martedì 9 ottobre 2018

El infeliz destino del progreso




«... más razonable, más inepto, más haragán...»
Jorge Luis Borges, Ficciones (Prólogo)


Contrariamente a quel che era abilmente riuscito a far credere negli anni che precedettero la morte di suo padre, il principe ereditario non era affatto un innovatore.
Col senno di poi qualche sospetto poteva porsi, ma non si pose. Per esempio: perché un conservatore come suo padre – e che conservatore! – aveva designato proprio lui, secondogenito, alla successione? Si pensò che letà, e ancor più la lunga malattia che aveva pesantemente segnato gli ultimi dieci anni della sua vita, avesse temperato il suo giovanile rigore, facendogli capire che la strenua e intransigente difesa della tradizione, che aveva incisivamente contraddistinto il suo lungo regno, fosse vana; che qualche riforma fosse necessaria; che, non avendo le forze necessarie per gestirla in modo adeguato dopo averla avviata, fosse più saggio affidarla a quel ragazzo che fin dalla più tenera infanzia aveva dato prova di una brillante intelligenza, unita a una straordinaria larghezza di vedute, che tuttavia non aveva mai dato spazio a eccessi o, peggio, a bizzarrie. Tutto il contrario del primogenito: vizioso, irresponsabile e, quel che era peggio, incapace perfino di figurarsele, la tradizione e l’innovazione .
Per chi voleva che le cose cambiassero fu un tragico errore il pensarlo, e ancor più lo fu il nutrirne la speranza con lo stringersi attorno al principe offrendogli lanticipo di una piena ed entusiastica adesione allimplicita promessa di grandi trasformazioni che sembrava di poter esplicitamente leggere nelle frasi che gli facevano da tappeto nell’avanzare verso la successione da sovrano illuminato.
Col senno di poi qualche sospetto poteva porsi, ma non si pose. Così, quando lanziano re morì, chi aveva tanto atteso tempi nuovi non seppe tenere a freno lentusiasmo e al principe ereditario soffrì interamente nudo, spoglio dogni cautela, palesando tutte le proprie insofferenze al peso dellopprimente vecchiume, in più dun caso esagerando pure. Senza saperlo si stava scavando la fossa, perché stava salendo al trono chi aveva in mente fin dallinfanzia di soffocare nel sangue, in via definitiva, ogni pur flebile richiesta di ogni pur minima innovazione: la fama di riformatore che il principe ereditario si era cucito addosso era solo unesca per far uscir dallombra i nemici della tradizione, e il piano era stato concordato col padre. È che, sebbene non avessero le forze necessarie a sovvertire lo stato delle cose, era da tempo che costoro avevano preso a corroderlo dal suo interno, spargendo nel regno i veleni del dubbio e del malcontento, sperando che prima o poi avrebbero sollevato la ribellione dei sudditi, né avevano esitato a stringere un segreto patto coi sovrani dei regni confinanti per un aiuto militare, quando sarebbe stato necessario.
Il piano messo in atto dal re e da suo figlio aveva dato ottimi risultati: la speranza che sul trono stesse per salire un innovatore aveva allentato le trame, e tuttavia padre e figlio sentivano la necessità di far piazza pulita di ogni opposizione interna, per sempre. Cera bisogno che ogni nemico della tradizione venisse allo scoperto, e il piano prevedeva che la morte del re dovesse essere la migliore occasione. Così fu, perché la gara a offrirsi come fedeli esecutori del programma di riforme che si riteneva ora fossero prossime, diede modo di stanare anche chi si era abilmente occultato per decenni. Nellelenco di chi doveva pagare il prezzo finì pure qualcuno che era stato un sincero conservatore, quando sul trono sedeva un re conservatore, e che ora era altrettanto sinceramente disposto ad assecondare le riforme di un re riformatore: più che di un conservatore, prima, e di un riformatore, ora, si trattava dellimmancabile conformista che vuol rimanere sempre a galla, quindi era sacrificabile senza scrupoli alla riuscita del piano.
Era venuto il momento di chiudere i conti: il nuovo re annunciò che tutto sarebbe cambiato, e che per il cambiamento aveva bisogno del consiglio e del sostegno dei più convinti sostenitori dellinnovazione, li convocava in unassemblea di saggi che sarebbe stata la fucina di un radioso avvenire di progresso. Intanto disponeva nel dettaglio quello che sarebbe stato un massacro: convenuti nel luogo dove erano stati convocati, avrebbero appreso dalle sue stesse labbra in quale trappola fossero caduti e quale sorte li attendesse – già ne pregustava la sorpresa e la disperazione – per poi dare il segnale a che iniziasse il macello, affidato agli armati accuratamente predisposti al compito.
Aveva intenzione di tenere un discorso che allinizio provvedesse a beffardamente entusiasmare i convenuti, per poi gettarli nello smarrimento, e poi nello sgomento, e infine nel terrore. Dopo aver pensato e ripensato, si risolse a ricorrere a un apologo: si trattava dellapologo contenuto in un antico testo che per i cultori della tradizione era una vera e propria bibbia, e che ormai da tempo nessuno più leggeva. Lapologo narrava di un re che smascherava i suoi nemici grazie a un ingegnoso tranello, per poi consegnarli al boia: era lapologo che aveva ispirato il piano concordato con suo padre. Gli sembrò che coronasse al meglio i lunghi anni in cui aveva dovuto accuratamente celare i suoi reali intendimenti, fingendo di essere quello che non era.
Venne il giorno. Salì sul palco dal quale si preparava a tenere il suo discorso accolto da urla di giubilo e fragorosi scrosci di applauso. E cominciò, tra larghi sorrisi di adorante approvazione. Quando attaccò con l’apologo, accadde l’imprevisto. A fare il nome di quel re, un campanello d’allarme suonò nella testa di uno dei convenuti. In uno solo. Il solo che avesse letto il libro da cui era tratto quell’apologo.
Era tra quanti avevano maggiormente sperato in una stagione di rinnovamento. In un istante capì cosa stesse per accadere, in un attimo trovò il modo per salvarsi: afferrò un candelabro e si lanciò sul palco gridando «morte al rinnegato! morte al traditore della tradizione!». Fu subito immobilizzato dalle guardie del corpo che circondavano il re, che diede l’ordine di portarlo via. Dalla platea che aveva avuto un fremente sussulto di apprensione, prima, e un potente moto di sdegno, dopo, partirono insulti e maledizioni, che il re sedò con un gesto che a tutti sembrò di larga liberalità, quasi a promettere che le riforme a venire avrebbero dato segno della più piena tolleranza verso tutti. E questo fece un grande effetto, riscaldando ulteriormente il cuore dei convenuti. Per poco, perché dopo poco fu gelato, e subito trafitto dal ferro.
Una carneficina: nel giro di mezz’ora vennero eliminate tre generazioni di saggi che avevano sognato il cambiamento. In quanto all’uomo che era stato fermato nel suo tentativo di uccidere un re che minacciava di rinnegare la tradizione, era giusto che venisse premiato con la carica di primo ministro da un re che in realtà intendeva difendere la tradizione dai suoi nemici: chi meglio di lui, pronto ad immolarsi pur di far fuori chi minacciava l’integrità della fede e dei costumi, poteva assicurare la necessaria assoluta fedeltà? E così fu. Dopo essersi goduto il massacro, il re si recò a fargli visita, gli spiegò tutto, lo ricoprì di elogi e lo nominò primo ministro. Nessuno, ora, sarebbe stato più vicino al re: ucciderlo per vendicare tutti quei morti, ma soprattutto per punirlo della sua malvagia astuzia, sarebbe stato un gioco.
Beh, questo non accadde. Il re e il suo primo ministro vissero entrambi a lungo, e la tradizione fu restaurata.

domenica 7 ottobre 2018

Una scienza dei fini? / 2


3. Il marxismo si dà statuto di superiore conoscenza – insieme, scientifica e normativa – traendone ragione dall’impiego del metodo dialettico. Se dunque è la dialettica ad essere il fondamento del marxismo, metterla in discussione significa avanzare dubbi sulla teoria e sulla prassi del «socialismo scientifico» – quello di Marx ed Engels, appunto – senza che peraltro questo implichi necessariamente una critica radicale al socialismo, che d’altronde nasce assai prima di Marx ed Engels, e che dopo Marx ed Engels vede multiformi sviluppi di teoria e prassi, non di rado anche distanti da quelle del «socialismo scientifico», col quale sono in aspra polemica.
Un primo dubbio è sulla stessa possibilità di una «scienza» che si dichiara fondata su un metodo, quello dialettico, che è proprio della filosofia, e, nello specifico del «materialismo dialettico» che informa il «socialismo scientifico», della dialettica di Hegel.
Ora, è vero che Marx riesce a presentarsi a noi come post-hegeliano che più incisivamente sia stato in grado di criticare e superare l’idealismo hegeliano. Resta di fatto, tuttavia, che della filosofia hegeliana ha fatto suoi, senza abbandonarli mai, i principi epistemologico-ontologici che le stanno a fondamento.
La prima a cogliere questa continuità, peraltro inserendola in una linea di pensiero che a Marx arriverebbe, tramite Hegel, addirittura da Aristotele, è la stessa Arendt per la quale «chiunque tocchi Marx tocca la tradizione occidentale», e che, mettendosi al riparo dai possibili strali delle allora folte ed agguerrite schiere di marxisti accampate in ogni angolo del mondo, ne difende il lascito dicendo che «accusare Marx di totalitarismo equivale ad accusare la tradizione occidentale stessa di terminare necessariamente nella mostruosità di questa nuova forma di governo» (Karl Marx and the Tradition of Western Political Thought, 1953).
Al di sopra di ogni sospetto di nequizioso intento mirante a scalfire l’autorevolezza di Marx, la Arendt segnala che in lui persistono i principi dell’idealismo hegeliano, e cioè che: (1) la realtà non si esaurisce nei suoi elementi materiali, essendo mossa dall’interno da quelle che per Marx sono «determinazioni formali non percepibili che strutturano e unificano la realtà empirica»; (2) tra determinazione materiale e determinazione formale vi è eterogeneità, perché la prima riguarda l’ambito delle cose particolari e finite, mentre la seconda inerisce a ciò che ad esse dà connessione e sintesi; (3) la Forma (qui con la maiuscola come ricorre nei testi di Hegel) è operatrice dialettica dei limiti di ciò che è materiale (in ciò è del tutto simile alla Form della Formbestimmung che così spesso ricorre nei Grundisse); di conseguenza, (4) la conoscenza scientifica è possibile solo come realizzazione (non già come scoperta) di un principio.
A me tutto questo basta e avanza per veder gravare una pesante ipoteca di idealismo sulla «scienza» che si pregia di essere informata dal «materialismo dialettico», almeno per come la scienza è concepita da Popper in poi: ipoteca che diventa pesantissima a constatare che il «socialismo scientifico» si compiace di dare sacralità di dogma alle sue verità e assetto di chiesa militante ai suoi accoliti, riproducendo in modo assai inquietante le posture e le dinamiche che sono proprie delle religioni a impronta profetica e messianica.

[segue]

Intermezzo allegorico


a Luca

Chi può negare che i calcoli coi quali lastrologo costruisce un tema natale siano aritmetici? Chi può negare che le effemeridi dalle quali ricava le posizioni dei pianeti nei segni siano tabelle che ne descrivono fedelmente le ellittiche? E chi può negare che, quando parla di trigoni, quadrature e quinconci, si riferisca a misure reali, che hanno piena rispondenza a dati di natura geometrica? Certo, si può credere o non credere in ciò che lastrologo pretende di poter desumere dalla posizione di Venere, Luna e Giove per ciò che attiene al carattere o al destino di una persona, ma è fuor di dubbio che gli strumenti di cui si serve per costruire il suo tema natale siano scientifici. Ci dice, per esempio, che alle 4:30 del 25 giugno del 1957, a una latitudine di 40,73°N e a una longitudine di 13,90°E, Marte fosse in Leone, Mercurio in Gemelli, e i due pianeti in sestile, cioè a 60° di distanza sullorizzonte astronomico: una verifica assistita dal metodo scientifico ce ne darà puntuale convalida, ma questo darà solidità di prova al fatto che tale aspetto natale conferisca al soggetto – copio-incollo da uno dei tanti siti web dedicati allastrologia – «una mente forte e una comunicazione grintosa», rendendolo «persona affascinante», ma eccessivamente incline a «osservazioni taglienti»?
Cazzate, via! Cè bisogno di uno straordinario acume per capire che lastrologia è superstizione? Certamente no, però il solo acume non basta, come dimostra il fatto che tanta gente, non necessariamente incolta, spesso nientaffatto credulona rispetto a ogni altro genere di fola, mostra interesse per lastrologia: interesse che mostra unampia gamma di intensità, dalla pigra condiscendenza agli assunti coi quali essa si spaccia come scienza, o comunque come antica forma di sapere, e perciò degna per lo meno del rispetto che si deve agli antichi, fino alla maniacale e ossessiva reductio ad astra che condiziona ogni pensiero ed ogni azione alla consultazione delloroscopo. È possibile contestare la pretesa di essere scienza che lastrologia vanta? Certo, ma, al pari di ogni attacco a una fede, è estremamente faticoso e non dà grossi risultati, perché ogni fede è refrattaria anche alla sola ipotesi che essa sia in errore, che poi è ciò che maggiormente la distingue dalla scienza, che per statuto si dà inficiabile, pronta a rinunciare agli assunti cui la prova sperimentale sottragga fondamento.
Non così, lastrologia. Quando fai presente che quel Cancro non è così mammone come dovrebbessere, esce sempre un pianeta leso in IV Casa che rende stupida e superficiale la tua osservazione: studia, cretino, ché la tua ignoranza mistifica lastrologia. Fai presente, allora, che ti rifiuti di accettare senza prove certe che un corpo celeste abbia influsso sul carattere e sulle azioni degli esseri umani? Ti si risponde che la Luna regola il ciclo delle maree, e poi sei Vergine, ascendente Vergine, dunque cronicamente scettico: la tua riserva non è degna di attenzione. Con quella che a te pare delicata astuzia tattica, concedi che lastrologia sia una geniale metafora che trae simboli di archetipi caratteriali dalla sapienza di grandi tradizioni, e dunque, sì, valga come metafora, ma la scienza è tuttunaltra cosa? Già, ma chi è il padre della scienza moderna? Galileo Galilei, è ovvio. Bene, il «Grande Vecchio» faceva oroscopi, lo sapevi? Non lo sapevi, eh? E allora taci, cretino, e giù le mani dal «Grande Vecchio» . Anzi, già che ci siamo, dimmi data, ora e luogo di nascita: vediamo perché sei tanto cretino. Ah, ecco, vedi? Hai Mercurio in quadrato a Giove: scarsa apertura mentale.
Come quando ti consenti di avanzare una critica a Marx: è perché sei un borghese.

sabato 6 ottobre 2018

Una scienza dei fini?


1. Ho un debito di gratitudine nei confronti dellanonimo che a commento di ciò che ho scritto in Per tempo (Malvino, 2.10.2018) mi ha accusato di essere – forse oltre le mie intenzioni, ha tenuto a precisare – uno dei tanti mistificatori di Marx, dove è evidente che «oltre le mie intenzioni» stava a concedermi l’attenuante di essere più fesso che cattivo, mentre «forse» mavvertiva che questa concessione potrebbe essermi ritirata in caso di recidiva. Tanto più amabile, questa indulgenza, e tanto più preziosa, perché mi faceva la gentilezza di chiarirmi dove sia in radice quella che in me, al momento, resta sospesa tra fessaggine e cattiveria: è che io rigetto la dialettica di Hegel, come daltronde incontestabilmente emerge dal fatto, documentalmente provato, che su di lui, in passato, ho espresso «un giudizio assai negativo». Impossibile negarlo: lho fatto. Bene, questa imputazione mi ha sciolto il rovello in cui mi dibattevo da molti mesi: di qui il debito di gratitudine cui facevo cenno in apertura, che però mi chiama a dare spiegazione di quale fosse il rovello, e di come vero finito dentro.
Uno dei motivi – non il preponderante, ma tra i più rilevanti – che mi hanno tenuto lontano da queste pagine per quasi un anno è stato il cominciare a rileggere Marx – Lideologia tedesca e Il Capitale – cui non mettevo mano da oltre trentanni (di tanto in tanto ero tornato sul 18 Brumaio, il Manifesto e i Manoscritti del 44, ma solo en passant). Bene, come chi sa chi è cascato in quello teologico o in quello psicoanalitico, ogni riduzionismo ha un suo fascino. Quello costruito da Marx è irresistibile, cattura, convince della sostanziale irrilevanza della penultima, della terzultima, della quartultima istanza di tutto ciò che strenuamente resiste a rivelarne l’ultima in un dato di natura economica.
D’un tratto, tutto mi si è spostato sullo sfondo, sfocato, privo di ogni interesse che non mi si rivelasse colpevolmente frivolo, fuorviante rispetto al problema dei problemi, l’unico degno di seria attenzione, e di studio: i meccanismi con cui il capitalismo si dà statuto di sfruttamento, le contraddizioni che ne rivelano l’intrinseca tendenza all’autofagia, la necessità di combatterlo e annientarlo che nasce dalla stessa analisi della sua natura opprimente e alienante. In forza del suo stringente argomentare, Marx mi ha preso per intero, o quasi. Quasi, perché comunque non riuscivo ad abbandonare una resistenza: ero costretto a concedere che la pars destruens è ineccepibile, ma il dopo? Dovera il progetto della società finalmente liberata dalla schiavitù capitalistica?
Parlandone in privato con chi ha ruminato Marx per decenni, apprendevo che non cè, né può darsi in condizioni, quelle presenti, che non consentono neppure di ipotizzarlo, perché esse stesse d’ostacolo a farne avere la pur pallida idea. E le forme di socialismo fin qui storicamente realizzate? Imputare il loro fallimento a Marx è blasfemia (tutte letture errate, mistificazioni, traveggole, abissi di vertigine): Purgatorio, forse, rispetto allInferno del capitalismo, ma il Paradiso si apriva come ipotesi da costruire solo dopo aver fatto piazza pulita di Inferno e Purgatorio.
Qui trasalivo, per la singolare analogia con la piena esperienza di Dio, possibile solo dopo la morte, e solo ad essere riusciti a guadagnarsene merito in vita. E come sentire Dio, in vita? Come tensione. In analogia? «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente».
Impossibile ogni obiezione: accettando qui lineccepibile scienza e lì lindefettibile fede, il no a Marx o a Dio può nascere solo da una ottusa resistenza ad accettare la scommessa offerta da Pascal (e prima di lui da Agostino), dove, se perdi, non perdi nulla, ma, se vinci, vinci tutto. Daltronde, dopo aver capito come e quanto il capitalismo ci mortifica e degrada, come si può rinunciare a porsi come fine il suo abbattimento e darsi interamente come mezzo? Solo un fondo di malvagità – il peccato originario dessere borghesi e di essere istintivamente portati a difendere gli interessi di classe – può impedire di abbracciare la causa comunista dopo aver dato ragione a Marx. Più ci pensavo, più mi immalinconivo. E più mi immalinconivo, più cercavo nelle equazioni di Marx lerrore di passaggio che rivelasse linfondatezza delle conclusioni. E non lo trovavo.
In questa miserevole condizione di resistenza a una verità che, dopo essersi affermata come scienza esatta, esigeva la dignità di fede, vagolavo nel vuoto della mia vita borghese come un peccatore che gelosamente cela in petto il marchio a fuoco del suo peccato. Questo fino alla rivelazione, di cui devo esser grato allanonimo commentatore: resistevo a Hegel, non a Marx. In sostanza: non gli cedevo interamente perché nel suo procedere cera il vizio della dialettica. Rigettando la dialettica, non riuscivo a dare continuità allanalisi in ciò che essa dava come necessitato. Ribaltamento della prospettiva: quello che mi consentiva di apprezzare il genio di Marx, ma non mi permetteva di dargli cogenza, era il sentire come ossimoro il suo materialismo dialettico.
Sono tenuto a spiegarmi meglio, ovviamente. Ci provo, ma avverto che tratto una questione che in me, al momento, è solo approssimativamente delineata. Per questo parlavo di rivelazione: ho chiara la visione, ma forse non sono ancora in grado di ridarla con nitidezza. Con tutti i rischi del caso, ci provo.

2. Voglio partire dallo sgombrare il campo da una possibile fonte di fraintendimento: giacché la formula «materialismo dialettico» non è stata coniata da Marx (ci pensò Plechanov, ma quando a Marx non era più possibile rigettarla, perché già morto da qualche anno), possiamo ritenerla adeguata a esprimere fedelmente il significato della dottrina di Marx? Direi di sì. Se è vero, infatti, che il progetto di Marx ed Engels dichiara di voler operare un rovesciamento della dialettica hegeliana, questo rovesciamento è da intendere solo nel tentativo di spostarla dal piano di una realtà idealizzata a quello della natura e della storia: dialettica rimane, dunque, pur agendo nella materia. Ed è qui che sorge il problema, credo, perché, per sua natura, la dialettica è ascendente e progressiva: mira a un fine.
Ora cè da chiedersi: una visione scientifica del mondo può conferire alla realtà un senso nella sua duplice accezione di significato e direzione? Per Kant, ad esempio, no. In lui una metafisica che faccia sintesi tra scienza ed etica è impossibile, come lo è, di conseguenza, una razionale dimostrazione della razionalità del mondo. Per Hegel, invece, è il contrario: «Tutto ciò che è razionale è reale [ciò che è ragionevole si realizza], tutto ciò che è reale è razionale [ciò che è realizzato ha una sua ragione]»; e Marx gli va appresso, nella pretesa di fondare una conoscenza che insieme sia materialistica e dialettica, sostanzialmente consistente in una scienza dei fini. È per questo che possiamo considerarlo assolto dagli incubi totalitari che sono stati costruiti in suo nome: non erano previsti, il comunismo si sarebbe realizzato «con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura».
Ma può esistere una scienza dei fini, la cui ratio sia necessariamente agita da un moto dialettico tendente alla lisi delle contraddizioni che caratterizzano la condizione umana? Direi non possa esistere. Se è veramente scienza, ha carattere avalutativo e natura eminentemente congetturale: procede per ipotesi, rigetta considerazioni di valore, nega vettori teleologici, dà a ogni verità il tratto di una conoscenza relativa.
Non per Marx, che spesso sembra voler fare della sua scienza uno strumento di controllo della realtà per piegarla alla leggi del pensiero, attribuendo alla storia un connotato che potremmo definire animistico. Più che a una scienza, tutto ciò non è più simile a una religione, ancorché senza Dio?

Non mi aspetto di aver chiarito a dovere perché sia Hegel il vero problema di Marx, ma probabilmente ci tornerò sopra. Per lintanto ancora un grazie a chi mi ha aperto gli occhi sulla natura di un disagio di cui non sapevo darmi ragione.

[segue]

giovedì 4 ottobre 2018

Pesciolini rossi

Col ritenere che avessero una memoria labilissima – 8" per alcuni, 30" per altri – si è sempre stati ingiusti coi pesciolini rossi, così ci redarguì uno studio della MacEwan University di Edmonton, in Canada, che del 2014 diede prova inconfutabile del fatto che queste deliziose bestioline riescono a ricordare pure ciò che è accaduto fino a 12 giorni prima. Tenuto conto che alcune varietà (il Chromobotia macracanthus, per esempio) possono vivere anche 15 anni, non è affatto poco: fatta proporzione con gli 83,3 anni della vita media di un italiano (Eurostat, 2015), significa riuscire ad andare addietro con la memoria ad oltre 2 mesi, il che non riesce sempre agli italiani, come l’esperienza ci insegna. Non fossero così miti e così poco inclini a darsi arie – i pesciolini rossi, dico – li vedremmo sbellicarsi a branchie spalancate per la smemorataggine di cui le assai poco deliziose bestioline – gli italiani, dico – danno prova di continuo.
Berlusconi, ricordate? Quello che per lustri fu fatto bersaglio di critiche feroci, insulti micidiali e statuine del Duomo di Milano, avete presente? Non scherzate, via, è impossibile che l’abbiate dimenticato: il nano, il caimano, il mafioso, il puttaniere... Afferrato, il ragguaglio? Sì, lui – Berlusconi, dico – avete presente? Perfetto, ero sicuro che col ragguaglio... Bene, dite: servì a niente quel poderoso esercito di giullari armati di geniale sberleffo, di battutisti professionali o d’accatto, di sciantose frementi in accorate indignazioni, di solerti archivisti delle gaffes, degli spropositi, delle mattane e perfino delle analisi delle urine del Gran Cafone? A niente, tutt’al più a far trascorrere gli anni incanalando frustrazione e rabbia in una consolatoria forma di intrattenimento, che ebbe i suoi fasti nei salottini di un Santoro, di una Dandini, coi rispettivi epigoni, più o meno mal riusciti. Tutto di qualche utilità, sia chiaro, soprattutto a chi in quel filone seppe scavarsi la sua nicchietta o il suo nicchione, ricavandoci la marchetta o il contrattone, ma il fine dichiarato restò sempre lontano. Meglio la magistratura, senza alcun dubbio. Meglio ancora lo stesso Berlusconi, che finì per carbonizzarsi da solo, anche se solo – onestà vuole gli sia dato merito – dopo lunghissima combustione, che offrì il calduccio a frotte di papponi e di ruffiani.
Ecco, che cosa resta nella memoria del paese? Praticamente niente. Monta un’altr’onda minacciosa, stavolta giallo-verde, e cosa le fa diga? Il Foglio al posto di Repubblica, la Gruber al posto di Santoro, Zoro al posto della Dandini, e appresso, come i sorci dietro il piffero, gli arguti e meno arguti girotondini stavolta a far centocinquanta-la-gallina-canta su Twitter, un Marco Taradash che sbraita come un Pietro Ricca. Tutto legittimo, sia chiaro, il negoziante è giusto si rifornisca della merce più richiesta, gli ambulanti è giusto battano i marciapiedi dove le loro cianfrusaglie vanno via meglio, i clienti è giusto possano portare a casa l’articolo che più s’adatti a gusto e tasca. Ma illudersi che anche stavolta sia Resistenza, e che a sbattersi come ossessi si ottenga la Liberazione – più che da pesciolini rossi è da cozze.

martedì 2 ottobre 2018

Per tempo


«Siamo in parte responsabili anche Marx ed io – scrive Engels nella lettera a Bloch datata 21 settembre 1890 – del fatto che [da parte di qualche marxista] si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga»: è che «di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre cera il tempo, il luogo e loccasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori»; vero è – tiene a precisare – che, «secondo la concezione materialistica della storia, la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante», ma «né io né Marx abbiamo mai affermato di più».
Una lezione di grande onestà intellettuale, ma anche un serio monito a quanti inclinano a un ferreo riduzionismo economicista per spiegare il mondo, e semmai senza neppure essere marxisti, giacché è noto che Marx è sempre stato letto poco e male, ma più dai capitalisti che dai proletari. Questi ultimi, infatti, hanno da tempo deposto le armi della lotta di classe, fino a smarrirne addirittura la ragione e il fine, mentre invece tocca sentire un Buffet, terzo in classifica tra gli uomini più ricchi al mondo, dire che «la lotta di classe cè e al momento la vittoria è nostra».
Il monito di Engels, per esempio, non fu recepito da Togliatti, che nel suo Corso sugli avversari (Opere, III, 2, pagg. 531-671 – Editori Riuniti, 1973) non tenne in alcun conto i caratteri sovrastrutturali del fascismo, limitandosi a darne una definizione in tutto sovrapponibile a quella data dalla Terza Internazionale: «Il fascismo è una dittatura apertamente terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario»; è «agli ordini del suo padrone, la borghesia», che se ne serve per «esercitare una pressione armata sulle classi lavoratrici»; e questo accade quando le contraddizioni interne alla borghesia giungono a un punto tale che essa, «impossibilitata a governare con i vecchi sistemi», «è costretta a liquidare le forme di democrazia».
Questo forse può andar bene – ma neppure tanto – per dar conto del fenomeno al suo affacciarsi sulla scena del XX secolo, quando era fascismo agrario, ma basta a descriverlo per intero, soprattutto nei suoi sviluppi? Si può dar conto del suo diventare in tempi così brevi, come lo stesso Togliatti è costretto a riconoscere, un «partito di massa», con un consenso ampio e un profilo decisamente interclassista, senza riconoscergli un saldo aggancio a quella complessa sovrastruttura che per certa infelice pubblicistica è la «natura dellitaliano», e che al variare delle condizioni storiche sembra mostrare continuità in una dimensione etico-estetica che riesce a rappresentarsi, seppur fallacemente, come metastorica?
Senza dubbio, il riduzionismo economicista di Togliatti trascura «quel che spettava agli altri fattori», ma il fatto che «attribuisca al lato economico piú rilevanza di quanta convenga» è solo un limite di analisi o di fatto si traduce in uno strumento di lotta politica? Riducendo il fascismo a mero strumento del capitale in funzione antioperaia, non cercava forse di insinuare che il più genuino e il più efficace antifascismo potesse essere solo quello anticapitalistico, e cioè quello comunista? A quale altra logica può rispondere, altrimenti, il mettere tra gli «avversari» su cui tiene il suo «corso» – le sue Lezioni sul fascismo – anche i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani e gli azionisti? Il riformismo – chiede Togliatti – non è forse da considerare come «principale sostegno della borghesia» in quanto trappola per ingabbiare il movimento operaio, suadendolo ad accettare la logica del capitale e stornandolo dalla rivoluzione che invece mira a sovvertirla? E non è stato il riformismo a spaccare, e quindi a indebolire, il movimento operaio italiano, con ciò spalancando di fatto le porte al fascismo?
Lasciar fuori dallanalisi del fascismo ogni altro fattore che non fosse quello economico gli serviva in sostanza a presentare il comunismo come sola valida alternativa al fascismo, preparando in favore del Pci la vulgata di una Liberazione tutta comunista. Effetto collaterale: lasciare a sinistra del Pci chi si sarebbe poi sentito pienamente autorizzato a una ripresa della «Resistenza interrotta», ovviamente armata.

Non so se quello giallo-verde possa essere considerato un nuovo fascismo. Tenderei ad escluderlo, anche se non cè dubbio che nel M5S ci sia stato, e in parte ancora sussista, qualcosa di sansepolcrista, mentre nellhumus leghista sono evidenti germi di nazionalismo, autarchia e xenofobia. A ridarci in farsa la tragedia del fascismo manca la sincresi tra questi elementi, che è difficile possa darsi in assenza di catalizzatore: non cè un genio politico come Mussolini, ci sono due talentuosi sfessati che vivono lavventura alla giornata, manca soprattutto un Pareto col suo «ora o mai più». E tuttavia facciamo finta di essere alla riedizione di un 1921, quando erano in pochi a intuire cosa si parava e in tanti a ritenere che il fascismo sarebbe imploso proprio per la velocità con la quale era cresciuto: facciamo finta che i sondaggi annuncino la nascita di una cosa vecchia, ma ovviamente completamente nuova, un fascismo 2.0 che riesca a costituirsi in regime. Bene, cosa gli consentirà di essere «partito di massa»? Di quali tratti della «natura dellitaliano» saprà rivestirsi? E poi: come sarà spiegabile un tale fenomeno con unanalisi che faccia propria la ratio di un ferreo riduzionismo economicista?
Non si fosse capito, il tema è posto al sociologo, allo psicologo delle masse, allarcheologo che cerca archetipi. E sì, anche al marxista che voglia attribuire «al lato economico più rilevanza di quanta convenga».

Sia consentito l’eufemismo


1. Ho incontrato per la prima volta la politica nei primi anni Sessanta, quando nelle passeggiate pomeridiane con mio nonno si finiva regolarmente ai tavolini di un bar, io a leccare il mio gelato a limone e lui – sia consentito l’eufemismo – a chiacchierare con i «nemici del popolo», come regolarmente finiva per stigmatizzarli quando doveva chiudere la discussione, perché dopo il terzo gelato al limone mostravo – sia consentito l’eufemismo, qui con puntina di lirismo – un aurorale disìo di casa.
Dal vago dei ricordi, oggi, emergono con qualche più nitida immagine le sue tirate contro Saragat, che in quanto socialdemocratico risultava dunque «nemico del popolo» due volte, com’era evidente dai sette anni di vitto e alloggio al Quirinale con cui la borghesia gli aveva liquidato il tradimento della classe operaia.
È che il buon Peppino Carneglia era uscito – sia consentito l’eufemismo – un po’ esacerbato da vent’anni di fascismo: un mezzo litro di olio di ricino nel ’27, continue seccature sul lavoro, un anno e mezzo di «villeggiatura» a Ponza. Né trovò mai pace dopo, perché la Resistenza che doveva dare alla luce una gloriosa dittatura del proletariato aveva prodotto l’aborto di una misera repubblichetta democristiana.
Ecco cosa mi sembrò, la politica, le prime volte che la incrociai: una variante del pugilato in cui i bicipiti, però, non erano decisivi. Non necessariamente, almeno. In quanto al resto, per ciò che ancora mi toccava apprendere, nessuna differenza: pubblico eccitato dal sangue, puzza di sudore e olio canforato, scommesse vinte o perse.
Con questo genere di inprinting era inevitabile che finissi per diventare un ragazzino più interessato a Tribuna politica che a Chissà chi lo sa?, con quanto doveva conseguirne per l’adolescente, l’adulto e l’anziano: impossibile il disinteresse – sia consentito l’eufemismo – per ogni incontro, che si trattasse di pesi piuma o di pesi massimi.
Da un certo punto in poi, inoltre, a questa non saltuaria né pigra consuetudine di spettatore s’aggiunse – pure qui sia consentito l’eufemismo – il prender nota, in una sorta di diario, imbottito di ritagli di giornali. Un blog cartaceo, diciamo. Il primo post – quindici righe su un foglio a quadretti – reca la data del 26 maggio 1970, a commento di quel che alla tv, la sera prima, aveva detto un semisconosciuto Almirante, che lanciava il suo appello a quanti non avessero intenzione di «farsi comunistizzare»...

A che pro, nell’economia dell’argomentazione, questa premessa autobiografica? Per millantare un po’ di auctoritas – confesso – e facendolo nel modo più disonesto, che è quello di far scivolare suggestioni tra aneddoti. Il maestro indiscusso di questo trucchetto era Andreotti: partiva sempre da un aneddoto che datava trenta, quaranta, cinquant’anni addietro, nessuno poteva smentirlo, i personaggi erano tutti morti, rimaneva solo lui a testimoniare che fosse andata veramente come raccontava, sicché l’aneddoto era – insieme – memoria e messaggio, storia e metafora, deposito e trincea.
Insomma, avrei potuto farla meno lunga, e soprattutto più pulita, dicendo «è da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane», e subito arrivare al punto, ma a quel punto il punto non sarebbe stato fermo al punto cui volevo fissarlo: infilandoci Saragat e Almirante, nonno e tv in bianco e nero – avevo pensato di infilarci pure papà che a quattro anni mi insegna a leggere sui titoli de lUnità, poi mi è sembrato troppo – volevo darle un peso che forse non ha, perché in fondo l’età non fa merito in nulla, comunque non di questi tempi, e insomma, niente, facciamo come quando il blog era cartaceo: un tratto di penna sopra, e tutto daccapo.

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1. È da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane, ma non ho mai visto un governo cui i sondaggi attribuissero tanto consenso e che – insieme – godesse di tanta cattiva stampa.
Chiariamoci. So bene che i sondaggi sono spesso inattendibili, e che ancor più lo è il prestare ascolto alle chiacchiere colte al volo su un mezzo di trasporto pubblico o alla cassa di un supermercato, che peraltro possono cambiar di segno nel giro di pochi mesi, visto che la plebe è plebe, e sul fatto che lo sia nessuno nutre dubbi, soprattutto se non sente di farne parte. Io che da sempre me ne sento fuori, e che da sempre trovo plebei anche molti patrizi, porgo l’orecchio a queste voci ed è in esse, assai più che in quelle di Di Maio e di Salvini, che trovo l’embrione di una dittatura: leghisti e grillini hanno il consenso che di solito la plebe dà a chi incarica di far riscatto, previa vendetta.
Le ho sentite, in questo mezzo secolo, le voci di consenso a Fanfani e a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, ma in esse già c’era la crepa che apriva al dopo, all’ennesimo riscatto, previa vendetta. Stavolta, no. Stavolta è il consenso disperato che si dà all’ultima speranza, come se dopo non ci fosse più niente di seppur vagamente somigliante alla democrazia. Perciò credo che, se questo governo dovesse cadere troppo presto, ne vedremmo delle brutte, ma brutte davvero, perché un’opposizione in grado di farlo cadere non c’è, e quindi a farlo potrebbe essere solo chi sarebbe comunque sentito come «nemico del popolo», innescando una reazione a catena dagli esiti imprevedibili, ma comunque esiziali. Credo che l’unico ad averlo capito sia Mattarella, che non è mai riuscito a mandar giù il rospo uscito dalle urne, ma si muove con molta più circospezione del suo predecessore, conscio che a sputarlo fuori dovrebbe ingoiarlo di nuovo: cerca di digerirlo, ma si vede che è digestione difficile.
Gli altri – Pd in primis – scommettono sul default, contano su Bruxelles, sperano che salti l’intesa tra leghisti e grillini, stanno agguerriti sull’omesso congiuntivo, sulla felpa cafona, sul tweet improvvido. C’è da compiangerli, poveretti, non hanno capito niente: sperare che lo spread salga, facendo finta di disperare; chiamare in soccorso l’esercito straniero, che non soccorre mai a gratis; seminare zizzania tra due anime diverse, certo, ma ormai saldate da un inaudito consenso popolare, disponibili a dissaldarsi solo per lo spazio di una nuova campagna elettorale; segnalare quanto siano zotici e ignoranti questi parvenu al governo, e segnalarlo a un popolo che in gran parte è zotico e ignorante; questo, e il resto, si traduce nello sterile e ormai logoro esercizio di parlare a se stessi, chiudendosi in assedio. Non hanno capito niente, e si può capire, sennò non dimezzavano i voti in un lustro: cretini e arroganti, incapaci non meno di chi accusano d’incapacità, non si rendono conto che è impossibile recuperare consenso, che sono bruciati più di Berlusconi.
Anche volendo dar per certo che il consenso attribuito a questo governo dai sondaggi sia assai sovrastimato, però, c’è di incontestabile che tv e giornali non sono mai stati tanto ostili ad un governo che dalla sua formazione ad oggi, invece, non mai visto flettere il consenso all’unione delle forze che lo sostengono in Parlamento; e «tv e giornali» è da intendere in senso estensivo, con quanto ci gira dentro e intorno, ed è questo che dà la più evidente misura della distanza tra l’opinione pubblica e quello che dovrebbe rappresentarla (eventualmente formarla), perché questa variegata gens che campa di intrattenimento e arti varie sconta il peccato originario d’essere stata sempre a libro-paga di chi investiva nell’informazione a copertura di ben più seri cazzi propri, e ora vive il disorientamento di chi è a corto di marchette.
Mai tanta ostilità a un governo da parte di tv e giornali: sul piano quantitativo, giacché le voci che gli sono a favore si contano davvero sulle dita di una mano, e parlo delle voci che godono di qualche autorevolezza, perché quelle dei social network sono aristocrazia della plebe, ma pur sempre plebe (diciamo che il bandwagon del 4 marzo fa fatica a imbarcare vip); ma pure su quello qualitativo, perché neppure con Berlusconi a Palazzo Chigi ho visto tanto accanimento, la cui misura sta nella qualità degli argomenti, con intelligenze che fino a poco tempo fa davano prove di raro acume e oggi, contro i giallo-verdi, producono argomenti davvero patetici, che finiscono per andare a loro favore...

No, neanche così va bene, sembra il delirio di chi goda del veder finalmente soddisfatto un personale desiderio di vendetta. Ha il sapore di un risentimento infine ristorato dalla tragedia. Peraltro non sa neppure farsi scudo di eufemismi: come se chi ha sempre considerato plebei tutti i patrizi che gli capitavano a tiro oggi sbottasse in un «vi meritate che la plebe vi sbrani: sono bestie, ma voi non siete diversi, e in più siete sempre stati prepotenti e supponenti». No, non va bene, che figura ci faccio? Tutto daccapo, via. 


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Direi che il paese sia di nuovo spaccato in due, ma stavolta la spaccatura non è verticale, tra destra e sinistra, ma orizzontale, tra basso e alto, e il fronte non divide due campi pressoché speculari, ma, dun lato, c’è un ventre che col tempo è diventato sempre più gonfio di rabbia e, dall’altro, un cervelluzzo rammollito da agi e privilegi. Così, quando si afferma che lo scontro oggi è tra popolo ed élite, e che questo prepara la catastrofe della democrazia, che invece può reggere solo sulla capacità dare legittimità all’élite che è capace di selezionare per darle la guida della società, io mi chiedo perché quella selezionata non sia riuscita a farlo a dovere, né a rinnovarsi per far fronte ai problemi insorgenti. Rinunciando all’eufemismo, che cazzo di élite era? E con quale diritto, dunque, oggi reclama l’autorevolezza di cui si sente essere stata spogliata con l’inganno e la violenza degli spregiudicati avventurieri che menano l’Italia alla rovina? Con quale credibilità ritiene di poter mettere in allarme il paese perché il Def dei giallo-verdi minaccia di aggravare un debito pubblico che è proprio lei ad aver portato al 132%?




domenica 23 settembre 2018

Tra due giorni non se ne parlerà più


Sulla polemica accesasi con la divulgazione in audio del contenuto di una conversazione privata tra Rocco Casalino e due giornalisti di Huffington Post, credo si debba innanzitutto far chiara distinzione tra la questione che sta al nocciolo di quanto affermato dal portavoce della Presidenza del Consiglio e quelle che le si sono immediatamente sovrapposte per riproporci ancora, ma a parti invertite (il che ci dà misura di quanto siano idealmente motivate), le solite risse tra gli estremisti della privacy e quelli della trasparenza, tra chi sostiene il primato della politica e chi quello della competenza tecnica, tra chi afferma che la forma è sostanza e chi invece che della forma la sostanza può sbattersene i controcoglioni.

Comincerei con lo sbarazzare il tavolo da queste ultime, per dare più attenzione a quella centrale. Lo faccio ponendo alcune domande. Solitamente, Huffington Post è benevolo col M5S? E Rocco Casalino, scafatissimo com’è, non ha messo in conto che quanto diceva a due giornalisti di quella testata venisse testuamente riportato? A uno dei due non è data forse esplicita consegna di informare i suoi lettori che «nel M5S è pronta una mega-vendetta», ancorché di riferirla a «fonte parlamentare»? Era tutto previsto, via, compreso il pressoché generale biasimo per il tono arrogante e minaccioso: era necessario mostrare il muso duro ai tecnici del Mef, occorreva che il muso duro fosse visto da tutti, per poterli poi additare più efficacemente all’opinione pubblica come i soli responsabili di un eventuale flop del Def. Il copione era già scritto, comprese le repliche alle critiche, peraltro tutte prevedibilissime.
Il messaggio è chiaro, e arriva nel modo più efficace a tutti i destinatari: non solo ai tecnici del Mef, ma anche a chiunque volesse assimilarli al titolare del dicastero per creare spaccature nel Governo e attriti col Quirinale, perché – sia chiaro – Giovanni Tria è «un ministro serio che si occupa dei problemi degli italiani».
Fa ridere, chi chiede la rimozione di Rocco Casalino dall’incarico affidatogli: è stato solerte esecutore di ordini che venivano dall’alto e, a considerare le dichiarazioni di Matteo Salvini sul caso, è assai probabile che la cosa fosse stata opportunamente concordata tra i vertici di Lega e M5S.
Tra due giorni non se ne parlerà più, ma intanto i tecnici del Mef adesso sanno cosa rischiano e non potranno più ritenersi al sicuro nella certezza, consolidata dalla pratica che ha accomunato Prima e Seconda Repubblica, che i politici passano, ma i tecnici restano.

Ma veniamo alla sostanza del problema, che direi si possa porre in questi termini: Rocco Casalino ha esposto in modo rozzo e volgare un concetto che tra le personcine fini ed eleganti è noto come «spoils system», e che peraltro è stato pienamente recepito dalla nostra legislazione, con la legge n. 145 del 15 luglio 2002, che dalla Consulta ha avuto conferma di legittimità costituzionale con la sentenza n. 233 del 16 giugno 2006.
Vi si legge che «per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro»; che «con il provvedimento di conferimento dellincarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi [...], sono individuati loggetto dellincarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dallorgano di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dellincarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati»; che «il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero linosservanza delle direttive imputabili al dirigente [...], comportano, ferma restando leventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, limpossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, lamministrazione può, inoltre, revocare lincarico […] ovvero recedere dal rapporto di lavoro».
Di là dal ritenere giusta o no una legge che consente alla politica di sbarazzarsi dei tecnici che a proprio insindacabile giudizio ritenga incapaci o indisponibili allo scopo loro preposto, dovè la differenza con quanto ha detto Rocco Casalino? Cè quellantipatico dare del «pezzo di merda» a chi si considera responsabile del «mancato raggiungimento degli obiettivi» o, peggio, dell«inosservanza delle direttive», e cè quella minaccia di «mega-vendetta» invece di una più mite constatazione dell«impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale», e infine cè quella «cosa ai coltelli» che dà un fastidioso eccesso di colore al ben più neutro «revocare lincarico», ma il giovanottone è un villico, esce dalla tv berlusconiana, cosa si può pretendere?

venerdì 21 settembre 2018

De causis corruptae eloquentiae


Incredibile, lo so, ma ve la racconto lo stesso.
Leggevo l’articolo di un tizio che lamentava il degrado della comunicazione pubblica: brutali volgarità, laide menzogne, diffusa aggressività e, soprattutto, ignoranza, tanta ignoranza. Bel pezzo, devo dire, non si poteva fare a meno di annuire ogni tre righe.
Costretto ad annuire di continuo, era possibile accadesse, e infatti è accaduto: annuendo mentre accostavo alle labbra il mio tazzone di caffè, me n’è caduto un po’ sul giornale.
D’istinto ho tamponato con un kleenex, ma ho fatto peggio: un pezzo del giornale è venuto via, lasciando un buco nella pagina. E qui viene il bello, perché attraverso il buco vedo che sotto c’è la ruvida superficie di un papiro sul quale sono impressi caratteri che compongono parole inconfutabilmente latine: «-ata peroratio atque pro- / -ptum in quo rata- / -ibi bene cecid- / …».
Trasalisco, ovviamente, e prima grattando con l’unghia, poi strappando a brani tutta la pagina del giornale, davanti a cosa mi trovo? Al De causis corruptae eloquentiae di Quintiliano, per tutti andato perduto. In realtà non si trattava dell’opera completa, ma solo del proemio, per giunta mutilo del finale.
Non vi dico con quale eccitazione mi fiondo a leggere. È lui, è lui, non c’è dubbio che sia proprio lui: periodo faticoso, frequenti ripetizioni, ogni concetto espresso sempre in due o tre modi diversi, ciascuno aperto a dare aggancio a uno sviluppo diverso. Da estenuare chi oggi non concepisce un saggio che non sia innanzitutto una sequenza di aneddoti, citazioni, citazioni di citazioni, carinerie e rimandi a ciò che si dà scontato si sia già letto, e che poi semmai non ha letto neppure chi scrive, ma di cui, a onor del vero, ha sentito parlare.
Quintiliano, no. Quintiliano procede per proposizioni che sono squadrate con pazienza dal granito, che vanno a costruire edifici resistenti pure ai terremoti di magnitudo 9, nei cui meandri a volte ci si perde, ma solo per tornare da dove si è partiti.
È con piacere che offro al mio lettore il proemio del De causis corruptae eloquentiae. Tradotto con qualche libertà, ovviamente, per non tediare troppo chi è abituato ad argomentazioni non più lunghe di 280 battute.
Superfluo dire, com’è d’obbligo per tutto ciò che è vecchio di secoli: di strabiliante attualità.


Non è obbligatorio scendere nel foro in cui l’uditorio sia manifestamente refrattario alla retta argomentazione per cercare di persuaderlo alle proprie ragioni. Se lo si fa, però, non ci si può lamentare che la retta argomentazione non ottenga il risultato voluto. D’altronde, se si sente irrinunciabile persuaderlo alle proprie ragioni, la retta argomentazione non è l’unico strumento a disposizione: ve ne sono di scorretti, ma assai efficaci, anzi, tanto più efficaci quanto più scorretti, perché la refrattarietà alla logica che informa la proposizione valida rende solitamente estremamente ricettivi a sofismi, paralogismi, antinomie, fallacie.
Usare strumenti scorretti potrà far sorgere qualche scrupolo, che però non sarà difficile soffocare nella convinzione che il fine giustifichi ogni mezzo, soprattutto se si sente indispensabile ottenerlo in fretta. Se non si è dominati da questa urgenza e, ancor più, se non si è disposti a usare un mezzo scorretto per ottenere il proprio fine, rimangono due sole alternative: non scendere affatto in quel foro; oppure scendervi, ma armati di coraggio e pazienza, disposti a spendere tutte le proprie energie in uno sforzo che in buona sostanza è tutto e solo pedagogico, avendo ben presente, però, che, anche se instancabilmente operoso, non è affatto detto sia destinato a trovare successo, tanto meno in tempi brevi.
Ciò premesso, a nessuno sfuggirà che lo spazio di comunicazione pubblica sia un foro; che il motivo per il quale solitamente vi si scende è sempre (in senso stretto o in senso lato) politico; che in quest’ambito relazionale la persuasione si traduce in consenso; che, quando questo sia maggioritario, darà legittimità al governo della cosa pubblica; che chi aspira al governo della cosa pubblica lo considera quasi sempre un fine irrinunciabile.
Non credo sia necessario tradurre nei termini che sono propri della lotta politica quanto si è poc’anzi detto: se il discorso pubblico è, al pari di ogni altra forma di comunicazione, l’articolazione di proposizioni che possono rispondere o meno alle norme della retta argomentazione, data una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%, c’è da attendersi che il ricorso a strumenti scorretti possa senz’alcun dubbio dare risultati assai migliori, e in tempi assai più brevi.
Cosa può dissuadere dal farlo? Nulla, in realtà. In teoria potrebb’esserci il sapere che un buon fine difficilmente resta tale quando è ottenuto con mezzi disonesti; sta di fatto che, quando il fine è considerato irrinunciabile, difficilmente si riuscirà a valutarne la bontà lungo l’iter necessario a conseguirlo, e questo a voler dar per certo che fosse buono all’inizio. Sempre in teoria potrebb’esserci il sapere che la persuasione ottenuta in tempi troppo brevi e con metodi scorretti è estremamente labile, perché su basi poco salde; in pratica, tuttavia, si finisce quasi sempre per credere, e anche a ragione, che a un consenso ottenuto con argomenti invalidi si possa dare continuità con nuovi argomenti, altrettanto invalidi, ma altrettanto efficaci.
Direi sia veramente difficile rinunciare a strumenti retorici disonesti quando si ha la certezza, fondata sull’esperienza, che una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75% risponde meglio a questi che a quelli onesti. È del tutto naturale, dunque, che anche chi scenda in un tal foro armato delle migliori intenzioni sia costretto a scegliere: un consenso facile e immediato, largo ancorché labile, ottenuto in modo disonesto, o un’onesta, lunga e faticosa missione pedagogica che miri ad un consenso che c’è attendersi comunque assai limitato? Solo scrupoli di natura morale possono scoraggiare dallo scegliere la prima opzione, ma non s’è sempre detto che politica e morale non hanno nulla da spartire? Come si può continuare a dirlo sostenendo nel contempo che è lecito acquistare consenso solo usando mezzi onesti? Che c’entra l’onestà con una pratica i cui risultati devono essere giudicati solo sul piano della capacità? E da cosa è dato, il giudizio, se non dalla misura del consenso? È dato dalla sua misura, non già da come lo si è ottenuto. E dunque si sia seri: chi ha fede nella retta argomentazione non può e non deve attendersi consenso nel foro in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%.
Non a caso parlo di fede. Se alla logica, infatti, attribuiamo le qualità che il credente attribuisce a Dio (ve n’è evidente corrispondenza quando questi lo chiama Logos), occorre rassegnarsi al fatto che il suo regno – il regno in cui la logica detta le norme al dire e al fare – non è di questo mondo; che, se decide di incarnarsi, la logica, deve essere disposta ad esser crocifissa, dopo essere stata offesa e derisa; che eventualmente può risorgere, ma solo per tornarsene da dov’è venuta, dopo una fugace Pentecoste che serve solo a lasciare a evangelisti, apostoli e discepoli il mandato al martirio; che può darsi tornerà alla fine dei tempi, ma solo per trovare sulla terra una sparuta manciata di giusti.
Si scherza, ovviamente, sappiamo che la logica non ha nulla di divino: è una tecnica, oppure, per meglio dire, è una disciplina, e ha regole ferree, inderogabili. Possiamo a buon diritto ribaltare quanto detto, com’è per tutto ciò che è divino: non è la logica ad aver creato l’uomo, ma viceversa; non apparve sulla terra così come la vediamo oggi, ma nel tempo, a dispetto del ritenerla anteriore e superiore ai tempi, ha subìto una profonda trasformazione, tanto profonda da farle perdere la primigenia natura; ha pretese universalistiche, ma deve fare i conti con le condizioni che incontra e non di rado l’inculturazione le riesce male, trovando resistenze che sembrano più biologiche che culturali; i suoi sacerdoti predicano bene, ma spesso sono sorpresi a razzolare male, e in più vestono insegne di casta; la fede in lei può facilmente trasformarsi nella vuota celebrazione di rituali astrusi, in un arido sistema di precetti algebrici che la vita quotidiana s’incarica di dimostrare inapplicabili.
Si fa torto al presente pensando che questo non sia accaduto sempre...


Nota al testo

Al lettore che si stupisse di trovare in un testo del I secolo la locuzione «analfabeti funzionali» occorre far presente che nelloriginale essa era resa dalla perifrasi «stulti qui vivunt, cogitant et loquuntur ad mentulam canis».