi per obbedire, ’sta stronzata che la sovranità appartiene al popolo in fondo è sempre stato un insulto alla legge di natura, l’importante è non esagerare pretendendo che i sudditi offrano a gratis le loro figlie vergini al re e ai nobili, anzi, sarebbe consigliabile levitare di chiamarli a questo modo, così, in cambio, loro rinunceranno a farci pesare l’essere di una razza speciale, e finalmente potremo godere della tanto agognata concordia sociale, che è andata a farsi fottere da quando qualche anima bella s’è messa a predicare che siamo tutti uguali. Stronzate. Certo, dirlo non è delicato, ma l’importante è darlo per scontato, poi sopra, a mo’ d’addobbo, ci si può mettere pure un po’ di magnanimità. E il resto vien da sé.

[...]

A chi devo prestar fede? A Ernesto Galli della Loggia, tanto per dirne uno, il primo che mi viene in mente fra quanti, un giorno sì e laltro pure, lamenta la generale indifferenza per le vittime della cristianofobia che...? No, aspettate, sarà meglio che lo citi testualmente. Prendo uno dei suoi articoli sullargomento, uno a caso, tanto sono tutti uguali. Dice che «i due principali motivi di questa vasta indifferenza sono [il fatto che] sempre di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani [e poi che abbiamo] paura dellislam arabo, del suo potere di ricatto economico, […] del [suo] terrorismo spietato». Non è tutto, perché dice pure che ad impedirci di correre in soccorso dei cristiani fatti oggetto in Medio Oriente di odiose persecuzioni e orribili massacri è la nostra «impossibilità psicologica di avere un “nemico”, [...] che unita al rifiuto/rimozione della morte – morte che il tramonto della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche modo esorcizzare – sta a sua volta producendo in occidente una gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di pensare e di fare la guerra». Robe da far venire dei bei sensi di colpa, come minimo. Eventualmente, per non limitarsi al minimo, da fare un pensierino a una crociata.
Bene, dar credito a lui o a monsignor Antoine Audo, vescovo di Aleppo? Lui dice: «Lallarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista. In certi ambienti cè una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell’occidente nei confronti dellislam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa. Dallaltro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e lansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno lidea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono luna con laltra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione».
A chi credere? Capirete che, a dar retta a Sua Eccellenza, Ernesto Galli della Loggia mi diventa, ancorché «per paradosso», alleato dei wahhabiti... Oddio, quella barba potrebbe pure far venire un inquietante sospetto... Ma no, via, non voglio crederci. 

sabato 16 maggio 2015

«Somiglia tremendamente»

«Tu facevi la terza liceo, io ero ai primi anni di insegnamento... Tutto per te era occasione di disturbo, ti piaceva creare confusione, paralizzare l’attività didattica... Non hai mai studiato, per tutto l’anno... Caro Giuliano, eri così...» (Maurizio Lichter – il manifesto, 29.1.2008). Non cè da stupirsi che si sia persa pure la lezione sul modello astronomico cui Dante Alighieri si ispirò per costruire il suo Paradiso, cinquantanni dopo avrebbe potuto soccorrerlo il pur vago ricordo che era quello tolemaico: astri incastonati in sfere di cristallo, una dentro l’altra, un universo fatto a cipolla. Niente, nel tappare le falle lasciate aperte da una gioventù sprecata a far casino – dopo il Principe e lOrlando furioso ci tiene a far sapere che ora sta studiando la Divina Commedia, poi probabilmente sarà la volta dei Promessi sposi – è inevitabile ci finisca dentro roba che non centra un cazzo. Ecco, allora, che a un Ferrara visibilmente eccitato da un picco degli zuccheri sembra che le terzine dantesche possano tornare a fagiolo da didascalia alle foto di galassie e nebulose che il telescopio Hubble ha scattato nelle abissali lontananze dello spazio: dalla Nasa, insomma, la prova che l’universo «somiglia tremendamente» a come ce lo si immaginava nel Trecento. Argomentasse, almeno. Macché, nientaltro che una mistica daccatto: «Nelle foto di frate Hubble vedete i pilastri della Creazione che sono lallegoria dellAquila in non ricordo più quale cielo ma comunque molto in alto, una figura esoterica della gerarchia angelica e di tanto altro, vedete i diademi della Madonna incoronata, il manto di Cristo che la raccoglie e se la porta nellEmpireo, vedete tutto quello che non avete mai voluto o potuto vedere, tutti gli ubi in cui consiste la divinità e il luogo da essa attribuita da sempre e per sempre a tutto e a tutti; cose non viste né pensate per mancanza di devozione, alla poesia medievale-moderna però, non alla religione idoleggiata dal secolarismo come Arcinemica della ragione» (Il Foglio, 16.5.2015). A non vedercela, tutta sta roba? Che domande, significa che si è insensibili. A Dio, ad Hubble e a Dante

[...]

Sono contro la pena di morte, ma ritengo vi sia barbarie pure nell’opporvisi argomentando che l’ergastolo sia pena che infligge una maggiore sofferenza, il che peraltro è vero. Non faccio fatica a comprendere che con questo argomento si cerchi comunque di evitare che una vita venga sacrificata al bestiale istinto di vendetta, fatto sta che lo si placa allettandolo con l’offerta di un sacrificio più crudele. E questo mi fa perdere facoltà di distinguo tra il profilo culturale (in prima stesura avevo scritto «morale») di chi è a favore della pena di morte e di chi le è contro.

venerdì 15 maggio 2015

[...]

«Restituiremo una parte dei soldi nei prossimi mesi» è come dire «rispetteremo solo in parte la sentenza della Consulta ma non subito». Per uno che prima di aprire bocca sulla faccenda ci ha messo una settimana, mandando avanti lacchè e famigli a dire solo «boh», «beh», «bah», è come dire «sto nella merda ma in fondo somiglia a cioccolata».
E non c’è da stupirsene, perché si tratta di uno di quei tizi che, se gli dici «sì, ma è merda», ti dà del disfattista e ti rinfaccia di avere la puzza al naso. 

Ma guarda tu la coincidenza

Ma guarda tu la coincidenza. Arriva unaltra sentenza della Consulta che sembra fatta apposta per rilanciare la questione posta di recente da chi lamentava che «non c’è praticamente giorno in cui non compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni politiche dipendano dalle pronunce di un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure della Corte costituzionale», e lanciava lallarme che sta cazzo di «giustizia onnipresente indebolisce la politica» (Giovanni Belardelli – Corriere della Sera, 11.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per rinnovare la preoccupazione di chi non arrivava a dire che le sentenze non debbano ripristinare i diritti violati se questo mette in difficoltà lo Stato che li ha violati, ma andando per le ellittiche chiedeva «quanti diritti possiamo permetterci?» (Luigi Ferrarella – Corriere della Sera, 13.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per far girare i coglioni a chi diceva che, certo, non si discute, «la legge è legge», però, col mondo che gira sempre più veloce, la giustizia non può essere più «attività di accertamento della legge come è», ma deve diventare «attività di governo dell’esistente», «creazione della regola caso per caso», sensibile alla «necessità politica» (Giuseppe Maria Berruti – la Repubblica, 13.5.2015).
Accade che, dopo averne già abbattuti altri due nel 2009 e nel 2014, la Consulta abbatta un terzo pilastro della legge n. 40 del 19.2.2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), della quale adesso resta in piedi poco o niente. Legge che fu approvata da un Parlamento democraticamente eletto. Legge che, peraltro, su quattro dei suoi punti fu sottoposta al vaglio referendario, che non ne corresse neanche una virgola. È un caso, insomma, al quale calza ottimamente il paradigma di una giustizia che indebolisce la politica (anche qui rivelandone le carenze di cultura giuridica), di diritti violati il cui ripristino implica un costo alla collettività (qui non eccessivo, ma comunque a carico del servizio sanitario nazionale), del sacrificare la necessità politica allapplicazione della norma costituzionale così com’è (nel caso di specie, sacrificare all’art. 32 della Costituzione tutto quello che si era guadagnato leccando il culo al cardinal Ruini).
E dunque? Come avrebbe dovuto comportarsi, la Consulta, per evitare che chi ha votato la legge 40 rimediasse l’ennesima figura di merda? Non ne ricava analoga figura anche il Paese che per tre quarti si astenne quando fu chiamato a esprimersi su quella legge, così riconfermandola? Ed è delicato che la Corte costituzionale faccia presente che la volontà popolare, ancorché espressa con la strafottenza, conta meno di niente quando è in patente contraddizione con la Carta? È giusto che adesso il contribuente debba accollarsi anche la spesa della diagnosi pre-impianto per chi il sistema sanitario nazionale solleva da oneri perché non abbiente? In fondo, a stabilire che per il diabete e l’ipertensione passi, ma per la diagnosi pre-impianto è troppo, non dovrebbe essere la politica? E la giustizia, recependo l’esigenza posta dai tempi alla creazione di regole caso per caso, secondo la necessità politica, prima di stendere la sentenza che rinnova il giudizio della legge 40 come legge di merda, non avrebbe dovuto chiedere al Ministero della Sanità se c’era adeguata copertura finanziaria per consentire ad una coppia di poveracci, per giunta portatori di talassemia, di avere un figlio sano?
Domande provocatorie, certo, ma voglio dare per scontato che tali fossero pure le questioni sollevate da Belardelli, Ferrarella e Berruti, sennò neanche ne discutevamo e li mandavamo direttamente a fare in culo. 

giovedì 14 maggio 2015

[...]


«Cultura umanista» invece che «cultura umanistica». «Parliamoci chiari» invece che «parliamoci chiaro». La riforma della scuola spiegata da un piazzista semianalfabeta.

Croccantini

Il giovedì pomeriggio – non di regola come una volta, ma abbastanza spesso – mi capita di bighellonare per le librerie di PortAlba, che un tempo assai di più – oggi, ahimè, quasi per niente – erano pozzi senza fondo di volumi altrimenti introvabili, per giunta venduti a prezzi davvero irrisori, prime edizioni, annate di riviste ormai chiuse da decenni, intere librerie svendute in blocco da eredi allergici alla polvere. Insomma, non è più come una volta che con due soldi a casa ti portavi mezzo scaffale di delizie mai più ristampate, ma intanto labitudine mè restata, e oggi avrei in programma la solita capatina.
Fattè che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea darea da PortAlba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta lultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano cè, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – lenorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.

mercoledì 13 maggio 2015

Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà

La questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la politica – ne parlavamo ieri commentando larticolo di Giovanni Belardelli uscito laltrieri sul Corriere della Sera (La giustizia onnipresente che indebolisce la politica) – merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente la matassa.
Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità, quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non fossaltro a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi stabilità nellequilibrio tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di uno degli altri due, o di entrambi.
È il caso che lItalia ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico, già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dellopinione pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza.
Di pari passo, il ceto politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo.

Per quanto abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel subdolo «cambiar tutto perché nulla cambi» che ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi auguro che questa storia possa vederci d’accordo almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere.
E con l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre sul Corriere della Sera (Il malessere delle sentenze), e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la Repubblica oggi in edicola (Quando le sentenze rallentano la politica) direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’ troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo diritto.
Prima di passare al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un lettore. Infatti ho parlato di «giudici» includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi, civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva alla «giustizia», senza alcuna distinzione di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale che dichiara lillegittimità di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che ordina la chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti potrò risparmiarmi la «confusione» che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso conseguentemente lato: entrambi sembrano voler appuntare lattenzione in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul taglio delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato, pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la giustizia sullapplicazione delle leggi era una «fluttuazione» francamente eccessiva (in ciò è da segnalare che larticolo di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e, dallaltro, è il «buco» che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap oggettivo allautonomia delle decisioni politiche.
Col rischio di apparire malizioso, la dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la politica – questo tipo di politica – oggettivamente si indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede «quanti diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi sarebbe più opportuno lasciar decidere allesecutivo quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino.

Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di Belardelli, per sottrarre il Corriere della Sera all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli) e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica economica e sociale» (Belardelli). È quella che passa per moderazione.
Di peso notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando allaccezione cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle ragioni di un esecutivo che, allindomani di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati, già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in sede internazionale» (Renzi).
Berruti scrive: «Si può dire: ma la legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano nel presente economico e politico. Nellattimo, data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di forza, esiste».
Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto? Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo daccordo, basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà.