giovedì 30 agosto 2018

Ci fu un tempo


Ci fu un tempo in cui quello che oggi è detto (molto impropriamente) populismo era assai meno arcigno (fiero di sé, ma con un indugio che poteva sembrare – e forse davvero era – pudore); e volgare, sì, ma mai troppo sguaiato (soffriva il biasimo di chi non lo poteva soffrire); e rifuggiva da posture smargiasse (tutt’al più esibiva l’orgoglio di un candore primitivo); e mai si sarebbe azzardato a rivendicare con l’alterigia del fesso giulivo lo statuto prepolitico (era ancora folk, mancavano decenni dal diventare bifolco); ma, più di tutto, neanche sapeva di essere populismo (non poteva saperlo perché nessuno gli aveva mai affibbiato quell’epiteto), e si limitava a dichiararsi “sentimento nazional-popolare” (così lo chiamavano, così si adattò a farsi chiamare). Ogni rinuncia all’articolazione era “nazional-popolare”, ogni compiacersi di semplicità, genuinità, schiettezza, che in realtà erano semplicismo, piattezza, trasparenza per mancanza di qualsivoglia spessore, erano “nazional-popolari”, e così le frasi fatte, i luoghi comuni, la più immediata apparenza di verità assoluta che anche la sola analisi grammaticale sarebbe stata in grado di decostruire in tautologia: tutto era “nazional-popolare” e, giacché al termine qualcuno aveva conferito la stessa dignità che si conferisce al tonto che può eventualmente diventare un Parsifal, il “nazional-popolare” cominciò a pretendere un blasone. E finì con l’ottenerlo. Grazie a Pippo Baudo, grazie a Toto Cutugno, grazie ai fratelli Vanzina, forse perfino grazie alle scoregge di Alvaro Vitali, e direi possa bastare, credo abbiate capito.
Molto è cambiato da allora, al punto che si fa enorme fatica a risalire lungo l’albero genealogico di questa schiatta, peraltro ricavando un certo disorientamento nel comparare all’oggi i suoi antecedenti. D’altronde, si sa, nessuno rimane uguale a quel che era, quando nel corso della sua evoluzione deve disfarsi di ciò che gli è di impaccio, per acquistare ciò che può tornargli utile per meglio adattarsi all’ambiente. Di converso: se l’ambiente non impone la selezione, che bisogno c’è di cambiare?
Vorrete un esempio, credo. Va bene, prendete Umberto Eco: dai primi anni Sessanta fino a due anni fa, quando morì, sempre uguale a se stesso. O quasi. Certo, l’accademico de Il problema estetico in San Tommaso aveva lasciato un po’ di spazio al mondano che si compiace di divulgare in modo accattivante e divertente, ma rimaneva il monumento che era: nessun bisogno di adattarsi a un ambiente che, pur cambiando, non gli mai stato ostile, se non dargli lo sfizio di riacconciarlo per il meglio – il suo meglio – con una svogliata abduzione del mignolo. Provate a comparare Apocalittici e integrati che è del 1964 con Il fascismo eterno che è del 1997 (quella del 2018 per La nave di Teseo è solo una ristampa) e con la tirata contro i social della lectio magistralis tenuta a Torino nel 2015: stesso caleidoscopio espressivo, stessa disinvoltura nel muoversi tra l’“alto” e il “basso”, stessa padronanza degli espedienti retorici, stessa seduzione del lettore nel volargli solo a un palmo sopra il naso per consentirgli di acchiapparlo, di tanto in tanto, dandogli così l’illusione d’essere un po’ più intelligente di quel che in effetti il lettore era. Poteva star sul cazzo per un sacco di motivi, via, ma in fondo tutti futili e tutti un po’ disonesti: era Umberto Eco – stop – e leggerlo era un piacere, come lo è il rileggerlo ora.
Prendete, per esempio, l’analisi di quel fenomeno eminentemente “nazional-popolare” che era Mike Bongiorno. Già, chi non ha letto Fenomenologia di Mike Bongiorno? Con l’odierno “populista”, ovviamente, il parallelo risulta sghembo, ma, tutto sommato, lantecedente storico era altrettanto cinico e violento, anche se aveva un tal ritegno da apparire goffamente disarmato, al punto da poter perfino spacciare un insulto come una innocente gaffe; fiero di quella supponenza che ieri come oggi non ha neppure un centimetro quadrato su cui poggiare, se non nella inscalfibile convinzione di sapere come gira il mondo; convinto di essere irresistibilmente brillante anche nei più eclatanti saggi di banalità; enciclopedia vivente del sentito dire e del leggiucchiato qua e là; e qui mi fermo perché – dicevamo – chi non ha letto Fenomenologia di Mike Bongiorno?
E sì, ma chi ha letto l’autodifesa di Mike Bongiorno al feroce ritratto fattogli da Umberto Eco? La trovate ne La versione di Mike (Mondadori, 2007 – pagg. 155-160). Non l’avete letta, vero? Lo immaginavo. È che a voi il “populista” fa schifo fin da quandera “nazional-popolare”. Tanto schifo da ritenere inutile sentire le sue ragioni, che saranno inconsistenti fin quanto vogliate, ma sulle quali ha potuto costruire nei decenni la tracotanza con la quale ogni sera esce dallo schermo televisivo per mettervi le zampe nel piatto. Lo faceva anche con Lascia o raddoppia? e con Rischiatutto, ma era assai meno evidente: sembrava un gattino, era divertente lasciarvi usare come tiragraffi, ma è così che ha sviluppato gli artigli. Ascoltando La versione di Mike, si possono fare i conti con le sue ragioni. Il che, se vogliamo dirci onesti, è il minimo dovuto per capire comè che al governo è più facile trovarci chi partecipò a un quiz di Mister Allegria che un “professorone”.
«[Umberto Eco] stabilì che ero diventato un uomo di successo perché rappresentavo l’ignoranza delle grandi masse […] [Scriveva:] “Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi”». Obiezione: «L’accusa […] inizialmente mi ferì. […] Ma già allora sentivo che il mio lavoro mi aveva portato a una conoscenza molto approfondita della psicologia della gente». L’ignoranza non è un problema quando ci si sente forte di una tal dote, no? Soprattutto se a questa dote se ne sposa un’altra, e cioè «la capacità di trasformarmi davanti alla gente con la quale interagivo», grazie alla quale può svilupparsi quella «sensibilità che mi ha permesso di assorbire da ognuno certe caratteristiche umane e di conoscere e di imparare con gioia le cose [sic!] della gente che ho incontrato, comprendendole con l’esperienza»: è il primato della bettola sullo studiolo, in virtù del quale Machiavelli avrebbe potuto scrivere il suo Principe anche rimanendo a ingaglioffirsi col beccaio, il mugnaio e i due fornai, e chissà che forse il libricino poteva pure venirgli più ganzo. A dispetto di questa “sensibilità” che nasce dall’“esperienza”, Mike Bongiorno scivola nellinsulto nel semplice dar forma di ovvietà agli stereotipi della discriminazione e del più becero conformismo? Può darsi, ma «la sincerità è una virtù». «Molti che hanno investito in arzigogolate forme di diplomazia politica lo hanno spesso dimenticato», e che fine hanno fatto? D’altronde perché mettere in dubbio che la sua “sincerità” sia fedele specchio del reale? L’audience non lo prova?

martedì 28 agosto 2018

Disclaimer per di là


Questo post stia a disclaimer per i quattro gatti che mi seguono su Twitter (un link di là, nel caso, rimanderà a questa pagina), risparmiandomi di precisare ogni volta in quale curva io segga: non sto in nessuna delle due curve, sto in tribuna numerata, e neanche trovo la partita molto interessante, anche se devo dire che la poltroncina è assai comoda. Mi distraggo spesso, diciamo, anche se in campo ne capitano di orride e di sbellicanti, il che potrebbe pure essere eccitante, ma il fatto è che il sangue scorre così male, per non parlare delle volte in cui nemmeno è sangue, ma sugo, mentre la merda è proprio merda, questo è vero, ma schizza in modi imprevedibili. 
Non è terzismo, sia chiaro: non sono indifferente alla partita, o comunque non del tutto. Di leghisti e grillini ho orrore e paura quanto basta (non di più, però), ma il fatto è che proprio non riesco a far mia la logica del fronte, che per il superiore interesse patrio mi dovrebbe costringere a fianco di un forzitaliota, a destra (a destra?), o di un piddino, a sinistra (a sinistra?). È solo colpa loro se i gialloverdi sono ormai consistente maggioranza in un paese che non era certo meglio prima, e che molto probabilmente non sarà meglio dopo (a proposito, chi è che si candida ad alternativa?).
Mi sia consentito di cedere al patetico (vedeteci anche una puntina di autoironia, però): ho sul groppone più di 61 anni e sugli scaffali più di 12.000 volumi, gli uni e gli altri mi impediscono di illudermi circa le virtù degli italiani, plebe sempre contenta d'esser plebe, sempre pronta a crocifiggere se stessa, ma solo in effige, per poi resuscitare sempre, ma solo in simulacro di popolo, per prontamente trasformarsi in canaglia.
Mi sento greco, giapponese, tedesco – perfino esquimese, talvolta – più di quanto mi senta italiano. Per meglio dire, credo di appartenere a quella snaturata sottospecie di italiani da sempre destinati a essere perseguitati (o almeno dileggiati, che forse è pure peggio) per il cattivo gusto di dire oneste sgradevolezze in pubblico o, più saggiamente, evitando dileggio e persecuzione, in privato. Il web mi è venuto a far confusione tra i due piani, e io, che non sono nativo digitale, mi ci sono trovato incastrato nel mezzo e, sfilato un piede dalla blogosfera, ho incastrato l'altro in Twitter, dove peraltro non sei padrone neppure della punteggiatura che usi, figurarsi della sintassi.
Mi piace la polemica, m'è sempre piaciuta, ma solo quando è seriamente argomentata (meglio se pure brillantemente argomentata), non quando scade a mero menar le mani, per esser reclutati da questa o quella banda.
Ora c'è che ultimamente vedo il fronte anti-gialloverde argomentare assai a cazzo di cane la sua polemica (e, se lo faccio notare, passo per gialloverde), mentre mi pare perfino avvilente stigmatizzare l'argomentare a cazzo di cane che è quasi connaturato ai gialloverdi (e tuttavia ci casco, la stigmatizzo, beccandomi regolarmente l'epiteto di “renziano”, che mi offende più che m'avessero toccato l'onore di mamma): e in entrambi i casi mi pento, e ci ricasco, e mi ripento. Per la prossima volta che dovessi cascarci, tanto stia a precisazione.

martedì 29 maggio 2018

Scommessa persa



Non è la prima volta che un Presidente della Repubblica pone il proprio veto su uno dei nomi che un Presidente del Consiglio incaricato di formare il Governo gli ha proposto per la nomina a ministro. Sappiamo cosa è accaduto in passato, ma solo per i pochi casi di cui siamo venuti a conoscenza, comunque sempre dopo (talvolta anche molto dopo): il veto risultava efficace, e quel nome scompariva dalla lista dei ministri (Gratteri) o veniva spostato a un altro dicastero (Previti).
Ci sono stati casi in cui il parere contrario del Presidente della Repubblica non sia riuscito a sostanziarsi in veto? Non lo sappiamo. Possiamo ritenerlo improbabile, anche assai improbabile, ma non possiamo escluderlo del tutto. Non possiamo escludere, infatti, che un Presidente del Consiglio incaricato possa aver trovato buoni argomenti per far cambiare idea a un Presidente della Repubblica inizialmente contrario a firmare un decreto di nomina dei Ministri nel quale figurasse un nome a lui non gradito, né possiamo escludere che fra questi argomenti vi fosse il legare a quel nome le sorti del Governo. Possiamo ritenerlo improbabile, anche assai improbabile, ma non possiamo escluderlo del tutto.
Nella pure assai improbabile eventualità che questo sia accaduto, è tuttavia evidente che sia potuto accadere solo in virtù del fatto che tutto era protetto dalla massima riservatezza, al riparo di unattenzione pubblica che avrebbe potuto facilmente travisare in braccio di ferro un momento di dialettica istituzionale: se è accaduto, la riservatezza ha efficacemente protetto il Presidente della Repubblica dal poter apparire come il perdente in quel braccio di ferro.

Di inedito, allora, cosa è accaduto stavolta? È accaduto che Mattarella abbia voluto rendere pubblicamente noto per tempo che avrebbe posto il proprio veto sul nome di Savona al Ministero delle Finanze, con ciò dichiarandosi pubblicamente indisponibile a considerare ogni argomento che nelle pur illusorie speranze del Presidente del Consiglio incaricato potesse essere considerato efficace a fargli cambiare idea: la dialettica istituzionale ha così perso il terreno sul quale avrebbe potuto dare un risultato, non importa quale, per lasciare spazio solo al conflitto, con una vera e propria sfida, peraltro subito raccolta dalle forze politiche che in Parlamento avevano i numeri per far nascere un Governo, che così non nasce.
Potevano non raccoglierla, certo, potevano accettare lalternativa offerta dal Capo dello Stato (Giorgetti al posto di Savona), ma così avrebbero accettato di apparire come perdenti in quello che Mattarella aveva intenzionalmente voluto presentare come scontro, e questo a fronte di un consenso elettorale che le aveva più o meno ragionevolmente convinte di poter governare, in forza del mandato popolare, senza condizionamenti di natura extra-politica: come recitano i manuali di Diritto Costituzionale, al Presidente del Consiglio il compito di esprimere la linea politica della maggioranza parlamentare e al Presidente della Repubblica quello di garante della costituzionalità dei passaggi istituzionali. Il loro errore – se errore vogliamo considerarlo – è stato quello di non capire che avevano di fronte un Presidente della Repubblica che fra gli oneri di garanzia costituzionale di cui si sente carico contempla pure quelli di assicurare allItalia una continuità della linea politica costruita dai passati esecutivi: nella Costituzione che si sente chiamato a difendere, Mattarella legge pure vincoli di natura sovranazionale che non sarebbe lecito neppure mettere in discussione.
Sospendendo la questione se si tratti di una lettura legittima o meno, cè da comprendere non possa essere accettata da chi si dichiara sovranista proprio perché non riconosce in quei vincoli dei vantaggi superiori agli svantaggi.
Con tali premesse era del tutto prevedibile che il conflitto si sarebbe spostato in piazza, con un Paese per poco più della metà a favore del cosiddetto Governo del Cambiamento, quindi nelle migliori condizioni per disporsi a considerare Mattarella come un «nemico del popolo», e per poco meno della metà contrario, pronto a prenderne le difese come estremo rimedio alla discesa dei «barbari».
Molte erano (e in fin dei conti restano) le questioni controverse sollevate dall’eventualità di un Governo a guida di Lega e M5S, quindi era prevedibile che un problema di natura schiettamente istituzionale diventasse terreno di scontro tra fazioni politiche irriducibili: di qua, lasse di saldatura tra due movimenti populisti che alle ultime elezioni politiche hanno incrementato enormemente il consenso in loro favore rispetto alle prestazioni di cinque anni prima; di là, il resto, con in testa un Renzi e un Berlusconi che il responso delle urne ha fotografato in caduta libera.

Era difficile che sulle prerogative del Presidente della Repubblica – perché di questo in fondo si trattava – si potesse discutere con serenità, e di fatto è stato impossibile: da un lato, cera chi voleva leggere nellart. 92 della Costituzione un ruolo attivamente politico del Capo dello Stato nella formazione di un Governo (perché cosaltro è il pretendere di avere voce sulla linea economica di un esecutivo?), quasi a voler dare rilievo di legittimità costituzionale ad una posizione ostile agli intendimenti di una maggioranza parlamentare; dall’altro, invece, c’era chi assegnava al Quirinale una funzione di mera vidima delle scelte della politica.
Ne abbiamo visto delle belle, comprese le patenti contraddizioni in seno a posizioni che potremmo definire «storiche»: così, tra chi ha sempre sostenuto il primato della politica, inteso come pieno potere in mano a chi riesca ad ottenere il consenso della maggioranza del «popolo» o della «gente», abbiamo scorto degli strenui difensori dei bastioni che la Costituzione erge a difesa dell’arbitrio di chi, forte dei numeri, voglia stravolgerla (si pensi a chi voleva maciullarla a colpi di pur risicatissime maggioranze parlamentari e che oggi la ritiene perfetta così com’è); all’altro estremo, tra chi ha sempre sostenuto che la Costituzione fosse da leggere e rispettare alla lettera, ecco sortire i sostanzialisti del «popolo sovrano», libero dai vincoli posti dall’art. 81 («Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», anche se poi, «previa autorizzazione delle Camere», senza specificare se rosse, azzurre o giallo-verdi, «il ricorso all’indebitamento è consentito»).
Mi sono già intrattenuto su cosa, a mio modesto avviso, significhi quel «nomina» che compare nell’art. 92 della Costituzione, e qui non ci tornerò sopra, limitandomi a rammentare che, per la stragrande maggioranza dei costituzionalisti, al Capo dello Stato non è data alcuna facoltà di scegliere il titolare di questo o quel dicastero, potendo al più esercitare un potere di dissuasione, che non è assolutamente detto possa o debba avere efficacia (che in qualche caso labbia avuta non fa argomento dottrinario): quel «nomina» fa riferimento all’apposito decreto (di nomina, per l’appunto, che non a caso i Padri costituenti vollero disgiunto da quello di nomina del Presidente del Consiglio).
Parimenti, ho già cercato di spiegarmi, più che spiegare al mio lettore, perché Mattarella sia convinto che un Presidente della Repubblica possa efficacemente esercitare un vero e proprio veto in situazioni del genere: da giovane è stato assistente universitario di Virga, uno dei pochi costituzionalisti a dare a quel «nomina» il significato di «decide»; nella Commissione bicamerale per le riforme costituzionali del 1997-1998 era a favore di una Repubblica semipresidenziale nella quale un Capo dello Stato avrebbe avuto fra le sue prerogative anche quella di assicurare il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali e sovranazionali (prerogativa che la Costituzione oggi in vigore non gli riconosce), ma soprattutto un ruolo assai più forte nella nascita e nella vita di un Governo, grazie al fatto che l’elezione diretta gli conferiva anche un profilo politico oltre a quello di garante della Costituzione.
Direi che, tutto sommato, ha agito in buona fede, dando dell’art. 92 un’interpretazione che per molti costituzionalisti (uno per tutti, Onida) è «impropria» (nell’idioletto dei costituzionalisti sta per «scorretta»), ma che ha l’indiscutibile merito di essere coerente con la sua formazione accademica e compatibile il più possibile al modo in cui il II Titolo della II Parte della Costituzione andava, secondo lui, riformato. Di fatto, non è stato riformato a quel modo.

Di là dal merito della questione in oggetto, che come spesso accade con quelle di natura giuridica rifugge da soluzioni unanimemente accolte, c’è da porsi il problema del se fosse necessario (rectius: inevitabile) portare il problema alle dimensioni del dramma che oggi ha assunto. Le responsabilità vanno equamente ripartite, ma come ignorare che tutto ha avuto inizio con la decisione del Quirinale di rendere pubblico il veto sul nome di Savona prima che glielo si fosse formalmente proposto? Il casus belli è in quella decisione, che probabilmente scommetteva su un cedimento di Lega e M5S che Mattarella avrebbe potuto offrire a garanzia di controllo sulla loro azione di governo a quanti ne paventavano iatture.  Probabilmente è in questo modo che Mattarella contava di rappresentare al meglio l’unità nazionale.
Scommessa persa, che rischia di provocare a mesi una valanga giallo-verde. Mattarella ne sarà stato il maggiore responsabile.

domenica 27 maggio 2018

Il 29 gennaio 1998


Il 29 gennaio 1998, a Montecitorio, era riunita la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, quella presieduta da Massimo D’Alema. Tre giorni dopo Silvio Berlusconi avrebbe di fatto stracciato il «patto della crostata» col quale sei mesi prima, a casa di Gianni Letta, Pds, Ppi, FI e An si erano messi d’accordo per una Repubblica semipresidenziale: aveva cambiato idea, ora voleva il cancellierato e il proporzionale, e sul punto rimase inflessibile, finendo per mandare all’aria tutto, in giugno.
Nulla di tutto questo era prevedibile, quel 29 gennaio, quando nel corso della seduta della Commissione prese la parola Sergio Mattarella, in forza ad uno dei partiti che avevano sottoscritto il patto, il Ppi. Pur manifestando il suo pieno favore a un’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che era uno dei pilastri della riforma, tenne a precisare che, pur essendo evidente il ruolo politico che così il Capo dello Stato avrebbe assunto, fosse opportuno fare chiara distinzione con la funzione di governo, che doveva rimanere esclusiva dell’esecutivo, tenuto a renderne conto solo al Parlamento.
«Taluni – diceva – confondono talvolta il ruolo politico, anche ampio e incisivo, con la funzione di governo. Non sono necessariamente la stessa cosa. Il Capo dello Stato ha già oggi, da cinquantanni, ne avrà di più con linvestitura diretta, un ampio e incisivo ruolo politico, ma non di governo»; e chiariva che tale investitura «non [doveva comunque essere immaginata come un mandato] a governare, ma a interpretare, nella vicenda politica e istituzionale, il ruolo di arbitro, che è proprio dellelettorato [qui teneva a precisare che il ruolo di arbitro era rivestito dallelettorato nel momento del voto e che con lelezione diretta del Presidente della Repubblica avrebbe assunto continuità nella sua figura]; l’altro ruolo, pur esso assegnato dallelettorato, quello di governo, è rimesso allasse Governo-Parlamento».
Sulle obiezioni che da qualche voce in seno alla Commissione si erano levate a mettere in discussione lelezione diretta del Capo dello Stato, col rischio che in tal modo andasse a perdere la sua posizione super partes, così si esprimeva: «Perché mai un Presidente della Repubblica scelto dai partiti tramite i parlamentari col loro voto, con le abitudini che di frequente abbiamo conosciuto, sarebbe meno politicizzato di un Presidente scelto dai cittadini?».
Ottima domanda. Che però ne legittima altre. Perché mai dovremmo considerare Sergio Mattarella meno politicizzato che se fosse stato eletto direttamente? Chi lo ha proposto al Quirinale? Il Pd di Renzi. Lega e M5S lhanno votato? No. Cosa lo costringe ad essere politicamente neutro nel ruolo che la Costituzione gli assegna nella nascita di un Governo? Nulla. E allora cosa gli impedisce di acconciare in ruolo istituzionale quello che di fatto è un ruolo di attore politico? Larticolo della Costituzione che gli attribuisce funzioni nella nascita di un Governo non è abbastanza ambiguo per consentirgli un efficace ostruzionismo nei confronti di una maggioranza parlamentare?
Può darsi ci metta pure un po di buonafede, in fondo ha mosso i primi passi nel mondo accademico allombra di Pietro Virga, che tra i costituzionalisti del tempo era uno di quelli che leggeva piena discrezionalità del Quirinale nella «nomina» del Presidente del Consiglio e dei Ministri. A dispetto della stragrande maggioranza dei costituzionalisti? E che fa? Ognuno si sceglie i maestri che gli più gli garbano.
Il 4° capo dellart. 65 del testo della riforma costituzionale che tanto piaceva a Sergio Mattarella in quel 1998, anche se poi finì nel cesso, recitava: «Assicura [il Capo dello Stato] il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dallappartenenza dellItalia ad organizzazioni sovranazionali». Cosa gli impedisce, oggi, di far finta che sia stata approvata comunque? Cosa gli impedisce di sentirsi a capo di una Repubblica semipresidenziale? Fra gli emendamenti che proponeva in quella seduta del 29 gennaio 1998 cera pure quello di non sciogliere le Camere allindomani delle elezioni di un nuovo Presidente della Repubblica. Bene, anche in questo mostra una qual certa coerenza: si comporta da Capo dello Stato eletto da una maggioranza di italiani diversa da quella che lo scorso 4 marzo ha votato Lega e M5S. In fondo non è stato eletto da un Parlamento in cui Lega e M5S erano in minoranza e allopposizione?

mercoledì 23 maggio 2018

Mortati, Virga e Mattarella


Qui cerco di rispondere a chi mi ha scritto dopo l’ultimo post (Einaudi e MattarellaMalvino, 21.5.2018), chiedendomi ragione del perché io abbia dubbi sul significato di quel «nomina» che recita l’art. 92 della Costituzione. Semplice: la questione è controversa, e non l’ho certo sollevata io.
Costantino Mortati, per esempio, ritiene che il Presidente della Repubblica sia in qualche modo obbligato a porre a capo del Governo la persona più adatta a interpretare l’indirizzo politico della maggioranza parlamentare, cosa che gli può essere fatta presente sono dalle parti che la compongono: la «nomina» avrebbe il senso di una presa d’atto di quanto emerso dalle consultazioni con le delegazioni delle forze politiche presenti in Parlamento.
Di parere contrario, invece, Pietro Virga: per lui la «nomina» è tutta discrezionale (in questo caso, però, non si capisce perché la «nomina» risulti invalida se l’atto non è controfirmato dal Presidente del Consiglio entrante, e parliamo della controfirma su un decreto, non di un semplice assenso, ancorché formale).

Se proprio devo esprimere il mio umile parere – questo mi è stato chiesto – direi abbia ragione il Mortati: «nominare» non significa «decidere a suo piacimento, semmai anche a dispetto degli intendimenti che gli sono stati espressi da quella che sembra essere una futura maggioranza parlamentare», ma «elaborare in una designazione quanto gli è stato fatto chiaro essere una soluzione di accordo tra le parti che concorreranno a costituire la futura maggioranza parlamentare».
Donde traggo questa convinzione? Dal fatto che la nostra è una Repubblica parlamentare. Col dare al Presidente della Repubblica la piena discrezionalità nella scelta del Presidente del Consiglio, la nostra diverrebbe di fatto una Repubblica semipresidenziale, nella quale il Primo Ministro vive della fiducia del Presidente della Repubblica, prima, e del Parlamento, dopo, con in più la possibilità di essere revocato dal Presidente della Repubblica anche continuando ad avere il sostegno del Parlamento. Con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, la cosa può pure avere un senso. Non così, in una Repubblica parlamentare, dove il Capo dello Stato è eletto dal Parlamento, con funzioni che la Costituzione vuole politicamente neutre: quella di collegamento tra gli organi costituzionali dello Stato, quella di garanzia e controllo costituzionale, quella di rappresentanza dellunità nazionale. Per il modo in cui viene eletto, il Presidente di una Repubblica parlamentare ha solo la direzione formale del Paese, mentre quella materiale resta di esclusiva competenza del Governo.
Spesso non è stato così? Certo, ma in tutti casi in cui è accaduto cè stata violazione della Costituzione, tanto più grave perché ad opera di chi era chiamato a farsene garante.

Ma chi mi ha sollecitato a tornare sulla questione non si è limitato a chiedermi cosa leggo in quel «nomina»: mi ha chiesto pure un giudizio sulloperato di Sergio Mattarella in questi 80 giorni che ormai ci separano dal 4 marzo. Direi sia troppo presto per darne uno, perché al momento non ha ancora «nominato» il Presidente del Consiglio, né i Ministri del Governo, dunque è impossibile sapere se, e quanto, e in che modo, vorrà esorbitare dalle sue prerogative. Tutto sta a vedere se sarà in grado di «elaborare in una designazione quanto gli è stato fatto chiaro essere una soluzione di accordo tra le parti che concorreranno a costituire la futura maggioranza parlamentare», che poi corrisponderebbe a quanto Luigi Einaudi diceva essere compito del Presidente della Repubblica, e cioè quello di far giocoforza «sue» le proposte maturate dal confronto tra le parti destinate a comporre la maggioranza parlamentare in sostegno al Governo.
Il fatto che la nostra sia una Repubblica parlamentare gli lascia senza alcun dubbio il potere della «moral suasion», che però è altro da quella fastidiosissima «institutional interference» di cui si sono fatti attori molti suoi predecessori. Al momento non sarebbe serio giudicarlo sulla base dei retroscena quirinalizi, che ce lo ridanno più solertemente attento alle attese sovranazionali che a quelle nazionali, tanto meno attribuirgli intenzioni che sono al di qua di quanto dirà e farà. Di certo non gli sfuggirà che in tutti e due i rami del Parlamento c’è una maggioranza assoluta dagli umori assai selvaggi cui potrebbe venir l’uzzolo di metterlo in stato di accusa per attentato alla Costituzione. Molto difficilmente si arriverebbe alla sua destituzione, ma sarebbe un antipaticissimo sfregio da portare in faccia per gli altri milletrecento e dispari giorni del suo settennato.

lunedì 21 maggio 2018

Einaudi e Mattarella



Mi pare che Mattarella si sia rimesso alquanto impropriamente allesempio che, a suo parere, Einaudi avrebbe inteso porre a precedente, per giunta con effetto vincolante sui suoi successori, riguardo al corretto intendimento dellart. 92 della Costituzione («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri»). Intervenendo nel corso della cerimonia che celebrava linizio del settennato einaudiano al Quirinale, infatti, ha detto: «Cercando sempre leale sintonia con il Governo e con il Parlamento, Luigi Einaudi si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio ogni volta che lo ritenne necessario. [1] Fu il caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri dopo le elezioni del 1953, nomina per la quale non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana. Fu un passaggio di un esecutivo di pochi mesi, guidato dallex ministro del Tesoro, Giuseppe Pella, e che portò al chiarimento politico con la formazione della maggioranza tripartita che governò con Mario Scelba fino alla scadenza del settennato di Luigi Einaudi. [2] Tale è limportanza che attribuiva al tema della scelta dei ministri dal volerne fare oggetto di una nota verbale da lui letta il 12 gennaio 1954 nellincontro con i presidenti dei gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e Stanislao Ceschi, dopo le dimissioni del Governo Pella. E scrisse in quella nota: “Dovere del Presidente della Repubblica è evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da qualsiasi incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”» (Dogliani, 12.5.2018).
I numeri che tra parentesi qui ho inserito nel testo stanno a titolo dei due problemi sollevati dallinterpretazione del 2° capo dellart. 92 della Costituzione in relazione al significato che si voglia attribuire a quel «nomina», che infatti, riguardo ai poteri del Presidente della Repubblica, può significare, in senso estensivo, «decide», «sceglie», «designa», mentre, in senso restrittivo, può assumere valenza esclusivamente formale, procedurale, rituale, di mera vidima. Qui non ci impancheremo a costituzionalisti nel tentativo di cogliere il più genuino senso che i redattori della Carta abbiano inteso dare a quel «nomina», limitandoci a contestare la lettura che Mattarella ha fatto degli avvenimenti descritti in [1] e della nota verbale di Einaudi così come offertaci in [2]. Si tratta in entrambi i casi di letture che ci paiono a dir poco assai forzate. Tanto forzate da farci sospettare che anche qui si sia voluto cadere nel malvezzo di piegare agli impellenti bisogni del momento la realtà di fatti ormai smarriti dalla memoria dei più. Dimostrazione ne è che allintervento del Capo dello Stato non è seguita alcuna critica. Sarà stato per il rispetto dovutogli, che tuttavia non può sopravanzare quello impone la realtà delle cose. Se il dotto studioso di Diritto costituzionale si fosse limitato a darci il suo pregiato parere su quel «nomina», staremmo qui con mento sul petto e col cappello in mano a ruminare i suoi argomenti, grati del lume offertoci sulla questione. Fatto sta che in questo caso ad argomento si è portato solo un precedente, per giunta interpretato in modo assai poco convincente.

Sul «caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri dopo le elezioni del 1953, nomina per la quale [Einaudi] non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana», occorre rammentare quali fossero gli estremi del quadro politico allindomani delle elezioni del 1953. Da quelle elezioni la Dc uscì fortemente penalizzata (dal 48,5% del 18 aprile 1948, infatti, scese al 40,1%), e in favore del fronte delle destre (il Msi dal 2% al 5,8%, il Pnm di Lauro dal 2,8% al 6,9%). A questa sconfitta reagì cercando di spezzare quel fronte, tentando, da un lato, però invano, di mettere fuori legge il Msi e, dallaltro, con successo, di guadagnarsi la benevolenza di Lauro con sostanziose agevolazioni per la sua flotta, fino ad ottenere la scissione del Pnm, col conseguente suo indebolimento. Regista delle operazioni miranti a blandire i monarchici, in attesa di dividerli, fu lala conservatrice della Dc (De Gasperi, Scelba, Pella, Piccioni), che di lì a poco sarebbe stata liquidata da quella facente capo a Fanfani con la costruzione del caso Montesi.
Nellagosto del 1953 Einaudi non dà in prima battuta lincarico a Pella, ma a De Gasperi, che però non trova i numeri in Parlamento: il Pnm, che inizialmente aveva annunciato lastensione, gli nega il suo appoggio, alzandone il prezzo, che a Lauro sarà invece assicurato da Pella. Quando Einaudi, dunque, «non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana», nel dare lincarico ad Alcide De Gasperi, non operò affatto una scelta arbitraria, limitandosi semplicemente a prendere atto che in Parlamento non ci fossero i numeri per la nascita di un Governo a sua guida.
Ma forse cè una ragione assai più banale per spiegare perché a Mattarella possa sembrare che lincarico a Pella fosse più saggio di un incarico a De Gasperi, con ciò illustrando esemplarmente la natura delle prerogative che il Quirinale avrebbe sulla formazione di un Governo: è che nella compagine governativa che a capo aveva Pella figurava anche suo padre, Bernardo Mattarella, assente in quella prospettata da De Gasperi. Nellaffrontare la questione posta in [2] vedremo la reale natura di quello che Mattarella definisce «chiarimento politico», ma già qui pare chiaro che in esso Einaudi non vebbe altra funzione che quella notarile: prendere atto che Lauro avrebbe dato appoggio a un Governo Pella, ma non a un Governo De Gasperi.
Non è corretto, poi, affermare, che la scelta di Einaudi sia stata saggia in funzione di una stabilità che sarebbe nei fini affidati alla funzione di chi siede al Quirinale: il Governo Pella durò solo cinque mesi, e vedremo che Einaudi non fu certo in grado di farlo durare di più.

Venendo al tema relativo alla nomina dei ministri e al potere di veto che il Presidente della Repubblica avrebbe su questo o quel nome nella lista sottopostagli da chi egli ha incaricato di formare un Governo, occorre dire che Mattarella stravolge i termini della questione posta con la nota verbale di Einaudi, della quale infatti cita solo una frase che in nulla chiarisce quali siano le «facoltà» che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato, dando però ad intendere che siano decisive nella composizione della compagine governativa. Il fatto è che, se questo è nei fatti (vedasi il caso di Previti, che Scalfaro spostò dalla Giustizia alla Difesa), non è certo la nota verbale di Einaudi a porsi come precedente: Mattarella avrebbe avuto buon diritto ad appellarsi ad una pratica ormai assunta come consuetudine, e con qualche sovrappiù di ipocrisia definita «moral suasion», ma sembra aver preferito trovarne una radice dove – vedremo – non ve ne traccia alcuna.
Il 12 gennaio 1954, data in cui Einaudi recita la sua nota verbale a Moro e Ceschi, il Governo Pella è già insediato da quattro mesi. Il Presidente del Consiglio annuncia un rimpasto di Governo per rinforzarne la tenuta a fronte delle richieste che vengono dagli alleati (Pli, Pnm) e tra i nomi nuovi che propone, allAgricoltura, vè Aldisio, un parlamentare siciliano che, guarda caso, è padrino di battesimo del Mattarella cui oggi sembra assai saggia la scelta di Einaudi di favorire il Pella che fece ministro il suo papà a fronte delle sordide manovre di Fanfani miranti a farlo cadere. Sta di fatto che alla corrente della Dc che sta prendere la guida del partito il rimpasto non piace e pone il suo veto, minacciando di far cadere il Governo. Pella capisce che ha i giorni contati, va da Einaudi ad annunciargli le sue dimissioni, ma questi, preso atto di quanto sta accadendo, gli propone di ripresentarsi alle Camere col rimpasto che ha approntato. Qui Pella rifiuta, ed Einaudi si rassegna.
Dove sarebbe illustrato, in questo caso, il potere di veto che la Costituzione assegnerebbe al Presidente della Repubblica sui nomi sottopostigli da chi egli ha incaricato di formare un Governo? In quella nota verbale vè piuttosto il senso più adeguato che può darsi a quel «nomina», ma a Mattarella deve essere sfuggito: «È ovvio […] che la persona ufficiata od incaricata della formazione del Consiglio dei Ministri senta tutti quei parlamentari che a lui parrà più opportuno; ne ascolti i consigli, i consensi, i rifiuti, apprezzile considerazioni che in merito gli sono esposte e ne tenga il conto migliore nell’adempimento dell’incarico ricevuto. Nessun limite può essere posto ai pareri, ai consensi, alle esclusive, ai rifiuti che, nelle more della formazione del Gabinetto, potranno venir fuori. Tutto sarà oggetto di meditazione da parte della persona incaricata; ed ogni voce, passando attraverso lui, confluirà a determinare le proposte che egli presenterà al Presidente della Repubblica; le quali proposte, passate attraverso quel crogiuolo, saranno, come vuole la Costituzione, diventate le sue proposte» (Luigi Einaudi, Lo scrittoio del Presidente, Giulio Einaudi Editore 1956 - pag. 33).
Qui va sottolineato che, nel testo, «sue» è in corsivo, a far chiaro che «nomina», almeno per Einaudi, vuol significare tutt’altro che «decide», «sceglie», «designa». Per Scalfaro, forse, sì. Per Einaudi, certamente, no.

domenica 4 marzo 2018

martedì 30 maggio 2017

Pippe

Wikipedia gliene dà 35, ma Cerasa ha molti anni in meno, direi non più della metà a giudicare dalle tante pippe che si fa. Grosse occhiaie, ma poca fantasia, perché al ragazzo viene duro solo con laccoppiata Renzi-Berlusconi: possibile, probabile, immancabile, sicura, ci siamo quasi, ecco – e al culmine del climax, avendo un debole per i classici – «ifix, tchen tchen... ahhh!!!... sbozz!!!».
Si sa comè la pubertà, possiamo chiudere un occhio, via. È evidente, tuttavia, che la cosa può tornare dimbarazzo. Non tanto per Cerasa, che è giusto giunga ad una piena maturità sessuale nel modo che più gli aggrada, seguendo lindole: dimbarazzo, le sue pippe, possono tornare proprio a Renzi e a Berlusconi, che potranno pure avere una gran voglia di farsene una, e bella große, ma prima delle elezioni sono tenuti a mantenere un minimo di contegno e, dopo, a mostrarsi almeno un po ritrosi, quasi che a darci dentro, e di brutto, siano costretti, come a dire «non lo fo per piacer mio...». Un po dipocrisia piace tanto agli elettori del Partito Democratico e di Forza Italia, rende più eccitante scoprire dessere fatti della stessa pasta.
Be, non è difficile capire che le pippe di Cerasa facciano correre il rischio che l’incanto si guasti. Così, allincauto segaiolo è un maestro di buone maniere a dover dar consiglio.


lunedì 22 maggio 2017

[...]

Si riapre la discussione sulla legge elettorale, che ora, dopo tanto cincischiare, tutto tattico, parrebbe avere buone possibilità di trovare i numeri in Parlamento, grazie a unintesa tra Partito Democratico e Forza Italia sulla base del comune accordo di andare al voto subito dopo averne approvata una.
Sarà superfluo rammentare che quattordici anni fa lItalia sottoscrisse il Codice di buona condotta in materia elettorale approvato dal Consiglio d’Europa, che nelle Linee guida recita: «Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede lelezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria» (II, 2, b).
Superfluo, perché richiamare le istituzioni italiane al rispetto degli impegni presi in sede europea è inutile, sarà per questo che fin qui a nessuno è venuto in mente di sollevare la questione. A che serve, dunque, rammentarlo? È presto detto: serve a prendere in considerazione le possibili critiche al richiamo. Due sono quelle largamente prevedibili.

Cè chi dirà che alla scadenza naturale della legislatura, in primavera, non sarebbe comunque passato un anno dallapprovazione di una legge elettorale che comunque non potrà vedere luce prima di giugno: non si può mica rimandare il voto.
Certo, non si può, ci mancherebbe altro. È per questo che una legge elettorale sarebbe stato meglio approvarla prima. Di fatto, tuttavia, il succitato punto del Codice di buona condotta elettorale ha una ragion dessere, che trova spiegazione Rapporto esplicativo in allegato alle Linee guida: «La stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, lelettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso» (63).
Ne consegue che, quanto più tempo passa dallapprovazione di una nuova legge elettorale al voto che per la prima volta la vedrà applicata, meglio è: meglio otto mesi che otto settimane per capirci qualcosa. Conterà ancora qualcosa, la libera formazione della volontà dellelettore? E come si può assicurargliela senza unadeguata informazione relativa allo strumento attraverso il quale la sua volontà sarà espressa?

La seconda critica raccoglie questa controbiezione, e in buona parte la supera, anche se con due possibili argomentazioni: (a) la materia elettorale è di ardua comprensione alla gran parte degli elettori: neanche otto anni basterebbero per spiegare la ratio di una legge elettorale a un terzo degli aventi diritti al voto; (b) la democrazia borghese è una truffa, pensare che unadeguata informazione sulla legge elettorale serva a rendere lelettore più libero e più responsabile significa di fatto rendere più sofisticata la truffa, non smascherarla.
Sebbene siano di segno opposto, le due argomentazioni hanno in comune un presupposto: le elezioni sono inutili, e in egual misura, sia a un popolo che (a') è inemendabilmente bue, sia a quello che (b') troverà risposta ai suoi bisogni solo con labbattimento dello stato borghese.
E qui mi arrendo. 

domenica 21 maggio 2017

Segnalibro

Vittima di una congiura



«Una grave patologia caratteriale del leader,
come un narcisismo patologico complicato da
aspetti paranoidi, potrebbe dimostrarsi disastrosa»

Otto Kernberg, 1998


Pure la paranoia, adesso, e proprio in ciò che ne è patognomonico: Matteo Renzi si sente vittima di un complotto e, giacché il suo narcisismo lo fa sentire istituzione («l’état, c’est moi»), dice che si tratta di eversione. Anche in questo segue le orme di Silvio Berlusconi, si dirà, e questo è vero, ma con ciò possiamo ritenere chiusa la questione? Non ci torna utile cercare di capire quali siano le precondizioni personali e di contesto che fanno da piano inclinato lungo il quale questi infelici rotolano nell’abisso, spesso trascinandosi dietro proprio quanti gli hanno dato peso e abbrivio?
Occorre essere onesti: ci mettono del loro, senza dubbio, ma è nello stesso essere leader che s’annida la potenziale regressione. Naturalmente si può dirlo meglio.


Quando queste pressioni vengono ad agire su un soggetto con un serio disturbo della personalità come quello narcisistico, si realizza un quadro che dovremmo saper riconoscere anche se a digiuno di psichiatria. Ridò la parola a chi lo descrive assai meglio di quanto potrei farlo io, invitando il lettore a leggerlo come un identikit.


Rimanda alla mente qualcuno in particolare? Forse potrà aiutare la descrizione dellhabitat relazionale in cui tizi del genere simbozzolano: costituisce il modulo-base attorno al quale viene a svilupparsi la costruzione paranoica.


Qual è il passaggio successivo nella costruzione paranoica del complotto? Per meglio dire: cosa è necessario accada perché questa abbia ragione di essere costruita? Potrà sembrare banale, ma è necessario accada che il leader si senta in pericolo. E il maggior pericolo è dato da una ferita al suo narcisismo: una sconfitta, un’umiliazione, una perdita di posizione, un’incrinatura nella convinzione di essere invulnerabile.
Nel caso di Matteo Renzi, dalla sconfitta del 4 dicembre al caso Consip, tutto ha concorso in tal senso. E ora eccolo a sentirsi vittima di una congiura: ottima fuga dalla realtà, ottimo riparo dalle responsabilità.

venerdì 19 maggio 2017

Gentismo vs populismo


Lopportunità di smentire quanto mi viene erroneamente attributo a pag. 240 di Italian Post-Neorealism Cinema di Luca Barattoni (Edinburgh University Press, 2012), e di spiegarne il perché, mi è offerta dall’intervista che Silvio Berlusconi ha concesso, la scorsa settimana, a Claudio Cerasa («Il mio manifesto antipopulista» – Il Foglio, 15.5.2017), con la quale in sostanza annuncia una seconda «discesa in campo», stavolta non contro i «comunisti», ma contro i «populisti».
La prima reazione a questo annuncio potrebbe essere a buon diritto di forte perplessità, se non di franco disorientamento: cos’è, il berlusconismo, se non un populismo? Con quale faccia tosta, dunque, si atteggia ad antipopulista, oggi, Berlusconi?
Ad una più serena considerazione, tuttavia, occorre considerare lo specifico del populismo che abbiamo visto all’opera dal 1994 al 2011: un populismo che aveva tutti i tratti del populismo (demagogia, velleitarismo, rapporto fusionale tra leader carismatico e base di consenso, una qual certa dose di avventurismo, ecc.), ma al quale Berlusconi aveva dato un carattere piccolo-borghese, levandogli quanto di socialistoide c’è sempre stato in ogni populismo.
Berlusconi, infatti, non si rivolgeva a cittadini affamati di egualitarismo, ma a contribuenti-consumatori-spettatori cui prometteva un modello di società nella quale le disparità tra individuo e individuo fossero da intendere come forme attive, insieme plastiche e dinamiche, della loro «libertà».
Finalmente liberata dai «lacci e lacciuoli» dello «statalismo» di stampo «cattocomunista» della Prima Repubblica (il lettore perdoni la profusione di virgolettati: ogni populismo ha il suo idioletto, quello di Berlusconi si limitava a una ridefinizione di termini comuni, non di rado ambigui, spesso consunti da un lungo uso), la società italiana sarebbe diventata un Paradiso, del tipo che Piccarda Donati spiega a Dante, stupito che la beatitudine abbia gerarchia per cerchi: tutti felici, nella promessa di Berlusconi, per essere ricolmi di benessere secondo le proprie diverse capacità, dando a capacità la doppia accezione di abilità e capienza (abbondanza di pietanze ai più agiati, abbondanza di avanzi al ceto medio, abbondanza di briciole ai più bisognosi).
Direi ci fosse il quid e il quantum per dare un termine adeguato a questo populismo, e l’insistente richiamo alla «gente» piuttosto che al «popolo» cosa suggeriva? «Gentismo» calzava come un guanto.

Non sono stato certo io a coniare il termine «gentismo»: esisteva già da parecchio tempo prima ch’io cominciassi a usarlo (la prima volta, in una lettera che Il Riformista di Antonio Polito mi pubblicò nel 2004; poi, su queste pagine, soprattutto tra il 2007 e il 2009), conscio che già esistesse, ma senza essere in grado di precisare donde venisse. Ancora oggi non saprei dire dove io l’abbia incontrato per la prima volta, visto che Google mi dà solo tre voci antecedenti al 2004 (lEnciclopedia delle scienze sociali della Treccani, dall’edizione del 1996 in poi, alla voce Populismoun corsivo di Michele Serra del 2002; un pamphlet di Davide Giacalone del 2003), dalle quali sono comunque sicuro di non averlo potuto attingere
Non sarebbe neanche necessario precisare di non aver coniato io il termine, perché Luca scrive che mi sarei limitato ad appiccicarlo come etichetta al «new post-democratic brand of populism» incarnato da Berlusconi, ma quell«appropriately» mi pare crei confusione conferendomi un merito che non potrei comunque vantare, visto che il «labeling» era già in tutte e tre le fonti sopra citate. Cosa può averlo tratto in inganno, sebbene io non abbia mai millantato questo merito, né su queste pagine, né altrove?
Posso solo avanzare un’ipotesi. Con lui, qualche anno prima della pubblicazione del suo peraltro splendido lavoro, ebbi uno scambio epistolare che non rammento più come ebbe inizio, ma che spaziò di lungo in largo, da Pasolini a Deleuze, da De Sica a Tangentopoli, da Monicelli a Bossi. Chiacchiere in libertà, e lì dentro sarà finito inevitabilmente quello che scrivevo su queste pagine: a Luca sarà parso che le mie riflessioni fossero particolarmente originali, e che la disinvoltura con la quale usavo un termine come «gentismo» facesse indizio di esserne altrettanto originale formula riassuntiva.
Mistero fitto, invece, su come Luca possa aver pensato io fossi un «journalist», perché non lo sono, né ho mai desiderato esserlo, né mai avrei potuto darlo da credere, tenuto conto della pessima considerazione in cui ho sempre tenuto il giornalismo e i giornalisti. Credo si tratti di un lavoro duro e mal pagato, che dia pochissime soddisfazioni e imponga regole alle quali non sarei assolutamente in grado di piegarmi. Più in generale, ritengo che la scrittura abbia molto in comune col sesso: farlo a pagamento, anche quando non si ha voglia, cercando di accontentare il cliente e di non fare incazzare il pappone, semmai fingendo pure lorgasmo, mi pare un incubo, e non faccio differenza tra escort di lusso e infima bagascia, perché ho avuto l’opportunità di conoscere professionisti del settore assai stimati dall’opinione pubblica, ma anch’essi non mi son parsi venir meno alla legge che il lettore vada ingannevolmente compiaciuto, secondo le sue voglie, fra le quali può ben esserci quella di essere maltrattato un poco. Direi che ogni giornalista sia un populista in sedicesimo.