Ma è vero quel che si dice? Possibile che chi sostiene Giorgia Meloni nella sua corsa al Campidoglio ha pensato bene di intestarle il titolo di Mamma Roma? Pensando all’omonimo film di Pier Paolo Pasolini? Quello in cui Anna Magnani interpreta una puttana cui alla fine della storia muore il figlio? Geniale.
giovedì 17 marzo 2016
Leggo, rileggo, rileggo ancora, e ancora, ma poi ancora no
Avrei
voluto prendere in considerazione uno per uno gli argomenti che
Claudio Magris espone in Non
è giusto trasformare ogni desiderio in diritto
(Corriere
della Sera,
16.3.2016), se non fosse che alla seconda rilettura di ciò che
scrive mi rendo conto di non riuscire a capire contro cosa stia argomentando. Contro il matrimonio gay, contro le unioni civili tra
persone dello stesso sesso o addirittura contro la convivenza di una
coppia omosessuale? Contro la gravidanza surrogata, contro la
stepchild adoption o contro la sola evenienza che un bambino possa
essere allevato da una coppia di persone dello stesso sesso? Colpa
mia, naturalmente, e allora rileggo ancora.
Primo:
condanna della «trasformazione
delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto
titillamento pulsionale»,
e qui il concetto di «desiderio»
diventa enormemente estensivo, perché a fronte delle «autentiche
e umane visioni del mondo»,
intese come concluso orizzonte antropologico, diventa un «indistinto
titillamento pulsionale»
tutto ciò che Claudio Magris ritiene poco «autentico»
o non del tutto «umano»,
peraltro senza stilarcene la lista. Per esempio: ho una grave
insufficienza mitralica; vorrei vivere altri vent’anni;
il cardiologo mi propone un intervento chirurgico per sostituire la
valvola difettosa con una di maiale o con una protesi in caucciù e
fibra di carbonio, robe che di «autentico»
e di «umano»
manco a parlarne; che faccio, mi titillo o ci rinuncio?
Secondo:
condanna di quel «relativismo
nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di
scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e
di pensiero»,
che costringe inevitabilmente a chiederci cosa debba intendersi per
«scambio»
e per «unità
forte di vita e di pensiero».
Amare solo se si è ricambiati configura una dimensione merceologica?
E in cosa va indebolirsi l’«unità
di vita e di pensiero»
con l’adattarsi
dei sentimenti e dei valori alle mutate relazioni tra soggetti di cui
la storia non smette mai di rimodellare profili e ruoli? Perché
Claudio Magris ci lascia sospesi nel vago e invece non ci indica
dov’è
che la storia dovrebbe fermarsi, sazia di aver raggiunto il top di
ciò che è «autentico»
e di ciò che è «umano»?
Terzo: «La
famiglia tradizionale può essere e molte volte è stata anche
violenta, soffocante e nemica del libero sviluppo della persona»,
certo, ma questo ci consente di considerarne illegale il modello? «È
ovvio che persone capaci di intelligente e attento amore possano far
crescere un bambino meglio di genitori carnali incoscienti e
snaturati o anche solo ottusamente incapaci di intelligente amore»,
certo, ma questo è possibile se i genitori sono dello stesso sesso?
«Ho
conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio»,
perfetto, e allora perché vuoi negar loro il pieno riconoscimento
che sono famiglia?
Perché non sarebbe giusto trasformare il loro desiderio in famiglia?
Perché «il
protagonista
– dice Claudio Magris – non
è il desiderio della coppia né omo né eterosessuale, bensì il
bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna e la cui
maturazione è verosimilmente arricchita dalla crescita non
necessariamente con i genitori naturali ma con un uomo e una donna,
espressione per eccellenza di quella diversità (culturale,
nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di per sé
più creativa e formativa di ogni identità a senso unico».
E da quali studi si evincerebbe questa norma aurea? Prim’ancora:
la maturazione di un bambino sarebbe necessariamente più arricchita
quando la mamma sia esquimese e il babbo filippino? Quando il babbo
sia musulmano e la mamma scintoista? Ce n’è
abbastanza per vietare di allevare figli a genitori che abbiano la stessa
nazionalità o che appartengano alla stessa confessione religiosa:
sul piano nazionale e su quello religioso la coppia non rispetterebbe
quei requisiti di diversità che sul piano sessuale ci dovrebbero consentire di vietarlo a una coppia omosessuale.
No, senza dubbio
dev’essermi
sfuggito qualcosa nell’articolo
di Claudio Magris per darmi l’impressione
che abbia scacazzato un mucchio di stronzate, e questo non può
essere. Sì, ma chi mi dà la forza di leggere l’articolo per la
quarta volta? No, rinuncio a scrivere il post che avrei voluto
scrivere.
mercoledì 16 marzo 2016
Bertolaso e il Toxoplasma
Google
non mi ha dato alcun riscontro in merito, ma
non ho dubbi che Guido Bertolaso abbia davvero detto quanto gli
attribuisce Daniela Ranieri, e cioè che abbia spiegato l’invito
rivolto a Giorgia Meloni («deve
fare la mamma»,
sottinteso: non deve candidarsi a sindaco di Roma)
mosso da benevolente istinto di protezione, «in
quanto medico e maschio, dunque in pieno diritto di dire a una donna
cosa fare affinché la gestazione proceda e il lattante non contragga
la toxoplasmosi a contatto coi sorci capitolini»
(La
protezione mammaria dei due B. –
Il
Fatto Quotidiano,
16.3.2016): do per scontato che si sia espresso proprio in questo
modo perché, a naso, Daniela Ranieri mi dà l’impressione
di una assai precisina.
E qui, allora, sorge il problema. Perché è vero che il Toxoplasma
può trovarsi in molti animali, gatti e cani soprattutto, ma perfino
rettili e molluschi, e topi pure, ma di regola il passaggio delle sue ovocisti
all’uomo
avviene per ingestione di tessuti animali che siano stati
infettati dal parassita (carne suina e ovina, per lo più) o di
vegetali (verdure e ortaggi, solo raramente frutta) sporchi delle feci
di animali che ne siano portatori.
Ora viene spontaneo chiedersi: il problema dei «sorci
capitolini»
può essere risolto solo con la partecipazione attiva del sindaco di
Roma alle operazioni di disinfestazione? Ammesso e non concesso così
sia, e in sovrappiù che tutti i «sorci
capitolini» siano
portatori di Toxoplasma, è statisticamente più alto il rischio di
contrarre l’infezione
da sindaco o da gravida alla quale possa capitare a tavola la fettina
di prosciutto o il piatto di insalata sbagliati? Se il sindaco non ha
lo sghiribizzo di festeggiare ogni mille topi uccisi con le proprie mani arrostendone uno
per mangiarselo, per giunta senza averlo cotto bene, perché lo gradisce al sangue, il rischio è senza dubbio
più alto per la gravida. Se la gravida, poi, esibisce un Toxotest
che documenti la sua avvenuta immunizzazione per aver già contratto
l’infezione
in passato, il problema cade?
Più di tutto, cos’è
che ci costringe a domande così balzane? Semplice: il link che Guido
Bertolaso ha creduto fosse estremamente forte tra la gravidanza di
Giorgia Meloni e l’emergenza
dell’infestazione
murina che di recente si è aggiunta alle croniche emergenze della
Capitale. Link estremamente forte sul piano della suggestione, quanto
estremamente debole su quello dell’epidemiologia.
martedì 15 marzo 2016
[...]
Fra
i tanti guasti che il cristianesimo ha arrecato alla nostra salute
c’è
quell’infliggerci
da soli una pena pari a quella che merita un assassino per il solo
aver desiderato la morte altrui, che pure gli studenti al primo anno
di Psicologia sanno essere cosa innocente, del tutto fisiologica, e poi di grande compagnia.
Malfamato dappertutto, condannato in mille modi, crudelmente perseguitato, perciò costretto a nascondersi,
travestirsi, rinnegarsi, fino a ingaglioffirsi e farsi vile, l’odio
è così diventato un sentimento irriconoscibile, perfino un po’
ridicolo a dispetto della sua lirica grandezza, corrotta in egual modo quando va ad estinguersi in violenza, dove trova la caduta per
calo di tensione, o in perdono, dove si consuma tutta per sublimazione. Non
sappiamo più odiare in modo nobile, ecco. Non sappiamo star seduti
in riva al fiume concentrando cuore e mente in quella delicata e laboriosa
pazienza che può impegnare anni e anni per darci quel che
desideriamo: o smaniamo, e finiamo per scivolare in acqua, per lo più affogando, o ci
stanchiamo, e leviamo le tende, e per andare dove, poi? A costruirci un mondo parallelo dove chi odiamo non ne turba l’armonia. Questo è brutto, molto brutto. Anche per questo, maledetto il cristianesimo.
[11.6.1984]
[...]
Ogni
tanto torna il refrain di Luigi Petroselli miglior sindaco di Roma di
ogni tempo (variante: insieme a Ernesto Nathan). Tenuto conto degli
altri, può esser vero, ma giacché a Roma lo sfascio è ormai
sistema, e ha radici nello sperpero di risorse pubbliche per nutrire
clientele d’ogni
risma, torni utile la testimonianza di Franco Ferrarotti, che
all’offerta
di un assessorato fattagli da Luigi Petroselli pose «come
condizione la rescissione dei contratti che legano il Comune di Roma
a duemila piccole ditte che fanno buchi e poi li riempiono, e non si
capisce cosa fanno», riavendone in risposta un «ah, no, non
possiamo, quella è la nostra base elettorale». Placcare d’oro
il passato
è inevitabile, ma poi basta un’unghiata.
lunedì 14 marzo 2016
La signora ne ha bisogno
Un mio amico ritiene che l’articolo sia delirante, dice sia un esempio di quella pornografia informativa che dell’attacco alla privacy altrui fa lo strumento per lucrare attenzione. Parlo l’articolo che apre il numero de la Lettura da ieri in edicola, quello nel quale Marco Santagata raccoglie indizi sparsi nei romanzi della scrittrice che si cela dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante per arrivare a formulare un’ipotesi sulla sua reale identità. Io non condivido: l’ho trovato interessante, ben costruito, ben scritto, ma soprattutto penso sia decisamente fuori luogo apparentarlo, come fa il mio amico, ai blitz di Striscialanotizia.
Decisamente fuori luogo anche il paragone col fotoreporter che viola la privacy di Salinger fotografandolo mentre fa la spesa al supermercato: esagerazione per esagerazione, sarebbe più corretto dire che l’articolo è un saggio di filologia che prova a dare attribuzione certa all’opera di un anonimo. Esagero, ripeto, ma è che ritengo pienamente legittimo che si indaghi sulla reale identità di chi pubblichi i suoi libri usando uno pseudonimo: direi che faccia parte del gioco cui è l’autore stesso ad aver dato il via.
Altra cosa che molestare chi pubblichi col proprio nome, ma intenda lasciare tutto il resto nel privato: qui è corretto denunciare l’intrusione, non nel caso di chi proprio sull’anonimato conta - può sembrare un paradosso, ma in tutta evidenza non lo è nel caso di Elena Ferrante - per dar enfasi alla qualità del prodotto, avvolgendolo nella fascinosa nube del mistero.
Qui però sarà il caso che confessi che a me i romanzi di Elena Ferrante fanno cagare, e che l’unico interesse che in me sollevano - peraltro assai blando - è proprio quello relativo alla reale identità di chi si nasconde dietro lo pseudonimo, sicché mi azzardo a dire che ho trovato più interessante l’articolo di Marco Santagata che le ultime pagine de L’amore molesto.
Non sono in grado di stabilire quanto il suo gioco al rimpiattino contribuisca ad esaltare il piacere della lettura in chi trova belli suoi mattoni, ma ritengo naturale che neanche lei abbia interesse a scoprirlo. Smettiamola dunque di immaginarcela importunata da insopportabili ficcanaso: la signora ne ha bisogno.
Decisamente fuori luogo anche il paragone col fotoreporter che viola la privacy di Salinger fotografandolo mentre fa la spesa al supermercato: esagerazione per esagerazione, sarebbe più corretto dire che l’articolo è un saggio di filologia che prova a dare attribuzione certa all’opera di un anonimo. Esagero, ripeto, ma è che ritengo pienamente legittimo che si indaghi sulla reale identità di chi pubblichi i suoi libri usando uno pseudonimo: direi che faccia parte del gioco cui è l’autore stesso ad aver dato il via.
Altra cosa che molestare chi pubblichi col proprio nome, ma intenda lasciare tutto il resto nel privato: qui è corretto denunciare l’intrusione, non nel caso di chi proprio sull’anonimato conta - può sembrare un paradosso, ma in tutta evidenza non lo è nel caso di Elena Ferrante - per dar enfasi alla qualità del prodotto, avvolgendolo nella fascinosa nube del mistero.
Qui però sarà il caso che confessi che a me i romanzi di Elena Ferrante fanno cagare, e che l’unico interesse che in me sollevano - peraltro assai blando - è proprio quello relativo alla reale identità di chi si nasconde dietro lo pseudonimo, sicché mi azzardo a dire che ho trovato più interessante l’articolo di Marco Santagata che le ultime pagine de L’amore molesto.
Non sono in grado di stabilire quanto il suo gioco al rimpiattino contribuisca ad esaltare il piacere della lettura in chi trova belli suoi mattoni, ma ritengo naturale che neanche lei abbia interesse a scoprirlo. Smettiamola dunque di immaginarcela importunata da insopportabili ficcanaso: la signora ne ha bisogno.
sabato 12 marzo 2016
Zompapérete
Contrariamente
a quel sembra suggerire l’immagine
evocata dal
termine, zompapérete
(più frequentemente usato al femminile: zompapéreta)
è
solo in senso figurato chi procede sobbalzando (zompando)
sulle proprie scoregge (pérete),
perché invece è il risultato della crasi di ’onna
(donna,
qui inteso al pari del don
preposto a un nome proprio maschile, come attributo di persona
autorevole o rappresentativa, secondo il largo uso che ancora residua
in gran parte dell’Italia
meridionale)
e di Péreta
(con
attribuzione al termine dell’antonomastico
per la donnetta sciocca e supponente, incarnata dal personaggio che
la tombola napoletana allega al numero 43 con l’immagine
di ’Onna
Péreta for’
’o
balcone,
la popolana che dispensa le sue presunte perle di saggezza al
vicinato e a chiunque le passi sotto casa).
Appena qualche settimana
fa, su queste pagine, abbiamo dedicato un fuggevole commento a un
tizio che dal suo balcone sentenziava che «i
fautori delle nozze gay e delle unioni civili sono animati dagli
stessi principi cardine che avevano spinto all’azione più o meno
sanguinaria i loro precursori
[i giacobini] che
al posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore»
(Il
Foglio,
28.1.2016). Pensavamo si trattasse di zompapérete
occasionale, ma già due giorni dopo, quando l’abbiamo
sentito dire che Lévi-Strauss ci avesse lasciato una «formidabile
arringa in favore della “famiglia naturale”» (Il
Foglio,
30.1.2016), a dispetto dell’esatto
contrario come siamo stati costretti a documentare, abbiamo avuto il sospetto che si trattasse di zompapérete
professionale. Oggi, la conferma.
Recensendo un «pamphlet»
(in realtà un sermone) di Jonathan Swift che le Edizioni Dehoniane
hanno da poco mandato in libreria, Antonio Gurrado dice che il
libriccino sarebbe il non
plus ultra
per «per
smontare chi fa sarcasmo su chiesa e cristianesimo» (Il
Foglio,
11.3.2016). Inutile correre a comprarlo, in lingua originale è
online già da
diversi anni:
si tratta di On
sleeping in church, lo trovate su gutenberg.org,
che
ospita l’opera
omnia
di Swift (Vol. IV).
«Finalmente
un pamphlet –
scrive Gurrado – in
cui vengono sbertucciati coloro che “con grande impegno e molto
sarcasmo si fanno una scorta di battute umoristiche” per esercitare
il disprezzo della fede e proclamare la propria superiorità
cerebrale a un mondo che altrimenti li ignorerebbe; finalmente lo
smascheramento di individui che “parlano in modo scortese e
irriverente” per celare di essere “così ottusi da non darci
altro che noiose ripetizioni e meschini, volgari luoghi comuni, così
triti, così logori, così banali”. Di costoro viene denunciata “la
rozza, evidente, inescusabile ignoranza degli stessi principii
fondamentali della religione”, curiosa a trovarsi “in persone che
attribuiscono tanto valore alla propria cultura” ma che in realtà
“imparano meccanicamente una serie di buffonate che possono essere
usate in tutte le occasioni”, “hanno un assortimento fisso di
sarcasmi e riescono a essere estremamente spiritosi servendosi sempre
degli stessi pretesti” per colpire il cristianesimo. Questi
sarcastici che si ritengono eccezionali e illuminati dovrebbero
apprendere che “chiunque è capace di immaginare un berretto da
buffone sulla testa dell’uomo più saggio, per poi ridere della
propria stessa trovata”.
In realtà, non è chiaro quali sarebbero gli argomenti coi quali
Swift annichilirebbe la «sbruffoneria
degli atei»,
anche perché afferma che, «of
all misbehaviour, none is comparable to that of those who come here
to sleep»,
a conferma del fatto che anche per lui, come per ogni pastore, il più
temibile nemico della fede non è l’ateismo
militante, ma l’indifferenza
che già ai suoi tempi serpeggiava nel gregge.
A parte occorrerebbe dire che un capolavoro come Gulliver’s travels e un gioiellino come A modest proposal sono di qualità molto al di sopra della media del corpo swiftiano, che per gran parte è grigio ciarpame nel quale non si trova molta traccia della straordinaria forza letteraria che la critica ha giustamente riconosciuto in quelle due opere dalla cifra estremamente originale, dalla scrittura eccezionalmente brillante, dalla vena sapidissima e arguta, dalla mirabile misura di paradosso e iperbole che ne è il tratto distintivo. Diremmo che di swiftiano Swift ha scritto solo Gulliver’s travels e A modest proposal, e che On sleeping in church può sembrare swiftiano solo a chi sappia che l’ha scritto Swift.
A parte occorrerebbe dire che un capolavoro come Gulliver’s travels e un gioiellino come A modest proposal sono di qualità molto al di sopra della media del corpo swiftiano, che per gran parte è grigio ciarpame nel quale non si trova molta traccia della straordinaria forza letteraria che la critica ha giustamente riconosciuto in quelle due opere dalla cifra estremamente originale, dalla scrittura eccezionalmente brillante, dalla vena sapidissima e arguta, dalla mirabile misura di paradosso e iperbole che ne è il tratto distintivo. Diremmo che di swiftiano Swift ha scritto solo Gulliver’s travels e A modest proposal, e che On sleeping in church può sembrare swiftiano solo a chi sappia che l’ha scritto Swift.
In definitiva,
sembrerebbe che anche con Swift, come già con Lévi-Strauss, Gurrado abbia il vizietto di attribuire ad un autore quanto presume di poter leggere in quello che in questo caso definisce «livello
esoterico»,
e che in realtà sarebbe il piano sul quale gli sembra legittimo
conferirgli intenzioni né dichiarate né in altro modo rese
esplicite, fino a distorcerne, come abbiamo visto nel caso di
Lévi-Strauss, addirittura il contenuto: pérete, diremmo, che gli fanno correre il rischio di zompare giù dal balcone.
giovedì 10 marzo 2016
Er Porchetta
Come ai craxiani preferivo Craxi, e i craxiani più fanatici, mossi da un craxismo quasi mistico, agli scaltri opportunisti dalla fredda e calcolata fedeltà a scadenza, sotto la quale costruivano una reputazione di craxiani per necessità storica, così preferisco Renzi ai renziani, e i renziani più ottusi, quelli che gli hanno venduto tutto il sangue e i due etti di cervello che si ritrovavano, a un tizio come Giachetti. Niente di personale, è una scelta - scusate la parola grossa - esistenziale: al furbetto bravo a cucirsi addosso la pelle del simpatico a tutti, che salta da una fedeltà all’altra lasciandosi dietro una tiepida scia di sorrisi, preferisco l’uomo di merda fiero di esserlo, il fetente buono per una sola stagione, capace di bruciarsi per poi rinascere dalle sue ceneri. Preferisco l’arrosto andato in fumo al paziente uomo di mondo che sa procurarsi quella deliziosa crosticina da porchetta rosolata a puntino, con le spezie giuste aggiunte al momento giusto.
mercoledì 9 marzo 2016
[...]
Solo
chi è in malafede può negare la gravità di quanto è stato
ampiamente e incontestabilmente documentato da Fanpage, ma per
affermare che il risultato delle Primarie tenutesi a Napoli debba
comunque ritenersi fuori discussione non basta la malafede: occorre
una robusta faccia tosta per negare l’evidenza
e un
fiero disprezzo per le più elementari regole democratiche, doti che
non difettano agli sgherri di Matteo Renzi, nelle cui dichiarazioni a
commento del ricorso presentato da Antonio Bassolino riverbera
l’arroganza
di chi si sente padrone del Pd e non tollera che si sollevino
obiezioni sull’esito
di un voto che era proprio quello desiderato: a Valeria Valente
saranno andati i voti di cosentiniani, di cuffariani, di poveracci
che non ne conoscevano neppure il nome prima che li si portasse ai
seggi mettendogli un euro in mano, ma quel che importa è che abbia vinto, non importa come, perché era la candidata gradita a Matteo Renzi.
Lo scarto di voti che le ha dato la vittoria su Antonio Bassolino è
così esiguo da porre seri dubbi sulla validità del risultato? Non
importa, dice Matteo Orfini.
Fa
niente, gli fa eco Lorenzo Guerini. E in due non fanno un grammo di
pudore.
martedì 8 marzo 2016
Non c’è teoria, non c’è modello
La
psicologia sociale piscia come un colabrodo, però, detto così, il
concetto suona male. Diciamo, allora, che per la natura stessa del
sociale, prodotto
di fattori molto spesso assai difficilmente quantificabili e quasi
sempre solo assai approssimativamente qualificabili, sembrerebbe
ampiamente
giustificato lo scetticismo sull’efficacia
del metodo scientifico applicato allo studio dei suoi svariati
ambiti, e in primo luogo di quelli in cui il sociale si offre come
oggetto di ricerca psicologica, dove i risultati, quand’anche
consentano la costruzione di modelli spesso assai suggestivi, di
regola non rispondono ai requisiti di oggettività, affidabilità,
verificabilità, condivisibilità e predittività, sui quali
comunemente si misura il metodo scientifico, tutt’al
più rispondendo a quello di inficiabilità (termine che ritengo sia
da preferire a quello di falsicabilità, la popperiana
Fälschungsmöglichkeit,
che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti), se non fosse che
è questione ancora aperta se sia scienza solo ciò che
permanentemente inficiabile (Karl Popper, Logik
der Forschung,
1934) o ciò che di un modello riesce a fare un solido paradigma
(Thomas Kuhn, The structure of scientific revolutions,
1962).
Così, forse, suona meglio, resta di fatto che, nonostante
Gustave
Le Bon (Psychologie
des foules,
1895), Gabriel
Tarde (L’opinion
et la foule,
1901), Floyd
Allport (Social
psychology,
1924), Theodore Newcomb (Personality
and social change,
1943), Solomon Asch (Social
psychology,
1952) e Stanley Milgram (Obedience
to authority,
1974), sul conformismo la psicologia sociale piscia come un
colabrodo: ne sappiamo tutto, tranne come si realizza. Sappiamo cosa
ne causa la propensione, cosa ne regge la tensione, cosa ne induce la
precipitazione, cosa ne favorisce la diffusione, cosa ne rende
possibile la cristallizzazione, tanto per riprendere lo schema
proposto da Neil Smelser (Theory
of collective behavior,
1963), ma non abbiamo alcun modello scientificamente valido per
rappresentarcene il divenire, solo profili che potremmo dire
letterari (in fondo pure il caso clinico e la storiografia sono
generi letterari), che per lo più ricalcano il ritratto
dell’individuo
o la
descrizione
della
massa affetti da pulsione gregaria (Sigmund Freud, Psicologia
delle masse e analisi dell’Io,
1921). È così che del conformismo sappiamo cause ed effetti, forme
e modi, ma poco più di niente sappiamo sul come si realizza. Per
meglio dire, ci manca una teoria del suo sviluppo: a fronte di
innumerevoli esperienze individuali e collettive che per
emblematicità ci illudono di poterne ricavare una, ci manca.
Così,
guardando Barbara D’Urso
che intervista Matteo Renzi, si ha l’impressione
di poterne costruire un idealtipo – «il
conformismo
– ci si azzarda a dire – si
realizza come resa per sfinimento della capacità critica»
– ma subito si è costretti a una rettifica – «il
conformismo
– ci si corregge – si
realizza come voluttà di resa»
– ma pure così non si va più in là dell’empirico:
ad ogni applauso il mostro cresce, ma su ciò che accade sotto le
file di scaglie che scivolano l’una
sull’altra
distendendosi a ventaglio – su ciò che ingrossa questa ributtante
bestia che ciclicamente esce dalla preistoria per esigere il tributo
che ciclicamente la storia gli elargisce – non c’è
teoria, non c’è
modello.
lunedì 7 marzo 2016
[...]
Da
oltre un secolo sappiamo che solo in un ambito relativamente
ristretto possiamo permetterci di continuare a fare un uso della
rappresentazione del tempo come quella classica, valida in assoluto,
in ogni punto dell’universo e lungo tutto il suo divenire: basta
provare a uscire da quest’ambito, conservando del tempo l’idea
che continua a funzionare alla perfezione quando vi si è dentro, per
constatare quanto sia inappropriato ritenere, ad esempio, che la sua
continuità sia omogenea: il tempo smette di essere un’entità
autonoma, si dilata o si contrae in relazione agli stati della
materia, per la quale, fuori dall’ambito relativamente ristretto
dal quale tuttavia non ci è indispensabile esorbitare, vale quanto
abbiamo detto per il tempo: la materia non è quello che ci appare:
come provano a spiegarci i divulgatori scientifici nel loro eroico
tentativo di aprirci al contro-intuitivo, «è fatta di onde».
Perché
possiamo permetterci di non aggiornare i concetti di tempo e di
materia? Perché la nostra vita può tranquillamente eludere la
realtà sub-atomica e quella extra-galattica, restando nell’ambito
relativamente ristretto in cui le leggi della fisica classica
continuano a funzionare come sempre. In generale: per evitare la
fatica di aggiornare un concetto, dobbiamo accontentarci di limitarne
l’uso ad un ambito che però la
conoscenza tende a restringere sempre di più. Volendo, potremmo
tranquillamente riadottare il sistema tolemaico, ma a patto di non
tentare viaggi interplanetari, necessariamente destinati al
fallimento rinunciando a programmarne le rotte sulla base di quanto è
implicito nel sistema copernicano. In definitiva, possiamo concludere
in questo modo: solo l’ignoranza
può rendere inscalfibile un concetto.
venerdì 4 marzo 2016
1989
«...
ci sono topi tutti intorno,
topi in Via Frattina,
traversavano la strada tranquillamente
alle undici di mattina...»
topi in Via Frattina,
traversavano la strada tranquillamente
alle undici di mattina...»
Francesco De Gregori, 300 milioni di topi (1989)
La natura non esiste
«All’inizio
di ogni discussione –
ho scritto qualche settimana fa – andrebbe
preliminarmente trovato, fra quanti vi partecipano, un solido accordo
sul significato dei termini cui prevedibilmente si ricorrerà più di
frequente, cominciando dal trovare una definizione pienamente
condivisa dell’oggetto sul quale ci si appresta a discutere».
È per questo che, nel rispondere alle obiezioni che mi sono state
rivolte per l’essermi
dichiarato favorevole alla gravidanza
surrogata, ritengo indispensabile chiarire il
significato che annetto a termini come «natura»
e «diritto»,
rammentando che il «surrogare»
implica fin dall’etimo
la possibilità di un’opzione
alternativa a quella considerata «naturale».
Due,
infatti, sono i capi d’imputazione
che pendono su quanto ho scritto: non avrei preso in adeguata
considerazione il fatto che la pratica è contro «natura»,
né che
vi si ricorra per dare ristoro alla rivendicazione di un falso
«diritto».
In tal senso, non mi aspetto di poter trovare alcun accordo con
quanti siano affezionati alla vetusta
idea
della natura come realtà autonoma dalla visione che su di essa è
costruita da un’autorità
culturalmente egemone. Chi ha qualche consuetudine con queste pagine
saprà che spesso ho stretto questo assunto nell’affermazione
che «nulla
è più culturale del concetto di natura»,
denunciando il vizio che le assegna dimensione creaturale. Qui, col
preciso scopo di dichiarare impossibile ogni discussione con chi
intenda mantenere il punto sulla natura come ipostasi di un assoluto,
sarei tentato di tagliar corto dicendo che «la
natura non esiste».
Mi limiterò a dire, invece, che la natura intesa come ratio che
informa la dimensione del reale, come codice di leggi anteriori e
superiori all’uomo,
oppure – e peggio ancora – come regno in cui l’uomo
è chiamato a farsi vicario di chi l’ha
fondato,
è invenzione assai simile a quella dell’etere
luminifero, che tornò utile anche a sommi intelletti per dare
spiegazione della propagazione delle onde elettromagnetiche prima che
la teoria della relatività ristretta venisse a sovvertire la visione
che si era sempre avuta del tempo e dello spazio.
Se «la
natura non esiste»,
dunque, non esistono neppure «diritti
naturali»?
Non esistono, infatti. Non esistono, per lo meno, prima che siano
dichiarati tali da un’autorità
culturalmente egemone. Ogni epoca costruisce una
sua idea
di natura e un suo diritto naturale, ogni epoca si illude di aver
trovato la formula in cui si possa ragionevolmente racchiudere quanto
sarebbe eternamente «naturale»,
tenendo fuori quanto non lo è e non potrà mai esserlo. E questo è
possibile solo grazie all’ignoranza
e alla superstizione che ogni autorità culturalmente egemone può
consentirsi di elevare a sistema di valori. Nessuna discussione è
possibile sulla gravidanza surrogata assumendo a legge eterna il
sistema di valori attualmente vigente. Quindi mi scuso se lascio
cadere le obiezioni che mi sono state rivolte senza affrontarle nel
merito: le considero viziate in radice, cioè nella presunzione di
farsi interpreti di una liceità morale che troverebbe fondamento in
una «natura»
immobile,
dispensatrice di «diritti»
preesistenti
all’uomo
come prodotto della sua storia, e che la storia dovrebbe limitarsi a scoprire piuttosto che a creare.
giovedì 3 marzo 2016
martedì 1 marzo 2016
Riguardo alla gravidanza surrogata
Uno
dei post più letti su queste pagine è Nichi
Vendola non mi piace (Malvino,
25.10.2010), che ad oggi registra 67.721 accessi e ben 61 commenti
(moltissimi tenuto conto che di solito cestino quelli impertinenti e
offensivi). In quel post non ero affatto tenero con l’allora
governatore della Regione Puglia, né lo fui in Nichi
Vendola non mi piace e non mi convince
(Malvino,
21.12.2010), che seguì di lì a qualche mese. Per il primo dei
due post lo spunto mi era dato da una sua frase riportata dal
Corriere
della Sera
del 24.10.2010: «Io
voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio
parlare anche con la Chiesa»;
per il secondo, invece, da un’altra frase che era riportata da il
manifesto
del 16.7.2010, ripresa, seppur non testualmente, da un editoriale
di Ernesto Galli della Loggia (L’orecchino
populista – Corriere della Sera,
21.10.2010): «Il
capitalismo ormai non è solo incompatibile con la democrazia: è
incompatibile con la vita».
Oggi,
nel trattare della sua vicenda personale, mi sarebbe gioco facile
tagliar corto con due grammi di sarcasmo. La vita del figlio che ha
tanto desiderato non è stata resa possibile proprio grazie a quegli
strumenti tecnici di cui il capitalismo si è appropriato per
produrre plusvalore? In quanto al dialogo sulle questioni eticamente
sensibili, provi adesso a discutere di gravidanza surrogata con la
Chiesa: vediamo cosa ne ricava di costruttivo.
Com’è
evidente si tratterebbe di argumenta
ad hominem tu quoque,
dunque del tutto inservibili a qualificare un’opinione
sulla questione della gravidanza surrogata, che è quanto cui sono
sollecitato da alcuni lettori, e che sarebbero tutt’al
più spendibili in chiave polemica, ancorché fallaci, contro il
ricorso alla pratica. Io invece – e qui mi dichiaro – sono a
favore, e credo che, tolto quanto strumentalmente le si oppone, le
ragioni che portano a respingerla come pratica moralmente
inaccettabile siano segnate esclusivamente dal pregiudizio, figlio dell’ignoranza.
Si
è soliti dire, ad esempio, che il bambino sarebbe strappato alla
madre. Falso: la madre biologica del bambino è la donatrice
dell’ovulo,
di regola diversa da quella che consente all’impiego
del suo utero per la gestazione. L’utero,
in questo caso, assume lo stesso ruolo che fino a qualche decennio fa
hanno avuto le mammelle messe a disposizione dalla balia, figura che
non era affatto concepita come quella di un soggetto sfruttato. Era
pagata per il servizio che offriva, spesso indispensabile alla sopravvivenza di un neonato, ma nessuno si sarebbe mai sognato
di considerarla una schiava. Il bambino che per mesi accoglieva in
seno per dargli nutrimento non era suo e doversene separare quando
iniziava lo svezzamento non era concepito come distacco tra madre e
figlio. In più, nessuno si sarebbe mai sognato di parlare di
«mammelle in affitto»: offriva un servizio sociale in cambio di una ricompensa, niente di più,
niente di meno.
In
quanto alla donazione dell’ovulo,
non si capisce perché debba sollevare questioni eticamente più
sensibili di quelle sollevate dalla donazione di uno spermatozoo,
dunque davvero è incomprensibile com’è
che fra quanti si dichiarano contrari alla gravidanza surrogata –
anche drasticamente contrari ad essa – vi sia chi non solleva alcuna
obiezione avverso alla fecondazione eterologa.
Risibile,
per finire, la questione relativa alla mercificazione del corpo
femminile che sarebbe indotta dalla pratica della gravidanza
surrogata, tanto più perché solitamente sollevata da chi non ha
alcuna difficoltà a considerare legittimo disporre del proprio corpo
al fine di procurarsi un utile, in tutto l’ampio
spettro dell’offerta
delle sue parti e delle rispettive funzioni.
La mia impressione è che il giudizio negativo ampiamente riscosso dalla gravidanza surrogata dipenda per lo più dalla novità che introduce in una condizione – quella gravidica – che per sua natura è inscritta in una sfera simbolica nel quale il peso della retorica svolge ancora un ruolo preponderante. Probabilmente ci vorrà ancora molto tempo perché sia accettata come pratica legittima sul piano morale, la sua sorte seguirà di pari passo la rimozione dei pregiudizi che ancora avvolgono il momento del concepimento e della riproduzione. Intanto, auguri a Nichi Vendola e a Eddy Testa. Ne hanno bisogno perché una cosa è desiderare un figlio e un’altra è saperlo allevare: compito che esige forze sovrumane, non importa se la coppia sia omo- o eterogenitoriale.
La mia impressione è che il giudizio negativo ampiamente riscosso dalla gravidanza surrogata dipenda per lo più dalla novità che introduce in una condizione – quella gravidica – che per sua natura è inscritta in una sfera simbolica nel quale il peso della retorica svolge ancora un ruolo preponderante. Probabilmente ci vorrà ancora molto tempo perché sia accettata come pratica legittima sul piano morale, la sua sorte seguirà di pari passo la rimozione dei pregiudizi che ancora avvolgono il momento del concepimento e della riproduzione. Intanto, auguri a Nichi Vendola e a Eddy Testa. Ne hanno bisogno perché una cosa è desiderare un figlio e un’altra è saperlo allevare: compito che esige forze sovrumane, non importa se la coppia sia omo- o eterogenitoriale.
«Un patto tra scienza e fede»
L’articolo
a firma di Giuseppe Remuzzi col
quale s’apre
l’ultimo
numero de la Lettura
ci offre un elenco delle più comuni balordaggini in favore di Un
patto tra scienza e fede,
dandoci modo di passarle in rassegna, a patto di non irritarci troppo
per il fatto che anche in tale occasione avanzino pretesa di
argomento.
«Fede
e libertà a rigor di logica dovrebbero andare insieme».
Scempiaggine che solo sull’ambiguità di un termine come «libertà»
può azzardarsi a invocare il «rigor di logica» per
millantare buonsenso. Si è liberi di aver fede, questo sì. Una
volta avuta questa libertà, tuttavia, è nella natura di ogni fede
l’insopprimibile esigenza di comprimere, in nome della propria,
l’altrui libertà. Abbiamo frainteso cosa intendeva dire Remuzzi?
Vediamo se dal modo in cui prosegue possiamo ricrederci. Scrive:
«Oggi, come per molti versi in passato, il rapporto tra fede e
libertà sembra venir meno. C’è chi viene ucciso a causa della sua
fede e tanti che in nome di Dio giustificano barbarie e atti
terroristici; come se dopo millenni di civilizzazione fossero ancora
gli istinti più primordiali a prevalere sulla ragione». Non è
sempre stato così? Quando la fede si è presa tutta la libertà che
voleva, non ha regolarmente cercato di imporre quanto più poteva
l’obbedienza ai suoi dettami? Quando trovava resistenza in un’altra
fede, la regola non è stata quella di combatterla, quasi sempre
senza disdegnare l’uso della violenza? La civilizzazione che ha
messo un freno a questo andazzo non è riuscita a farlo solo
fiaccando le pretese della fede fino a ridurne la rilevanza in ambito
sociale con la secolarizzazione? E la violenza della fede non è
tornata regolarmente a farsi viva proprio quando questo processo
subiva una battuta d’arresto?
«Come
uscirne?», chiede Remuzzi. Probabilmente sottraendo rilevanza
sociale alla fede, consentendole di aver spazio solo nella vita
privata degli individui. Per far questo, ovviamente, occorre che ogni
tentativo di dare alla fede una dimensione comunitaria sia
opportunamente sterilizzato con un progressivo indebolimento delle
prerogative tradizionalmente concesse alle organizzazioni
confessionali come soggetti di intermediazione tra fedeli e società.
Né semplice da farsi, né consigliabile che lo si faccia in modo
troppo rapido. L’occidente ha imboccato la via giusta con la
rinuncia al «cuius regio eius religio» e il ripudio
dell’istituto della «religione di Stato»,
che hanno accelerato il processo che ha condotto, almeno sul piano
dei principi, all’equivalenza
di ogni credo dinanzi alla legge. Negando alla fede il diritto di
interpretare il vero come promanazione di una rivelazione non
soggetta all’onere
della dimostrazione, si è inceppato il meccanismo che produceva
giurisprudenza in ossequio alla visione creaturale che la fede
assegnava all’uomo,
e questo era inevitabile accadesse con quanto la filosofia del
diritto andava necessariamente recependo dal progredire della ricerca
scientifica. In altri termini, è accaduto che la scienza ha
fatto implodere la costruzione dell’umano da sempre funzionale alla
riaffermazione della fede come irrinunciabile sostegno alla
conoscenza e all’azione.
Per
Remuzzi, invece? Cosa può assicurare all’umanità quel futuro che,
a suo dire, sarebbe degno di essere vissuto solo conciliando fede e
libertà? Con cosa si può salvare il cavolo di cui la capra ha
sempre dimostrato di essere particolarmente vorace? «Con la
scienza forse». Con la scienza? Sì – concede Remuzzi – «i
rapporti fra scienza e fede sono stati sempre difficili e oggi per
certi versi lo sono anche di più», ma perché disperare che la
scienza non possa andare a braccetto coi dogmi di cui ogni fede non
può fare a meno? Si potrebbe riprendere il tentativo di «conciliare
scienza e fede» portato avanti dall’Aquinate: «Se
filosofia naturale, che è poi scienza, e teologia sono in
disaccordo, scriveva, ci sono tre spiegazioni possibili: forse la
scienza non ha ancora tutte le evidenze che si potrebbero avere,
oppure la religione non ha saputo interpretare in modo abbastanza
accurato i testi sacri, ma potrebbe essere che né scienza né
religione abbiano saputo arrivare abbastanza vicino alla verità. Non
fa una piega e a pensarci bene è strano che partendo da presupposti
così solidi (che venivano poi dalla filosofia greca, quella di
Aristotele soprattutto, fatta di logica, matematica e fisica) scienza
e fede non abbiano trovato il modo di superare la “doppia verità”
e arrivare a una visione comune del mondo e del destino dell’uomo».
Chissà, può darsi che tutto si sia arenato dinanzi allo scoglio di
dimostrare scientificamente la resurrezione di Cristo, il suo essere
presente in carne e sangue in una cialda di frumento e, prim’ancora,
nella possibilità che fosse concepito senza che la madre avesse un
rapporto sessuale. Sarà che «forse la scienza non ha ancora
tutte le evidenze che si potrebbero avere» al
riguardo, certo. Probabilmente sarebbe opportuno che la scienza
sospendesse il giudizio, tanto più perché sarebbe scostumato
pretendere dalla fede di non aver «saputo interpretare in
modo abbastanza accurato i testi sacri».
«Potrebbe essere che né scienza né religione abbiano
saputo arrivare abbastanza vicino alla verità»?
Chissà, può darsi che un domani si scopra che per partenogenesi una
donna possa mettere alla luce anche un maschio o che la resurrezione
della carne sia di fatto possibile grazie a qualche magica polverina.
A una scienza ancella della fede non dovrebbe costare troppa fatica,
via.
Tutto
qui? Magari, d’altronde abbiamo detto che in questo articolo
Remuzzi è particolarmente prodigo di corbellerie. E allora
proseguiamo, perché, se fin qui ha bacchettato la scienza, ora viene
la tiratina d’orecchio alla fede. Tutto poteva filar liscio con la
scienza ancella della fede, poi la fede ha commesso uno sgarbo
imperdonabile «con la condanna di Galileo».
(Anche Remuzzi preferisce citarlo col nome di battesimo invece che
col cognome, che è Galilei. Chissà perché, poi, scrive della
condanna che la Chiesa comminò alle opere di Darwin rinunciando a
citarlo semplicemente come Charles. Minuzie, passiamo al sodo.) «Le
teorie e gli scritti di Galileo – scrive Remuzzi – non
contraddicono del tutto l’idea di una teologia naturale (e non era
nemmeno nelle sue intenzioni farlo), i fenomeni fisici si sarebbero
comunque potuti spiegare come “cammino della creazione, secondo il
disegno della infinita bontà, sapienza e potenza di Dio”. Insomma,
si apriva un nuovo spiraglio, scienza e fede avrebbero potuto trovare
un punto d’incontro più challenging come dicono gli
anglosassoni, ma non meno stimolante». Di fatto la Chiesa non
gradì lo stimolo. Possiamo rimproverarglielo? Sì, ma solo fino a un
certo punto, perché la scienza, si sa, è serva che non sa essere
arrendevole come sembra che auspichi Remuzzi, e cosa mi combina? Mi
scodella un Darwin che «con la sua teoria dell’evoluzione
rovina tutto». Un guaio, e sì che s’era detto che la Chiesa
avrebbe potuto ammettere di non aver «saputo interpretare in modo
abbastanza accurato i testi sacri».
Niente, tutto va a puttane: «Un creatore adesso non serve
più, da Darwin in poi si dovrà riconoscere che siamo frutto di un
processo evolutivo governato sostanzialmente dal caso» e, quel
che è peggio, «le evidenze a favore dell’evoluzione con il
passare del tempo diventarono schiaccianti, specie da quando siamo
stati capaci di decifrare il codice della vita». Un vero
peccato, via, anche perché «in fondo basterebbe trovare
un’interpretazione teologica della teoria dell’evoluzione; se
fosse convincente e si basasse su argomenti logici e inoppugnabili
potrebbe mettere d’accordo tutti». Già, chissà perché non
la si trova.
Un
guaio, un vero guaio: «Sarebbe un peccato se le discussioni mai
sopite attorno a Galileo e a Darwin facessero perdere di vista tutto
quello che in tutti questi anni la scienza ha avuto dalla Chiesa».
E qui, prima di proseguire, occorre stropicciarci gli occhi per
verificare se abbiamo letto bene. Sì, abbiamo letto bene, la scienza
deve molto alla Chiesa: «Il supporto economico tanto per
cominciare, che è servito alla scienza per crescere e affermarsi.
Chi pagava nel Medioevo, un periodo fertile di scoperte scientifiche,
perché preti e monaci potessero accedere a una formazione
universitaria?». C’è da ritenere che qui Remuzzi, per
alleggerire il pezzo, abbia voluto inserire una spiritosaggine.
Onestamente, tuttavia, si tratta di roba che non fa ridere affatto.
La Chiesa ha detenuto strettamente il monopolio dello studio e
dell’educazione come strumento di egemonia culturale per secoli e
secoli, al punto che chiunque volesse accostarsi al sapere era
obbligato a incardinarsi nel corpo clericale: davvero vogliamo
infinocchiare i gonzi spacciando loro l’immagine di una Chiesa che
favorisce gli studi scientifici da un lato, come le arti dall’altro,
per mero spirito liberale? Remuzzi sa che meno di un secolo e mezzo
fa un papa scriveva a un re implorandolo di non favorire l’istruzione
di massa, avvertita come una grave minaccia alla fede? No, c’è da
supporre non lo sappia. «La genetica moderna, guarda caso,
nasce nel giardino di un convento», scrive. E dove poteva
nascere, visto che a consentire al clero di essere sollevato dalle
incombenze del restante genere umano erano i poveracci costretti a
sudare notte e giorno per poter pagare la decima? «Chi se non i
gesuiti diffuse la scienza in tutta Europa?». Certo, furono
loro: giacché «todo modo es bueno para hallar y buscar la
voluntad divina», c’era chi doveva presidiare un campo nel
quale cominciavano a metter mano pure i laici.
La
tentazione di abbandonare la Lettura diventa a questo punto
irresistibile, ma un poco di curiosità ancora ci trattiene. Di
cos’altro potrà essere capace ancora, Remuzzi? Qui occorre aver
pazienza e lasciargli scorrere di molto la penna: «Gli scienziati
sono convinti che gli embrioni, quelli che se no si butterebbero via,
possano, anzi debbano essere utilizzati per la ricerca con
l’obiettivo che questo un giorno possa servire a curare tante
malattie dell’uomo. Gli uomini di Chiesa sono decisamente contro;
il loro argomento e che un embrione, per quanto fatto di poche
cellule, sia già una creatura di Dio e l’uomo non ha nessun
diritto di sopprimere una vita. Ma quando comincia davvero la vita?
Su questo non c’è accordo nemmeno fra chi crede. Buddhisti,
induisti e cattolici ritengono che la vita abbia inizio al momento
del concepimento. Per i protestanti la questione è piu complessa e
non c’è un’interpretazione univoca (forse al momento del
concepimento o dell’impianto del prodotto del concepimento
nell’utero e anche dopo). Per gli ebrei l’inizio della vita e un
processo continuo, inizia 40 giorni dopo il concepimento e si
completa nelle settimane successive. Per l’islam lo spirito entra
nel feto dal quarto mese di gravidanza: e in quel momento che
comincia la vita. “Dispute teologiche”? Mica tanto, queste teorie
hanno una ricaduta sulla pianificazione delle nascite, un tema
cruciale per il futuro del nostro pianeta, e sulla pratica della
medicina. Al di la di utilizzare o meno le cellule embrionali c’è
la questione della contraccezione. I buddhisti si oppongono a metodi
contraccettivi che ostacolino l’impianto del prodotto del
concepimento. I cattolici sono per i metodi naturali che prevedono
l’astensione dai rapporti nei periodi fertili. I protestanti
accettano farmaci contraccettivi e preservativi ma non la spirale e
la contraccezione d’emergenza. La religione ebraica accetta sia
contraccettivi orali che spirale ma proibisce il preservativo. I
musulmani sono divisi su questo come su molti altri punti. Come si
vede e tutto relativo e questi sono solo due esempi». Appunto,
ma questo non lascia intuire che l’invocato patto tra scienza e fede
sia destinato ad essere impossibile?
Macché,
a fronte di ogni evidenza, che peraltro non fa fatica ad ammettere,
Remuzzi non demorde: «L’intervento medico che ha contribuito
più di ogni altro a proteggere la vita dell’uomo sono i vaccini.
Ma cristiani ed ebrei hanno eretto barriere contro le vaccinazioni:
“Chiunque procede alla vaccinazione cessa di essere figlio di Dio:
il vaiolo e un castigo voluto da Dio, la vaccinazione e una sfida
contro il Cielo”, diceva papa Leone XII alla fine del Settecento.
La forza dell’evidenza scientifica poi ha prevalso e oggi non c’è
più nessuno che metta in dubbio il valore delle vaccinazioni,
nemmeno tra gli uomini di fede». Bene, ma è evidente, allora,
che la questione si è appianata non in virtù di un patto, ma di uno
scontro, e di uno scontro dal quale la Chiesa è uscita sconfitta. Su
quali basi si sarebbe potuto stringere un patto tra chi era a favore
dei vaccini e chi era contro? Così col trapianto e la donazione
d’organi. Remuzzi riconosce che «sul trapianto, un altro dei
miracoli della medicina, c’erano grandi perplessità all’inizio
fra gli uomini di Chiesa e quello che ha suscitato maggiore emotività
è stato il trapianto di cuore. “Noi riteniamo opportuno richiamare
l’attenzione dei cattolici più riflessivi di non applaudire
all’esperimento del chirurgo sudafricano perché ardito e nuovo,
prima di aver valutato anche i fondamentali problemi umani e morali
che esso implica”, scriveva Vittorio Marcozzi su Civilta Cattolica
qualche settimana dopo il primo trapianto di cuore. E la Chiesa
rimane fortemente critica nei confronti della donazione degli organi
anche molto recentemente. “Quelli che la malattia o un incidente
faranno cadere in coma ‘irreversibile’,
saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianto
d’organo”. Sono parole del cardinale Joseph Ratzinger del 1991
riprese da L’Osservatore Romano. Poi le cose cambiano. Giovanni
Paolo II definisce la donazione degli organi per il trapianto come
“un autentico atto d’amore”; intanto però di trapianti ne
erano già stati fatti più di un milione». Appunto, era
impossibile continuare a osteggiarli, dunque era indispensabile
cedere sul punto. Non si fosse proseguito nella pratica dei
trapianti, il che di fatto escludeva ogni patto tra scienza e fede,
quale risultato si sarebbe ottenuto? Ma come tira le somme, Remuzzi?
Scrivendo che, «per questo e per tanto d’altro, noi medici non
possiamo disinteressarci della fede». E certo che non possono
disinteressarsene, ma per combatterne l’azione che immancabilmente
si traduce in un freno ad ogni innovazione. Freno che quasi sempre è
posto dall’osservanza a principi che hanno come fine primario
quello di trattenere l’uomo in quella dimensione creaturale nella
quale gli indispensabile la guida di un’autorità religiosa che di
quella dimensione si dichiara interprete e custode, a fronte delle
minacce che osano metterla in discussione. Prima fra tutte? La
scienza, appunto.
Niente,
Remuzzi si dice convinto sia «venuto il momento che scienziati,
leader delle organizzazioni religiose e chi governa la sanità escano
dai rispettivi ambiti e lavorino insieme per migliorare l’accesso
alle cure di milioni di persone e poi per ridurre la povertà, che
porta a malattie e morte». Al «rigor di logica»
invocato nell’incipit, questo potrebbe aver luogo solo se scienza e
politica accettassero i veti posti dalla fede alle pratiche che essa
dichiara moralmente inammissibili. Su quali basi è possibile,
allora, un patto che inevitabilmente impone limiti a ricerche e
interventi che, solo dopo essere stati condotti contro la volontà
degli uomini di fede, riescono a strappare il loro consenso, non di
rado a fatica e con perduranti resistenze e riserve? Remuzzi non lo
dice, ma insiste nel tentativo di far quadrare il cerchio: «Al di
la delle discussioni di fine vita, sulle quali possiamo anche non
essere d’accordo, sono ancora oggi donne e uomini di Chiesa che
forniscono cure intensive e assistenza spirituale a chi sta per
morire». Certo, ma proprio nel tentativo di continuare a
negargli il diritto di autodeterminazione che dovrebbe legittimamente
potersi sostanziare nella scelta eutanasica. Come per il resto, il
soccorso portato all’uomo sofferente soddisfa i suoi bisogni solo
se riconosciuti tali alla luce di ciò che detta la fede, e questo a
voler trascurare quanto frutta il no-profit in termini di sovvenzioni
pubbliche e di rientro sul piano proselitario. E allora da dove trae
le sue speranze, Remuzzi? «Con l’Enciclica Laudato si’
pubblicata da papa Francesco l’anno scorso – scrive – il
clima è cambiato e molti cominciano a pensare che ci siano le
condizioni per un dialogo più favorevole fra scienza (medicina
specialmente) e fede. Papa Francesco scrive: “La Chiesa non
pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi
alla politica, ma invita a un dibattito onesto e trasparente, perché
le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune”,
indicando che una discussione aperta su questioni scientifiche è ora
possibile». Certo, ma ancora una volta si cerca di insinuare che
il «bene comune» non sia il bene di ciascuno, così come
liberamente e responsabilmente affermabile da ciascuno, ma il bene
unico, quello valido per tutti, contro il quale il bene di ciascuno
può costituire offesa.
Cerchi il dialogo, se vuole, il buon Remuzzi,
può darsi gliene venga pure qualche utile – la Chiesa sa essere
generosa con chi si presta ai suoi giochi – ma, col pretendere con
ciò di aver sottoscritto a nome della scienza (tutta intera?) una
tregua con la Chiesa, ci consenta una grassa risata. Sarà pure un buon nefrologo, come si dice, ma della Chiesa non ha capito un cazzo.
lunedì 29 febbraio 2016
Conformismi
Quando
si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e
depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti
ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal
cielo a premiare un eccezionale incrocio
di virtù. È il momento in cui il nomignolo del delinquente
diventa nome del casato, mentre i suoi misfatti vengono trasfigurati
nei simboli del blasone, dove ben presto diventeranno leggenda di
imprese eroiche. I modi diventano sempre più fini, il sangue diventa
blu, il bottino dei saccheggi diventa possedimento, e dove prima i
nemici pendevano ai ganci di macelleria si fa spazio alla pinacoteca,
ben presto ricca di dipinti di rara bellezza, immancabili le ninfe al
bagno, le scene tratte dalle sacre scritture, i ritratti del padrone
di casa cui il pennello abbia saputo dare la patina d’uomo
giusto, perfino pio. Guai al ladruncolo che allora penetri a palazzo
per rubare un candelabro: ha sovvertito l’ordine
del creato, ha violato la proprietà privata...
Ernesto
Galli della Loggia lamenta l’arcigna arroganza di un certo
conformismo «per il quale il passato è sempre sinonimo di
sorpassato» e che «predica sempre un vibrante rifiuto morale
per tutto quanto sappia di disciplina e di autorità, mentre è
pronto all’approvazione incondizionata per ciò che appare
“autentico” e soprattutto “libero”: meglio se all’insegna
dell’“amore”» (Corriere della Sera, 29.2.2016).
S’avvede che sta lamentando il
furto di un candelabro in casa di un malfattore di antica schiatta?
Un conformismo lascia spazio a un altro, è così da sempre, ma siamo
certi che quello vecchio, messo in discussione da quello nuovo, abbia
le carte in regola per lamentare il modo in cui gli è fatta violenza
e, prim’ancora, il fatto stesso
che gliene venga fatta?
Varrebbe
la pena di affrontare una volta per tutte questa faccenda del nuovo
conformismo lamentato dai difensori del vecchio conformismo, ma oggi
mi sento fiacco. Se ne riparla.
Iscriviti a:
Post (Atom)