venerdì 15 gennaio 2016

Diciamo

«La verginità è lideale verso cui deve orientarsi
la vita di qualunque cristiano. Daltra parte,
la realtà del rapporto uomo-donna ha sostanziale
funzione di arricchire di figli la Chiesa»

Luigi Giussani,
Il Movimento di Comunione e liberazione,
Jaka Book 1987 - pag. 102


In attesa che limputazione a carico di Stefano Binda trovi riscontro in una condanna, ci è lecito considerare il quadro che emerge dallipotesi accusatoria? Si tratterebbe di un omicidio maturato nel mondo di Comunione e liberazione in difesa del principio che i rapporti sessuali prematrimoniali sono moralmente deprecabili.


[...]

Chi ha letto ciò che in passato ne ho scritto su queste pagine saprà che col M5S non sono mai stato tenero. Qui non starò a ripetere il già detto, ma, a scanso di equivoci su quanto segue, premetto che non ho cambiato idea, anzi, penso sia del tutto irrilevante ciò che fa la differenza tra il M5S di due anni fa e quello di oggi: quella grillina resta cosa populista, tuttal più buona, nel caso vi riuscisse, a levarci dai coglioni quella gran merda di Matteo Renzi, dinanzi al quale perfino Silvio Berlusconi riesce ad acquistare qualche merito. In tal senso, credo che un ballottaggio tra M5S e Pd sarebbe una partita tra populismo dal basso e populismo dall’alto, tra neogiacobinismo e neobonapartismo.
Ciò detto, richiamerei lattenzione a un vizio ormai assai diffuso, trasversale a posizioni anche molto distanti, e dal quale spesso non è immune neppure chi potrebbe permetterselo perché fuori dalla quotidiana rissa che si consuma tra gli avventori della cronaca politica italiana: parlo di quellargomentare a discredito del M5S con strumenti retorici vistosamente scorretti, e per scorrettezza non mi riferisco ai toni, ma proprio alla sostanza degli argomenti, che spesso mostrano una patente fragilità sul piano logico, primo fra tutti laddebitargli colpe che in realtà sarebbero davvero tali solo se la sua natura non fosse dichiaratamente atipica, e ciò non fosse pienamente legittimo. Pare che a tanti sfugga, infatti, che in Italia i partiti non sono persone giuridiche, ma associazioni private che devono coerenza solo allo statuto che si danno, su regole che stanno in giudizio solo di coloro che le presiedono e dirigono, ai quali è spesso dato un potere di deroga tutto discrezionale. Bene, tutto si può rimproverare al M5S, tranne il fatto che il suo statuto sia mai stato violato, e stranamente – stranamente per modo di dire – parrebbe che sia proprio questa la sua maggiore colpa. Si realizza così il paradosso che ai grillini vengano rivolte le critiche più aspre proprio nelle occasioni che confermano la loro fedeltà assoluta allo statuto: sembra non aver peso il fatto che nel M5S si entri e si resti fino a quando si è disposti ad accettare delle regole, per essere costretti ad uscirne quando si violino.
Se già questo basta a far cadere ogni critica intellettualmente onesta rivolta alla vita interna del movimento, la costante adesione al programma che esso si è dato dovrebbe far cadere anche quelle rivolte a questo o quel passaggio della sua azione politica. Non mi si fraintenda: si è pienamente autorizzati a ritenere aberranti luno e laltro, è ovvio, ma non ha senso, che non sia strumentale, contestarli in quanto atipici, per poi trovarne il loro maggior difetto nel fatto che vengano coerentemente rispettati. Questo errore di argomentazione, che in più di un caso sembra sia intenzionale, rivela quel sottaciuto convenire sul fatto che un partito o un movimento siano in diritto di violare il proprio statuto e di tradire il proprio programma in forza dello stato di necessità di volta in volta imposto da accidenti interni o esterni, sicché la colpa del M5S sarebbe nel non usufruirne a vantaggio di un utile che in definitiva tornerebbe solo al sistema politico, che d’altronde i grillini dichiarano di voler abbattere. In sostanza li si accusa di essere irriducibili, considerando superfluo contestarli nel merito delle loro proposte, che pure sono dichiaratamente alternative a quelle del restante quadro politico, producendo così un altro paradosso: al M5S si addebita la colpa di essere astruso alla sola ragione sociale che i partiti della Seconda Repubblica non hanno smarrito rispetto a quelli della Prima, sebbene tra luna e laltra essi abbiamo radicalmente cambiato struttura e funzioni. 
Tutto questo mi pare emerga in modo esemplare dalle accuse che gli sono state mosse sul caso che ha riguardato il Comune di Quarto.
Al M5S si rimprovera di aver imbarcato un tizio che oggi è indagato per maneggi con la camorra e – insieme – di averlo espulso appena se ne è venuti a conoscenza, senza che il reato che gli si attribuisce sia passato in giudicato: sembra non avere alcuna importanza che il reato si sia potuto consumare, se veramente è stato consumato, solo in virtù del fatto che il tizio, candidato nella lista del M5S, sia poi stato eletto; né sembra averne alcuna il fatto che, al momento della sua candidatura, non vi fossero elementi tali da farla ritenere inappropriata, mentre allo stesso tempo si ha da ridire sulla ventilata ipotesi che d’ora in poi il M5S sottoponga i propri candidati all’esame della Commissione antimafia. In sostanza, sembra faccia piacere che un eletto delle liste grilline si sia rivelato una mela marcia, ma si ritiene irrilevante che sia stato tempestivamente espulso dal movimento; si ritiene dimostrato che il metodo di selezione dei candidati fin qui adottato non sia pienamente efficace, ma allo stesso tempo si contesta che i grillini ne cerchino uno più sicuro, per giunta affidato ad un’autorità esterna, e questo dopo aver contestato al M5S la sua struttura settaria e la sua natura proprietaria.
Così per quanto attiene al sindaco: via via che si andava chiarendo la sua posizione nella vicenda, che al momento ha di sicuro solo che abbia opposto resistenza alle richieste della malavita locale, il M5S ha adottato nei suoi confronti una linea aderente ai precetti statutari e ai principi programmatici, dalla difesa all’espulsione, e tuttavia non sono mancate critiche per l’una e per l’altra, in entrambi i casi avendo a criterio di accusa quello di una supposta incoerenza che in realtà era l’arrancare della coerenza dietro il progressivo chiarirsi delle posizioni. Quello che dà esatta misura della logica argomentativa che regge la pronuncia d’accusa è tuttavia il massimo capo di imputazione: il M5S non sarebbe stato capace di dimostrarsi impermeabile allinfiltrazione di elementi legati alla malavita organizzata, com’è per ogni altra formazione politica. E questo accade in un caso dove linfiltrazione è stata solo tentata, e a carico della formazione politica che era la sola a presentare una lista alle elezioni comunali. Ciliegina sulla torta: si erge a pubblico ministero la formazione politica che attraverso uno dei suoi esponenti aveva già stretto un patto con l’organizzazione malavitosa locale, poi saltato perché non aveva potuto presentare una lista, vincere le elezioni, e rispettarlo. 
Il M5S resta quel che è, ma i suoi detrattori dimostrano di non potersi permettere argomenti validi per metterlo in discussione. Troppo poco per ignorare gli argomenti validi, che non mancano, ma fin troppo per augurarsi che quelli invalidi soccombano alla prova dei fatti. 

giovedì 14 gennaio 2016

martedì 12 gennaio 2016

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«Può accadere qualcosa di straordinario»

Nell’edizione cartacea dell’intervista che Gennaro Nunziante ha concesso a Luca Telese (Libero, 11.1.2016) va perso un passaggio che invece è riportato in quella on line, e sul quale credo sia interessante soffermarci.
«“Sole a catinelle” – dice Nunziante – era, sotto l’apparenza giocosa, un film sulla crisi. “Quo vado?” è un film sulla terribile condizione di questo tempo, vivere con la precarietà».
«Cioè?», chiede Telese.
Nunziante dice: «Guardare il futuro provando paura. Una condizione che ti paralizza e che scatena i lati peggiori degli umani. L’imprenditore vede come minaccia il suo dipendente invece che considerarlo una risorsa, il dipendente che non prova attaccamento per la sua azienda, l’imprenditore che cerca di speculare il più possibile, il lavoratore che non s’impegna nel lavoro perché avverte l’imprenditore come uno speculatore».
«E cosa può accadere con questo scenario?», chiede Telese.
«Può accadere qualcosa di straordinario – risponde Nunziante – se parte una stagione riconciliante. In questo senso la politica deve mostrarsi illuminante, dialogando con le parti, tutte le parti, altrimenti non si va da nessuna parte».

È da rilevare che nell’edizione cartacea compare, invece, un passaggio che è assente in quella on line: «Non puoi far passare il mercato del lavoro da ipergarantito a iperselvaggio, dalla mattina alla sera – dice Nunziante – Servono tutele, garanzie, non puoi lasciare la gente nel nulla e dirle: “Arrangiati!”».
Tralasciando le ragioni che possano spiegare la differenza tra le due edizioni, c’è da supporre che i due passaggi vadano integrati, con ciò ricomponendo quello che a pieno diritto può dirsi un manifesto politico. Ed è qui che trovo conferma di quella «insana aspirazione a farsi Partito della Nazione» (Malvino, 1.1.2016) che nel «fenomeno Zalone» a me pare più che evidente.

La «riconciliazione» è intesa come sospensione della dialettica dei conflitti sociali, come reductio ad un unum delle partes che giocoforza non possono esprimere altro che interessi contrapposti, con la conseguente omogeneizzazione dei partiti su un progetto senza alternative, sostanzialmente di tipo organicistico. È il ritorno al corporativismo, ma ovviamente in versione light, col tanto di vago che lasci nel dubbio se lintenzione sia quella di andare a pescare nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa o nella Carta del Lavoro del 1927. 
So che solleverò perplessità con quanto dico: credo che siamo dinanzi al progetto di blocco sociale che abortì in mano a Silvio Berlusconi, ma che, con la dovuta operazione di restyling, è riproposto da Matteo Renzi. Con maggiori possibilità di buona riuscita, occorre dire, perché stavolta il paternalismo è assai meno arcigno: «Noi vorremo dire, anche attraverso la maschera beffarda di Checco, che non puoi colpire i più deboli».
Si dia inizio, ordunque, alla «stagione riconciliante»: promettano di non rompere il cazzo e chi di dovere riuscirà a mostrarsi «illuminante». (Qui, forse, Nunziante intendeva dire «illuminato», ma Checco ha preso il sopravvento.) 

Va un po’ meglio ultimamente

Dove sapplica la sharia, se non hai quattro maschi adulti disposti a testimoniare che davvero hai subito uno stupro, passi per adultera, e ti lapidano. Qui da noi? Ultimamente le cose vanno un po’ meglio, ma fino a ieri, in tribunale, c’era sempre un avvocato ad insinuare che eri stata consenziente. Se poi al momento dello stupro non indossavi uno scafandro, ma una gonna, l’onere della prova di non essere una zoccola era a tuo carico: «Signorina, vorrà mica rovinare la vita a questo povero ragazzo, colpevole soltanto di aver ceduto alle sue esplicite profferte? Vorrà mica che sia lui a pagare il prezzo della sua tardiva resipiscenza?».
Va un po’ meglio ultimamente, ma poi non tanto. Apri Il Foglio, ieri, e sui fatti di Colonia eccoti Ferrara: «C’è del masochismo occidentale in questo incontro e scontro di corpi e intorno al corpo secondo la linea immemoriale dell’attrazione e della repulsione?».
Non s’indigni, Fräulein, è solo una domanda, risponda senza alterarsi: non è che sotto sotto, a Frankenplatz, la molestia le è piaciuta? Via, sia sincera, non pensa che quanto le è accaduto dipenda dal fatto che mancano «leggi di dissuasione della libertà panica dei costumi»? Suvvia, non è disposta ad ammettere che quanto le è accaduto dipenda dal fatto che intimamente lei è un po’ troia? No, aspetti, ho posto male la domanda, figurarsi se Ferrara è tipo da darle esplicitamente della troia... Diciamo così: «La brutalità dell’amore panico per tutti, questa specie di turismo di massa delle anime e dei corpi, non porta con sé solo piacere». Insomma, lei è troppo disinibita, dunque meritava una lezioncina.    

Comunicazione di servizio

Non so cosa sia successo, ma le email di avviso di commenti in moderazione relativi agli ultimi post erano finite tutte nella cartella dello spam. Mi scuso con quanti in questi ultimi giorni non hanno visto pubblicati i propri commenti. Nei prossimi giorni risponderò a quelli che sollevano obiezioni, intanto un grazie a quanti mi hanno dato il bentornato.

lunedì 11 gennaio 2016

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Col cartello che recita «vietato fumare» siamo dinanzi al caso in cui la norma dichiara circoscritta la sua sfera dazione indicandone i limiti: il divieto vige entro il perimetro del locale nel quale è affisso il cartello. Solo apparentemente le cose stanno in altro modo con limperativo «non uccidere» che leggiamo sulle tavole mosaiche: qui sembrerebbe che il divieto valga sempre e dappertutto, e tuttavia a dettarlo è lo stesso Dio che poi comanda siano uccisi gli idolatri, gli apostati, le adultere, i sodomiti, quanti non abbiano rispettato lo Shabbat, quanti abbiano contravvenuto agli ordini paterni, ecc.
Si sarebbe autorizzati a credere che ogni divieto abbia dei limiti, tanto meno precisabili quanto meno sembrerebbe che la norma intenda darsene, comè nel caso di quella morale, che ha sempre in sé la vocazione a dichiararsi universale e inderogabile, ma che immancabilmente è costretta a concedere eccezioni, anche quando sembrerebbe non ammetterne: «ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 39), va bene, ma allora a che ti serve la spada (Mt 10, 34)?
Se è così per ogni norma, pare inevitabile che questo accada anche nel caso della massima, che è sì il principio che intende regolare una condotta, ma pure la sentenza, il motto, il brocardo attraverso cui questo si esprime: più lapidaria sarà la frase, meno il principio che essa espone si rivelerà inviolabile, perché è proprio la brevitas in cui essa si dà a lasciar spazio per le note a pie di pagina, nelle quali anche la più «dura lex» fa i conti con riserve, dispense e strappi. In fondo, è proprio su questo paradosso che laforistica ha costruito la propria fortuna: apodittica per statuto, esaurisce tutta la sua cogenza precettistica nello spazio di una frase, non di rado compiacendosi di contraddizioni interne.
Lunico ambito in cui la norma parrebbe farsi legge inviolabile è quello della logica, ma pure qui, immancabilmente, si piega alle necessità del suo più comune impiego, che è quello della persuasione. [Qui evito ulteriori considerazioni rimandando altrove, ai punti III e V.]

Quando Ludwig Wittgenstein dice: «Lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui», sembra volerci dare un consiglio buono sempre. In realtà troviamo questa frase tra quei Pensieri diversi che Georg Heinrik von Wright raccolse qua e là nei suoi manoscritti, dove erano appuntati come annotazioni a margine della pagina. Così contestualizzato, il monito è rivolto a sé solo, e per quella sola pagina, sennò non si capisce che senso avrebbe nel suo Tractatus logico-philosophicus il punto 1.1 («Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose»), dopo averci già detto che «il mondo è tutto ciò che accade» (1) e dovendo poi affermare che «ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose» (2). Per meglio dire: avrebbe senso solo per esplicitare un passaggio implicito, ma da chiunque agevolmente desumibile.
E tuttavia «lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui» sta in esergo o a conclusione di questo o quel manuale di retorica, come tacita ammissione dellinevitabilità del vulnus che la logica argomentativa deve subire nel foro in cui luditorio sia gravemente incapace: per quanto si possa render conto nel dettaglio di ogni più minuto passaggio . Che mi pare sia la dolente ammissione che una norma dinanzi alla quale siamo tutti eguali sostanzialmente non esiste. E passi per quella giuridica, passi pure per quella morale, ma doverlo ammettere pure per quella che dalla logica informa largomentazione, da un lato, costringe allapparentamento della democrazia con la pedagogia (non è un refuso per demagogia: proprio pedagogia) e, dall’altro, impone che la prima esaurisca ogni suo fine in ciò che è dato dai mezzi della seconda. Come ai maestri è dato constatare con i propri allievi, non viceversa. 

domenica 10 gennaio 2016

Fossili di lunga cova


In una scatola che avevo dimenticato di aprire dopo l’ultimo trasloco, e che da anni riposava in un ripostiglio sotto una pila di vecchie riviste, ho ritrovato le opere di Gaetano Mosca, più volte cercate invano, e una dozzina di taccuini riempiti tra il 1985 e il 1988, che credevo fossero andati definitivamente smarriti. Leggendoli, sono stato ripetutamente tentato di postare su queste pagine quello che scrivevo allora su Craxi e sui craxiani, per infine risolvermi a desistere, certo che neppure un cane avrebbe creduto al fatto che si trattasse di roba vecchia di trent’anni: anche il più candido dei miei lettori avrebbe avuto buon diritto di leggere Maria Elena Boschi dove trovava scritto Claudio Martelli, Oscar Farinetti invece che Filippo Panseca, autorizzato a sospettare si trattasse di un patetico artificio letterario. È che quei taccuini traboccano di profezie avverate. Per meglio dire, di preghiere esaudite. Meglio ancora, di maledizioni andate a segno. Se a quei tempi fosse esistito il web, le avrei rese pubbliche? Ripensando a com’ero allora, non credo. Dunque restino dov’erano, fossili di lunga cova.

[...]

Potendo scegliere – anzi, no, diciamo: costretti a scegliere – preferireste che vostra madre, vostra moglie, vostra figlia fosse molestata, aggredita, stuprata da un senegalese, da un rumeno, da un canadese o da un vostro connazionale? Domanda stronza, vero? Concordo, ma è che resto ai margini della questione sollevata dai fatti di Colonia incapace di affrontarla come pare sia dobbligo, e onestamente mi pare che sia posta in modo davvero infelice, quasi a volerla rendere irrisolvibile, buona tuttal più a rimarcare posizioni di principio, irriducibili. Più in generale, mi pare che questo accada per quasi tutte le questioni sollevate, più o meno direttamente, dal processo di trasformazione cui le nostre società occidentali sono indotte dal fenomeno migratorio. E mi chiedo quanto vi sia di intenzionale.
Per quanto attiene al terrorismo di matrice islamista, ad esempio, mi verrebbe da chiedere: costretti a scegliere, preferireste morire sotto i colpi di un AK-47 imbracciato da un autoctono o da un allogeno? Per meglio dire: costretti a dover subire una morte violenta, considerereste rilevante che a farvi fuori sia un pazzo uscito da una madrasa wahhabita o da un college dell’Oregon? Se sì, preferisco restar fuori dalla discussione. Se invece non vi fa differenza, parliamo pure, ma liberando il problema dal bozzolo in cui è stato avvolto dall’isterica logica emergenziale. 

martedì 5 gennaio 2016

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a M.B.

È vergognoso che i responsabili della morte di Stefano Cucchi restino ancora impuniti. Ciò detto, è così difficile aggiungere che è vergognoso pure ciò che ha fatto sua sorella? Beh, pare lo sia, e le ragioni che ella ha addotto a spiegazione del suo gesto, risibili a ogni onesto intelletto, trovano un’indulgenza che mai ti aspetteresti dal fior fior di garantisti che son pronti a bacchettarti senza pietà se neghi la presunzione d’innocenza pure a chi è stato sorpreso in flagranza di reato.
«Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso». Neanche cè stato il primo grado di giudizio, e già siamo sicuri che a pestarlo e ucciderlo sia stato chi Ilaria Cucchi è convinta labbia fatto. Possiamo esserne convinti anche noi, ma siamo certi che in attesa della condanna sia opportuno esporlo alla gogna per poi far finta di essere sorpresa e dispiaciuta che su di lui sia piovuto il peggio del peggio? «Volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello», ma evidentemente non bastava averle viste, era necessario darle in pasto alla bestia.
«Volevo farmi del male»? Ma non diciamo sciocchezze, a premere era lurgenza di avere un acconto di risarcimento per il dolore provato. E sì che «chiedo scusa per aver fatto una stronzata» sarebbe stato tanto più dignitoso. Macché, «se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui», come a declinare ogni responsabilità per ciò che nella migliore delle ipotesi era stata una leggerezza.
«Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza», ma «noi» chi? Se gli insulti e le minacce che non sono tardati a gonfiare la pagina dei commenti sono violenza in risposta alla violenza, quale potere pretende di poter avere, Ilaria Cucchi, nel neutralizzarla dopo averle dato la più irresistibile delle occasioni per scatenarsi?
E che cazzo di spiegazione è quella che offre alla decisione di postare una foto del carabiniere indagato per la morte del fratello? Ha detto che intendeva mostrare al gentile pubblico di un social network «la fisicità e la mentalità di chi ha fatto del male». Dalla «fisicità» è possibile dedurre la «mentalità»? Non lapideremmo chiunque cercasse di convincerci che è dall’aspetto fisico di Tizio che possiamo attribuirgli o meno questo o quel particolare vizio morale?
Ma sia, concediamo a Ilaria Cucchi tutte le attenuanti del caso: ha fatto una stronzata, non è stata capace di riconoscerla in quanto tale, nel caso sarà chiamata a risponderne nelle sedi deputate. A far girare i coglioni, tutto sommato, non è lei, ma quello che è potuto uscir di penna a chi si è affrettato a indossar la toga per difenderla. Tralascio le arringhe di Mantellini e di Capriccioli – per una volta la veritas si fotta perché Plato resti amicus – e prendo in considerazione solo quella di Manconi.
«Non è accaduto a me che uno stretto familiare trovasse la morte in un carcere... dunque, non posso e non devo — e non voglio — valutare...». Ma che cazzo stai a di’, Manco’? Perché non hai mai subito la perdita di un familiare messo sotto dall’auto guidata da un rumeno ubriaco, ti astieni dal giudizio su chi l’ha subita e chiede che il colpevole sia condannato a morte? Non ti ci vedo proprio.
«Viviamo in un paese dove alcuni sindacalisti felloni e pavidi, che dicono di rappresentare le forze di polizia perché ne difendono gli esponenti più criminali, da anni oltraggiano i familiari delle vittime. E in un paese dove politici senza vergogna e senza Dio così hanno definito Stefano Cucchi: “tossicodipendente anoressico epilettico larva zombie”; e un pubblico ministero, responsabile della prima e sgangherata inchiesta sulla morte del giovane geometra, invece di perseguire i responsabili così parlava della vittima: “tossicodipendente da quando aveva 12 anni”. E ora tutti questi sono lì, col ditino alzato e l’aria severa, che impartiscono lezioni di galateo a Ilaria Cucchi. È davvero irresistibile la voglia di mandarli, come minimo, al diavolo». Beh, Manco, da un fine polemista come te, sempre così attento alle fallacie altrui, non mi aspettavo una confutatio così grossolana.
È come dici, non cè dubbio, per coerenza sta manica di stronzi non dovrebbe aprir bocca. Ma unaffermazione non dovrebbesser vagliata indipendentemente da chi lha fatta? Chi è daccordo con la tua rappresentazione del paese, chi ritiene che i colpevoli della morte di Stefano Cucchi debbano pagare per quanto hanno commesso, avrà il diritto di dire che sua sorella si è comportata di merda? O vige la regola che i nostri hanno sempre ragione?

Guerre di religione

Negli oltre trentanni in cui cattolici e protestanti si sono scannati in Irlanda del Nord (1972-2005) vè mai stato qualcuno che abbia tentato di spiegarci quel conflitto come una disputa teologica sugli effetti della Grazia? Quando, ad esempio, lIra fece 28 morti e 36 feriti con unautobomba a Omagh – era il 1998, praticamente laltrieri – vi fu chi rubricò la strage come ennesimo capitolo di una guerra di religione? Macché, il coro fu unanime: si trattava di un attentato terroristico, lennesimo attentato ad opera di un movimento armato che rivendicava lindipendenza dellIrlanda del Nord dal giogo del Regno Unito. E il fatto che questo movimento si dichiarasse cattolico? Del tutto strumentale, non v’era dubbio. Per meglio dire, qualche dubbio poteva anche esservi: in prigione perché pesantemente indiziato di aver compiuto un attentato, un membro dellIra come Bobby Sands non aveva ricevuto un rosario mandatogli dal Papa? Ma no, la religione rimaneva un elemento tutto sovrastrutturale allo scontro tra unionisti ed indipendentisti, i terroristi dellIra ne facevano il paravento dietro il quale si battevano per una posta in gioco che era tutta politica. E il fatto che gran parte dei loro attentati cadessero in date dichiaratamente evocatrici dei più salienti episodi delle guerre di religione del XVII secolo? Un tentativo di accreditarsi come i discendenti della nobile schiatta di martiri cattolici immolatisi per strappare lIrlanda all’eresia anglicana. Ma era religiosa la posta in gioco per la quale tra il 1641 e il 1653 persero la vita più di 20.000 indipendentisti e quasi 15.000 unionisti? Gli storici dissentono.  
Come andava affrontata, dunque, la notizia della strage di Omagh, nel 1998? Prendiamo dallemeroteca un giornale a caso.

Il Foglio, 18 agosto 1998 - pag. 1

Sette righe, nessun riferimento alla matrice cattolica del gruppo terrorista, nessun articolo di approfondimento sulla relazione tra fede e violenza, e sì che la storia del cristianesimo è sempre stata un mattatoio a cielo aperto. La religione non era in discussione, punto. Strumentale era l’uso che ne facevano i terroristi, strumentale sarebbe stato riconoscergliene la legittimità. 

Veniamo alloggi, a quella che, quando non è spacciata come guerra di religione che l’islam avrebbe dichiarato all’occidente giudaico-cristiano, ci si accontenta di spacciare come conflitto tra sciiti e sunniti. Prendiamo un giornale a caso dalla mazzetta.
Il Foglio, 5 gennaio 2016 - pag. 4
Sciiti contro sunniti, ma, sia chiaro, in quanto sciiti e sunniti, e cioè rappresentanti di due correnti religiose che in seno all’islam sono da sempre irriducibili: Iran e Arabia Saudita sono ai ferri corti per la vexata quaestio tra imamato e califfato, mica per il controllo dell’area mediorientaleÈ guerra di religione, signora mia, poco importa se dall’islam – tutto – in guerra contro l’occidente giudaico-cristiano passiamo in un battibaleno a due pezzi d’islam in guerra l’uno contro l’altro. 

   

domenica 3 gennaio 2016

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Quasi subito si scoprì che i dati dai quali Lancet aveva pensato di poter concludere che fossimo il paese dalla più bassa mortalità materna al mondo (2010) fossero stati ampiamente sottostimati, e che, volendo, si potesse addirittura dire il contrario, cioè che per numero di donne morte ogni anno a causa di eventi patologici correlati alla gravidanza, almeno in Europa, ci spettasse la «maglia nera» (2012). Unesagerazione, in entrambi i casi, e di lì a poco un rapporto dell’Istituto superiore della sanità chiarì che in Italia, per cause legate alla gestazione e al parto, si morisse né più né meno che nel resto dEuropa (2014), con percentuali che a tuttoggi, e ormai già da qualche decennio, sono le più basse sul pianeta. Stavolta non potevamo sentirci scandinavi, come nel 2010, né sub-sahariani, come nel 2012: sempre di circa 20 donne all’anno si trattava, come nel 2010 e nel 2012, ma non c’era «notizia». Oggi, invece, la «notizia» c’è: ne sono morte 4 in 4 giorni, e quanto può importare che la media annua non ne risenta?
Limpressione è che in Italia ne stia morendo una al giorno, la cosa merita le prime pagine, i titoli di testa dei tg, la discussione nei social network. La coincidenza non può essere casuale, è dobbligo sia «inquietante», «allarmante», «sospetta», azzardarsi a sollevare qualche dubbio sul fatto che si tratti di un’«emergenza» comporta il rischio di beccarsi il severo biasimo di voler minimizzare, ovviamente per torbidi interessi di parte. È consigliabile, dunque, che i medici tacciano. In momenti delicati come questi è poco opportuno che tentino di spiegare che certi eventi patologici con esito anche letale siano imprevedibili anche nelle migliori condizioni di monitoraggio. Men che meno si azzardino a dire che la gravidanza sia in sé e per sé una condizione di rischio, turberebbero la bucolica convinzione che si tratti di una «cosa naturale», meriterebbero l’accusa di stare a cercar scuse per negare i micidiali guasti della malasanità. È vero, la signora ha messo 25 chili in 9 mesi, ma, se è morta, qualcuno ha da pagare.

venerdì 1 gennaio 2016

[...]




«Anche se in vita era un gran pezzo di merda, di un morto non si può dir altro che bene, perché il piacere che ci ha dato levandosi dai coglioni è tale da obbligarci a un tocco di gratitudine, e tacere per non doverne dir male è l’oblazione minima, mentre a non saper proprio star zitti è indispensabile riconoscergli qualche merito, che a frugar bene nella merda si trova sempre...».
Si tratta dell’incipit di un coccodrillo che ho scritto due o tre anni fa in morte di ***, e che tuttora riposa nell’apposita cartella in attesa di essere postato su queste pagine, quando sarà il momento, ma che qui mi sembra possa tornar buono anche a spiegare la ragione che ci impone il «nihil nisi bonum» anche su alcuni – pochissimi, in realtà – che sono ancora in vita: è che sono inoffensivi come lo sono i morti, e anche a loro d’altronde non manca qualche merito, che quasi sempre basta a che si taccia di tutto il resto.
Così mi pare accada per Luca Medici, cui non si può negare il merito di far ridere, che a tutti sembra poter bastare per sospendere ogni giudizio critico sulle cause e sugli effetti del riso che suscita, come fosse sconveniente, nella duplice accezione del termine (inopportuno fino disdicevole e infruttuoso fino al controproducente). Chi è morto non dà più fastidio, requiescat in pace, parlarne male è così inutile che arriva a sembrare ingiusto, perfino odioso: così con la comicità del Checco, perfettamente innocua, perché studiata al meglio per non ferire alcuno.
Si obietterà che, se fa ridere, la comicità ha necessariamente da avere un bersaglio, e quella del Checco ne ha tanti, a destra e a sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro, e tutti vengono colpiti, per giunta con la forza di una franca incorrectness. È vero, ma il trucco che la rende inoffensiva sta nel fatto che il colpo si compiace oltremodo dell’esser becero: in questo modo, e nello stesso tempo, a un certo pubblico è offerta l’occasione di un liberatorio sfogo a quello stesso tratto di becerume, mentre al bersaglio è dato il miglior agio di potersi difendere per l’esplicita bassezza del colpo.
Il caso più evidente è quello della canzoncina dedicata agli «uominisessuali», scritta nel modo giusto per poter piacere a tutti: agli omofobi, che nel «cozzalone» che definisce l’omosessualità «una brutta malattia» vedranno l’innocente naturalezza disintermediata dall’ossequio al conformismo che ha sdoganato «un’altra sessuità», esigendo l’equiparazione dei gay a «persone sani»; ma anche agli stessi gay, oltre a chiunque ritenga che i gay siano «gente tali e quali come noi, noi normali», perché l’attacco è neutralizzato dalla sua stessa sguaiataggine, ritorcendosi peraltro contro chiunque abbia intenzione di sferrarne uno simile.
Se si può far fatica a riconoscere questo espediente nella gag della durata di una canzone o di un’imitazione, esso diventa di piana evidenza nella trama del lungometraggio, che trova immancabilmente il suo lieto fine nel ravvedimento dello zotico che per un’ora e mezza ha squadernato quanto di meglio sapesse offrire in cinismo ed egoismo, in sessismo e razzismo. Ed è qui che la comicità di Luca Medici rivela il suo punto debole: non sapersi accontentare del far cassa in equilibrio sul sottile filo dell’ambiguità, che ancora miracolosamente regge, per l’insana aspirazione a farsi Partito della Nazione. 

domenica 27 dicembre 2015

Un volgarissimo puttanone

Arrivi a una certa età che ne hai viste d’ogni tipo, quindi sei sensibile solo a quelle che hanno qualcosa di speciale, che d’altronde non mancano mai, neppure quando ti ostini a dire che l’una vale l’altra, ben sapendo che invece non ce ne sono due uguali. Con gli anni, insomma, si attenua quella smania che da giovane può renderti insaziabile: diventi estremamente selettivo, presti attenzione solo a quelle che davvero meritano. Non è detto, tuttavia, che questo possa bastare a risparmiarti cocenti delusioni, perché non è affatto raro, anche a una certa età, che tu ne veda una all’apparenza estremamente interessante, assai ben fatta, poi basta darle un’occhiata quando è nuda, senza trucco, e ti vergogni d’averci sprecato tempo sopra. Diciamo che l’esperienza aiuta, ma solo fino a un certo punto, perché il fascino di queste misteriose creaturine sta proprio nell’inganno che è la loro intima, prima e ultima, natura.
A scanso di equivoci, s’è capito che parlavo delle mistificazioni? Ci vuol niente a beccarsi l’accusa di sessismo, e con quella sei segnato a vita. Ripeto: parlavo delle mistificazioni. E la premessa di cui al primo capoverso era solo per strapparvi un briciolo di comprensione per la disavventura che mi sono procurato e che qui passo a narrare. E dunque.

È la vigilia di Natale e Il Foglio, a pag. 3, dà notizia di una sentenza della Cassazione.


Cedo allincantevole leggerezza con la quale vien lasciato scivolare che «non esiste un diritto a non nascere se non sani» (già diverso dal «non esiste un diritto a non nascere sani» che sta a titolo delleditoriale) sia l«inverso» dell’affermazione che «chi non è sano non ha il diritto di nascere» («base di tutte le teorie di selezione eugenetica»). Ovviamente non è così, perché il diritto di voto, tanto per fare il primo esempio che mi capita sotto mano, non necessariamente nega il diritto di astenersene; così, affermare che «non esiste un diritto a non nascere se non sani» (che daltronde la sentenza non fa altro che limitarsi a rammentare sia già un dato di fatto giurisprudenziale in Italia, in Europa e negli Stati Uniti) non esclude affatto che «chi non è sano non ha il diritto di nascere», perché, come la stessa sentenza rammenta col richiamo allart. 6 della legge n. 194 del 22.5.1978, è consentito negare questo diritto «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»: in buona sostanza, a «chi non è sano» la legge non assicura affatto «il diritto di nascere», se la sua nascita può essere di nocumento alla salute fisica o psichica della donna. Potrà piacere o non piacere, ma questo assunto non è neppure scalfito dalla sentenza della Cassazione, che anzi ne ribadisce il principio che vi sta a fondamento, con quanto recita lart. 1 del Codice Civile («La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita»).
E allora in cosa, questa sentenza della Cassazione, peraltro vecchia di tre mesi, «chiudere[bbe] una contesa etica e giuridica che aveva aperto spazi a una concezione della persona e della vita condizionata, mentre la unicità della persona è e deve restare un valore assoluto»? La contesa resta aperta, ma solo perché cè chi si ostina a riaprirla, in opposizione alla giurisprudenza che nega capacità giuridica al feto, e pone condizione alla sua nascita laddove questa metta a rischio la salute della gravida, che può, nel caso, se vuole, far prevalere il proprio interesse su quello del prodotto del concepimento.
E quindi dovè che questa sentenza compie il «passo indispensabile» per evitare le paventate «derive eugenetiche»? Rigetta il ricorso di due genitori lì dove questi pretendevano che nellomessa diagnosi prenatale di una grave malformazione genetica vi fosse vulnus a un opinabile diritto del nascituro a nascere sano, ma lo accoglie – guarda caso – proprio al punto in cui la controparte pretenderebbe che laccertamento del «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» posto in essere dalla nascita di un feto gravemente malformato dovesse essere preventivamente certificato, e fosse a carico della gravida. In sostanza, ribadisce che la nascita di un feto gravemente malformato costituisca di per se stessa quel «grave pericolo». Che cè da festeggiare per un antiabortista?

La mistificazione sembrava fine, intrigante, con tutte le sue cosine al posto giusto, aveva pure un certo fascino, diciamo. Eccola lì: sotto un leggero strato di fondotinta, un volgarissimo puttanone. 

venerdì 7 agosto 2015

Ciao a tutti

Io non vedo alcun risultato positivo in ciò che Renzi ha combinato da quando è capo del governo, anzi, ci vedo realizzato in buona misura il pericolo che vado segnalando fin dalla prima Leopolda, quando il serpente era nell’uovo, e non era detto che arrivasse alla schiusa, sicché mi limitavo all’ironia. Sottovalutavo l’ottusità del paese che di lì a qualche anno l’avrebbe incoronato come opzione senza alternativa, un paese che pure ho sempre ritenuto ottuso, ma non al punto da farsi fottersi da un Renzi dopo essersi fatto fottere per vent’anni da un Berlusconi. Sbagliavo, ovviamente, e in fondo tutto ciò che ho scritto su Renzi da quando è capo del governo può esser letto come denuncia del guasto che affligge il paese piuttosto che come accusa a chi gli dà ciò che merita. In buona sostanza, io mi riconosco nel gufo cui Renzi rinfaccia di non essere disposto a farsi fottere. Anzi, per meglio dire, in quel gufo mi riconoscevo fino a qualche ora fa, perché qualche ora fa, alla Direzione nazionale del Pd, Renzi ha detto che «non valorizzare i risultati positivi [che fin qui sarebbero dovuti al suo governo] oggi non è da gufi, ma da persone che non aiutano la propria comunità». Chi non è disposto a farsi fottere, insomma, è un sociopatico. Ci manca solo scatti limputazione di sabotaggio, chissà che non stia pensando a un ritocchino al codice penale. Bene, io non voglio essere preso in contropiede e con questo post do un taglio. Grazie per lattenzione fin qui concessami, ciao a tutti.  

giovedì 6 agosto 2015

mercoledì 5 agosto 2015

[...]

Da ansa.it apprendo che giovedì 6 agosto lo Zimbabwe presenta allExpo lo zebraburger, hamburger con carne di zebra, variante del cocroburger, hamburger con carne di coccodrillo, che sempre lo Zimbabwe ha presentato allExpo a metà luglio, e che pare sia andato a ruba. Toccagli il leone Cecil, agli zimbabwesi, e si incazzano di brutto, ma zebre e coccodrilli te li buttano in faccia. Idem per gli animalisti, di cui non ho notizia di proteste per il cocroburger, sicché suppongo se le risparmieranno pure per lo zebraburger. Probabilmente non c’è contraddizione, la vedo solo io, dunque fate finta che queste righe siano la confessione di uno che comincia a far fatica a spiegarsi le cose. 

martedì 4 agosto 2015

Di ragni e di cavalli

Sullimmunità parlamentare ho già detto cosa penso, qui mi limiterò a dire che in tutte le sue forme, anche in quelle che alcuni ritengono eccessivamente ridimensionate dalla revisione dellart. 68 della Costituzione, è un istituto che ha perso ogni funzione di garanzia per diventare solo un odioso privilegio.
Si prenda il primo capo del suddetto articolo: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nellesercizio delle loro funzioni». Poteva avere un senso, in passato: tutelava loppositore che un regime avesse lintenzione di rendere inoffensivo servendosi di una magistratura debitamente asservita. Ma oggi? Si prenda, per esempio, un’opinione che esprima contenuti ipoteticamente discriminatori in ordine alla razza, e la si metta in bocca – uguale in tutto, fino alla virgola – ad un comune cittadino, prima, e ad un parlamentare, poi: perché, se giudicata offensiva in un caso, dovrebbe rimanere impunita nell’altro? Per meglio dire, cos’è che la rende inoffensiva in bocca ad un deputato o un senatore? Cosa dovrebbe giustificare il fatto che chi sia stato fatto oggetto di questa offesa possa aspettarsi di avere giustizia nel primo caso, e non nel secondo?
Così al secondo e al terzo capo, che recitano: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nellatto di commettere un delitto per il quale è previsto larresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza». Sorvolando sullefficacia sostanzialmente nulla di perquisizioni o intercettazioni preliminarmente annunciate a chi debba esserne fatto oggetto, resta la questione dellautorizzazione della Camera a che la magistratura possa procedere nelle attività di accertamento di un reato e all’eventuale richiesta di misure cautelari che essa ritenga necessarie in attesa del processo.
Qui ritengo sia da sospendere ogni considerazione relativa allo stato dei fatti nel nostro ordinamento – io per primo considero indispensabile modificarlo in più punti, innanzitutto a garanzia di chiunque non abbia subìto ancora una condanna definitiva – ma di appuntare l’attenzione sulla patente disparità di trattamento a carico di un comune cittadino o di un parlamentare per quanto attiene all’eventualità che essi abbiano commesso lo stesso reato: è scorretto affermare che il primo abbia molte più possibilità di essere condannato rispetto al secondo? Trattandosi dello stesso reato, è giusto che chi ne abbia subìto il torto dal primo abbia da attendersi maggiori possibilità di ristoro rispetto a chi l’abbia subìto dal secondo? E in virtù di quale garanzia che in questo secondo caso sarebbe necessario assicurare a chi ha commesso quel reato?
In quanto al fatto che spetti al Parlamento concedere alla magistratura l’autorizzazione a trattare un parlamentare come un comune cittadino, la questione rivela molti punti critici, peraltro eloquentemente illustrati da numerosissime vicende che sono scorse lungo i decenni di vita di Camera e Senato. Alle Giunte cui i due rami del Parlamento demandano il compito di individuare un eventuale fumus persecutionis nelle iniziative della magistratura a carico di un parlamentare spetta il compito di relazionare alle assemblee se ne hanno trovato traccia o meno, ma è a queste ultime che spetta l’ultima parola, che non di rado – l’ultimo caso è quello del senatore Antonio Azzollini – smentisce il parere di chi ha potuto approfondire meglio il caso. A stretto rigor di logica, se ne potrebbe dedurre che le Giunte per l’autorizzazione a procedere siano del tutto inutili: se ogni deputato ed ogni senatore è in grado di arrivare a un libero convincimento sul caso di volta in volta in oggetto, facendo a meno del preliminare lavoro di studio che un organo appositamente designato allo scopo dedica alle carte inviate al Parlamento da quella o quella Procura, non si capisce che senso abbia lo spreco.
Un discorso a parte meriterebbe la natura della libertà che porta a convincimento un deputato o un senatore circa l’opportunità che un suo pari sia trattato come un qualunque cittadino o non abbia a godere di un trattamento di favore, ma è evidente che su questo punto non arriveremmo mai a cavare un ragno dal buco, salvo l’uso di strumenti inopportuni e, tutto sommato, inefficaci. Tuttavia sembra che la delicatezza di quest’ultima questione non sfugga al nostro beneamato Guardasigilli, che oggi dalla pagine di un quotidiano a larga tiratura butta lì un’ipotesi quasi a veder che effetto faccia: affidare alla Corte Costituzionale il compito di concedere o meno l’autorizzazione a procedere a carico di un Parlamentare. Come se avesse ben chiaro che razza di ragno stia nel buco.
Superfluo dire che l’idea sembri avere mero intento autopromozionale, tanto più se si considera che ad Andrea Orlando non sfugge il ragno, ma neanche il fatto che l’idea necessiterebbe di una riforma costituzionale per attribuire alla Corte Costituzionale un compito che la Carta non le attribuisce, e allora campa cavallo, tanto più che sul cavallo c’è la Boschi che di certo non sarebbe disposta rimetter mano alle sue riforme per infilarci la proposta del signor Guardasigilli. Che in questo modo ci guadagna il suo bel figurone di gran conoscitore di ragni e di cavalli.   

lunedì 3 agosto 2015

«Ricetta per l'Italia»

Da affaritaliani.it copio-incollo la «ricetta per l'Italia» di Marco Rizzo, leader del Partito Comunista (ilpartitocomunista.it):

«Essendo a conoscenza della differenza che ci sarebbe tra “avere” il potere ed “esser” al governo (la stessa differenza che passa dalla Rivoluzione alle Elezioni), spiego comunque quella che sarebbe la ricetta per l'Italia del Partito Comunista:
- Rottura unilaterale dei trattati economici e politici europei e di quelli militari con la Nato.
- Remissione del debito estero (con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori). 
- Nazionalizzazione di tutte le banche e le grandi imprese con affidamento di gestione e controllo ai lavoratori. 
- Tutti i settori strategici della Nazione (sanità, trasporti, formazione, grandi cantieri ecc…) assumono carattere statale ed annullano qualunque precedente privatizzazione.
- Viene istituito il salario minimo da lavoro garantito per tutti.
- Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari.
-  Sono equiparati i contratti di lavoro ed ogni diritto per i cittadini italiani ed i migranti. Tutti sono tenuti al rispetto totale della legalità socialista, pena severe sanzioni previste dal nuovo codice penale.
- La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre  - secondo criteri di uguaglianza.
- È ristabilita la leva militare obbligatoria per il nuovo Esercito Popolare.
- Lo Stato Socialista è laico. Sono permesse tutte le religioni (senza alcuna spesa per lo Stato), sono aboliti i Patti Lateranensi».

È da quel «ricetta» che inizierei l’analisi del testo: sta per «programma», è ovvio, ma il termine ha un evidente richiamo alla preparazione in ambito gastronomico. Dice niente? Bravi, anch’io pensato subito alla cuoca di Lenin. Senza dubbio, infatti, qui siamo di fronte ad un timballo nel quale son presenti molti ingredienti della cucina comunista (esproprio, nazionalizzazione, leva obbligatoria, ecc.). La cuoca che Lenin sosteneva avrebbe ben potuto amministrare la cosa pubblica, tuttavia, era il risultato di quella rivoluzione che invece lo stesso Marco Rizzo non ha difficoltà a concedere sia cosa ben diversa dal raccogliere consenso su un programma di governo. Ma poi, siamo onesti, si è mai vista una cuoca a capo del Cremlino? Quello di Lenin era un paradosso, via, e in ogni caso calava in tutt’altro contesto da quello in cui cala Marco Rizzo, pure lui bel paradosso, senza dubbio, ma qui senz’altro fine che darsi per sproposito.
In altri termini, invece di dirci come ha intenzione di prendere il potere, il leader del Partito Comunista ci espone la sua agenda dei primi 100 giorni, al pari di un qualsiasi spacciabubbole a capo di un partito borghese. Lungo la lista, peraltro, non si scorge traccia di quel caposaldo della dottrina marxista-leninista che commisura il fine al mezzo, e non dà l’uno senza l’altro.
Non è tutto. Per quasi ogni ingrediente non è indicata la dose. Non vengono indicati tempi e modi della preparazione. Ma quello che per certi versi arriva addirittura a dare una puntina di sconcerto – non più di una puntina, ovviamente – è il fatto che la nostra cuoca non sembra avere neanche i fondamentali della cucina comunista, o almeno faccia di tutto per dar mostra di ignorarli.
Si prenda, per esempio, il punto 8: «La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza». Quali saranno mai, questi «criteri di uguaglianza», in grado equiparare i possessori di seconde case a quanti ne posseggono una sola? In relazione al punto 6 («Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari»), quali «criteri di uguaglianza» reggono l’assegnazione di una casa a chi non l’ha e il fatto che chi ne abbia due, di cui una necessariamente sfitta, possa conservarle entrambe? E qual è il parametro che farà la differenza tra «grandi proprietà immobiliari» e quelle medie o quelle piccole? (Analogo problema si pone al punto 2, con la «remissione del debito estero, con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori», che è cosa semplice a dire e pressoché impossibile a fare: quanto «piccolo» dovrà essere il debito, e farà differenza se i «piccoli risparmiatori» hanno investito in titoli azionari?) E come dovrà intendersi il trasferimento delle proprietà confiscate dai vecchi ai nuovi proprietari? Voglio dire: vi sarà intermediazione di proprietà da parte dello Stato e, nel caso, con quali strumenti giuridici?
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.