martedì 9 maggio 2017

Troppo francese

Dopo aver donato al mondo mille e mille novità in campo artistico, un secolo fa venne il momento del fascismo, che nel Dizionario di politica edito a cura del Partito Nazionale Fascista nel 1940 (quattro volumi, 2.875 pagine, 1.079 voci) viene costantemente definito – giustappunto – «arte» («di governo»). Fu così che, ancora una volta, lItalia si confermò fucina di cose mai viste, laboratorio di invenzioni originalissime, che immancabilmente ci vengono invidiate, prima, e copiate, poi.
Così era accaduto con Brunelleschi, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, e così accadde con Mussolini: la creazione ebbe immediato successo e, con gli aggiustamenti necessari per adattarla al gusto del pubblico cui era offerta, fu replicata in ogni dove. Spesso acquistava tratti che solo in apparenza la rendevano diversa, e anche molto diversa, dalloriginale, ma ad unattenta analisi era evidente, e sempre, linconfondibile cifra dellitalianità, quel nostro essere capaci di trasformar lo stucco in marmo, e il marmo in carne viva, di dare alla piatta superficie della tela la pressoché tangibile profondità di una prospettiva, di conferire alla posa immobile del gesto la sensibile essenza di un movimento. Raramente fummo superati e, quandanche sembrò fosse accaduto, fu chiaro che nel superarci qualcosa del genio era andato perduto, quasi che per andar oltre si fosse rotto lintrinseco equilibrio tra mezzo e fine, con lirrimediabile perdita di una conclusa armonia.
Il nazismo, per esempio. Agli occhi di Hitler, Mussolini era un genio insuperabile, e tuttavia cercò di superarlo. In un certo senso poté sembrare ci riuscisse pure. Ma cosa diventò, il fascismo, in Germania? Perse la calda esuberanza dello zotico teppista di Strapaese per acquistare lalgida brutalità dello sventrapapere seriale della Bassa Baviera: stessa differenza tra un Guarneri del Gesù e un Yamaha YVN50, via. Diciamolo con orgoglio: il quid italiano è inimitabile.
Perciò andiamoci piano col mettere sullo stesso piano Renzi e Macron: giovane età, ascesa fulminante, indubbio culo, cinico opportunismo, rottura dei paradigmi della vecchia politica – tutto quello che volete – ma il primo è bestia fatta, il secondo non ancora, e chissà se lo sarà mai. Troppo francese.

Una pagina di Avvenire

Un «dibattito» – prendo la definizione che ne dà il De Mauro – dovrebbe essere una «discussione di più persone nella quale le diverse opinioni vengono discusse e vagliate». Avvenire parte male fin dallocchiello, dunque, nel presentare come «dibattito» i tre interventi pubblicati a pag. 3 del numero in edicola martedì 9 maggio, perché questi non esprimono affatto «opinioni diverse»: Lucio Romano (Disposizioni o dichiarazioni: la differenza è di sostanza), Gian Luigi Gigli (Ridurre la portata negativa di una legge nata male) e Carmelo Leotta (Se un pm afferma che una vita vale meno) hanno un dichiarato idem sentire sulle tematiche relative al «fine vita» e a tutti e tre non vanno affatto bene le Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento approvate alla Camera lo scorso 20 aprile.
Più che un «dibattito», insomma, Avvenire manda in pagina un monologo a tre voci, e a tanto, già di per sé irritante, aggiunge il carico, francamente insopportabile, di dar conto delle possibili «opinioni diverse» unicamente attraverso l’infedele esposizione che ne fanno i tre prestigiosi avanzi di sagrestia chiamati a intervenire sul tema. Un modo molto disonesto di procedere, perché neppure il fatto di essere un organo di partito – cosaltro è, la Cei? – solleva Avvenire dall’obbligo di dare una corretta informazione ai suoi lettori. Ma veniamo al merito.

«Le disposizioni anticipate di trattamento – scrive Lucio Romano – si rappresentano come estensione nel tempo di un consenso informato anticipato [ma] solo ad una lettura generica […] possono essere assimilate al consenso informato, [che] è accettazione libera, cosciente, attuale, revocabile e consapevole del paziente a sottoporsi ad un atto medico, con una informazione preliminare, adeguata e specifica, circa benefici, rischi, complicanze correlate o prevedibili».
Bene, tutto questo verrebbe meno col concedere ad un individuo il diritto di decidere per tempo sul proprio «fine vita», perché «le “disposizioni” esprimono volontà vincolanti da seguire quando non più in grado di esprimersi». In più, «non sono assimilabili al consenso informato perché, seppur stabilite in libertà e consapevolezza, non potranno essere mai attuali perché redatte “ora per allora”; dovranno essere prevalentemente generiche non potendo definire lo specifico; non sono informate in quanto formulate prima dell’insorgere della patologia, senza conoscenza di circostanze e modalità; non potranno essere più revocabili in situazione di irrecuperabile incapacità di intendere e di volere».
La natura capziosa di questargomentazione si rivela al solo controbattere che in questione è quello che comunemente è detto «biotestamento», e cioè un testamento relativo alla vita, inteso come bene personale del quale è lecito disporre come meglio di creda. Superfluo rammentare che, al pari di ogni testamento, anche quello relativo al «fine vita» può avere revisioni senza limiti.
Accogliendo le obiezioni di Lucio Romano, non dovrebbe esserci permesso di far testamento su alcun bene di nostra proprietà. Non dovremmo forse ritenere valide le disposizioni di quanti hanno lasciato i loro averi alla Chiesa? Certo, hanno deciso in libertà e consapevolezza, ma il loro testamento fu redatto “ora per allora”, senza poter essere più revocabile in situazione di irrecuperabile incapacità di intendere e di volere. Dovremmo ritenere nulle, perché illegittime, quelle disposizioni? Lo Stato dovrebbe procedere alla confisca di tutti quei beni che nel corso dei secoli tanti privati cittadini hanno lasciato alla Chiesa?
La fin troppo prevedibile controbiezione a questa che in realtà – confesso – è una provocazione (voleva provocare proprio una controbiezione del genere) è la seguente: la vita non è un bene di cui si possa liberamente disporre. Bene, ma allora, prima di contestare la legittimità di quanto viene concesso al cittadino nelle Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, si chieda al Parlamento di approvare una legge che sanzioni il tentato suicidio, anche quando non sia assistito. Per il suicida che riesca nel suo intento, infatti, sarà impossibile procedere (ci penserà Dio a ficcarlo nel girone dei violenti verso se stessi), ma a chi fallisce spetterebbe una pena, e severa. Vedete a cosa costringe, uno come Lucio Romano? A prenderlo sul serio, e con quanto ne consegue. 
E già accaduto, perché lho conosciuto personalmente. Era un assistente nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dove io facevo il praticantato di specializzando, e un giorno mi chiese di procurargli qualche immagine ecografica di embrione alla sesta o settima settimana di gestazione, ne doveva ricavare delle diapositive per i sermoni pro-life che a quei tempi – parlo degli anni a cavallo dei Settanta e degli Ottanta del secolo scorso – teneva per conto di Carlo Casini, lallora presidente del Movimento per la vita. Quando gliene diedi una mezza dozzina, le guardò deluso: «Non si poteva far di meglio? Sembrano solo fagiolini». Gli risposi: «Quello sono, Lucio, tutto il resto spetta allimmaginazione».
Ma divagavo, torniamo alla pagina di Avvenire.

Il secondo intervento, a firma di Gian Luigi Gigli, che di Carlo Casini ha preso il posto, mira a reclutare forze per impedire che la legge approvata alla Camera superi il vaglio del Senato.
«È giunto il momento – scrive – di chiedersi se c’era davvero bisogno di una simile legge». [Invece di «c’era», forse, andava meglio «ci fosse», ma possiamo chiudere un occhio, perché Gigli non è un grillino.] La risposta? «Certamente no, se l’intenzione era di evitare situazioni di ostinazione terapeutica. La medicina ha superato ogni tentazione in tal senso e, se non fosse bastato, le esigenze di controllo della spesa sanitaria e l’intervento degli ordini dei medici avrebbero potuto dissuadere qualunque nostalgia di accanimento».
Un brivido di orrore ci corre lungo tutto il rachide: sono le esigenze di controllo della spesa sanitaria tra i motivi a dissuadere dallaccanimento? Ma poi: chi potrebbe averne nostalgia? Insomma: chi è il nostalgico dellaccanimento terapeutico che si piega dinanzi a basse ragioni di natura economica quando è in gioco la vita, peraltro inteso come bene indisponibile a chi ne è titolare? La sensazione è che sarebbe difficile poter avere una risposta, quindi procediamo.
Inutile, la legge, «se si voleva garantire la possibilità di rifiutare l’avvio di trattamenti non desiderati. La redazione del consenso informato è obbligatoria negli ospedali e un medico non potrebbe imporre trattamenti senza ricorrere all’intervento dei carabinieri ed esponendosi a rischi e rivendicazioni». Certo, ma il concetto di «consenso informato» si è storicamente affermato a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti delluomo (1948), che la Santa Sede si è sempre rifiutata di riconoscere proprio per quanto in esse vi è affermato relativamente alla «libertà della propria persona» (art. 3).
Va inoltre rammentato che il Catechismo della Chiesa Cattolica recita che, «anche se la morte è considerata imminente, le cure che dordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte» (2279). È questo, infatti, il punto di caduta dellargomentazione di Gigli, per il quale «obiettivo reale [della legge sul biotestamento] era evidentemente un altro: permettere l’interruzione di qualunque trattamento», con riferimento alle «cure che [il Catechismo ritiene] d’ordinario dovute», come si esplicita col dire «assurdo» che una legge definisca «terapie» l’idratazione e la nutrizione assistite, «per renderle rifiutabili in qualunque momento».
E qui siamo di nuovo costretti alla provocazione. Sembrerebbe, infatti, che non si voglia tener conto di cosa esattamente si intenda per idratazione e nutrizione assistite. Perché queste possano essere messe in atto, occorre personale medico qualificato, con lespletamento di procedure relativamente complicate, e per mezzo di strumenti che sono propriamente clinici: come ci si può azzardare a non considerarle «terapie»? Parliamo di tubi e siringhe, non di acqua e pane. E perché un malato non avrebbe il diritto di rifiutare un sondino nasogastrico, se poi può rifiutare una qualsiasi infusione che anche lo stesso Gigli sarebbe disposto a concedere costituisca «accanimento terapeutico»?

Col terzo intervento mandato in pagina da Avvenire possiamo cavarcela più brevemente.
Carmelo Leotta se la prende col pm che ha fatto domanda di archiviazione per Marco Cappato, autodenunciatosi per aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, aiutandolo in tal modo ad esaudire la sua volontà di procedere ad un suicidio assistito, e scrive che «l’articolo 580 parla chiaro e stabilisce che “chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni”», mentre invece nelle motivazioni alla richiesta di archiviazione viene affermato un «principio di dignità [che] impone l’attribuzione a tutti coloro che vivono in condizioni gravissime o irreversibili, percepite dal malato come lesive del senso della propria dignità, “di un vero e proprio diritto al suicidio”, esigibile non solo in via indiretta con la rinunzia alla terapia ma anche in via diretta, con l’assunzione di una “terapia finalizzata allo scopo suicidario”», e questo gli pare scandaloso, perché così si affermerebbe una grave disparità di diritti, che in apparenza sarebbe in favore del soggetto ammalato e a scapito del soggetto sano, ma che in realtà farebbe passare il principio che «la vita del malato “vale” meno della vita del sano, visto che il primo ne può disporre, e il secondo no».
L’eleganza con la quale ci è presentato il sofisma non ci consente di liquidare anche qui l’argomentazione con una provocazione. Verrebbe, sì, di tagliar corto obiettando che, tanto per fare un esempio, anche nel caso della legittima difesa una vita (quella dell’aggressore) finisce col “valere” meno di un’altra (quella dell’aggredito), ma che al momento il Codice Penale (art. 52) continua a contemplarla come «legittima», così consumando quella che per Leotta sarebbe «una insanabile violazione del principio di uguaglianza». Verrebbe da esortarlo a portare l’art. 52 dinanzi alla Consulta, e subito, perché lì dentro passa un’intollerabile differenza di “valore” che ci sarebbe tra vita e vita. Verrebbe, ma rinunciamo.
Lasciamo che dinanzi alla Consulta vengano portati gli artt. 579 (Omicidio del consenziente) e 580 (Istigazione o aiuto al suicidio), ma poi non mettiamo cruccio al musetto se saranno dichiarati incostituzionali sulla base delle stesse motivazioni che il pm ha addotto in favore dell’archiviazione. Se ci si appella alla legge degli uomini, non sempre si ha risposta illuminata dalla legge di Dio. E siamo sicuri che Leotta non abbia bisogno di esempi. 

giovedì 4 maggio 2017

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Con le modifiche che la Camera dei Deputati apporta allart. 52 del Codice Penale («Difesa legittima»), viene accolto lemendamento che inserisce dopo il primo comma il seguente testo: «Si considera legittima difesa, nei casi di cui all’art. 614 , primo e secondo comma, la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno».
Non ha alcun fondamento, dunque, quanto lascia intendere Matteo Salvini scrivendo: «Legittima difesa, per il PD un cittadino si può difendere se è “aggredito di notte”. Quindi di mattina e pomeriggio tutto è lecito?». Né ha ragion d’essere quanto ha affermato Silvio Berlusconi, che di rincalzo ha parlato di una «norma troppo blanda»
Niente affatto, inemendabili teste di cazzo, perché con la riforma dellart. 52 si considera legittima difesa non solo «la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte», ma anche quella «a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose», e senza alcuna restrizione relativa allora del giorno in cui questo accada, né contemplando eccezione di sorta in favore di chi «sintroduce nellabitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi sintroduce clandestinamente o con inganno» (art. 614). E che volete di più?

martedì 2 maggio 2017

[...]


Dieci anni fa andava in onda la prima puntata di Boris, una delle più riuscite allegorie dellItalia doggi. Anche chi abitualmente ha in uggia gli anniversari non può fare a meno di celebrare un evento che da mera ricreazione si eleva a riflessione fenomenologica.

Uno stronzo a forma di serpente, sì, ma non solo

Si trattasse solo della sua parabola umana, potremmo anche fare a meno di occuparcene, perché quella di Matteo Renzi è del genere che non offre alcun interesse particolare. Noto il fuoco, nota la direttrice, nota la formula che ne genera la curva, noti i valori che ne determinano il profilo, quale che sia il piano sul quale possiamo andare a considerarla come percorso personale, apologo morale o caso clinico, è parabola che sappiamo come sale e che sappiamo come scende. Lungo tutta la salita, d’altronde, abbiamo visto confermati tutti i caratteri di questo genere di curva, mentre dal 4 dicembre ad oggi, in questo primo tratto di discesa, ne abbiamo puntualmente avuto il riscontro atteso.
Potremmo, insomma, lasciar perdere Matteo Renzi, dedicandoci a questioni più interessanti, per limitarci a metterci una pietra sopra quando tra tre o quattro anni sarà tornato da dovera partito, ma coperto di merda. E invece occorre occuparcene, perché alla sua parabola umana sembra ormai indissolubilmente legata quella di una parte del paese.
A scanso di equivoci, però, chiariamo: Matteo Renzi non nasce dal nulla per legare indissolubilmente a sé il Pd con chissà quale fatale e subdolo sortilegio. Senza voler affatto sottovalutare gli strumenti che gli hanno permesso di trasformarlo in un partito personale, è il caso di aprire gli occhi su ciò che il Pd era fin dalla sua nascita, e che spesso pare sia rimosso, per piegare alla vulgata della «mutazione genetica» che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista.
Il rimosso è che, almeno in nuce, il Pci aveva, fin dal 1975, acquisito i tratti di quel partito socialista borghese (cfr. Gian Franco Venè, La borghesia comunista, SugarCo 1976), che «corrisponde al suo proprio carattere solo quando diventa pura figura retorica» (Karl Marx/Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, 3, 2). Di questa figura retorica del socialismo era riuscito a conservare i tratti fin dopo la Svolta della Bolognina, quando, peraltro senza alcuna elaborazione critica del suo più prossimo e recente passato, cominciava a dirsi socialdemocratico, per diventare sempre più solido cooperante della trasformazione cui intanto il capitale andava incontro, a fronte del processo di globalizzazione del mercato. Restava solo la blairizzazione del partito in cui il Pci-Pds-Ds andava a confluire, per dare pienamente conto delle politiche sempre meno «di sinistra» del Pd, e tuttavia rivendicate come tali, con una temeraria faccia di culo. [Per citare solo due dei più recenti tentativi di accreditare come partito «di sinistra» quello che ormai sarebbe il caso di ribattezzare PdR (Partito di Renzi), bastino quelli di Francesco Cundari con «Lottimismo è di sinistra (e pure marxista)» (Left Wing, 17.1.2017) e «Una Leopolda gramsciana» (lUnità, 14.3.2017), che è difficile dire se più irritanti o esilaranti.]
Il fatto che Matteo Renzi vinca le primarie del Pd con il 68% nel 2013 e con il 71% nel 2017, dunque, non è da interpretare come investimento sulluomo che promette di dare al partito una salda e duratura egemonia culturale e politica, costi quel che costi, fosse pure il rendere sempre più problematico poterlo dire (anche solo in parte, e per «pura figura retorica») «di sinistra». Al contrario, rivela in una consistente parte di quell’elettorato che cominciò a votare il Pci dal 1975 in poi, per rimanervi fedele mentre diventava Pds, e poi Ds, fino a confluire nel Pd, un acquistato disinteresse per quella «pura figura retorica» del socialismo che prima sembrava indispensabile a far da velo a un partito borghese, dunque sostanzialmente prono alla logica del capitale.
Un punto, tuttavia, resta da chiarire sul perché, e sul come, sia venuta a mancare la preoccupazione di salvare almeno le apparenze, fino a sentire rivendicare quasi con orgoglio una sostanziale neutralità ideologica nell’analisi dei problemi e nella ricerca delle soluzioni. [È il caso, per esempio, delle politiche riguardanti il flusso di migranti dalle coste africane verso quelle italiane: dopo aver affermato che «il problema della sicurezza non è di destra, né di sinistra», si è passati a rivendicare come senza dubbio «di sinistra» la soluzione dei Cpr avanzata da Marco Minniti in forza della sola ragione che sarebbero più efficienti dei Cie, così come definiti nel 2008 dal governo allora presieduto da Silvio Berlusconi, e con Roberto Maroni agli Interni: stessa logica concentrazionaria, ma – appunto – più efficace, e senza alcuna rottura rispetto al modo in cui il centrodestra concepiva e affrontava il problema.]
Senza addentrarci troppo nelle dinamiche socio-economiche che hanno cambiato corpo e faccia al ceto medio negli ultimi trentanni (con una sensibile accelerazione negli ultimi venti, diventata convulsa negli ultimi dieci), potremmo semplificare dicendo che la crisi in cui è precipitato sul piano economico, prima, e su quello culturale, dopo, ha sottratto il lusso di poter essere «di sinistra» a buona parte di quellelettorato che dal 1975 in poi ha preso a votare Pci-Pds-Ds-Pd, finendo infine per toglierle anche il lusso di onorarne almeno la «pura figura retorica».
In buona sostanza, parliamo di quella «aristocrazia operaia» che non è affatto da intendere come la parte degli operai meglio pagati, ma come quelleterogeneo insieme di dirigenti e di funzionari di partito e di sindacato, di intellettuali (giornalisti, scrittori, ecc.) in maniera diretta o indiretta orbitanti attorno al Pci, prima, e al Pd, poi, e dei parlamentari, dei consiglieri regionali, provinciali e comunali in rappresentanza nazionale o locale del partito (cui ovviamente vanno aggiunti i componenti dei loro staff e quantaltri adibiti in pianta stabile alle attività di propaganda sovvenzionate dal partito).
Per il progetto di «egemonia culturale» perseguito dal Pci fin dai primi anni dellultimo dopoguerra, quando gli accordi di Yalta sbarrarono la strada ad ogni soluzione violenta per la presa del potere in Italia, questa «aristocrazia operaia» è venuta a rappresentare una consistente porzione della base elettorale comunista, ampliandosi nei numeri proprio grazie alle politiche sociali promosse dal Pci nel regime di sostanziale consociativismo pattuito con la Dc.
Scrive Venè nel lavoro già citato: «La borghesia comunista è composta da borghesi che, con il loro voto, hannofatto del Pci un partito candidato ad entrare nellarea del potere. Quali interessi e quali prospettive può avere un borghese per offrire il proprio suffragio a una forza politica che, per propria natura, dovrebbe essere “antiborghese” e “anticapitalista”? […] Tutto ciò pone il Pci di fronte a una serie di scelte essenziali, delle quali si cerca di non parlare mai, e meno che mai nellimminenza delle elezioni. Quale atteggiamento può assumere, concretamente, un partito che nasce dal movimento operaio nei confronti dei milioni di borghesi che si sono giovati delle lotte sindacali per mantenere i propri privilegi parassitari partecipando allo sfruttamento della classe operaia? In base a quali criteri il Pci può selezionare, allinterno degli strati borghesi, i voti realmente utili alla formazione di una nuova società da quelli suggeriti dallopportunismo o da una semplice fiducia nelle riforme “tecniche” proposte dagli efficienti quadri di partito? E soprattutto: a quali voti “borghesi” il Pci dovrebbe rinunciare per tener fede ai suoi programmi di rinnovamento?».
È da correggere, dunque, lidea che in questi ultimi anni si è fatta strada anche nelle analisi dei commentatori politici più acuti: con il PdR non siamo dinanzi alla «mutazione genetica» che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista, ma alla chiusura di quel lento processo che ha portato con successo la «borghesia comunista» a marginalizzare la base elettorale tradizionalmente «di sinistra», per renderla dapprima solo esornativa, quasi esclusivamente epidittica nella narrazione del partito «di (centro)sinistra», fino a espellerla di fatto dal partito. Basti pensare che da tempo in Parlamento non siede un solo operaio sui banchi del Pd, mentre abbondano figure dell«aristocrazia operaia», insieme a imprenditori e notabili di questo o quel potentato. Matteo Renzi non ha democristianizzato il Pd: è la democristianizzazione del Pci iniziata nel 1975 ad essersi finalmente palesata in modo inequivoco, per finire col non avere nemmeno più bisogno di essere dissimulata.
Ecco perché la parabola di Matteo Renzi riveste un interesse che va ben oltre lo studio dellennesimo stronzo a forma di serpente, soprattutto adesso che il pieno controllo del Pd gli consente di non avere altri freni lungo la discesa. È chiaro che, per assecondare la sua malata smania, non potrà che stringere un patto col centrodestra un minuto dopo aver incassato il risultato delle prossime elezioni politiche, e alla perdita di consensi cui lo porterà la frettolosa rimozione della lezione del 4 dicembre si aggiungerà quella ulteriore conseguente alla grande coalizione che stringerà con Silvio Berlusconi, la cui vita non si prospetta facile, né lunga, a fronte delle spinte che verranno da un paese ormai avvitato in un declino dal quale potrebbe venir fuori solo con politiche sgradite tanto allelettorato del centrodestra quanto a quello del Pd, per quel che ormai è diventato. Matteo Renzi non consegnerà lItalia al M5S nel 2018, ma nel 2020 o nel 2021 senza meno.
È solo lì che la sua parabola toccherà il punto più basso, e quasi certamente gli risulterà assai più doloroso di quanto oggi sia in grado di immaginare, perché il «buon selvaggio» di Rousseau, contrariamente a quanto riteneva Rousseau, sa essere candidamente cattivo, praticamente una bestia.

martedì 25 aprile 2017

È un po’ come il 6 gennaio

È un po come il 6 gennaio. La cosa nasceva come Epifania, cioè come apparizione della divinità in forma visibile, così ci ragguaglia Wikipedia, con riferimento alla visita dei Tre Re Magi alla grotta in cui da poco era nato Gesù. In realtà, non erano tre e non erano nemmeno re, ma insomma, via, la cosa stava in piedi, e poi c’erano le statuine di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre a fugare ogni dubbio: tre, e re.
Poi, si sa che fine ha fatto, l’Epifania: cè voluto del tempo, ma è diventata una vecchiaccia a cavallo di una scopa, per giunta cambiando a tal punto il nome che oggi a chiederti donde venga il termine Befana è il Trivial Pursuit, e ovviamente parlo delledizione italiana, perché anche in questo noi italiani vantiamo la ben nota eccezionalità che ci accompagna da sempre.

Su cosa si commemori esattamente il 25 aprile non siamo forse allo stesso punto, daltronde dal 1945 sono passati solo 72 anni, però il tempo ci sta lavorando sopra, e occorre dire che anche qui promette altrettanto bene. Resta la Festa della Liberazione, al momento, ma, chissà, può darsi che di qui a qualche lustro sarà Festa della Libagione, una specie di Oktoberfest di cui solo gli storici sapranno rintracciare lorigine.
Intanto è ancora relativamente chiaro da cosa ci si è liberati, però il termine nazifascismo genera qualche ambiguità, nel senso che, insieme, cadde il fascismo e finì loccupazione dellItalia da parte dei soldati del Terzo Reich, ma più duna questione resta senza soluzione condivisa, al punto che si è convenuto di non riproporla più, sennò latmosfera di festa si sarebbe guastata.

Tanto per dire, in che misura sono da spartire i meriti della Liberazione tra partigiani antifascisti e Forze Alleate? Lidea di un paese che almeno fino al 1940, ma anche fino al 1942, era quasi interamente fascista fa nascere il problema di dove fossero nascosti tutti questi partigiani in grado, solo pochi anni dopo, di cacciare via i tedeschi, da soli, mentre inglesi e americani si limitavano a fare il tifo per loro, per rifocillarli di tanto in tanto con cioccolato e sigarette: tesi che, almeno oggi, nessuno sposa più, ma che per qualche tempo è scivolata nelle pieghe retoriche dellepica vulgata di un paese che non vedeva lora di liberarsi di Mussolini fin dall’indomani della Marcia su Roma, mentre ormai pacificamente si conviene che, salvo quattro gatti, l’Italia fu tutta fascista prima che il fascismo cadesse, e tutta antifascista quando cadde.
Chi vince finisce per convincere, non foss’altro perché col tempo i vinti devono adeguarsi, tutt’al più coltivando nostalgie in spazi molto angusti, dove peraltro non è raro riescano a tenere in vita il germoplasma di una pianta che intanto va in estinzione.
Non che la pianta che ne prende il posto ha vita infinita, perché la mancanza di cure può rinsecchirla, e così, in fondo, è accaduto con quella dell’antifascismo, prima irrigata con fiumi di parole, notte e giorno, per 365 giorni all’anno, e poi innaffiata solo il 25 aprile, e tanto per dar da vedere. Le radici quasi spaccavano il vaso, che infatti mostra qualche crepa, ma oggi, a guardarci dentro, è evidente che sono diventate vizze.

Della guerra civile che si concluse con la vittoria dell’antifascismo sul fascismo resta solo il lontano ricordo, scolorito come i petali del fiore che cogliemmo dai rami della Liberazione, quando il fusto era ancora rigoglioso. Sta in un libro che raccoglie le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, ma conviene non toccarlo nemmeno, sennò va in briciole. Conviene non riaprirlo nemmeno, il libro, sennò quelle lettere ci sembrano scritte invano.
Accontentiamoci del fatto che il 25 aprile non si lavora e si può passare la giornata coi nostri figli. Poi, certo, per chi voglia, resta l’occasione di frugare nelle memorie dei propri padri e dei propri nonni, per trarre dalla storia quello che può tornarci comodo, chessò, l’apologo consolatorio che ci assicura della sicura punizione che tocca a chi confida troppo nell’amore che sembrano mostrargli quanti lo scelgono a sollevarli dalla preoccupazione di essere liberi e responsabili. 


lunedì 24 aprile 2017

Corrispondenze

Gigi Manca mi chiede un commento su ciò che Beppe Grillo ha scritto a margine della discussione parlamentare sul biotestamento (Fine vitabeppegrillo.it, 22.4.2017), e con ciò mi mette in grande difficoltà, perché, al pari di molti altri testi a firma del comico prestato alla politica, anche qui è davvero temerario l’esser certi di aver capito tutto. Questo, d’altronde, è il motivo per cui, pur avendo spesso criticato le sue posizioni, non ho mai affrontato in dettaglio il modo in cui le esponeva, e sì che ho sempre ritenuto essenziale partire dal come ci si esprime per arrivare a capire cosa davvero si pensa. Qualche tentativo, in realtà, lho fatto, ma confesso di aver incontrato le stesse difficoltà che ebbi tanti anni fa quando lessi per la prima volta le Memorie di un malato di nervi di Schreber.
In generale, direi che Beppe Grillo non sappia articolare le proprie argomentazioni, per giunta quasi sempre scorrette (per conclusioni che seguono da premesse infondate) o invalide (per conclusioni non congrue a premesse che pure abbiano un qualche fondamento), procedendo a balzi e a tonfi in un caotico assemblaggio di avvilenti banalità e sgangherati paradossi, che in patenti svarioni lessicali, grammaticali e perfino ortografici danno forma a insopportabili sproloqui.
Anche quello sul quale Gigi Manca mi chiede un commento non fa eccezione, e tuttavia, pur a fatica, si riesce a rintracciare il fine che lo muove: lintenzione è quella di costruirsi una terza posizione tra chi è contrario al testo di legge passato alla Camera, e su di esso si prepara a dar dura battaglia al Senato, e chi invece lo ritiene solo un primo passo, per giunta timido, sulla strada che porta al diritto di scelta eutanasica.

Ve nè un buon donde. La scorsa settimana, intervistato da Cesare Zapperi per il Corriere della Sera, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ha detto che «sono tanti i cattolici che partecipano alle iniziative del M5S» e che, «dal lavoro alla lotta alle povertà, nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità».
Sono affermazioni che hanno sollevato molti mugugni in campo cattolico, al punto che lintervistato si è dovuto affrettare a precisare di aver espresso solo opinioni personali. È innegabile, tuttavia, che questultimo pontificato abbia dato un forte accento populista alla dottrina sociale della Chiesa, rendendo suggestivamente simili su molti temi i fervorini di Bergoglio e le intemerate di Grillo. Tarquinio, insomma, ha fotografato una realtà di fatto, senza peraltro dimenticare di rilevare il punto sul quale la sintonia viene a cadere: «Non riesco a capire come [i grillini] possano portare fino alle estreme conseguenze il loro concetto di libertà su temi eticamente sensibili come quello del fine vita e dell’eutanasia».
Ecco, dunque, la necessità di rigettare laccusa di estremismo costruendosi una posizione favorevole al biotestamento, come daltronde lo è pure la gran parte di quanti in Italia si dichiarano cattolici (almeno a quanto riportano i sondaggi), ma decisamente contraria all’eutanasia, dunque ossequiosa alla dottrina morale della Chiesa. E come poteva essere resa meglio, questa contrarietà, se non con un attacco ai radicali, gli unici ad essersene fin qui fatti espliciti fautori, fino alla raccolta di firme a sostegno di un disegno di legge di iniziativa popolare che a tuttora riposa nei cassetti della Presidenza della Camera dei Deputati?

Grillo li aveva sempre ignorati, i radicali. Per rompere l’isolamento in cui le sue ciniche e opportunistiche giravolte lo avevano precipitato, Pannella gli twittava con la boccuccia a cuoricino: «Finalmente together? Lo sai che t’aspetto da tempo?», ma Grillo non lo degnava neppure di un freddissimo «no, grazie!». Allora da Pannella arrivavano gli insulti, perfino con qualche colpo basso: «Se rifiuti il dialogo, rifai l’errore per il quale anni fa un tribunale ti ha condannato: vai a sbattere, e ancora una volta sarai di danno a chi ti dà fiducia», e Grillo niente, neppure uno sdegnato «che miserabile!». Come non esistessero, i radicali. Che poi è il miglior modo per farli soffrire sul serio, visto che pure il parlarne male li esalta, dandogli comunque un segno che dunque esistono.
Mai esistiti, per Grillo, i radicali. Ora, invece, è il caso di prenderli in considerazione, ma solo per stornare nei loro confronti l’accusa di «portare fino alle estreme conseguenze il concetto di libertà su temi eticamente sensibili» che Tarquinio rivolgeva ai grillini, e dichiararsi equidistanti, di qua, da loro e, di là, dagli integralisti cattolici, che d’altronde, dal vecchio pontificato a quello nuovo, si sono ritrovati come orfani. In tal senso, non è da considerare poi tanto assurda la definizione che Bersani ha dato del M5S affermando possa essere considerato «una forza di centro». Su molti temi, infatti, col crescere dei consensi attribuitigli dai sondaggi, la cosa grillina ha già da tempo cominciato ad operare un sensibile riposizionamento mirante ad accreditarsi come affidabile forza di governo, e con lo stesso espediente che qui serve a presentare come moderata la posizione sul fine vita.

Col primo capoverso del suo lungo post, Grillo marca la distanza dai paladini dei «valori non negoziabili». Dovrebbe essergli più facile che marcarla dai radicali, ma stranamente s’avvoltola in modo assai infelice in una sconcertante serie di infortuni logici.
«In che modo – attacca – un parlamento, la legge scritta oppure ancora da scrivere, può contenere in sé la più grande paura dell’uomo?». È evidente che «la più grande paura delluomo» stia per perifrasi della morte, e già qui, allora, siamo dinanzi a una premessa infondata, peraltro affermata con la categoricità che «uomo» dà alla totalità degli uomini, fra i quali, invece, vanno considerati quanti hanno più paura di soffrire che di morire, e che proprio perciò ritengono di aver diritto ad uno strumento legislativo che consenta loro di scegliere, in una data situazione, la morte piuttosto che la sofferenza.
«Come possiamo pensare – prosegue – di trovarci tutti d’accordo su qualcosa, la fine della vita per come la conosciamo, che ognuno di noi vede e teme in modo differente?». Qui siamo dinanzi ad unaltra premessa infondata, ancorché formulata con l’espediente della domanda retorica. Se, infatti, è vero che non possiamo avere tutti le stesse opinioni riguardo alla morte, è pur vero che ciascuno può averne riguardo alla propria, e nel caso del biotestamento ciò che viene consentito a chi lo stende non implica un giudizio, tanto meno una disposizione attiva, sulla morte altrui, ma esclusivamente sulla propria.
«Nulla è più soggettivo della morte», dice Grillo, e infatti è proprio questo che sta in radice alla legittimità di poter decidere, quando possibile, del come e del quando sia più opportuna la propria morte. E dunque, sì, ciascuno può avere della propria morte unopinione diversa da quella di un suo simile, ma questo mette in discussione cosa realmente la morte sia? No, di certo. E allora che senso ha chiedersi in cosa consista «il passaggio dall’essere vivi al non esserlo più», lasciando intendere che non esista una risposta certa, peraltro proprio dopo aver opportunamente concesso che è possibile dare una definizione oggettiva («in modo scientifico») «dello stato di vita e quello di morte»? Dove vuol andare a parare, Grillo, con due premesse infondate, al momento lasciate in sospeso, e una fondata, ma che porta a conclusione che non le è assolutamente congrua?
È presto detto: «C’è solo una cosa chiara riguardo a questo tipo di argomenti: finiscono per diventare la passerella di schieramento politico preferita da coloro che non intendono affrontare la questione in sé ma, piuttosto, vogliono dispiegare come ruote di pavoni il loro colore morale. Invece di essere in contatto con temi potenzialmente sconvolgenti si approfitta per schierarsi, pronti a dichiarare “inaccettabile” oppure “inammissibile” l’argomento stesso». Non è evidente leco della condanna che Bergoglio ha in più occasioni scagliato contro i politici che pensano di poter far carriera usando in modo strumentale i cosiddetti «valori non negoziabili»?

Come marcare, invece, la distanza dai radicali? Sui contenuti relativi al fine vita è oggettivamente assai difficile (basta dare una scorsa agli interventi tenuti dai deputati del M5S nel corso della discussione sul testo di legge, dove è evidente quanto il diritto di autodeterminazione, che ha fatto da Stella Polare a più di una battaglia radicale, sia pienamente fatto proprio dagli argomenti in favore delle disposizioni anticipate di trattamento), e allora il bersaglio, anche abbastanza in vista, resta quello che, con qualche approssimazione per eccesso, potremmo definire habitus radicale. Faccio riferimento a quella supponenza tutta radicale nel pretendere di incarnare un superiore modello antropologico, che è sempre stato il fianco che i radicali hanno offerto ai loro critici, spesso con esiti catastrofici delle loro pur nobili iniziative.
«Ma neppure possiamo fare la fine dei radicali», dice Grillo. «La fine dei radicali»: già in questa locuzione sono evidenti tutte le ragioni che spingono Grillo allo smarcamento da coloro che – dice – «nascono da una posizione morale e basta, lì finiscono». Giudizio che potrà sembrare ingeneroso, ma che in fondo coglie la sostanziale differenza tra pannelliani e grillini, rimandando alla sostanziale differenza tra Pannella e Grillo: entrambi padroni di linea, roba e simbolo, entrambi istrionici, bizzosi e aggressivi, e poi contraddittori, cinici, opportunisti, stessi modi spicci e stessa voce grossa, entrambi insofferenti ad ogni critica interna o esterna al loro movimento – e qui lelenco dei tratti comuni potrebbe procedere ancora per lunga pezza – ma il primo aspirante al ruolo di papa laico (o almeno, come premio di consolazione, a un seggio di senatore a vita, semmai per prendersi lo sfizio di rifiutarlo prima e poi accettarlo, ma con sufficienza, come Dylan col Nobel), il secondo a quello di piccolo padre o di grande fratello.

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Caro Gigi, qui penso di potermi anche fermare. Il resto del post di Grillo, infatti, è tutto speso a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, qui col precisare che «il movimento non considera le posizioni morali, oppure religiose, come di meno o più qualificate ad esprimersi in questo senso», lì col puntare lindice sui «moltissimi parlamentari che si sono nascosti dietro improbabili atteggiamenti morali in cerca di un autore politico a cui asservirsi». In definitiva, direi che il post sia una lettera aperta alla Cei, la quale, vedrai, saprà leggerla come si deve. E comportarsi di conseguenza. Almeno fino a quando i sondaggi daranno il M5S attorno al 30%.