giovedì 4 ottobre 2018

Pesciolini rossi

Col ritenere che avessero una memoria labilissima – 8" per alcuni, 30" per altri – si è sempre stati ingiusti coi pesciolini rossi, così ci redarguì uno studio della MacEwan University di Edmonton, in Canada, che del 2014 diede prova inconfutabile del fatto che queste deliziose bestioline riescono a ricordare pure ciò che è accaduto fino a 12 giorni prima. Tenuto conto che alcune varietà (il Chromobotia macracanthus, per esempio) possono vivere anche 15 anni, non è affatto poco: fatta proporzione con gli 83,3 anni della vita media di un italiano (Eurostat, 2015), significa riuscire ad andare addietro con la memoria ad oltre 2 mesi, il che non riesce sempre agli italiani, come l’esperienza ci insegna. Non fossero così miti e così poco inclini a darsi arie – i pesciolini rossi, dico – li vedremmo sbellicarsi a branchie spalancate per la smemorataggine di cui le assai poco deliziose bestioline – gli italiani, dico – danno prova di continuo.
Berlusconi, ricordate? Quello che per lustri fu fatto bersaglio di critiche feroci, insulti micidiali e statuine del Duomo di Milano, avete presente? Non scherzate, via, è impossibile che l’abbiate dimenticato: il nano, il caimano, il mafioso, il puttaniere... Afferrato, il ragguaglio? Sì, lui – Berlusconi, dico – avete presente? Perfetto, ero sicuro che col ragguaglio... Bene, dite: servì a niente quel poderoso esercito di giullari armati di geniale sberleffo, di battutisti professionali o d’accatto, di sciantose frementi in accorate indignazioni, di solerti archivisti delle gaffes, degli spropositi, delle mattane e perfino delle analisi delle urine del Gran Cafone? A niente, tutt’al più a far trascorrere gli anni incanalando frustrazione e rabbia in una consolatoria forma di intrattenimento, che ebbe i suoi fasti nei salottini di un Santoro, di una Dandini, coi rispettivi epigoni, più o meno mal riusciti. Tutto di qualche utilità, sia chiaro, soprattutto a chi in quel filone seppe scavarsi la sua nicchietta o il suo nicchione, ricavandoci la marchetta o il contrattone, ma il fine dichiarato restò sempre lontano. Meglio la magistratura, senza alcun dubbio. Meglio ancora lo stesso Berlusconi, che finì per carbonizzarsi da solo, anche se solo – onestà vuole gli sia dato merito – dopo lunghissima combustione, che offrì il calduccio a frotte di papponi e di ruffiani.
Ecco, che cosa resta nella memoria del paese? Praticamente niente. Monta un’altr’onda minacciosa, stavolta giallo-verde, e cosa le fa diga? Il Foglio al posto di Repubblica, la Gruber al posto di Santoro, Zoro al posto della Dandini, e appresso, come i sorci dietro il piffero, gli arguti e meno arguti girotondini stavolta a far centocinquanta-la-gallina-canta su Twitter, un Marco Taradash che sbraita come un Pietro Ricca. Tutto legittimo, sia chiaro, il negoziante è giusto si rifornisca della merce più richiesta, gli ambulanti è giusto battano i marciapiedi dove le loro cianfrusaglie vanno via meglio, i clienti è giusto possano portare a casa l’articolo che più s’adatti a gusto e tasca. Ma illudersi che anche stavolta sia Resistenza, e che a sbattersi come ossessi si ottenga la Liberazione – più che da pesciolini rossi è da cozze.

martedì 2 ottobre 2018

Per tempo


«Siamo in parte responsabili anche Marx ed io – scrive Engels nella lettera a Bloch datata 21 settembre 1890 – del fatto che [da parte di qualche marxista] si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga»: è che «di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre cera il tempo, il luogo e loccasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori»; vero è – tiene a precisare – che, «secondo la concezione materialistica della storia, la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante», ma «né io né Marx abbiamo mai affermato di più».
Una lezione di grande onestà intellettuale, ma anche un serio monito a quanti inclinano a un ferreo riduzionismo economicista per spiegare il mondo, e semmai senza neppure essere marxisti, giacché è noto che Marx è sempre stato letto poco e male, ma più dai capitalisti che dai proletari. Questi ultimi, infatti, hanno da tempo deposto le armi della lotta di classe, fino a smarrirne addirittura la ragione e il fine, mentre invece tocca sentire un Buffet, terzo in classifica tra gli uomini più ricchi al mondo, dire che «la lotta di classe cè e al momento la vittoria è nostra».
Il monito di Engels, per esempio, non fu recepito da Togliatti, che nel suo Corso sugli avversari (Opere, III, 2, pagg. 531-671 – Editori Riuniti, 1973) non tenne in alcun conto i caratteri sovrastrutturali del fascismo, limitandosi a darne una definizione in tutto sovrapponibile a quella data dalla Terza Internazionale: «Il fascismo è una dittatura apertamente terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario»; è «agli ordini del suo padrone, la borghesia», che se ne serve per «esercitare una pressione armata sulle classi lavoratrici»; e questo accade quando le contraddizioni interne alla borghesia giungono a un punto tale che essa, «impossibilitata a governare con i vecchi sistemi», «è costretta a liquidare le forme di democrazia».
Questo forse può andar bene – ma neppure tanto – per dar conto del fenomeno al suo affacciarsi sulla scena del XX secolo, quando era fascismo agrario, ma basta a descriverlo per intero, soprattutto nei suoi sviluppi? Si può dar conto del suo diventare in tempi così brevi, come lo stesso Togliatti è costretto a riconoscere, un «partito di massa», con un consenso ampio e un profilo decisamente interclassista, senza riconoscergli un saldo aggancio a quella complessa sovrastruttura che per certa infelice pubblicistica è la «natura dellitaliano», e che al variare delle condizioni storiche sembra mostrare continuità in una dimensione etico-estetica che riesce a rappresentarsi, seppur fallacemente, come metastorica?
Senza dubbio, il riduzionismo economicista di Togliatti trascura «quel che spettava agli altri fattori», ma il fatto che «attribuisca al lato economico piú rilevanza di quanta convenga» è solo un limite di analisi o di fatto si traduce in uno strumento di lotta politica? Riducendo il fascismo a mero strumento del capitale in funzione antioperaia, non cercava forse di insinuare che il più genuino e il più efficace antifascismo potesse essere solo quello anticapitalistico, e cioè quello comunista? A quale altra logica può rispondere, altrimenti, il mettere tra gli «avversari» su cui tiene il suo «corso» – le sue Lezioni sul fascismo – anche i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani e gli azionisti? Il riformismo – chiede Togliatti – non è forse da considerare come «principale sostegno della borghesia» in quanto trappola per ingabbiare il movimento operaio, suadendolo ad accettare la logica del capitale e stornandolo dalla rivoluzione che invece mira a sovvertirla? E non è stato il riformismo a spaccare, e quindi a indebolire, il movimento operaio italiano, con ciò spalancando di fatto le porte al fascismo?
Lasciar fuori dallanalisi del fascismo ogni altro fattore che non fosse quello economico gli serviva in sostanza a presentare il comunismo come sola valida alternativa al fascismo, preparando in favore del Pci la vulgata di una Liberazione tutta comunista. Effetto collaterale: lasciare a sinistra del Pci chi si sarebbe poi sentito pienamente autorizzato a una ripresa della «Resistenza interrotta», ovviamente armata.

Non so se quello giallo-verde possa essere considerato un nuovo fascismo. Tenderei ad escluderlo, anche se non cè dubbio che nel M5S ci sia stato, e in parte ancora sussista, qualcosa di sansepolcrista, mentre nellhumus leghista sono evidenti germi di nazionalismo, autarchia e xenofobia. A ridarci in farsa la tragedia del fascismo manca la sincresi tra questi elementi, che è difficile possa darsi in assenza di catalizzatore: non cè un genio politico come Mussolini, ci sono due talentuosi sfessati che vivono lavventura alla giornata, manca soprattutto un Pareto col suo «ora o mai più». E tuttavia facciamo finta di essere alla riedizione di un 1921, quando erano in pochi a intuire cosa si parava e in tanti a ritenere che il fascismo sarebbe imploso proprio per la velocità con la quale era cresciuto: facciamo finta che i sondaggi annuncino la nascita di una cosa vecchia, ma ovviamente completamente nuova, un fascismo 2.0 che riesca a costituirsi in regime. Bene, cosa gli consentirà di essere «partito di massa»? Di quali tratti della «natura dellitaliano» saprà rivestirsi? E poi: come sarà spiegabile un tale fenomeno con unanalisi che faccia propria la ratio di un ferreo riduzionismo economicista?
Non si fosse capito, il tema è posto al sociologo, allo psicologo delle masse, allarcheologo che cerca archetipi. E sì, anche al marxista che voglia attribuire «al lato economico più rilevanza di quanta convenga».

Sia consentito l’eufemismo


1. Ho incontrato per la prima volta la politica nei primi anni Sessanta, quando nelle passeggiate pomeridiane con mio nonno si finiva regolarmente ai tavolini di un bar, io a leccare il mio gelato a limone e lui – sia consentito l’eufemismo – a chiacchierare con i «nemici del popolo», come regolarmente finiva per stigmatizzarli quando doveva chiudere la discussione, perché dopo il terzo gelato al limone mostravo – sia consentito l’eufemismo, qui con puntina di lirismo – un aurorale disìo di casa.
Dal vago dei ricordi, oggi, emergono con qualche più nitida immagine le sue tirate contro Saragat, che in quanto socialdemocratico risultava dunque «nemico del popolo» due volte, com’era evidente dai sette anni di vitto e alloggio al Quirinale con cui la borghesia gli aveva liquidato il tradimento della classe operaia.
È che il buon Peppino Carneglia era uscito – sia consentito l’eufemismo – un po’ esacerbato da vent’anni di fascismo: un mezzo litro di olio di ricino nel ’27, continue seccature sul lavoro, un anno e mezzo di «villeggiatura» a Ponza. Né trovò mai pace dopo, perché la Resistenza che doveva dare alla luce una gloriosa dittatura del proletariato aveva prodotto l’aborto di una misera repubblichetta democristiana.
Ecco cosa mi sembrò, la politica, le prime volte che la incrociai: una variante del pugilato in cui i bicipiti, però, non erano decisivi. Non necessariamente, almeno. In quanto al resto, per ciò che ancora mi toccava apprendere, nessuna differenza: pubblico eccitato dal sangue, puzza di sudore e olio canforato, scommesse vinte o perse.
Con questo genere di inprinting era inevitabile che finissi per diventare un ragazzino più interessato a Tribuna politica che a Chissà chi lo sa?, con quanto doveva conseguirne per l’adolescente, l’adulto e l’anziano: impossibile il disinteresse – sia consentito l’eufemismo – per ogni incontro, che si trattasse di pesi piuma o di pesi massimi.
Da un certo punto in poi, inoltre, a questa non saltuaria né pigra consuetudine di spettatore s’aggiunse – pure qui sia consentito l’eufemismo – il prender nota, in una sorta di diario, imbottito di ritagli di giornali. Un blog cartaceo, diciamo. Il primo post – quindici righe su un foglio a quadretti – reca la data del 26 maggio 1970, a commento di quel che alla tv, la sera prima, aveva detto un semisconosciuto Almirante, che lanciava il suo appello a quanti non avessero intenzione di «farsi comunistizzare»...

A che pro, nell’economia dell’argomentazione, questa premessa autobiografica? Per millantare un po’ di auctoritas – confesso – e facendolo nel modo più disonesto, che è quello di far scivolare suggestioni tra aneddoti. Il maestro indiscusso di questo trucchetto era Andreotti: partiva sempre da un aneddoto che datava trenta, quaranta, cinquant’anni addietro, nessuno poteva smentirlo, i personaggi erano tutti morti, rimaneva solo lui a testimoniare che fosse andata veramente come raccontava, sicché l’aneddoto era – insieme – memoria e messaggio, storia e metafora, deposito e trincea.
Insomma, avrei potuto farla meno lunga, e soprattutto più pulita, dicendo «è da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane», e subito arrivare al punto, ma a quel punto il punto non sarebbe stato fermo al punto cui volevo fissarlo: infilandoci Saragat e Almirante, nonno e tv in bianco e nero – avevo pensato di infilarci pure papà che a quattro anni mi insegna a leggere sui titoli de lUnità, poi mi è sembrato troppo – volevo darle un peso che forse non ha, perché in fondo l’età non fa merito in nulla, comunque non di questi tempi, e insomma, niente, facciamo come quando il blog era cartaceo: un tratto di penna sopra, e tutto daccapo.

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1. È da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane, ma non ho mai visto un governo cui i sondaggi attribuissero tanto consenso e che – insieme – godesse di tanta cattiva stampa.
Chiariamoci. So bene che i sondaggi sono spesso inattendibili, e che ancor più lo è il prestare ascolto alle chiacchiere colte al volo su un mezzo di trasporto pubblico o alla cassa di un supermercato, che peraltro possono cambiar di segno nel giro di pochi mesi, visto che la plebe è plebe, e sul fatto che lo sia nessuno nutre dubbi, soprattutto se non sente di farne parte. Io che da sempre me ne sento fuori, e che da sempre trovo plebei anche molti patrizi, porgo l’orecchio a queste voci ed è in esse, assai più che in quelle di Di Maio e di Salvini, che trovo l’embrione di una dittatura: leghisti e grillini hanno il consenso che di solito la plebe dà a chi incarica di far riscatto, previa vendetta.
Le ho sentite, in questo mezzo secolo, le voci di consenso a Fanfani e a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, ma in esse già c’era la crepa che apriva al dopo, all’ennesimo riscatto, previa vendetta. Stavolta, no. Stavolta è il consenso disperato che si dà all’ultima speranza, come se dopo non ci fosse più niente di seppur vagamente somigliante alla democrazia. Perciò credo che, se questo governo dovesse cadere troppo presto, ne vedremmo delle brutte, ma brutte davvero, perché un’opposizione in grado di farlo cadere non c’è, e quindi a farlo potrebbe essere solo chi sarebbe comunque sentito come «nemico del popolo», innescando una reazione a catena dagli esiti imprevedibili, ma comunque esiziali. Credo che l’unico ad averlo capito sia Mattarella, che non è mai riuscito a mandar giù il rospo uscito dalle urne, ma si muove con molta più circospezione del suo predecessore, conscio che a sputarlo fuori dovrebbe ingoiarlo di nuovo: cerca di digerirlo, ma si vede che è digestione difficile.
Gli altri – Pd in primis – scommettono sul default, contano su Bruxelles, sperano che salti l’intesa tra leghisti e grillini, stanno agguerriti sull’omesso congiuntivo, sulla felpa cafona, sul tweet improvvido. C’è da compiangerli, poveretti, non hanno capito niente: sperare che lo spread salga, facendo finta di disperare; chiamare in soccorso l’esercito straniero, che non soccorre mai a gratis; seminare zizzania tra due anime diverse, certo, ma ormai saldate da un inaudito consenso popolare, disponibili a dissaldarsi solo per lo spazio di una nuova campagna elettorale; segnalare quanto siano zotici e ignoranti questi parvenu al governo, e segnalarlo a un popolo che in gran parte è zotico e ignorante; questo, e il resto, si traduce nello sterile e ormai logoro esercizio di parlare a se stessi, chiudendosi in assedio. Non hanno capito niente, e si può capire, sennò non dimezzavano i voti in un lustro: cretini e arroganti, incapaci non meno di chi accusano d’incapacità, non si rendono conto che è impossibile recuperare consenso, che sono bruciati più di Berlusconi.
Anche volendo dar per certo che il consenso attribuito a questo governo dai sondaggi sia assai sovrastimato, però, c’è di incontestabile che tv e giornali non sono mai stati tanto ostili ad un governo che dalla sua formazione ad oggi, invece, non mai visto flettere il consenso all’unione delle forze che lo sostengono in Parlamento; e «tv e giornali» è da intendere in senso estensivo, con quanto ci gira dentro e intorno, ed è questo che dà la più evidente misura della distanza tra l’opinione pubblica e quello che dovrebbe rappresentarla (eventualmente formarla), perché questa variegata gens che campa di intrattenimento e arti varie sconta il peccato originario d’essere stata sempre a libro-paga di chi investiva nell’informazione a copertura di ben più seri cazzi propri, e ora vive il disorientamento di chi è a corto di marchette.
Mai tanta ostilità a un governo da parte di tv e giornali: sul piano quantitativo, giacché le voci che gli sono a favore si contano davvero sulle dita di una mano, e parlo delle voci che godono di qualche autorevolezza, perché quelle dei social network sono aristocrazia della plebe, ma pur sempre plebe (diciamo che il bandwagon del 4 marzo fa fatica a imbarcare vip); ma pure su quello qualitativo, perché neppure con Berlusconi a Palazzo Chigi ho visto tanto accanimento, la cui misura sta nella qualità degli argomenti, con intelligenze che fino a poco tempo fa davano prove di raro acume e oggi, contro i giallo-verdi, producono argomenti davvero patetici, che finiscono per andare a loro favore...

No, neanche così va bene, sembra il delirio di chi goda del veder finalmente soddisfatto un personale desiderio di vendetta. Ha il sapore di un risentimento infine ristorato dalla tragedia. Peraltro non sa neppure farsi scudo di eufemismi: come se chi ha sempre considerato plebei tutti i patrizi che gli capitavano a tiro oggi sbottasse in un «vi meritate che la plebe vi sbrani: sono bestie, ma voi non siete diversi, e in più siete sempre stati prepotenti e supponenti». No, non va bene, che figura ci faccio? Tutto daccapo, via. 


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Direi che il paese sia di nuovo spaccato in due, ma stavolta la spaccatura non è verticale, tra destra e sinistra, ma orizzontale, tra basso e alto, e il fronte non divide due campi pressoché speculari, ma, dun lato, c’è un ventre che col tempo è diventato sempre più gonfio di rabbia e, dall’altro, un cervelluzzo rammollito da agi e privilegi. Così, quando si afferma che lo scontro oggi è tra popolo ed élite, e che questo prepara la catastrofe della democrazia, che invece può reggere solo sulla capacità dare legittimità all’élite che è capace di selezionare per darle la guida della società, io mi chiedo perché quella selezionata non sia riuscita a farlo a dovere, né a rinnovarsi per far fronte ai problemi insorgenti. Rinunciando all’eufemismo, che cazzo di élite era? E con quale diritto, dunque, oggi reclama l’autorevolezza di cui si sente essere stata spogliata con l’inganno e la violenza degli spregiudicati avventurieri che menano l’Italia alla rovina? Con quale credibilità ritiene di poter mettere in allarme il paese perché il Def dei giallo-verdi minaccia di aggravare un debito pubblico che è proprio lei ad aver portato al 132%?




domenica 23 settembre 2018

Tra due giorni non se ne parlerà più


Sulla polemica accesasi con la divulgazione in audio del contenuto di una conversazione privata tra Rocco Casalino e due giornalisti di Huffington Post, credo si debba innanzitutto far chiara distinzione tra la questione che sta al nocciolo di quanto affermato dal portavoce della Presidenza del Consiglio e quelle che le si sono immediatamente sovrapposte per riproporci ancora, ma a parti invertite (il che ci dà misura di quanto siano idealmente motivate), le solite risse tra gli estremisti della privacy e quelli della trasparenza, tra chi sostiene il primato della politica e chi quello della competenza tecnica, tra chi afferma che la forma è sostanza e chi invece che della forma la sostanza può sbattersene i controcoglioni.

Comincerei con lo sbarazzare il tavolo da queste ultime, per dare più attenzione a quella centrale. Lo faccio ponendo alcune domande. Solitamente, Huffington Post è benevolo col M5S? E Rocco Casalino, scafatissimo com’è, non ha messo in conto che quanto diceva a due giornalisti di quella testata venisse testuamente riportato? A uno dei due non è data forse esplicita consegna di informare i suoi lettori che «nel M5S è pronta una mega-vendetta», ancorché di riferirla a «fonte parlamentare»? Era tutto previsto, via, compreso il pressoché generale biasimo per il tono arrogante e minaccioso: era necessario mostrare il muso duro ai tecnici del Mef, occorreva che il muso duro fosse visto da tutti, per poterli poi additare più efficacemente all’opinione pubblica come i soli responsabili di un eventuale flop del Def. Il copione era già scritto, comprese le repliche alle critiche, peraltro tutte prevedibilissime.
Il messaggio è chiaro, e arriva nel modo più efficace a tutti i destinatari: non solo ai tecnici del Mef, ma anche a chiunque volesse assimilarli al titolare del dicastero per creare spaccature nel Governo e attriti col Quirinale, perché – sia chiaro – Giovanni Tria è «un ministro serio che si occupa dei problemi degli italiani».
Fa ridere, chi chiede la rimozione di Rocco Casalino dall’incarico affidatogli: è stato solerte esecutore di ordini che venivano dall’alto e, a considerare le dichiarazioni di Matteo Salvini sul caso, è assai probabile che la cosa fosse stata opportunamente concordata tra i vertici di Lega e M5S.
Tra due giorni non se ne parlerà più, ma intanto i tecnici del Mef adesso sanno cosa rischiano e non potranno più ritenersi al sicuro nella certezza, consolidata dalla pratica che ha accomunato Prima e Seconda Repubblica, che i politici passano, ma i tecnici restano.

Ma veniamo alla sostanza del problema, che direi si possa porre in questi termini: Rocco Casalino ha esposto in modo rozzo e volgare un concetto che tra le personcine fini ed eleganti è noto come «spoils system», e che peraltro è stato pienamente recepito dalla nostra legislazione, con la legge n. 145 del 15 luglio 2002, che dalla Consulta ha avuto conferma di legittimità costituzionale con la sentenza n. 233 del 16 giugno 2006.
Vi si legge che «per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro»; che «con il provvedimento di conferimento dellincarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi [...], sono individuati loggetto dellincarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dallorgano di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dellincarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati»; che «il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero linosservanza delle direttive imputabili al dirigente [...], comportano, ferma restando leventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, limpossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, lamministrazione può, inoltre, revocare lincarico […] ovvero recedere dal rapporto di lavoro».
Di là dal ritenere giusta o no una legge che consente alla politica di sbarazzarsi dei tecnici che a proprio insindacabile giudizio ritenga incapaci o indisponibili allo scopo loro preposto, dovè la differenza con quanto ha detto Rocco Casalino? Cè quellantipatico dare del «pezzo di merda» a chi si considera responsabile del «mancato raggiungimento degli obiettivi» o, peggio, dell«inosservanza delle direttive», e cè quella minaccia di «mega-vendetta» invece di una più mite constatazione dell«impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale», e infine cè quella «cosa ai coltelli» che dà un fastidioso eccesso di colore al ben più neutro «revocare lincarico», ma il giovanottone è un villico, esce dalla tv berlusconiana, cosa si può pretendere?

venerdì 21 settembre 2018

De causis corruptae eloquentiae


Incredibile, lo so, ma ve la racconto lo stesso.
Leggevo l’articolo di un tizio che lamentava il degrado della comunicazione pubblica: brutali volgarità, laide menzogne, diffusa aggressività e, soprattutto, ignoranza, tanta ignoranza. Bel pezzo, devo dire, non si poteva fare a meno di annuire ogni tre righe.
Costretto ad annuire di continuo, era possibile accadesse, e infatti è accaduto: annuendo mentre accostavo alle labbra il mio tazzone di caffè, me n’è caduto un po’ sul giornale.
D’istinto ho tamponato con un kleenex, ma ho fatto peggio: un pezzo del giornale è venuto via, lasciando un buco nella pagina. E qui viene il bello, perché attraverso il buco vedo che sotto c’è la ruvida superficie di un papiro sul quale sono impressi caratteri che compongono parole inconfutabilmente latine: «-ata peroratio atque pro- / -ptum in quo rata- / -ibi bene cecid- / …».
Trasalisco, ovviamente, e prima grattando con l’unghia, poi strappando a brani tutta la pagina del giornale, davanti a cosa mi trovo? Al De causis corruptae eloquentiae di Quintiliano, per tutti andato perduto. In realtà non si trattava dell’opera completa, ma solo del proemio, per giunta mutilo del finale.
Non vi dico con quale eccitazione mi fiondo a leggere. È lui, è lui, non c’è dubbio che sia proprio lui: periodo faticoso, frequenti ripetizioni, ogni concetto espresso sempre in due o tre modi diversi, ciascuno aperto a dare aggancio a uno sviluppo diverso. Da estenuare chi oggi non concepisce un saggio che non sia innanzitutto una sequenza di aneddoti, citazioni, citazioni di citazioni, carinerie e rimandi a ciò che si dà scontato si sia già letto, e che poi semmai non ha letto neppure chi scrive, ma di cui, a onor del vero, ha sentito parlare.
Quintiliano, no. Quintiliano procede per proposizioni che sono squadrate con pazienza dal granito, che vanno a costruire edifici resistenti pure ai terremoti di magnitudo 9, nei cui meandri a volte ci si perde, ma solo per tornare da dove si è partiti.
È con piacere che offro al mio lettore il proemio del De causis corruptae eloquentiae. Tradotto con qualche libertà, ovviamente, per non tediare troppo chi è abituato ad argomentazioni non più lunghe di 280 battute.
Superfluo dire, com’è d’obbligo per tutto ciò che è vecchio di secoli: di strabiliante attualità.


Non è obbligatorio scendere nel foro in cui l’uditorio sia manifestamente refrattario alla retta argomentazione per cercare di persuaderlo alle proprie ragioni. Se lo si fa, però, non ci si può lamentare che la retta argomentazione non ottenga il risultato voluto. D’altronde, se si sente irrinunciabile persuaderlo alle proprie ragioni, la retta argomentazione non è l’unico strumento a disposizione: ve ne sono di scorretti, ma assai efficaci, anzi, tanto più efficaci quanto più scorretti, perché la refrattarietà alla logica che informa la proposizione valida rende solitamente estremamente ricettivi a sofismi, paralogismi, antinomie, fallacie.
Usare strumenti scorretti potrà far sorgere qualche scrupolo, che però non sarà difficile soffocare nella convinzione che il fine giustifichi ogni mezzo, soprattutto se si sente indispensabile ottenerlo in fretta. Se non si è dominati da questa urgenza e, ancor più, se non si è disposti a usare un mezzo scorretto per ottenere il proprio fine, rimangono due sole alternative: non scendere affatto in quel foro; oppure scendervi, ma armati di coraggio e pazienza, disposti a spendere tutte le proprie energie in uno sforzo che in buona sostanza è tutto e solo pedagogico, avendo ben presente, però, che, anche se instancabilmente operoso, non è affatto detto sia destinato a trovare successo, tanto meno in tempi brevi.
Ciò premesso, a nessuno sfuggirà che lo spazio di comunicazione pubblica sia un foro; che il motivo per il quale solitamente vi si scende è sempre (in senso stretto o in senso lato) politico; che in quest’ambito relazionale la persuasione si traduce in consenso; che, quando questo sia maggioritario, darà legittimità al governo della cosa pubblica; che chi aspira al governo della cosa pubblica lo considera quasi sempre un fine irrinunciabile.
Non credo sia necessario tradurre nei termini che sono propri della lotta politica quanto si è poc’anzi detto: se il discorso pubblico è, al pari di ogni altra forma di comunicazione, l’articolazione di proposizioni che possono rispondere o meno alle norme della retta argomentazione, data una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%, c’è da attendersi che il ricorso a strumenti scorretti possa senz’alcun dubbio dare risultati assai migliori, e in tempi assai più brevi.
Cosa può dissuadere dal farlo? Nulla, in realtà. In teoria potrebb’esserci il sapere che un buon fine difficilmente resta tale quando è ottenuto con mezzi disonesti; sta di fatto che, quando il fine è considerato irrinunciabile, difficilmente si riuscirà a valutarne la bontà lungo l’iter necessario a conseguirlo, e questo a voler dar per certo che fosse buono all’inizio. Sempre in teoria potrebb’esserci il sapere che la persuasione ottenuta in tempi troppo brevi e con metodi scorretti è estremamente labile, perché su basi poco salde; in pratica, tuttavia, si finisce quasi sempre per credere, e anche a ragione, che a un consenso ottenuto con argomenti invalidi si possa dare continuità con nuovi argomenti, altrettanto invalidi, ma altrettanto efficaci.
Direi sia veramente difficile rinunciare a strumenti retorici disonesti quando si ha la certezza, fondata sull’esperienza, che una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75% risponde meglio a questi che a quelli onesti. È del tutto naturale, dunque, che anche chi scenda in un tal foro armato delle migliori intenzioni sia costretto a scegliere: un consenso facile e immediato, largo ancorché labile, ottenuto in modo disonesto, o un’onesta, lunga e faticosa missione pedagogica che miri ad un consenso che c’è attendersi comunque assai limitato? Solo scrupoli di natura morale possono scoraggiare dallo scegliere la prima opzione, ma non s’è sempre detto che politica e morale non hanno nulla da spartire? Come si può continuare a dirlo sostenendo nel contempo che è lecito acquistare consenso solo usando mezzi onesti? Che c’entra l’onestà con una pratica i cui risultati devono essere giudicati solo sul piano della capacità? E da cosa è dato, il giudizio, se non dalla misura del consenso? È dato dalla sua misura, non già da come lo si è ottenuto. E dunque si sia seri: chi ha fede nella retta argomentazione non può e non deve attendersi consenso nel foro in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%.
Non a caso parlo di fede. Se alla logica, infatti, attribuiamo le qualità che il credente attribuisce a Dio (ve n’è evidente corrispondenza quando questi lo chiama Logos), occorre rassegnarsi al fatto che il suo regno – il regno in cui la logica detta le norme al dire e al fare – non è di questo mondo; che, se decide di incarnarsi, la logica, deve essere disposta ad esser crocifissa, dopo essere stata offesa e derisa; che eventualmente può risorgere, ma solo per tornarsene da dov’è venuta, dopo una fugace Pentecoste che serve solo a lasciare a evangelisti, apostoli e discepoli il mandato al martirio; che può darsi tornerà alla fine dei tempi, ma solo per trovare sulla terra una sparuta manciata di giusti.
Si scherza, ovviamente, sappiamo che la logica non ha nulla di divino: è una tecnica, oppure, per meglio dire, è una disciplina, e ha regole ferree, inderogabili. Possiamo a buon diritto ribaltare quanto detto, com’è per tutto ciò che è divino: non è la logica ad aver creato l’uomo, ma viceversa; non apparve sulla terra così come la vediamo oggi, ma nel tempo, a dispetto del ritenerla anteriore e superiore ai tempi, ha subìto una profonda trasformazione, tanto profonda da farle perdere la primigenia natura; ha pretese universalistiche, ma deve fare i conti con le condizioni che incontra e non di rado l’inculturazione le riesce male, trovando resistenze che sembrano più biologiche che culturali; i suoi sacerdoti predicano bene, ma spesso sono sorpresi a razzolare male, e in più vestono insegne di casta; la fede in lei può facilmente trasformarsi nella vuota celebrazione di rituali astrusi, in un arido sistema di precetti algebrici che la vita quotidiana s’incarica di dimostrare inapplicabili.
Si fa torto al presente pensando che questo non sia accaduto sempre...


Nota al testo

Al lettore che si stupisse di trovare in un testo del I secolo la locuzione «analfabeti funzionali» occorre far presente che nelloriginale essa era resa dalla perifrasi «stulti qui vivunt, cogitant et loquuntur ad mentulam canis».

lunedì 17 settembre 2018

Siete serviti


In linea di principio, potrei anche rinunciare alla democrazia in favore di una forma di governo in cui il potere sia esercitato da un’élite illuminata, ma è che sul piano pratico vedo ostacoli insormontabili.
Il primo, e il più grosso, sta nel fatto che da un certo punto in poi potrei smettere di considerarla illuminata, ma allo stesso tempo non aver alcun diritto di metterne in discussione il potere, il che di fatto me la trasformerebbe in una dittatura. Infatti, delle due, una: o è sempre illuminata, e non può smettere d’esserlo (non è questo, infatti, che legittima il suo potere in alternativa alla democrazia?), e allora sono io in errore a pensare che non lo sia più (ma questo non implica che potrei essere stato in errore anche quando pensavo che lo fosse?); o è realmente possibile che abbia smesso d’essere illuminata (come è possibile che non lo sia mai stata), e allora non si capisce che bisogno avrei di rinunciare alla democrazia che mi consente di poter rivedere il mio giudizio a scadenze prefissate dopo aver verificato l’operato di chi ho eletto o dopo aver constatato che si trattava di un giudizio errato in partenza.
È che «élite» significa – appunto – «eletta», «scelta», ma il nodo del problema sta nel «da chi», perché, se su quanto sia illuminata, e per ciò legittimata ad esercitare il potere, devono esprimersi quanti in un sistema democratico sono periodicamente chiamati a scegliersi dei rappresentanti, tra élite e rappresentanza scompare ogni differenza, così come smette di esserci alternativa tra due forme di governo che in realtà sono una sola. Si dovrebbe, altrimenti, dar ragione a chi afferma che una democrazia regge solo se riesce a esprimere un’élite illuminata, che però si dà a intendere non possa sortire da un voto. Chi lo afferma, infatti, fa chiara distinzione tra élite ed eletti dal popolo, anche se ammette possano esserci aree di sovrapposizione e coincidenza tra i due insiemi in quelle personalità che riescano ad ottenere un rinnovato mandato elettivo per un lungo periodo. È tuttavia evidente che, se a esprimersi su quanto sia illuminata una cerchia di personalità cui si voglia affidare l’esercizio del potere devono essere chiamati tutti, la qualità in oggetto sarà semplicemente conferita da un consenso maggioritario, che non potrà mai avere peso assoluto, né tanto meno oggettivo: l’élite sarà illuminata del tanto che le sarà riconosciuto dalla maggioranza degli aventi diritto al voto e per la sola durata del mandato, ma allora che senso avrà considerare alternative due forme di governo che in realtà sono una sola?

Sì, confesso, fin qui ho giocato un poco a fare il finto tonto. In realtà so bene che, per definizione (ancorché all’etimo piaccia far confusione), un’élite illuminata non può sortire da un voto popolare: «da chi» dovrebbe essere «scelta», dunque? E soprattutto: come dovrebbe essere legittimata a esercitare il potere? Io qui credo che non ci sia altra soluzione: un’élite illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie, come conoscenze e capacità a un alto grado d’eccellenza; non può altrimenti essere legittimata a esercitare il potere, dunque, che autolegittimandosi; né può altrimenti arrivare a esercitarlo se non indipendentemente dal consenso di chi in un sistema democratico sceglie i propri rappresentanti, nel senso che un eventuale consenso popolare potrà facilitarle il fine, con ciò dandole un mandato che si tradurrà in un’investitura d’autorità in tutto coincidente ad un’attribuzione di autorevolezza, ma non precluderglielo, perché c’è da supporre che i mezzi a sua disposizione siano in grado di raggiungerlo comunque, ancorché il buonsenso possa poi consigliare di non renderne manifesto il conseguimento (l’élite illuminata potrebbe decidere sia più opportuno esercitare il potere senza darlo da vedere, semmai condizionando le decisioni di chi il potere lo detiene solo formalmente per averne avuto investitura per suffragio universale).

Finto tonto anche qui? Sì, un pochino, ma era per mettere in evidenza la sostanziale coincidenza tra élite illuminata e oligarchia, dove non è affatto escluso che, nel prendere in mano il potere e nell’esercitarlo, entrambe possano godere del consenso popolare (almeno nella sua espressione maggioritaria, foss’anche nella forma di un’acquiescenza passiva) o della soggezione di chi il popolo ha scelto come suo rappresentante: finto tonto per alzare il velo d’ipocrisia e di mistificazione che sta nell’affermare l’impossibilità di una democrazia senza un’élite illuminata a correggerne gli errori, che sarebbero tutti nel volere degli elettori.
Ci sono due modi per dirlo, e per entrambi ricorrerò a degli esempi. 
Il primo è rozzo, ma assai efficace, quasi a prendere dal bignamino la teoria di Robert Michels: «Una oligarchia bene organizzata somiglia ad una democrazia possibile» (Giuliano Ferrara, Il Foglio, 22.5.2008).
Il secondo è un po’ più articolato, e forse anche perciò meno efficace, perché, quando c’è da affermare un principio sostanzialmente antidemocratico, l’articolazione finisce sempre per essere d’impaccio. Si tratta del rimprovero a chi ha «scarsa consapevolezza del fenomeno democratico quale organizzazione elitaria del potere. Dalla Gloriosa rivoluzione fino ai moti liberali dell’Ottocento, la strada per la democrazia è stata la strada per l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque separasse l’élite dal volgo, i capaci dagli incapaci a governare. Le teorie e gli istituti democratici sono nati e si sono sviluppati al servizio di una teoria oligarchica della democrazia che consentisse una legittimazione nuova rispetto al potere assoluto del re, una legittimazione popolare sì, ma per un governo estraneo e riparato dai governati. Nella schizofrenia del continuo appello alla sovranità popolare e alle forme di democrazia diretta e partecipata e, d’altro lato, della contestuale delusione per le sue scelte, pensiamo che il busillis sia nelle soluzioni istituzionali che razionalizzino il principio maggioritario: voto sì ma non su tutto, e persino voto sì ma non per tutti. Ma il punto è molto più delicato dell’ingegneria istituzionale: democrazia non vuol dire necessariamente appello assoluto alla sovranità popolare, come troppo spesso si sente dire da alcuni partiti e movimenti politici e da una certa classe intellettuale, quando le torna comodo. Al contrario, la fortuna della democrazia si è avuta con l’erigersi del voto a illusione politica e col rafforzamento di una teoria del potere e della sovranità diversa dall’assolutismo ma comunque elitaria, che identificasse nella oligarchia degli eletti la legittimazione ad agire e al tempo stesso la garanzia dei talenti. Se questa è la democrazia, è democratico anche un sistema, come quello italiano, dove su certi argomenti il popolo non può esprimersi, o un regime che non fa della trasparenza e della volontà popolare il feticcio del potere legittimo. Se questa precisazione non ci piace, non ci resta che accettare sempre la volontà popolare, anche quando si esprime come non vorremmo» (Serena Sileoni, sempre su Il Foglio [dove sennò?], 5.7.2016). Che poi sarebbe stare al gioco anche quando se ne perde una tornata.

Ecco, direi di essere arrivato al punto cui mi proponevo di arrivare con questo intervento. Dobbiamo concepire la democrazia come «legittimazione popolare» di un «governo estraneo e riparato dai governati»? Dobbiamo credere che la democrazia possa reggere solo sullassunto che il voto sia «illusione politica»? Dobbiamo ritenere che una «sovranità diversa dall’assolutismo» sia possibile, ma solo se «comunque elitaria», consistente in una «oligarchia degli eletti», che già sarebbe tanto, visto che darsi per illuminata può pure essere unélite religiosa o militare?
Già, perché ancora non abbiamo chiarito a chi spetterebbe darle la certificazione di «illuminata». Si trattasse di unélite teocratica, sarebbe tutto facile, e invece chi sostiene che una democrazia è possibile solo a maquillage di unoligarchia professa molto spesso un credo laico, anche se poi altrettanto spesso si tratta di una laicità che sappoggia al «veluti si Deus daretur». Sarebbe tutto facile anche con unélite militare – anche troppo facile, direi, basterebbe contare i bernoccoli invece che le schede che escono dalle urne – ma dopo Julius Evola nessuno più contempla lipotesi. Illuminata, allora, sì, ma certificata tale da chi, se a darle tale certificazione a mezzo di elezioni significherebbe renderla un po meno élite?
Non se ne esce: abbiamo detto che un’élite illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie? È evidente allora che solo in tale contesto può darsi legittimità a definire superiori certe qualità. In sostanza, non può essere che unélite illuminata a potersi dire illuminata. Non funziona col pazzo che dice di essere Napoleone, ma con lélite illuminata occorre funzioni.
Trattandosi di élite illuminata, non c’è dubbio che i criteri di cooptazione per entrare a farne parte sarebbero ineccepibili. Non c’è dubbio, per esempio, che l’entrare a farne parte non potrebbe mai essere motivato unicamente dall’esser figlio di chi già ne fa parte, ma da meriti incontestabili. D’altronde, chi mai potrebbe contestarli, questi presunti meriti, se non chi già ne faccia parte? E dunque: chi mi può assicurare che tra i membri di questa élite non si finisca per trovare un seppur tacito accordo del tipo «se chiudi un occhio su mio figlio, io poi ne chiudo uno sul tuo»? I figli so’ piezze ’e core, si sa. Qui in Italia, poi, più che mai. Non cè il rischio che questélite mi diventi anche dinastica?

Basta fare il finto tonto, sta stufando pure me: la sovranità, o appartiene al popolo o non gli appartiene. Deve esercitarla nelle forme e nei limiti prefissati dalla Costituzione che si dà, ma non possiamo dire gli appartenga solo per modo di dire. Sennò è del tutto naturale che si senta preso per il culo. E preso per il culo oggi, preso per il culo domani, finisce che sincazza e dà il peggio di sé. Allora sì che, come dice la Sileoni, diventa «volgo», ma diciamo che diventa difficile capire quanto già lo fosse di suo e quanto lo sia diventato per incazzatura. Che lo diventi potrà rafforzare in qualcuno la convinzione che unélite illuminata sia cosa estremamente necessaria, ma è evidente che quella messa in discussione dal «volgo» non fosse tanto illuminata da riuscire a conservare il potere che fino a un certo punto ha esercitato senza trovare ostacoli. Illuminata fino a un certo punto, diciamo, ma poi non più. Le dinastie decadono, diciamo. E se proprio è necessario che sia unélite a dare anima a una democrazia, ogni tanto un ricambio non guasta. Se al «volgo» spetta solo il ruolo di spettatore, ben venga ogni tanto una guerra per bande. Non si capisce, però, perché non debba vincere il migliore, e cioè loligarchia che meglio riesca a darsi faccia «volgare». Le elezioni dovevano servire unicamente a dare legittimazione a unoligarchia? Bene, siete serviti.

venerdì 14 settembre 2018

La logica che imporrebbe al becero grillozzo di tacere


La logica che imporrebbe al becero grillozzo di tacere dinanzi al sommo Burioni quando si discute di vaccini – parlo della logica che in una discussione su un tema di natura squisitamente tecnica nega parità di peso allopinione di chi è esperto in materia, soprattutto se carico di titoli che ne comprovano lautorevolezza, e a quella di chi esperto non è, e anzi non di rado è un emerito coglione – pretenderebbe, quando in questione è il codice penale, che limputato taccia quando parla lavvocato, che lavvocato stia zitto quando il giudice legge la sentenza, che il giudice di primo grado non apra bocca sulla decisione della Corte dAppello, che sia la Cassazione a dire lultima parola, se a volersela prendere non è la Consulta. Ahinoi, non va così.
Come il becero grillozzo pretende di tener lezione di virologia a Burioni, così Il Foglio pretende di spiegare al presidente della Corte dAppello di Roma perché ha sbagliato a condannare Buzzi e Carminati per associazione a delinquere di stampo mafioso. Con ineguagliabile garbo, però. Perché il grillozzo è aggressivo e petulante, e cè pure il caso che, a vedersi sbattere sul muso indiscutibili prove scientifiche, cerchi di svicolare per la tangente, tirando in ballo Popper e Feynman (ovviamente a cazzo di cane), arrivando addirittura allinsulto e alla minaccia. Il Foglio, no: saldo nella convinzione che la sentenza dappello sia stata imposta al giudice da un torbido ordito mediatico, né più né meno di come il grillozzo è saldo nella convinzione che Burioni faccia spot per i vaccini perché al soldo delle case farmaceutiche, ma tuttun altro stile.
Con la sentenza di primo grado, giorni e giorni a ricamare chiose e glosse, e «comeravamo stati bravi a dirlo fin dallinizio», e «aspetta che adesso te lo faccio rispiegare meglio da Tony e da Fiandaca», e «se proprio ti resta un dubbio, cè il simpatico Bordin che te lo fa passare in meno di mille battute, sennò cè la Chirico, che alla simpatia aggiunge un assai convincente accavallo di coscia»; con la sentenza dappello, profilo basso (musetto lungo, posa da Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich dinanzi ai marosi di una giustizia malata, un flemmatico «aspettiamo il deposito delle motivazioni», e il tutto in una sola giornata di magro).
Altro stile, ma stessa coriaceità del grillozzo: proprio non si vuol capire che quel benedetto art. 416 bis non parla di associazioni mafiose, ma di «associazioni di tipo mafioso», e che dunque in questione è una tipologia di reato, non la sua specchiabilità nel connotato di mafia come fin qui si è storicamente configurato. Pensi che sia un articolo stronzo? Legittimo pensarlo, ma intanto vige: facciamo finta di no?
Niente da fare, si insiste: «No violenza generalizzata, no attacco e infiltrazione nel cuore dello stato, no famiglie e cosche e rituali omertosi correlativi...», ma quando mai lart. 416 bis dice che è tutto questo a configurare la fattispecie? «Non c’è né un arsenale né un tesoro o tesoretto di capitali di un qualche peso...», ma forse che lart. 416 bis li contempla come indispensabili? Niente da fare, «c’è stato un tribunale che ha stabilito che il fatto è il fatto, e la bolla la bolla, sottraendo al processo e alla sentenza di primo grado tutto il glamour che invece l’accusa penale, rappresentata da giudici estranei alla conoscenza approfondita della città, richiedeva, in un contesto in cui se non sei un cacciatore di mafiosi sei uno stracciarolo della piccola delinquenza municipale, e nessuno è in grado di usare politicamente e demagogicamente il tuo lavoro». Solo in trasparenza, ovviamente, ma chiaramente si legge: «La scienza ufficiale è un verminaio di loschi interessi che sui vaccini impone il suo pensiero unico alla stragrande maggioranza degli operatori nel capo sanitario, che sono obbligati a rispettarlo se non vogliono pagarla cara: dite quello che volete, ma noi restiamo dellidea che i vaccini possano causare lautismo e che la chemioterapia possa essere sostituita dal bicarbonato».
Ma forse sbaglio io: sui virus e sui vaccini può aprire bocca solo Burioni, che ha studiato, si è laureato, si è specializzato e ha fatto ricerca per decenni e decenni; sul come sia da interpretare correttamente un articolo di legge, può bastare la licenza di maturità classica (non mi risulta che Ferrara si sia mai laureato, tanto meno in giurisprudenza).