giovedì 11 giugno 2015

E la Madonna


Giunge a termine l’indagine sulle apparizioni della Madonna a Medjugorje, che Ratzinger aveva affidato nel 2010 ad una commissione presieduta da Ruini, e da un passaggio di un’omelia tenuta in Santa Marta qualche giorno fa pare che Bergoglio, cui spetta prendere una decisione che sciolga i dubbi sull’attendibilità dei veggenti, sia intenzionato a negar loro ogni credito. Anche se la Madonna di Medjugorje non si è mai fatta scappare la ben che minima affermazione che fosse discutibile sul piano teologico o su quello dottrinario nei messaggi consegnati ai veggenti in questi ultimi trentaquattr’anni – la prima apparizione risale al 1981 – era prevedibile che questa dovesse essere la più naturale conclusione della controversa questione che a lungo ha imbarazzato la Chiesa di Roma, tra il timore di avallare quella che potesse da un momento all’altro rivelarsi come impostura, con catastrofica ricaduta, e la tentazione di continuare a sfruttare quanto più possibile quella che nel tempo è diventata una fonte di devozione mariana d’un ordine di grandezza inferiore solo a Lourdes e a Fatima, sorvolando sull’indotto. Non mancherà modo, col tempo, di costruire uno di quei deliziosi artifici logici, in cui la Chiesa di Roma è insuperabile maestra, che preservi a Medjugorje la dimensione di santuario, pur negandole l’attestazione di luogo in cui sia apparsa la Madonna (si pensi alla brillante trovata di trasformare la Sindone da «reliquia» a «icona», senza perderci né un soldo né un devoto), ma al momento occorreva trovare una soluzione che evitasse le rovinose conseguenze di un possibile incidente: le apparizioni duravano da troppo tempo, non c’era modo di avere un pieno controllo del fenomeno, i veggenti si erano trasformati in imprenditori della filiera mistica, la soluzione più prudente era quella di metterci una pezza, tanto meglio se della stoffa con la quale Bergoglio si è confezionato il suo abito di prete tutto opere e zero trasfigurazioni.
Una notiziola, tutto sommato, buona a ricamarci sopra solo il pezzo di colore sulla rettocolite ulcerosa che le parole di Bergoglio causeranno a Brosio e a Socci, almeno così pare da quanto i nostri vaticanisti sono riusciti a tirar fuori dalla faccenda, fatta eccezione per quei due o tre che si danno arie da bignamino e che comunque non sono riusciti ad andare oltre la solita logora solfa sulle forme della religiosità popolare rimasticando le lezioni di Dulles, Metz, De Rosa, Di Nola, ecc. Nessun sorcio che abbia ritenuto utile spiegare ai propri lettori quale fosse il senso di un’apparizione della Madonna, nel 1981, a Medjugorje. Vero è che si dovevano ripercorrere sei secoli di storia, ma almeno si poteva fare un tentativo. Proverò a farlo io.
Tutto prende le mosse negli ultimi decenni del XIV secolo, quando a Gregorio XI, ultimo dei papi che terrà sede ad Avignone, viene la brillante idea di dare all’Ordine francescano un ruolo di peso nella regione di Mostar in Erzegovina, allo scopo di creare nella zona una struttura diocesana che assicuri alla Chiesa un vescovo di nomina romana che costituisca un saldo presidio in quella turbolenta area dei Balcani. Brillante idea per modo di dire, perché, volendo, c’era da attendersi che un Ordine come quello francescano, teso fin dalle origini a darsi il massimo di autonomia di struttura e di modello pastorale, non fosse il miglior strumento per quel fine. Ad accentuare ulteriormente questa propensione, che potremmo dire naturale nell’Ordine francescano, ecco che intorno alla metà del XV secolo la dominazione ottomana arriva fino all’Erzegovina e chiude il cordone ombelicale che ancora nutriva l’Ordine del mandato romano. I francescani pagano l’imposta che la Sublime Porta pretende dagli infedeli perché questi possano continuare a vivere dove si trovano senza doversi convertire all’islam e fino alla caduta dell’Impero ottomano, che ci sarà solo quattro secoli dopo, godono della perfetta indipendenza da Roma, come incistati in una enclave. I guai cominciano nel 1878, quando l’Erzegovina passa sotto il controllo del cattolicissimo Impero austro-ungarico, dal quale la Chiesa di Roma ottiene il favore di costruire una rete diocesana che presto viene in attrito con quella che di fatto ne diventa un duplicato. I dissapori diventano presto roventi, ma solo nel 1923, e con un calcolo che ancora una volta rivela infelice, la Santa Sede arriva ad una ricomposizione della controversia, con la concessione della gestione delle parrocchie all’Ordine francescano, che da parte sua dovrà impegnarsi al reclutamento e alla formazione del clero diocesano. Calcolo infelice, perché per chi era radicato in quella terra da secoli diventava fin troppo facile coltivarsi un’ecclesiologia tutta particolare: nazionale, anzi nazionalista, come si ebbe modo di constatare quanto gli ustascia filonazisti di Ante Pavelic trovarono nei francescani degli entusiastici sostenitori. Tutto era destinato a capovolgersi con la riunificazione delle etnie balcaniche nella Yugoslavia di Tito, che non fece troppe differenze tra preti romani e frati erzegovini, e rese vita difficile agli uni e agli altri. Col Concilio Vaticano II il regime divenne meno arcigno, fino ad addivenire ad un accordo con il Vaticano che avrebbe potuto, in via teorica, mettere fine alla contesa tra Roma e i francescani, nel senso che Tito assicurava a Paolo VI, nel 1975, il pieno riconoscimento dell’autorità romana sull’equivalente diocesano del territorio di Mostar-Duvno. In via teorica, perché l’accordo fece incassare a Tito le simpatie della borghesia cattolica cittadina, ma fece incassare a Roma il risentimento della vasta comunità di cattolici delle aree rurali, che si strinsero ancora di più ai francescani, considerati vittime del cinico contratto tra papisti e marxisti. Invece che sanarsi nella piena presa di potere dell’autorità papale su quei territori, il contrasto si accentuò fino a episodi di franca ostilità, con qualche vampata di violenza, che ben presto portò i preti di Roma a lasciare le parrocchie in mano ai frati francescani. Situazione insostenibile per il Vaticano, che arrivò a sospendere il superiore dell’Ordine francescano della provincia, senza per questo riportare il grosso del gregge sotto la ferula del vescovo.
È questo il clima in cui i francescani vanno preparando la controffensiva che prende la forma di una deriva mistica, diffondendo l’attesa di un segno straordinario, che non potrà non mancare. Niente di nuovo, il misticismo è sempre stata un’arma potentissima in mano a chi volesse costringere Roma a mitigare le sue prerogative temporali, d’altronde cos’è che meglio ridimensiona le decisioni del clero se non un messaggio che Dio affida ad un bambino innocente, ad un eremita che vive di preghiera e rinuncia, a chi nella clausura dà prova manifesta del suo disinteresse per tutto ciò che è mondano? Se poi il mistico riesce a far folla, e folla fervente, come gli si può negare almeno un minimo di attenzione, fosse solo nell’attesa di verificare se il suo seguito cresce o si disperde, dando al tempo dell’attesa la forma del monitoraggio di ciò che potrebbe tornare utile come evento straordinario?
Questa è stata Medjugorje, fino a qualche giorno fa. I veggenti, trentaquattr’anni fa bimbetti, son diventati adulti. Se avevano una logica in una delicata partita geopolitica, oggi l’hanno ridotta ad un inservibile rituale del quale si può pure fare a meno, peraltro ai francescani tornano utili solo come attrazione turistica, che non è poco, ma neanche è tutto. È che probabilmente Medjugorje ha fallito proprio per l’enorme fortuna che ha avuto. Nel farsi, l’evento ha smarrito il fine per il quale gli si era dato senso, superfetando in mezzo sempre più fine a se stesso. A spegnerlo ci voleva poco, e non a caso sarà stato proprio per questo che a presidente della commissione di indagine è stato messo un politico come Ruini. A chi meglio di lui poteva tornare esatto il calcolo di quanta utilità e di quanto rischio fosse prevedibile attendersi da una Madonna ormai tanto anodina che al suo confronto diventava più eloquente pure una macchia di umidità con le sembianze di Padre Pio?



martedì 9 giugno 2015

E questo sarebbe, il grande pensatore?

Posso anche fare a meno di citare le due firme che oggi, sugli ultimi sviluppi dell’indagine su Mafia Capitale, sono ricorse, come in unisono, all’argomento crociano che «lonestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica» (Corriere della Sera) e che «il politico onesto è quello capace» (Il Foglio), perché in fondo qui non fanno altro che darmi lo spunto per intrattenermi su un’altra infelicissima pagina di Benedetto Croce, delle tre o quattro che a sessant’anni dalla sua morte ancora resistono all’oblio in cui è precipitato tutto l’ormai inservibile edificio del suo sistema, pagine che d’altronde vengono citate senza mai essere state più rilette, se mai furono lette, perché è a leggerle che rivelano la fragilità dell’assunto che vorrebbero spacciare per granitico.
Qui, nel caso de Lonestà politica, trentasettesimo paragrafo dei Frammenti di etica, che sono del 1922, poi confluiti con Elementi di politica e Contributo alla critica di me stesso in Etica e politica, siamo dinanzi ad una pagina che non necessiterà dell’analisi di tutto il testo, come con Perché non possiamo non dirci «cristiani» feci due o tre anni fa (Malvino, 2.12.2012): basterà considerare la friabilità delle ragioni che dovrebbero sostenere l’assunto.
Prima di passare a queste, tuttavia, occorre rammentare che questa pagina di Benedetto Croce è del 1921, anno in cui era ministro del V governo a guida di Giovanni Giolitti, un uomo che lungo i trent’anni della sua vita politica fu costantemente raggiunto dalle accuse di cinismo, opportunismo e maneggi d’ogni sorta (cfr. Gaetano Salvemini, Il ministro della mala vita). Forse sarà malevolo il sospetto che Lonestà politica sia stata scritta per mera piaggeria, resta di fatto che, dopo essersi spellato le mani fino al 1922 ad applaudire Mussolini, la critica che muoverà al fascismo non sarà dordine politico, economico o sociale, ma si esaurirà in quella di «malattia morale»: e non si era detto che andassero bandite le «false unificazioni» tra etica e politica?
Ma veniamo alla sostanza della questione per come è affrontata da Benedetto Croce. Costruisce la sua pagina come un dialoghetto tra uno di quegli «imbecilli» che avanzano «la richiesta che si fa dell’“onestà” nella vita politica» ed un savio dalla posa olimpica che con tanta santa pazienza continua a ripetere la tiritera che l’onestà è niente senza la competenza. L’«imbecille» – ovviamente – si trattiene dal dirgli: «Grazie al cazzo!», ma, quando infine Benedetto Croce gli fa farfugliare l’obiezione che, «nonostante l’impulso del suo genio», il politico disonesto è di per se stesso portato a «soggiacer[e] ai suoi cattivi istinti», con la conseguenza che è inevitabile «fa[ccia] cattiva politica», quale è la risposta? «Allora, il presente discorso è finito, perché siamo rientrati nel caso in cui la disonestà politica coincide con la cattiva politica». Orbene, come vogliamo evitare che vi rientri, se non col pretendere che un politico sia innanzitutto onesto, e poi, sì, ci mancherebbe altro, pure competente? Nessuna risposta, perché lì il paragrafo chiude.
E questo sarebbe, il grande pensatore?

Errata corrige

Nella perifrasi del «despotuccio per due quinti scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e somaraggine», cui ricorrevo nel post qui sotto, non mi capacito come possa essermi sfuggita una componente che è basilare in Matteo Renzi: la faccia di culo. Mi sono accorto della grave lacuna quando nel corso della relazione con la quale ha aperto la Direzione del Pd di ieri sera ha riservato un duro inciso a chi muove obiezioni via Twitter alle iniziative del suo governo che di regola proprio via Twitter vengono preannunciate, via Twitter magnificate in corso di realizzazione, via Twitter celebrate una volta realizzate, e proprio da lui. In sostanza, lamenta ci sia chi gli fa mancare il «bene, bravo, bis» che gli spetterebbe di diritto ogni volta che si affaccia al balcone. Errata corrige: per tre ottavi faccia di culo, per due ottavi scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e somaraggine.

lunedì 8 giugno 2015

Il punto in cui la linea prende la tangente per la deriva


In tempi in cui il modello demagogico sembra essere considerato da tutti i protagonisti della vita politica come il più efficace strumento per raccogliere consenso, la differenza tra quanti concorrono a conquistare un mercato con un prodotto che è sostanzialmente uguale a quello dei propri concorrenti può essere fatta solo dalla confezione nella quale questo è offerto al pubblico, poco importa se come scelta estemporanea o come risultato di uno studio preparatorio, perché in ogni caso limballaggio ha sempre bisogno di aggiustamenti alla risposta data dal mercato. In generale, potremmo dire che un soddisfacente grado di riconoscibilità dellofferta, che di per se stessa è fattore promozionale, sia raggiunto quando i tratti caratteriali del demagogo diventano tanto significativamente peculiari da poter essere caricaturizzati in favore di quella che la pigrizia mentale definisce satira politica, e che in realtà è il più affidabile attestato che allofferta corrisponda ormai una domanda e, in sostanza, che quella particolare offerta di demagogia ha conquistato una discreta fetta di mercato. Ricorrendo a un’ellissi, direi che oggi, in Italia, a certificare la commerciabilità di unofferta demagogica è Crozza.
Nelle sue imitazioni di Berlusconi, di Renzi, di Salvini, di Grillo, quel che è comune a tutti va interamente smarrito, per lasciar spazio solo alla deformazione umoristica dei rispettivi caratteri, cioè delle diverse confezioni in cui è posto in vendita lo stesso prodotto: ladulazione di un popolo ormai da tempo degradato a plebe al fine di strappargli il consenso ad interpretarne la sovranità con quel tratto dispotico che troverebbe piena legittimazione in tale investitura. Ben si spiega, allora, come anche limitazione di De Luca non possa che esaurirsi nellenfasi posta sui connotati più pittoreschi del personaggio, trascurando del tutto quel «chi vince governa» di cui De Luca si è fatto scudo prima, durante e dopo le elezioni regionali del 31 maggio per pretendere di essere ammesso alle primarie nonostante il codice etico del Pd non glielo permettesse, di candidarsi ad una carica dalla quale una legge dello stato lavrebbe comunque sospeso e di poter esser certo che la sospensione avesse peso solo aleatorio mettendo al suo posto un prestanome investito dalla carica di vicegovernatore.
Certo, non spetta a Crozza segnalare in quel «chi vince governa» ciò accomuna tutti i ritratti della sua fortunata galleria, di fatto pare che anche chi dovrebbe farlo si attardi per lo più a marcare le differenze tra un demagogo e l’altro, quasi fosse scontato che la sovranità appartenga al popolo allo stesso modo in cui qualcuno possegga qualcosa che possa cedere a chi voglia perché questi possa a sua volta disporne a proprio piacimento. A ben vedere, è questo modo di intendere la sovranità che spiega perché, sulla diagnosi che la democrazia abbia in se stessa l’embrione della tirannide, concordino sia i nemici della democrazia sia quelli della tirannide. E, a mio modesto avviso, quel che consente agli uni e agli altri di essere scettici sul fatto che una democrazia possa avere altra sorte, pur con diversa disposizione d’animo (chi contento, perché lo aveva sempre sostenuto, chi afflitto, e in fondo rassegnato), sta in quel secondo capo del primo articolo della Costituzione italiana che a tanti sembrerebbe consentire ogni genere di deriva.
Se infatti «la sovranità appartiene al popolo» – si argomenta – il popolo non può disporne a proprio piacimento? È vero, certo, che «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», ma cosa impedirebbe al popolo di dar mandato a Caio o a Tizio per una revisione costituzionale? In fondo, ad essere intoccabile non è soltanto la forma repubblicana? Bene, io penso che tutto sta nellinfelice scelta di un termine come «appartenenza», che nellintendimento di scrisse la Costituzione aveva laccezione di «ciò che fa parte» – e tra poco spiegherò in che senso, e perché se ne possa esser certi – poi corrotta in quella di «possesso».
In sostanza, oggi si è portati a ritenere che il primo articolo della Costituzione consenta ogni genere di avventura populistica o plebiscitaria, purché un avventuriero riesca a convincere la maggioranza del popolo italiano, anzi, neppure quella, né quella degli aventi diritto al voto, ma solo la maggioranza dei votanti. In pratica – e non mi si venga a dire che vado troppo lontano dalla realtà – basterebbero una dozzina di milioni di italiani a dare piena legittimità a un demagogo per fare carne di porco della democrazia, semmai avendo la premura di lasciarne intatta la forma. Non è così.
Comincerei col dire, infatti, che alla formula del primo articolo della Costituzione si è arrivati in modo assai singolare. L’accordo pressoché unanime della commissione incaricata di redigerlo era sulla seguente formula: «La sovranità dello stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi. Tutti i poteri sono esercitati dal popolo direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti». In tutta evidenza, il principio della sovranità popolare non è affatto dominante, tanto meno se può inferire che sia il popolo a generare la Costituzione dalla quale lo stato dipende.
In pratica, non è il popolo ad essere titolare della sovranità: è lo stato ad essere sovrano, e non la Costituzione a generare tale sovranità, limitandosi invece solo a darle assetto, margini, equilibrio tra le parti che la amministrano. Basta rileggere gli interventi di Dossetti, Moro, La Pira e perfino di Togliatti, che pure avrebbe potuto essere sensibile ad una «sovranità popolare», per capire che tra i Padri costituenti era ben saldo il rifiuto di un principio che sembrava avesse il marchio del giacobinismo, con quanto di pericoloso al giacobinismo è allegato in termini di deriva dispotica. Tutti contrari a questo assunto, tranne il monarchico Lucifero d’Aprigliano, il quale provocatoriamente sfidò gli altri costituenti ad essere coerenti fino in fondo: se era venuta meno la figura di un re che fin lì aveva personificato la sovranità dello stato, si fosse tanto onesti nel trasferire quella sovranità al popolo che aveva deciso di ghigliottinarlo. Sfida che fu respinta con forza e perfino con sdegno, anche se ebbe l’effetto di far rivedere la prima formula, con la proposta di una sovranità che «risiede nel popolo», poi bocciata in favore di quella che recitava di una sovranità che «emana dal popolo», ma con l’accento, posto da Tosato e da Togliatti, sul fatto che la sovranità fosse prerogativa dello stato, e che la Costituzione ne fissasse i limiti.
I termini della discussione si riproposero invariati anche nella discussione dell’Assemblea del 22 marzo 1947, che però ebbe uno sviluppo tanto serrato da far riproporre, e far accettare come liquidatoria di ogni ambiguità riguardo alla natura del mandato che alla Costituente era stato affidato dal popolo, la formula della sovranità che «appartiene al popolo». In definitiva, passava il principio di una sovranità che è dello stato, sì, ma che nella Costituzione di cui il popolo è attore trova forma, espressione e vincoli: si assumeva che il popolo avesse «parte» dei limiti della sovranità dello stato.
Da qui a immaginare che la sovranità fosse una proprietà che il popolo avesse piena libertà di alienare in favore di un despotuccio per due quinti scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e somaraggine, ne doveva correre. Perché, poi, si arrivasse a immaginare che il popolo desse mandato ai propri eletti di varare una legge come quella che porta la firma di Paola Severino, perché una patetica macchietta di energumeno potesse usarla come carta per pulircisi il culo, in virtù dei voti avuti per essere eletto, bastava poco più dun niente. E ora a questo stiamo: la sovranità popolare è un cazzo diventato così storto che oggi il popolo può usarlo solo per ficcarselo in culo.

[segue]

giovedì 4 giugno 2015

[...]

Non posso dire di aver compreso appieno la faccenda dei cookie – mi muovo meglio in una prospettiva di Escher che in un html – ma mi fido di Mantellini che la configura come una gran rottura di coglioni per chi sia titolare di un blog. Poi può darsi che la cosa si sgonfi, può darsi che un refolo di resipiscenza sfiori la colossale testa di cazzo che ha partorito lidea di questa tassa sulla libera diffusione di opinioni personali (sarà un mio limite, ma non riesco a leggerla in altro modo), può darsi che blogspot.it provveda gentilmente a togliermi la rogna, qui però parlo dando per scontato che nulla di questo accada, e comunico di non avere alcuna intenzione di adeguarmi ad una normativa che ritengo assurda. Perciò avverto il mio lettore che, al primo blog che saprò raggiunto dalla sanzione che il Garante della Privacy ha previsto per chi rifiuti di piegarsi alla sua richiesta, chiuderò questa pagina senza ulteriori comunicazioni in proposito, e non sembri scostumatezza.
È che il patto tacitamente sottoscritto undici anni fa tra me e il mio lettore era che Malvino non dovesse costare neanche un centesimo di euro, né a me, né a lui: è per questa ragione che ho scelto di non acquistare un dominio personalizzato, ma di utilizzare una piattaforma di blogging ad accesso gratuito (Il Cannocchiale, prima, e Blogger, poi), e per questa stessa ragione ho deciso che non avrei mai dato spazio a banner pubblicitari, né avrei mai fatto ricorso alla pratica del chiedere unofferta al lettore (non mi azzardo a biasimarla, ma personalmente non ne sarei mai capace, neppure se versassi nella più buia indigenza). Insomma, se non può continuare come è stato fin qui, basta, ché in fondo questa malsana abitudine di pensare ad alta voce è pure durata troppo. 

martedì 2 giugno 2015

[...]

C’è quello che parcheggia in doppia o addirittura in tripla fila in Piazza Scozia, quello che imbratta un muro di Via Calenda scrivendo con la bomboletta spray «Frullino, sei il mio battito d’ali», poi cè quello che sfreccia in motorino in Piazza della Libertà, che è area pedonale, e quello che in Via Diaz lascia il sacchetto della spazzatura fuori dal cassonetto, ma si arriva all’enormità di quello che ha tentato di rubare una panchina a Piazza Malta svitandone i bulloni che la fissavano al suolo. Tutti «incivili», senza dubbio, anzi «cafoni», veri e propri «animali», anzi «bestie», sì, ma per quale ragione? E c’è bisogno di chiederlo? Si tratta di individui che non hanno alcun rispetto delle leggi. Proprio come De Luca, che con la «legge Severino» ci si pulisce il culo.
Lart. 8 della «legge Severino» recita che «sono sospesi di diritto dalle cariche indicate all’art. 7, § 1 [fra le quali vi è quella di presidente della giunta regionale] [...] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’art. 7, § 1, lettera a), b), e c)», fra i quali v’è quello di abuso d’ufficio, per il quale, a gennaio di quest’anno, De Luca è stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione. Cè bisogno di essere titolare di una cattedra di Filosofia del diritto per intuire che la logica che porta alla sanzione per chi ostacola il traffico alla rotatoria di Via Nizza perché ha parcheggiato lauto dove non doveva sia la stessa che porta alla sospensione del neoeletto governatore della Campania un attimo dopo che si sarà insediato?
Sarebbe stato meglio non parcheggiare lì lauto, sarebbe stato meglio non candidarsi proprio, ma ormai è fatta, e allora come è opportuno comportarsi? Quello che è in sosta vietata – ce lo racconta De Luca in uno dei video nel quale ha consegnato alla storia le sue gesta da paladino della legalità – trasecola (e che avrà fatto mai?), e invece di sbrigarsi a spostare l’auto, che sta causando un serio ostacolo al regolare flusso del traffico, pretende di discutere sul senso di un divieto di sosta proprio in quel punto. Come definire uno così? «Incivile», come minimo, e poi «bestia». E De Luca? Come reagisce, De Luca, a chi gli fa presente che la «legge Severino» è legge dello stato? Tale e quale.
A rendere De Luca incompatibile con una carica pubblica non è tanto una condanna per abuso dufficio in attesa del giudizio in appello, unaltra per reato ambientale poi estinta per prescrizione, e nemmeno i suoi numerosi carichi pendenti per danno erariale, diffamazione, corruzione, concussione, lottizzazione abusiva, ecc. – do per certo che le imputazioni, se le fonti dalle quali ne prendo notizia non sono mendaci, cadranno tutte in piene assoluzioni – ma il fatto che, in quanto a rispetto delle regole, non è meno «bestia» di chi egli stigmatizza come «bestia».

lunedì 1 giugno 2015

Frammenti predatati

«Prendere in mano il libro d’uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato; ripetere alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare in tutto che dire, fargli, per dir così, il dottore a ogni passo, è una cosa che, a lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una certa impressione di presunzione, e di basso e insistente litigio. Per prevenire questa impressione, non dirò al lettore: vedete se non ho ragione ogni volta che prendo a contraddire: so e sento che l’aver ragione non basta sempre a giustificare una critica, e soprattutto a nobilitarla. Ma dirò: considerate la natura dell’argomento».
Alessandro Manzoni,
Osservazioni sulla morale cattolica

I. La decisione di sospendere l’aggiornamento di queste pagine nasceva, come ho provato a spiegare, dall’insofferenza alle norme che da qualche tempo sono vigenti nella comunicazione pubblica, e che di fatto abrogano quelle della retta argomentazione, sempre violate da quando esiste il mondo, questo sì, ma mai come negli ultimi anni dichiarate formalmente invalide sull’assunto che nel foro sia legittimo cercare, e dunque legittimo ottenere, la persuasione col piegare la logica al paralogismo: dichiaravo, in sostanza, che nel foro pubblico la mia scrittura potesse tutt’al più assolvere al compito di testimoniare la cocciuta fedeltà a norme ormai desuete, riconosciute valide solo in contesti sempre più marginalizzati. Se questo è l’andazzo che ormai segna la comunicazione pubblica sugli affari correnti, tutto si esaspera su quelli speciali, e questo è quel che accade in queste ore, con lo spaccio di narrazioni che non lasciano dubbi: si cercano e si offrono semplificazioni che possano nutrire l’emozione, renderla sazia di certezze facilmente commestibili, per reclutare l’opinione pubblica in opposte fazioni armate di sentimento e di risentimento. E tutto questo accade proprio nel momento in cui dovremmo sforzarci di non fare il gioco dei terroristi, e invece anche stavolta è proprio questuso improprio dell’emozione a farci correre il rischio di dar loro un consistente aiuto nel riuscire a ottenere proprio quello che si prefiggevano.
Voglio dare per scontato sia solo l’emozione a farci correre questo rischio: voglio sterilizzare ogni sospetto che qualcuno stia tentando di strumentalizzarla, con ciò rendendosi di fatto complice dei terroristi, e tuttavia spacciandosi come il suo più fiero nemico; voglio evitare il ben che minimo cenno a quel fin troppo generoso tributo di compassione che, a dispetto d’ogni buona fede, ci consente di sentirci esentati dal dovere di capire, per quanto ci sia dato; voglio astenermi perfino dal segnalare le patenti incongruenze cui l’emozione trascina, demolendo in pochi istanti ciò che abbiamo faticosamente costruito in decenni di sforzi personali e in secoli di impegno collettivo. Cercherò di essere bonario, diciamo, ma per essere onesto fino in fondo devo premettere che lo spettacolo che vedo scorrere in queste ore non mi assicura di riuscirci, perciò avviso che potrei risultare irritante nell’attribuire ignoranza o malafede a chi sta dando prova di credere o voler far credere che il problema posto dai fatti di Parigi stia tutto nell’islam oppure, di converso, nelle politiche imperialistiche dell’occidente capitalistico: costruzioni che reggono solo su pseudoargomenti, che tuttavia sono riusciti a conquistare tanto successo da risultare inattaccabili perfino all’evidenza che l’imperialismo sia una categoria ormai inservibile per dar ragione degli interessi del capitalismo e che di islam ce ne siano almeno tre o quattro. Le rappresentazioni di comodo vincono su ogni tentativo di leggere ciò che accade.

II. Ora che i fatti del 13 novembre non sono più in cima ai temi del dibattito pubblico, e al punto che forse a tanti già non basterà la sola data per richiamarli con immediatezza alla memoria, è possibile qualche considerazione che per freddezza di argomento sarebbe apparsa sconveniente nel tumulto delle emozioni – dolore, rabbia, paura – scatenato dagli eventi. A chi voglia prendervi parte senza correre il rischio di procurarsi cattiva fama, infatti, il dibattito pubblico impone la regola di non arrecare la ben che minima offesa alle emozioni che sono prevalenti nel momento in cui si prende la parola, offesa che talvolta risulta gravissima anche al solo sospetto che esse non siano pienamente condivise, figurarsi il concedere che siano pienamente condivisibili, ma per ciò stesso rammentare quanto siano in tutto funzionali al disegno terroristico. E dico rammentare, perché il terrorismo è stato studiato a fondo, sappiamo cosa sia, a cosa veramente miri, come si serva proprio delle emozioni che scatena per ottenerlo, quanto più facilmente riesca nello scopo quanto meno si riesca a offrirgli altro che quelle, coi loro ciechi automatismi. Oggi, ad appena un mese dalla strage di innocenti consumatasi a Parigi, dolore, rabbia e paura riverberano quasi esclusivamente nella loro eco, nella quale finiranno per spegnersi fino a quando non saranno riaccese dal prossimo attentato terroristico: siamo nellintervallo concessoci per poter rammentare che il terrorismo è teatro, che le sue vittime sono solo un mezzo, che il vero fine dei terroristi è quello di suscitare paura, dolore e paura in platea, per condizionare le opinioni, piegarle alla convinzione che la risposta migliore a una strage sia proprio quella cui la strage mirava, dando il destro ai governi di farsi complici più o meno consapevoli, più o meno interessati, di chi ha seminato il terrore. In questa occasione, con chi ha riproposto la tesi che fossimo dinanzi allepisodio di una guerra di religione, possiamo dire di essere stati al gioco dei terroristi, che infatti non si risparmiano per convincerci sia davvero così. Anche in questo caso, come sempre daltronde, la religione è mera sovrastruttura degli interessi che ne fanno il vessillo in battaglia.

III. I dizionari etimologici sono soliti dar conto in modo estremamente algido di controversie che a volte sono state incandescenti sul donde di alcuni lemmi. Uno di questi è legge, che a lungo s’accettò venisse da ligare, e cioè legare, dunque obbligare, fino a quando sortì chi sostenne venisse da legere, e cioè scegliere, raccogliere, ma anche eleggere e prim’ancora – letteralmente – leggere, ben presto trovandosi d’affianco, e poi opposto, chi affermava venisse da λέγειν, che insieme sta per dichiarare, proclamare, esporre, ma anche – estensivamente – ordinare, e con la stessa duplicità di significato che questo verbo conserva in italiano (comandare e mettere in ordine). Litigarono per qualche secolo, poi, quando parve che la disputa potesse ritenersi destinata a non avere un vincitore, e le tre tesi dovessero convivere nel compromesso, accadde un fatto nuovo: scese in campo chi affermò che legge venisse dal celtico legh o dal sassone lagh, participi passati di verbi che stanno per porre, stabilire, fissare. Lì la disputa si riaccese, cominciando a farsi, a fasi alterne, ora semasiologica, ora onomasiologica, fin quando schizzò dall’ambito in cui era nata per andare ad appiccare fuoco in quello della filosofia politica: posto che la legge proclama e stabilisce e ordina e obbliga – così qui la questione fu riformulata – quale delle quattro funzioni implica le altre tre? Questione che a ben vedere, dunque, rimaneva su un donde, però spostando l’attenzione dal significante al significato. Ci si cominciò a chiedere: la legge è antecedente e superiore all’uomo (perché in ultima analisi è sempre divina e/o naturale, e dunque non può che sostanziarsi in obbligo, in aderenza a una verità che, essendo prima, conviene resti ultima) o è piuttosto la soluzione che di volta in volta l’uomo si dà per far fronte a bisogni che sono inevitabilmente sempre nuovi, perciò ricontrattualizzandone incessantemente i termini, che in sostanza sono quelli propri a un pattuire? Anche qui, dove tuttora si consuma, è difficile che la disputa possa chiudersi in modo definitivo, tanto meno che se ne possa prevedere l’esito. Dev’essere per questa ragione che Carl Schmitt elude la questione del donde venga lex e tutta la sua attenzione va a νόμος (Der Nomos der Erde, I, 4), il cui etimo sterilizza il problema se la norma preceda l’uomo o lo segua. Se νόμος, infatti, è quanto divide, ripartisce e assegna la proprietà con quanto le allegato in termini di potere, la sua origine sta certamente prima di ogni patto, che di fatto subentra solo a sancire la divisione, la ripartizione e l’assegnazione, ma certamente dopo che sia dato ciò che è da dividere, ripartire e assegnare, sicché nel limite che separa, circoscrive e conferisce si trova la coincidenza di trascendente e immanente, e questo taglia la testa al toro: la norma – così risolve – sta in una dimensione ancestrale che precede la storia, anzi potremmo dire che addirittura la generi, e donde tragga origine a sua volta diventa questione che rimanda alla natura umana, sulla quale è opportuno discutere in altra sede, dove d’altronde trova ulteriore accantonamento, perché con «teologia politica» il donde torna ancora alla coincidenza di trascendente e immanente, soluzione che può tornare comoda per ogni teocrazia e per ogni cesaropapismo. Non così se la questione parte dal dove venga la legge, perché, se lega, elegge, ordina o fissa, resta insoluto il problema di cosa o chi la muova a farlo, e come abbia acquistato questo potere. Discorso a parte è quello sulle armi che si impiegano nel sostenere l’una o l’altra delle ipotesi sul donde venga la legge: ad esse si affidano le sorti di una partita che evidentemente è fatale, dunque si penserebbe debbano essere micidiali, di fatto tuttavia non sono mai troppo diverse dagli attrezzi coi quali gli etimologi scavano in cerca di radici. È che, al pari del seme, che si estende verso il basso, perdendosi in profondità spesso insondabili, ma pure verso l’alto, con uno sviluppo quasi sempre imprevedibile, ed è in questo – semplicemente in questo, che poi è il suo destino, verso l’alto e verso il basso – che il seme va irrimediabilmente perso, anche l’origine di un lemma diventa privo del senso primigenio nel suo proiettato anteriore e in quello posteriore. Nell’impossibilità di riandare al momento della semina (altra cosa è rappresentarsela, ma qui subentra l’arte storiografica, necessariamente al servizio di questo o quel committente), non resta che andare a considerare quel che di sé il seme riproduce in seno al frutto: si può almeno – ecco cosa ci rimane – tentare di riconoscere la legge in seno a ogni singola legge, ma, quand’anche vi si riesca – e chi può mai dire d’esserci davvero riuscito? – resta il fatto che si è sempre ben lungi dal poter essere certi su chi davvero sia il soggetto che le ha dato profondità e altezza, mentre resta assodato solo che questi ne abbia avuto il potere, senza che peraltro neppure si possa fare un passo avanti nel capire se ciò gli fosse intrinseco ab origine o gli sia stato conferito, ed eventualmente quando, e come, e da chi. Per meglio dire: questi problemi sono sempre – irrimediabilmente – spostati in altro ambito, quello mitologico o quello storico, dove daranno luogo ad altre dispute, ma di fatto, per quanto sia possibile tracciare il farsi di una singola legge fino al più minuto dei suoi dettagli, la legge che ne ha guidato il farsi resterà comunque inaccessibile alla piena comprensione. Ancora meglio, e perché l’affermazione non suoni come radicalmente scettica come se messa in mano a un novello Sesto Empirico: ci resterà oscuro il modo in cui la ratio che la informa, e che probabilmente potremo pure dire riconoscibile con un buon margine di approssimazione, sia poi riuscita a farsi attiva in essa. Perché, alla fin fine, la natura del potere rimane oscura anche a chi lo detiene, e forse è proprio per questo che teologia e politica furono a lungo inestricabili, e per millenni il λόγος del λέγειν parve la ratio che dall’onnipotenza di Dio scendesse ad ipostatizzarsi nel potere dell’uomo. È sconsolante – tanto sconsolante, a volte, da doverlo rimuoverlo – ma chi governa (rectius: chi legifera e impone il rispetto delle leggi) spesso non ha pieno controllo della ratio che lo muove: la legge – diremmo – lo attraversa. Con ciò, sia chiaro, non si vuol disconoscere che nel suo agire siano evidenti i fini che lo spingono all’azione, né si vuol sminuire il fatto che essi rispondano sempre ad interessi miranti a dividere, ripartire e assegnare, per la ridefinizione del limite che separa, circoscrive e conferisce: semplicemente qui si afferma che la ratio che muove il legislatore trascende i suoi calcoli quand’anche siano giusti, ed è per questo che la governabilità di un popolo resta in ultima analisi nella capacità di convincerlo che il donde della legge riposi nel compromesso tra le ipotesi sul suo etimo. In sostanza, che il potere non si sappia donde venga, ma che si legittimi nell’esserci. Un’aporia che si scioglie in una tautologia. E sia ben chiaro che questo vale per ogni genere di legge, da quella morale a quella fisica, da quella che fonda la logica a quella che si traduce in norma sintattica. La legge è legge, e le leggi la contemplano.

IV. Tutti i gesti coi quali lanima fece cadere ad uno ad uno ogni suo velo lavvilupparono in una fitta ipocrisia, sicché allo stolto, infine, parve nuda, tremante, e invece era tutta infagottata di tutto il suo gesticolato, e non tremava per pudore o freddo: il suo era il sussulto dun ghigno. Stava al centro del romanzo, fingendo un bel rossore di verecondia, ma dentro – nellanima dellanima – cera la fiera perfidia di avere infinocchiato il lettore.


V. «La forza di un argomento – dice Chaïm Perelman – dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle». Nella forza di un argomento – tiene, però, a precisare – «si mischiano, in modo quasi inestricabile, due qualità: l’efficacia e la validità». Di qui l’impossibilità di dare per scontato che un argomento sia valido per il solo fatto che si riveli efficace, ma anche di poter essere sicuri che esso possa rivelarsi efficace per il solo fatto di esser valido, e Chaïm Perelman ne dà ragione col dire che «l’efficacia di un argomento è relativa all’uditorio [sicché] è impossibile valutarla senza far riferimento all’uditorio cui esso viene presentato», mentre «la validità, al contrario, è relativa a un uditorio competente, nella maggior parte dei casi all’uditorio universale». Ne conseguirebbe che l’efficacia di un argomento sia il fine cui solo la validità può offrirsi come retto mezzo: giacché a nessuno sfugge che la retorica sia un’arte affine a quella bellica, sarebbe come a dire che ci si possa dire vincitori sul campo solo se nel corso della battaglia si siano rispettate delle ben precise regole. Sappiamo che questo non accade, e non è mai accaduto: nobile o meno che fosse il fine per cui si entrasse in guerra, la regola di risparmiare le popolazioni civili non si è quasi mai rispettata; né mai ci si è fatto scrupolo nell’uso di fallacie per vincere una causa, quando sentita giusta, sebbene non lo fosse, e non lo fosse proprio perché difesa da argomenti invalidi, poco importa se non ve ne fossero di validi spendibili, o ve ne fossero, ma non venissero spesi. In ciò la retorica mostrò fin dagli esordi il grave limite posto al suo statuto fondativo: nata per trasformare il campo di battaglia in foro, e la forza bruta in logica, ben presto fu costretta a fare i conti con l’impossibilità di separare quanto fosse valido da quanto risultasse efficace. Come la democrazia, nata perché la legge fosse uguale per tutti («competente» «universale», diciamo), così la logica che informa la retta argomentazione: giacché «la forza di un argomento dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle», era ed è sufficiente che il foro non sia «competente» perché da giudice si trasformi in oggetto conteso. Può dolere a chi scenda nel foro aspettandosi il giusto verdetto da un «uditorio competente» perché «universale» (un uditorio che riconosca la cogenza delle norme che informano la logica, rigettando col dovuto sdegno la loro violazione e, ancor più, i mezzucci per aggirarle), ma si rassegni: quasi mai le premesse saranno tali da premiare le sue attese, che dunque, a condizioni date, sono legittime solo dinanzi a un giudice tutto fittizio, sostanzialmente aleatorio. Chi scende nel foro con la certezza che un argomento valido possa anche risultare efficace compie un atto di fede nell’onnipotenza della logica, che in realtà può solo dove, come e quando le è lasciato spazio per mettere ordine, a prezzo di un sacrificio che è insostenibile per la gran parte degli umani, e non si può pretendere. Tutto sommato, potremmo dire che pretendere di aver ragione su  un argomento invalido sia …
Ma come cazzo mi viene di star lì a rotolare dolorante, urlando «arbitro! arbitro!»?

VI. «Cesare Abbo aveva portato dalla natura un temperamento estremamente lussurioso. Appartenente a famiglia ricca e di ottime origini, che godeva di gran credito nella migliore società, egli si era abbandonato giovanissimo a tutti gli eccessi, ed aveva sciupato il proprio patrimonio nel giuoco, nella crapula, negli stravizi di ogni genere, seminando il sentiero della sua vita di vittime infelici della sua foia. [...] Compromesso da una serie di fatti turpi Cesare Abbo, per non incorrere in guai maggiori, dovette lasciar Roma e lo stato pontificio. Dopo aver passato qualche anno soggiornando in varie città d’Italia, passò all’estero e finì collo stabilirsi a Parigi, dove, dato fondo fino agli ultimi resti della sua fortuna, aveva dovuto, per vivere, ricorrere alla sua cultura e trar profitto dalle sue cognizioni. [...] Riparato a Liegi ebbe un posto di professore in un collegio cattolico e corruppe una quantità di fanciulli affidati alla sua cura, suscitando uno scandalo gravissimo e facendosi istruire un processo, dal quale non sarebbe uscito incolume, senza l’aiuto della famiglia la quale riuscì ad assopire la cosa. Era stato in quel mezzo investito della sacra porpora un suo nepote in linea femminile e questi spiegò tutta la sua influenza a favor dello zio. Erano passati di molti anni e la memoria dei fatti di Cesare Abbo era impallidita a Roma. Il cardinale, fatte le debite diligenze pensò di richiamarlo a sé, e gliene fece la proposta per lettera. L’offerta non poteva essere più lusinghiera e vantaggiosa per il lussurioso e randagio buontempone. Egli vide aprirsi innanzi un nuovo orizzonte e si promise di approfittare largamente di tutte le gioconde prospettive che esso gli presentava. Chiese ed ottenne di entrare negli ordini e sorvolando per volere del nipote a tutte le difficoltà, vincendo tutti gli ostacoli, fu fatto prete in breve volger di tempo, mutando il suo nome di Cesare troppo compromesso in quello di Domenico. […] Il cardinale fu molto sorpreso di trovarsi avanti uno zio che pareva meno anziano di lui, quantunque foss’egli il più giovane dei membri del sacro collegio; investito della porpora cardinalizia da Sua Santità Gregorio XVI per la grandissima dottrina ond’era fornito. Tuttavia sedotto dai modi squisitamente signorili del neoprete, giudicò che sarebbe tornato di lustro alla sua corte e gli fece pertanto le migliori accoglienze. [...] Domenico Abbo conservò per parecchio tempo un contegno castigatissimo ed una condotta irreprensibile. […] I favori di Gregorio XVI uniti a quelli del cardinale nipote nocquero all’antico libertino. Imbaldanzito, egli non avea più veruna cura ad occultare i suoi intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene incitavano sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle lascivie degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non bastavano più alla sua foia invereconda e andava ripescando nella storia della prostituzione greca, assira, babilonese i più infami riti per soddisfare le luride sue cupidigie. Appositi provveditori gli procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della sua libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita. Egli rinnovava nel palazzo stesso del cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad infiggere degli spilli nelle carni de’ giovinetti pazienti, che si assoggettavano alle sue lubriche voglie, per trar godimento più intenso dai sussulti che cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture. […] Avvertito una notte che nell’appartamento dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie, deliberò di assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento opportuno, per cacciarlo dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo cacciò i mercatanti dal tempio». È qui che accade il fattaccio: lo zio prete uccide il nipote cardinale. A morsi.
Si tratta di stralci da Mastro Titta (Le memorie del boia di Roma. Memorie di un carnefice scritte da lui stesso), pubblicato in Roma, presso la Tipografia Perino, nel 1891. Anonimo l’autore, che in molti hanno individuato in Ernesto Mezzabotta, liberamente ispiratosi agli appunti lasciati da Giovanbattista Bugatti, boia della Roma papalina, ritrovati da Alessandro Ademollo, che ne curò la pubblicazione per leditore Lapi, in Città di Castello, nel 1886. Ispirazione estremamente libera, basti pensare che «nepote carnale» diventò «nepote cardinale» per costruirci sopra il romanzaccio che abbiamo scorso nei soli passaggi salienti (nel Mastro Titta copre ben sei capitoli, dal LXXXII al LXXXVII).
È il diario del principe Agostino Chigi (Le Edizioni del Borghese, 1966) che ci consente di dare alla vicenda i suoi reali contorni. Qui, in data 30 maggio 1842, leggiamo che due giorni prima «fu arrestato un prete genovese di cognome Abbo, abitante nella via del Seminario, nellatto che mandava alle sepolture il cadavere, da lui stesso rinchiuso nella cassa, di un ragazzo di 8 o 10 anni, suo nipote, che conviveva con lui e sul quale si sono riconosciute le tracce evidenti delle più orribili sevizie, di cui tutti i coinquilini e vicini erano informati, e che pare sicuramente siano state compite con la morte. Il prete è stato tradotto in Castel S. Angelo in mezzo alla universale esecrazione»; e in data 19 settembre 1842 che «questa mattina si è tenuta sullinterno di Castel S. Angelo la seduta del Tribunale criminale del Governo per giudicare la causa dello sciagurato prete Abbo, che ivi è detenuto; il risultato è del tutto segreto». Al caso il Chigi dedica altre note nel gennaio 1843: per dire che si è tenuta la seconda udienza, il 4; che «corre voce» si sia proceduto alla «degradazione del prete Abbo», l11; che «oggi si mette in dubbio che seguisse ieri la [sua] degradazione», il 12; e che«avendo [egli] ricusato ostinatamente di prestarsi, se no costretto dalla forza, alla sua degradazione secondo il rito, si assicura avere il Papa ordinato che prescindendo dalla cerimonia gli si legga il decreto, e quindi si vada avanti nella processura», il 29. In data 12 febbraio, poi, leggiamo che «corre voce che nella seduta del Tribunale tenuta ieri in Castel S. Angelo fosse condannato alla pena di morte», alla cui voce dà conferma il 30 giugno, per dar notizia, in data 4 ottobre, che «questa mattina si è eseguita tra le 8 e le 9 di Francia sulla piazza darmi di Castel S. Angelo la sentenza della decapitazione nella persona del celebre Abbo», ma che «lingresso [alla piazza darmi] è stato indistintamente interdetto [al pubblico]», facendo «prevalere nel volgo lopinione che il reo sia stato occultamente sottratto al supplizio». Tre mesi prima, il 4 luglio: «Ha dato luogo a molto discorsi larresto seguito vari giorni fa a Civitavecchia (si dice per conto del SantUffizio) nellatto che stava per imbarcarsi, del Sacerdote D. Ignazio Ralli, primo maestro della scuola dei Sordo Muti a Termini. [Appena un anno prima la scuola aveva avuto l’onore di una visita del papa, Gregorio XVI, che si era profuso in complimenti per l’opera di don Ralli.] Si vuole che il delitto, di cui viene accusato, abbia in parte dellanalogia con quello dellabate Abbo». Stavolta, tuttavia, non era scappato il morto, dunque cè da supporre che il «delitto» in questione fosse quello dellabuso ai danni di minori. Se non per don Abbo, almeno per don Ralli, possiamo parlare di un religioso arrestato dalle autorità pontificie per ciò che oggi definiremmo pedofilia.
E dunque è da considerare errato quanto si afferma in queste ore, a margine della notizia della morte di Jozef Wesolowski: non si è trattato del primo caso di un religioso messo agli arresti in Vaticano per aver commesso abusi sessuali su minori, ma è che, a fronte di quanto la stessa Santa Sede non ha avuto difficoltà ad ammettere nel 2010 (a detta del cardinale Hummes, la percentuale di pedofili tra i religiosi sfiorerebbe il 5%), tra il primo e il secondo arresto corrono più di 170 anni.

VII. Lesperienza tenta disperatamente di insegnarci che lasciarsi andare alle emozioni ci infligge quasi sempre cocenti delusioni e crudeli castighi, tuttavia come si fa a restare freddi dinanzi a gente proverbialmente fredda che accoglie in patria una marea di rifugiati cantando lInno alla Gioia? Come si fa a restare freddi dinanzi a un bimbo che stringe al petto un cagnolino di peluche dopo tremila chilometri di stenti? Lesperienza ci guarda lasciarci andare alle emozioni e ammonisce: «Ai tempi in cui lUngheria era sotto il tallone comunista, Viktor Orban era un giovanotto molto liberale che lottava per i diritti umani: avresti mai pensato sarebbe diventato una tal merda umana? Tra ventanni il bimbo non può diventare uno jihadista e far strage alla Oktoberfest?». Si fa odiare, lesperienza, sembra fatta apposta per farsi odiare. E più la odi, più sembra farsi forte, e insiste: «Ricordi comeri contento nel 1989, quanderi convinto che si fosse alla Fine della Storia?». E tu lì sei ad un passo dal mandarla a farsi fottere, ma lei non te ne dà il tempo, e continua: «Ma lasciamo da parte i massimi sistemi, devo rammentarti tutte le volte che per lasciarti andare alle emozioni – e sto parlando delle tue cosine personali, non del tuo eccezionale naso in questioni geopolitiche – poi ti sei dovuto dare del cretino?». Non puoi più mandarla a farsi fottere, la stronza, ma ce la mandi lo stesso: «Lasciami in pace», le dici, ma è più un implorarla che un mandarla a farsi fottere. «Lasciami sbagliare, poi pagherò, ma lasciami sbagliare. Non sbagliassi adesso, potrei guardarmi con soddisfazione allo specchio dopodomani, ma non domani». 

VII. 

Sarà davvero interessante leggere le motivazioni della sentenza che ieri ha mandato assolto Erri De Luca dal reato di istigazione a delinquere («perché il fatto non sussiste»), soprattutto laddove esse mostrassero che sia stata accolta la tesi difensiva, peraltro ampiamente illustrata in più occasioni dallo stesso imputato, secondo la quale, nel suo caso, il verbo «sabotare» non dovesse essere ristretto al significato di «danneggiare», perché usato in senso figurato per esprimere quello di «ostacolare». Sarà davvero interessante – dico – perché l’esortazione a «ostacolare» la realizzazione di un’opera come la Tav realizzava in ogni caso l’istigazione a commettere un reato, quello di «attentato a impianti di pubblica utilità» (art. 420 c.p.), sicché non si capisce quale sia la ratio che qui possa trasformare in una libera espressione del pensiero quella di fatto resta un’istigazione a delinquere, tanto più perché, nell’intervista concessa il 1° settembre 2013 all’Huffington Post e dalla quale ha preso avvio la vicenda processuale, l’esortazione non era solo al «sabotaggio», ma anche al «vandalismo», di cui risulta pressoché impossibile trovare un senso figurato sostanzialmente differente da quello letterale. Anche qui il giudice può aver accolto la tesi difensiva? Negli atti vandalici che Erri De Luca definiva «necessari» può davvero aver intravvisto il principio della resistenza passiva predicato da Gandhi e da Mandela, cui l’imputato ha spudoratamente accostato la sua persona, sostenendo che la violenza alla quale esortava aveva come fine una «legittima difesa»? Per il rispetto che ci imponiamo nei confronti dei giudici, anche dei giudici che emettono sentenze che ci sembrano ingiuste, c’è da augurarsi di no: le motivazioni di una sentenza che ci sembra ingiusta dovrebbero almeno scalfire la nostra convinzione, non rafforzarla, come qui invece sarebbe inevitabile se il giudice mostrasse di aver fatto propri gli argomenti dell’imputato.
A scanso di ogni equivoco, chiariamo: sull’utilità della Tav è pienamente legittimo che si possano esprimere dubbi (non starò a elencare tutti quelli sollevati, mi limito a dire, e per il poco che vale, che personalmente ne condivido parecchi); pienamente legittimo, altresì, che questi dubbi possano maturare in una franca contrarietà alla realizzazione dell’opera (da parte di chiunque e, ancor più, da parte di chi vive in Val di Susa); altrettanto legittimo – e pienamente legittimo – che questa contrarietà si manifesti in protesta (in loco o altrove); laddove, tuttavia, questa assuma i connotati dell’azione mirante a «ostacolare» la realizzazione dell’opera, mi pare pacifico si configuri quanto sia diretto a danneggiarla, e cioè il reato di cui all’art. 420 c.p.; e allora com’è possibile che l’esortazione a commetterlo non sia istigazione a delinquere?

Chi vince vince, non c’è dubbio

Chi vince vince, non c’è dubbio, e chi perde perde, è ovvio. Non si discute, dunque: le regioni erano sette, cinque vanno al Pd di Renzi, Renzi e i renziani possono dire di aver vinto cinque a due. Poi, volendo, cè da guardarla più da vicino, questa vittoria.
Ha votato solo un avente diritto al voto su due, con una media di quasi il 10% in più di astensionismo rispetto alle Europee, che già battevano un record. Sulla vittoria non incide, perché si sa che chi non vota conta zero, ma esiste e, pur stando zitto, qualcosa dice: dice che non fa alcuna differenza tra chi vince e chi perde, perché luno vale laltro, e il giudizio di valore quasi mai è lusinghiero. La vittoria, dunque, è oggettiva, senza dubbio, ma solo per chi crede nella partita, e a credere che abbia un senso è solo la metà del paese.
L’altra metà non ci crede, delegittimando in questo modo il senso della competizione elettorale, ma senza avere alcun diritto di delegittimarne il risultato, tanto meno di invalidarlo o di depotenziarne gli effetti, il che può lasciare indifferente solo chi considera le elezioni un mero espediente per avere uno che governi. Con lo sbilanciamento del rapporto tra rappresentatività e governabilità, e con l’ormai consolidata opinione che la prima debba sempre essere sacrificata alla seconda, che è il segno più macroscopico della crisi in cui versa la democrazia, non mette in alcun conto considerare un così alto astensionismo: se ne parlerà un pochino, ma solo fino a quando non si avranno i risultati definitivi, e sarà l’omaggio che il vizio tributa alla virtù.
E dunque accantoniamo senza alcuno scrupolo questi milioni di aventi diritto al voto che hanno ritenuto inutile votare, d’altra parte non è detto che in futuro cambino idea e tornino alle urne, ma, per il modo in cui si va consolidando l’idea che la democrazia possa restar tale anche conservando solo la forma per poter perdere ogni sostanza, è più probabile che si asterranno ancora, e che il loro numero sia destinato a crescere. Poco male: se il fine ultimo è svuotarla del tutto, saremmo in democrazia anche quando l’elettorato attivo dovesse pienamente coincidere con quello passivo e una oligarchia procedesse per cooptazione a darsi un quadro organico riassettandolo di volta in volta in funzione dei flussi di potere al suo interno. Basta parlare di astensionismo, dunque. Non è un problema.
Se dobbiamo concentrarci esclusivamente sull’oggettivo peso dei risultati, rimane il cinque a due che Renzi e i suoi possono vantare come vittoria. Possono vantarla, ma è vera vittoria? In Campania vince De Luca, in Puglia vince Emiliano: due che possiamo considerare renziani? De Luca ha avuto l’appoggio di Renzi solo nelle ultime due settimane, dopo mesi e mesi passati a cercare invano un’altra candidatura: sembrava che potesse andar bene chiunque al posto di De Luca, perfino un vendoliano riverniciato all’ultimo minuto da chiachiello. Neanche il tempo di vincere, anzi di stravincere, ed ecco che Emiliano apre al M5S, dice che gradirebbe la sua collaborazione al governo della regione. Poco importa cosa se ne farà, di fatto non ha aperto né a Schittulli, né a Poli Bortone, e questa è una rottura con la linea che il Pd persegue a livello nazionale, peraltro in bilico tra la voglia di un nuovo patto del Nazareno e la tentazione all’azzardo di provare al più presto l’Italicum per vedere se la destra si svuota in favore del tanto vagheggiato Partito della NazioneIn Campania e in Puglia, quindi, non è affatto esagerato dire che si tratti di una vittoria di Pirro: Renzi può solo attendersi delle rogne da De Luca ed Emiliano, e solo in cambio di poter esibire, oggi, le loro vittorie – vittorie esclusivamente loro – come sue. Un prezzo enorme per quasi niente. 
Lì dove erano in corsa candidati genuinamente renziani – Paita in Liguria e Moretti in Veneto – la batosta è stata anche più sonora di quanto fosse ragionevole attendersi, rivelando ancor di più, se fosse necessario, che Renzi è un uomo solo, che può contare, è vero, su un partito che in Parlamento e in Direzione nazionale lo asseconda con la dovuta soggezione, e quasi certamente continuerà a farlo, ma solo fino a quando riuscirà a reggere, e con personalità buone solo a fargli da contorno: comparse, qualche caratterista di assai opinabile talento, anonimi sgherri per presidiare il punti sensibili del web, ma poi che altro? Chi poi è diventato renziano dalla sera alla mattina – si pensi ad un Orfini o ad una Serracchiani – quanto potrà metterci a non esserlo più, quando fosse necessario?
Vince, Renzi, e in modo relativamente agevole, in Toscana e in Umbria, da sempre feudi del Pci, dove l’elettorato è abituato da oltre mezzo secolo a votare il candidato deciso dal partito, chiunque sia: riflesso pavloviano che prima scattava per ideologia o per sentimento identitario, e oggi scatta per quanto ne residua dopo la morte delle ideologie ed un assai problematico ragguaglio circa l’identità. Fa fede di quest’ultimo dato – emblematicamente, se gli si vuol dar peso – il fatto che in Umbria gli exit poll davano perdente il candidato del Pd e tutti sanno che gli exit poll falliscono le previsioni quando c’è un congruo numero di intervistati che si vergogna di dire per chi abbia realmente votato. A parte, se non avessimo già detto che chi non vota conta zero, ci sarebbe da segnalare che in queste due regioni l’astensionismo è sempre stato assai ridotto e oggi arriva a superare di parecchio il 40%. Segno che certa puzza si sente pure con le narici turate e turarsele non basta a preferire l’Italia di Renzi a quella di Berlusconi.
Ora, per gli elementi di natura narcisistica e paranoidea che sempre caratterizzano le dinamiche interne a gruppi che si danno una leadership come quella di Renzi, non è difficile prevedere come sarà letto il voto del 31 maggio, d’altronde già le prime reazioni rivelano i tratti che caratterizzeranno il mantra da far salmodiare a quelle patetiche decalcomanie del leader che da qualche tempo infestano i talk show televisivi. Dove si è perso – si dirà – era largamente previsto: contro Zaia, in Veneto, era impossibile vincere; in Liguria, si sa, c’è stato il sabotaggio dei fuoriusciti che, pur di far perdere il Pd, hanno fatto vincere Toti. Altrove? Conferma che l’Italia vuole Renzi. S’era detto – è vero – che quello delle Regionali non fosse un test su di lui e sul suo governo, ma il risultato, volendo, può ancora tornar buono come indicatore che il sogno ad occhi aperti ancora regge. Dio ne abbia pietà, quando, ad eccezione di chi sarà stato in grado di riciclarsi per tempo, li vedremo penzolare a testa in giù accanto al loro rais.   

I Gufi - Il gallo è morto - 1965