martedì 18 dicembre 2018

«Ama il prossimo tuo» (Rap prenatalizio)


Presentarsi ad un comizio di Salvini con un cartello sul quale vi sia scritto «ama il prossimo tuo» è una provocazione estremamente intelligente, perché denuncia con un disarmante candore la patente contraddizione che cè tra limpegno di governare «rispettando gli insegnamenti contenuti nel Vangelo» (Milano, 24.2.2018), nel quale si legge un inequivocabile «ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25, 43), e la xenofobia, da sempre tratto peculiare della Lega, oggi dissimulata in quel «prima gli italiani» che tenta di farle velo. E tuttavia provocazione resta.
Cosa mette in conto di poter provocare, una provocazione del genere? Dipende dal tipo di leghista che si provoca, direi.

Nel caso del leghista da talk show, infatti, possiamo immaginare la reazione con un buon margine di previsione. Molto probabilmente dirà che non cè alcuna contraddizione, perché anche il Catechismo della Chiesa Cattolica fa presente che «le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero nella misura del possibile» (2241). E a chi spetta stabilire la «misura del possibile», se non a chi governa?
Questo, nel caso in cui il leghista da talk show sia un tipino molto fine, perché, se non lo è, dirà che, per numero di migranti accolti, lItalia è assai più cristiana del Vaticano. Qui si fermerà, incassando compiaciuto il meritato applauso, che, se troppo caloroso, potrebbe trasformarlo per qualche istante in un leghista da social network, facendogli scappar di bocca un «Bergoglio non rompesse il cazzo», un «Saviano ne ospitasse una dozzina nel suo attico a New York», un «Boldrini andasse a farsi una gangbang con venti senegalesi», ecc. A onor del vero, tuttavia, occorre dire che questo ormai accade sempre più raramente: il salviniano televisivo va migliorando notevolmente nel controllo dellistinto, e cè da supporre che migliorerà ancora, finendo col sublimare il Borghezio che si porta dentro in qualcosa a metà strada tra un Rinaldi e un Fusaro.
Sul piano antropologico non sono ancora maturi i tempi, ma prima o poi, vedrete, avremo addirittura il leghista da talk show che ci proporrà una più corretta esegesi evangelica: «prossimo» – dirà – viene da «proximus», che va tradotto con «il più vicino», «e chi ci è più vicino, caro Formigli, un negher del Ghana o un esodato di Brembate?», e lì probabilmente Formigli rimarrà spiazzato.

Suppongo sia intuibile che dal leghista da comizio, invece, non ci si potrà attendere niente del genere. Con o senza lelmo cornuto in testa, con o senza il fascio littorio tatuato in petto, che tipo di risposta è immaginabile dia, in Piazza del Popolo, il leghista da comizio? Gli passa davanti il tizio col cartello sul quale è scritto «ama il prossimo tuo»: come reagirà? Può darsi che neppure riesca a cogliere la provocazione, perché troppo intelligente (la provocazione, dico). Ma può darsi pure che la colga. In tal caso, il candore con la quale la provocazione è messa in atto sarà abbastanza disarmante da disarmarlo?

Non mi si fraintenda, so bene che, per il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, un comizio cade nella fattispecie di «riunione non privata» (art. 18), alla quale dunque può partecipare chiunque. So altrettanto bene che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» (Costituzione, art. 21), con quanto ne consegue per la libertà di esprimere anche il proprio dissenso a ciò che si ritiene lo meriti, ovviamente se mondato da tutto ciò che costituisca offesa, insulto, ecc. Direi che, in combinato disposto, queste norme mi consentono ampiamente di andare ad un comizio della Lega con un cartello sul quale vi sia scritto «ama il prossimo tuo», ma pure di tifare Roma nella curva dello Stadio Olimpico che ospita i tifosi della Lazio, e senza che nessuno possa torcermi un capello fino alla fine del comizio o del derby.
In teoria, ovviamente. Perché è probabile che questo mi possa essere impedito da due o tre poliziotti che mi prendano di peso e mi trascinino via dalla curva dello stadio o dalla piazza, ritenendo prioritaria la tutela della mia incolumità fisica rispetto alla libertà di poter far presente a Salvini che cè contraddizione tra il Vangelo e il Decreto Sicurezza o di cantare a squarciagola «Grazie, Roma!», quando la Roma segna, se segna. Nel secondo caso, sarà lecito da parte mia il sospetto che quei poliziotti abbiano voluto ledere un mio diritto, perché laziali o alle dipendenze della Società Sportiva Lazio Spa? Sarò autorizzato a credere che le ragioni d’ordine pubblico che mi verranno offerte a motivare il loro intervento siano in realtà solo una scusa per odiosamente conculcare la mia libertà di espressione? Sarei un fesso, non credete? E allora perché devo credere che il tizio col cartello sul quale vera scritto «ama il prossimo tuo» abbia subìto un torto nellessere allontanato da Piazza del Popolo? Di più: perché è in questo episodio che sarei autorizzato a leggere i prodromi di una dittatura?

Chi se ne sente autorizzato? Prendo a esempio Marco DAmbrosio, in arte Makkox, che qualche giorno fa twittava: «Non visiono mai i pezzi di Diego [Bianchi, in arte Zoro] prima della puntata [di Propaganda live]. Ma, laltroieri, Diego, al montaggio, mi ha chiamato e mi ha detto: “Marco voglio farti vedere una cosa”. Ho pensato: mò in piazza, ma prima o poi ci verranno a prendere a casa per una scritta, un disegno, una parola».
È un tweet fesso o cosa? Per meglio dire: paventare la dittatura leghista sta diventando un role-playing game o è unansia vera, genuina, onesta? So bene che la domanda può risultare offensiva. Diciamo che, in un contesto di vibrante allerta antifascista come quella che pare essere diventata urgente premura di ogni blogger perbenino, è una domanda che corre gli stessi rischi che correva in Piazza del Popolo il cartello con su scritto «ama il prossimo tuo», perciò nel proseguire mi appello alla libertà di espressione che qui non dovrebbe essermi negata per il solo sollevare la questione di quella che mi pare una patente contraddizione. Perché suppongo sia evidente la contraddizione tra il sentirsi alla vigilia di un altro Ventennio e il pensare che si possa scansarlo con trovate situazionistiche del genere ideato in Piazza del Popolo o con le battutine salaci e gli sferzanti sarcasmucci di un salottino televisivo.

Ecco direi di essere arrivato al punto: mi dà ragion di credere che nessun fascismo sia alle porte il fatto che chi gode dellaccredito di antifascista permanente si comporti in modo davvero poco serio. Se fascismo avrà da essere, dunque, sarà altrettanto poco serio, forse sarà addirittura altrettanto divertente. E giacché sarà possibile solo come espiazione delle colpe di una sedicente democrazia non allaltezza delle istanze popolari – sennò che razza di fascismo sarebbe? – vorrà dire che espieremo con gaiezza.

mercoledì 5 dicembre 2018

«Meglio 5 stelle che un milione di gilet gialli»


Cinque anni fa, su queste pagine, commentavo una frase che a Beppe Grillo aveva procurato più d’uno sghignazzo: «Ho incanalato tutta la rabbia in questo movimento. Dovrebbero ringraziarci: se noi falliamo l’Italia sarà guidata dalla violenza nelle strade». Dicevo che c’era poco da ridere: eravamo di fronte al consueto «presentarsi come forza d’ordine che ha incorporato la violenza che ha cavalcato e fomentato, facendosene forte, con tratto demiurgico, per promettere di neutralizzarla, ma in cambio del potere»; e aggiungevo che si era in presenza dellennesimo «partito che si candida[va] a riassorbire in sé i conflitti sociali [facendosi] garante dellordine che sul piano economico li riconduce al sistema corporativistico del partito-nazione», dandone prova in unaltra affermazione fatta da Beppe Grillo nella stessa occasione: «Arrivano le categorie da me… I notai, i farmacisti, i commercialisti… Dicono: “Siamo 20.000, ci dica cosa fa per noi, così poi le vediamo se darle il voto”… Guardate che avete sbagliato la domanda… Voi venite nel movimento, vi iscrivete, vi mettete così [e indicava i candidati del M5S che stavano in piedi alle sue spalle ad ogni tappa dello Tsunami Tour], vi votano, andate in Parlamento e portate avanti voi gli interessi della vostra corporazione…». Un sistema che si prefiggeva di evitare ogni sorta di conflitto sociale facendone venir meno la stessa ragione, perché quando cè coincidenza di nazione e partito, insieme a quella di partito e stato, che senso ha uno sciopero o una qualsivoglia altra forma di rivendicazione o di protesta? Nemmeno più unopposizione ha un senso. È fatta pace sociale: puzza un po di stato organico, se non di dittatura, questo sì, ma è pace sociale.

Veniamo ad oggi. Da chi vi aspettereste, di fronte ai torbidi che infiammano Parigi, un sostanziale – ancorché inconscio e inammissibile – avallo al progetto di società che aveva in testa Beppe Grillo? Vi do un aiutino: lo fa con un articolo che per titolo ha «Meglio 5 stelle che un milione di gilet gialli». Gian Luigi Paragone? Mario Giordano? Luca Telese? Macché, lo firma Giuliano Ferrara, che del M5S schifa tutto, tranne la pace sociale che al momento il M5S ci assicurerebbe per aver incanalato la rabbia degli scontenti in qualche innocuo vaffanculo. Entrambi – Grillo e Ferrara – facce della stessa Italia, quella che i conflitti sociali preferisce non vengano consumati, per essere sublimati in una quiete pubblica che somiglia a un museo delle cere. 

Il pericolo fascista, ancora


Se, con Umberto Eco, ammettiamo lesistenza di un «fascismo eterno», di cui le forme passate, presenti e future di fascismo sarebbero solo precipitati storici, siamo sollevati dal dovere di capire come questo o quel fascismo abbia modo di realizzarsi, e perché: «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni», che è quanto fa «eterno» il fascismo, avrebbero bisogno solo di condizioni storiche favorevoli per darsi ipostasi in una dimensione politica. Con ciò dovremmo concedere che «un modo di pensare e di sentire» sia possibile al di fuori del contesto sociale che lo produce e gli dà ragion dessere, che le «abitudini culturali» precedano la costruzione della società che le fa proprie, che il fascismo sia in qualche modo innato perché inscritto nella costellazione di certi «istinti» e di certe «pulsioni» che sono antecedenti al loro precipitare nella storia, e che la storia può dunque limitarsi a sopire, quando è in grado di farlo, sennò a farsene accendere, e bruciare.
Esagero col dire che questo «fascismo eterno» configura una vera e propria teodicea? Ne trovo una conferma nel fatto che spesso gli si attribuisce il carattere di «male assoluto», dove è evidente che «assoluto» non rimanda solo alla pienezza del «male» , ma anche al fatto desserlo in sé e per sé, come realtà incondizionata da qualsivoglia altro fattore. In buona sostanza, col «fascismo eterno» di Umberto Eco, siamo dinanzi a una concezione idealistica del fascismo, e la cosa divertente – si fa per dire – è che, cambiandone il segno valoriale, essa è in tutto coincidente a quella che del fascismo ci è stata offerta da Giovanni Gentile. Cambiandone il segno valoriale, dico, perché solo un giudizio di valore fa la differenza tra la «lista di caratteristiche tipiche» che il primo ascrive al «fascismo eterno» (ne contempla 14) e le 13 «idee fondamentali» di cui il secondo fa elenco per la pagina dellEnciclopedia Italiana dedicata a «La dottrina del fascismo». Per entrambi, infatti, il fascismo è unentità metastorica: in Gentile, «ha una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero», mentre in Eco arriva a fregiarsi del prefisso «Ur-» («Ur-Fascismo») per darsi connotato di entità ancestrale.
Già in questo io intravvedo un enorme pericolo per chi, dando un giudizio negativo razionalmente argomentato sullesperienza del Ventennio fascista, si ponga come scopo quello di dare il proprio contributo a che quellesperienza, seppur in altre forme, non si rinnovi. Se, infatti, si attribuisce al fascismo un che di metastorico (psichico o biologico che dir si voglia, perché a questo in fin dei conti si riduce la ragione del suo poter essere «eterno»), ogni antifascismo si dichiara perdente in partenza, perché tutto ciò che è dato come «ab-solutus» è per definizione destinato a non aver «solutio», se non momentanea, o fallace.
Se ne ha riprova nel fatto che non si ha traccia di un «fascismo eterno» nella riflessione degli uomini che si opposero al regime del ventennio fascista: per essi il fascismo non aveva alcuna dimensione metastorica, anzi era loro costante cura la denuncia della mera retorica in tutto ciò che gliene concedeva una. È solo dopo la caduta del regime fascista che comincia a farsi strada lidea di un fascismo come «male assoluto» che si incarna nellumano, e questo avviene per costruire una mitologia dellantifascismo in grado di assicurare un saldo pilastro etico alla neonata repubblica. Dopo ventanni di dittatura, infatti, era comprensibile che Resistenza e Liberazione si dessero un che di mistico perché una libertà di cui si era smarrito il senso acquistasse il valore che ha il premio posto in palio tra Bene e Male: perché fosse «assoluto» l’uno, era necessario lo fosse anche l’altro.
Premura comprensibile, ma non priva di rischio, come daltronde sè reso evidente, dal 1945 ad oggi, ogni qual volta si è evocato il «pericolo fascista» non già come il configurarsi di una condizione di crisi in grado di trovare una soluzione in questo o in quel tipo di fascismo, ma come bestia uscita dalla gabbia mal sorvegliata, come ritorno del rimosso, come rigurgito dellirrazionale che sempiternamente luomo cova in seno. Suppongo non sia difficile capire quale vantaggio si conceda in tal modo alla soluzione di tipo fascista che viene offerta come risposta a una condizione di crisi.
È un errore che si sta facendo anche in questi ultimi mesi, e questa voleva essere solo la premessa allanalisi della debolezza intrinseca alla posizione di chi si oppone alla «cosa giallo-verde» come a cosa (neo-)fascista.

[segue]

mercoledì 14 novembre 2018

La quarta corda dell’ukulele. E la terza.


Coi sondaggi che già da alcuni mesi registrano un lento ma progressivo calo dei consensi al M5S rispetto al risultato uscito dalle urne il 4 marzo (siamo ormai giunti a una perdita di quasi cinque punti percentuali) è comprensibile che lo stato maggiore pentastellato attendesse coi nervi tesi come corde di ukulele (lascerei in pace il violino, che è strumento serio) lesito del processo che vedeva Virginia Raggi accusata di falso ideologico: una condanna avrebbe messo fine allesperienza capitolina nel modo più indecoroso per un movimento politico che sulla fedina penale pulita ha costruito buona parte della sua fortuna, col rischio di avviarlo a un irreversibile declino.
Prevedibile, dunque, che lassoluzione liberasse tutte le tossine accumulate nell’attesa, altrettanto prevedibile che a farne le spese dovessero essere i giornalisti che più s’erano accaniti su Virginia Raggi, arrivando al dileggio, all’insulto, alla calunnia, con ciò perdendo ogni legittimità di critica alla sua amministrazione.
La rivalsa dei grillini non si è fatta attendere: «sciacalli», «pennivendoli», «puttane», epiteti pesanti, ma solo in apparenza, perché rubricati già da tempo alla voce «giornalista» sul dizionario analogico della maldicenza.
Ancora più scontata la reazione della categoria, seconda nella solidarietà di gregge solo a quella dei tassisti. Niente di nuovo, perché così funziona, la solidarietà di gregge, almeno fino a quando si rivela efficace a proteggere il singolo senza arrecare danno al gruppo. Si pensi a quello che accadeva, fino a qualche anno fa, quando un prete era sorpreso ad incularsi un chierichetto: una cortina di martiri della fede veniva prontamente schierata a fargli da paravento, come se in pericolo fosse la tonaca, non il pedofilo che ci stava dentro, insudiciandola, e allora è stata la tonaca ad esser presa di mira e ad essere insudiciata, chiunque ci stesse dentro. Non conveniva, e la Chiesa, che sa come si sta al mondo, l’ha capito. I giornalisti italiani non ci sono ancora arrivati, e in questa occasione ne hanno dato prova: Luigi Di Maio dava dell’«infimo sciacallo» a chi non s’era risparmiato «titoloni» che «parlavano di corruzione, imminenti arresti, processo alla bambolina» per «dimostrare che il M5S era uguale agli altri»; Alessandro Di Battista dava del «pennivendolo» a quanti avevano «lanciato tonnellate di fango» addosso a Virginia Raggi, «trattandola come una sgualdrina», per concludere che la sentenza dimostrava che «le uniche puttane qui sono solo loro»; e allora via allo sdegno della corporazione tutta, con proteste vivamente risentite, allarmanti appelli in difesa della libertà di stampa, fino al grottesco di una Myrta Merlino in posa da Politkovskaja.
Un vero peccato, perché anche stavolta è andata persa l’occasione di quella seria autocritica senza la quale è impensabile che il giornalismo possa trovar modo di riacquistare anche solo un po’ della credibilità e del prestigio di cui godeva un tempo. Se, infatti, corri in difesa di un mascalzone solo perché ha in tasca un tesserino amaranto uguale al tuo, autorizzi a estendere su di te, e su chiunque corra in sua difesa insieme a te, il giudizio morale che lo condanna: l’ordine professionale te ne sarà grato, ma poi avrai più diritto di lamentarti quando si farà di tutta l’erba un fascio, e dentro, a torto o a ragione, ti ci ritroverai anche tu?

Qui il post potrebbe anche finire, però risulterebbe sbilanciato in favore del becerume grillino, e allora provo a riequilibrarlo.
«Puttane», dice Alessandro Di Battista? Non si generalizza? «Puttana» è la nigeriana da venti euro a pompino e la escort da tremila euro a notte: non è il caso di far distinzione tra l’agiato direttore e l’assai meno abbiente redattore? Vogliamo davvero ritenere irrilevante la differenza che c’è tra il battere per sopravvivere e il farlo per stipare il guardaroba di capi griffati? Non rivela una bestiale ottusità ignorare la differenza di milieu, con quanto ne consegue per il profilo psicologico e quello sociologico, tra «puttana» e «puttana»? Non è segno di inescusabile insensibilità che un Alessandro Di Battista non sappia cogliere le affinità che lo legano alla figura-tipo del giornalista italiano? Si tratta di un tizio che per lo più si è fermato al diploma o ai primi esami universitari, e di solito viene da una famiglia di ceto superiore, ma non ha i numeri o la voglia per seguire la strada dei genitori, oppure viene da una famiglia di ceto medio o basso, e col giornalismo tenta l’arrampicata verso l’alto, insomma o è un alto-borghese sfigato o un piccolo-borghese arrivista. Come può la quarta corda dell’ukulele non vibrare per simpatia con la terza?

martedì 6 novembre 2018

Una cosa è la società, un’altra è la comunità


Una cosa è la società, unaltra è la comunità. Nel linguaggio corrente, tuttavia, società e comunità sono sinonimi. Almeno nellagorà affollata da poveri di spirito, che di linguaggio corrente vivono, questo dà un significativo vantaggio al comunitarista nel poter dare dellasociale o, peggio, dellantisociale a chi in quel foro porta i suoi argomenti contro un modello di convivenza di tipo comunitario. Più delladditarlo a campione di un vizio morale o a soggetto potenzialmente pericoloso, però, può tornargli utile dipingerlo come un fesso che ragiona per astrazioni, perché ai poveri di spirito fa orrore lanempatico che elegge il suo ombelico a centro delluniverso, e ancor più lhomo homini lupus che sgozza pecorelle, ma il ridicolo è più efficace dellorrore a esorcizzare il mostro. Così, per contestare le ragioni di chi rivendica i diritti dellindividuo, sarà senzaltro utile insinuare che in fondo si tratta di un egoista che non si fa scrupolo di minare i pilastri della convivenza umana pur di difendere i porci comodi suoi, tutti intrinsecamente prevaricanti, ma di gran lunga più efficace sarà indossare la toga del tribuno della plebe, puntare lindice sul malcapitato e col tonante vocione del difensore del bene comune – che è sempre quello di tutti, mai quello di ciascuno – dirgli che al di fuori della società l’essere umano non esiste, che nella realtà l’esistenza umana è possibile solo nella società, che l’uomo è nel senso più letterale un animale sociale, e soltanto nella società può isolarsi, altrimenti si tratta di una rarità, di un assurdo, di una specie di Tarzan, di una scimmia tra le scimmie.
Chi si era azzardato a sostenere che lindividuo dovrebbe poter essere sovrano sul proprio corpo e sulla propria mente aveva negato che luomo sia un animale sociale? No, ma che importa visto che società e comunità sono sinonimi? Daltronde, per chi non riesce a concepire una società che non sia comunità, fa lo stesso: se rigetti un modello di convivenza che non si limita a chiederti di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, che peraltro è precetto di secoli e secoli antecedente a Cristo, ma esige che tu faccia agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te (e perché ciò trovi corrispondenza è il caso che tu ti imponga di volere quel che ti è fatto intendere sia buono, bello e giusto volere), e questa sì che è cosa tutta cristiana, e primancora platonica e aristotelica, e poi dogni filosofo-re, interprete di fatto e di diritto del Buono, del Bello e del Giusto, e poi di Hegel, e poi di Marx e poi, si parva licet, di Rocco e di Gentile – beh, o sei fesso o sei cattivo, eventualmente fesso e cattivo.
E però non disperare: la società in cui credi tu ti lascerebbe nellerrore, la comunità in cui crediamo noi non si rassegna a perderti, e ti rieducherà allamore per il prossimo tuo. Amore obbligatorio, è vero, però pensa che bello: in cambio – a scelta – ti sarà data unanima, un senso identitario o una coscienza di classe.

lunedì 5 novembre 2018

E l’individuo pare intenzionato a cedere


Si può parlare di globalizzazione prescindendo da cosa si intende con globale, dal fatto che globale viene da globus, da quale significato si deve dare a quel glob- che sta in globus, del modo in cui quell-us lo sostantivizza. Così col liberalismo, dove in effetti è assai raro che da liberale si ritenga necessario risalire a liberus, per darne ragione in quel lubeo che sta per mi aggrada, e che sottintende una libertà di scelta. Idem col populismo: se dobbiamo parlarne, chi riterrà necessario premettere che populus viene da πλέως, e dunque rimanda a un plenus? Col comunitarismo accade l’esatto contrario: qui pare sia dobbligo richiamare il concetto di communitas, per spiegare che viene da communis, cioè con-munus, per chiarire che munus è insieme onus, officium e donum, e che cum implica un vincolo.
Come mai qui si ritiene indispensabile risolvere in radice loggetto della discussione? Credo che dipenda dal fatto che la communitas dà conto della sua reale natura solo conferendo pienezza di significato al suo etimo, il che potrebbe risultare perfino fuorviante col liberalismo, che in realtà non mi consente affatto di fare tutto ciò che mi aggrada, o col populismo, che non implica affatto un plenum di consenso popolare, tanto più con la globalizzazione, che infatti resterebbe esattamente ciò che è, anche se il mondo fosse piatto invece di avere forma sferica.
Da questa stretta relazione tra etimo e significato corrente emerge unaltra particolarità del comunitarismo: a differenza di altri termini che nel corso del tempo si sono adattati a descrivere realtà anche profondamente diverse da quelle che descrivevano in origine (si pensi, per esempio, alla democrazia, che per lungo tempo non implicò il suffragio universale), il comunitarismo mantiene intatto il significato col quale fece esordio nel discorso politico, con Aristotele, anche se nelle sue Πολιτικά compare come κοινωνία. Possiamo ragionevolmente ritenere, dunque, che si tratti della ripresa di qualcosa che avanza la pretesa di essere sempre valida, pur al variare dei tempi, ma su cosa poggia questa pretesa? Innanzitutto, sul fatto che la natura umana sarebbe immodificabile; in secondo luogo, sul fatto che essa sarebbe intrinsecamente comunitaria, con ciò che di organicistico sarebbe intrinseco ad ogni comunità propriamente detta; ne conseguirebbe che ogni altra forma di convivenza umana sia da ritenersi contro natura, e dunque da considerare – insieme – artificiosa e dannosa.
In tal senso non è affatto strano che la ripresa di questo pensiero cada in un momento storico che riconosce allindividuo uninaudita «sovranità sul proprio corpo e sulla propria mente». È qui che la pretesa di disconoscergliela assume i tratti di ciò che dunque non è conservazione, ma reazione, è qui che essa si dichiara per la prima volta comunitarista, in esplicita polemica con ciò che dà fondamento ai diritti dellindividuo. Accade quando lindividuo non riesce più a bilanciare la libertà con la responsabilità, e viene tentato dal bisogno di protezione.
«Per ciascun essere umano singolarmente preso è difficile liberarsi da una minorità divenutagli quasi natura», scriveva Kant; e, «per brillare, al pari delle lucciole, le religioni hanno bisogno di oscurità», scriveva Schopenhauer. Loscurità dei nostri tempi dà occasione al comunitarismo di poter assicurare protezione allindividuo a patto che egli accetti come naturale lo stato di minorità dal quale si era emancipato. E lindividuo pare intenzionato a cedere. 

mercoledì 31 ottobre 2018

Boh

«Il diario sa di nebbia»
Julio Cortázar, L’esame

Ho sognato che era morto Battiato. Niente di diverso dalle solite morti dei Grandi: titoloni dappertutto, lunghissima coda per dargli lultimo saluto, speciali in prima serata, rimasterizzazione dellOpera Omnia a cadavere ancora caldo, e tutta la nazione a fare il compito in classe, chi con lautorevole necrologione da cinquemila battute, chi con un anonimo r.i.p. via tweet. Niente di diverso, tranne il fatto che ad un tratto si spargeva voce che il corpo del Grande era sparito, e alcuni sostenevano che fosse stato trafugato per la richiesta di un riscatto (pesanti i sospetti sulla ndrina di Rosarno), per altri era fin troppo ovvio che il Maestro fosse risorto (Buttafuoco laveva buttata lì come metafora, ma gli erano andati dietro a frotte), mentre Alice sosteneva che si fosse reincarnato in Pippo, il cucciolo di armadillo venuto alla luce nello zoo di Catania proprio il giorno dopo il suo decesso, e tutti avevano torto, ma tutti in qualche modo avevano ragione.
Qui mi son svegliato, e in mano mi son ritrovato un evidenziatore. Donde fosse piovuto, boh.

lunedì 29 ottobre 2018

È il vecchio che ritorna


Al momento, col dire che destra e sinistra sono categorie superate, ci si limita soltanto a predirne il superamento o a esprimere il desiderio che siano superate, perché in realtà esse sono ancora duso corrente, col paradosso – vedremo perché solo apparente – di essere maggiormente utilizzate proprio da chi le ritiene inservibili. È il caso, per esempio, di chi vi ricorre per opporre al modello liberaldemocratico quello di un comunitarismo che troverebbe fondamento su «valori di destra e idee di sinistra», dove il superamento, quindi, risulterebbe possibile solo in una loro sincresi, peraltro neanche tanto originale, essendo roba già vista coi vari mix di socialismo e fascismo che furono sperimentati nel secolo scorso, sorvoliamo con quali risultati.
Ma con «valori di destra e idee di sinistra» si fa riferimento proprio alla destra e alla sinistra che abbiamo visto allopera nel Novecento? Non ci sono dubbi, perché i «valori» sono Dio, Patria e Famiglia (anche se Dio è altrimenti declinato in Natura o Tradizione, e Patria in Nazione o Identità), mentre le «idee» sono Stato, Lavoro e Socializzazione (dove questultima è richiamata in entrambe le sue accezioni, quella economica e quella sociologica, e sempre in chiave organicistica). Non è irrilevante, altresì, che alla destra siano ascritti «valori» e alla sinistra «idee», a dimostrazione che nella sincresi comunitaristica le due categorie persistono nei loro tratti più peculiari, conservando inalterate addirittura le loro posizioni rispetto alla classica dicotomia trascendenza-immanenza che vede la destra farsi interprete di istanze spirituali e la sinistra di bisogni materiali.
Sia chiaro: destra e sinistra non sono entità metastoriche; sono costruzioni concettuali che sistematizzano opinioni e interessi; in quanto tali, così come son nate, così possono morire; non è affatto escluso, dunque, che possano diventare categorie inservibili in un contesto storico che veda mutate le condizioni in cui esse tornarono utili; sta di fatto che, proprio nel momento in cui esse sembrano dover lasciare il posto a qualcosa che si dice «né di destra, né di sinistra», questo qualcosa non sa darsi altrimenti che come cosa «sia di destra, sia di sinistra».
Nel caso del comunitarismo – abbiamo visto – lammissione è esplicita: «valori di destra e idee di sinistra». Ancorché implicita, però, essa è evidente in tutti i movimenti che credono di poter trovare ragion dessere nel fatto che «destra e sinistra sono categorie superate», e questo per una semplice ragione: tutti – senza eccezioni – esprimono varianti del comunitarismo. È qui che si scioglie il paradosso cui facevo cenno allinizio: destra e sinistra non possono essere separate, né assenti, in una concezione delluomo e della vita, della società e della storia, che è di gran lunga antecedente allassemblea nella Sala della Pallacorda, e che lì ebbe la sua catalisi, dando corpi finalmente distinti alle sue contraddizioni interne.
Il nuovo cui non sappiamo dare un nome è in realtà vecchissimo: prende le mosse dalla Politica di Aristotele, passa per il monologo di Menemio Agrippa, per il Policraticus di Giovanni di Salisbury, fino alla «volonté générale» di Rousseau, alla «sostanza etica consapevole di sé» di Hegel, al rossobrunismo nelle sue svariate forme, dal «fascismo immenso e rosso» di Brasillach al neocomunitarismo di Preve, maestro di Fusaro.
Niente di nuovo contro la liberaldemocrazia: è il vecchio che ritorna. Occorrerà parlarne ancora a lungo. 

sabato 27 ottobre 2018

Io la penso come Daniele Luttazzi



Io la penso come Daniele Luttazzi: «La satira, per definizione, è contro il potere. Contro ogni potere. È una combinazione di ribellione e irriverenza e mancanza di rispetto per l’autorità» (Lepidezze postribolari ovvero Populorum Progressio, Feltrinelli 2007 – pag. 103), perciò mi chiedo cosa sia quella di Makkox, che chiude la puntata di Propaganda live di venerdì 26 ottobre con una striscia davvero invereconda: sulla cover della sigla finale di Goldrake cantata da Alessio Caraturo, un tenero Mattarella con mantello tricolore sfreccia nel cielo, quando ad un tratto – puf! – gli vengono meno i superpoteri (è chiaro debba esserci lo zampino di Vega, cioè di Beppe Grillo) e – zow! – precipita, ma per fortuna, ad impedirgli di spiaccicarsi al suolo, ecco una selva di braccia ad afferrarlo al volo – sfrunf! – riavendone un «Grazie, amici! Sapete, qualcuno pensa che i miei poteri mi rendano troppo “potente”, ma non capisce che quelli, i poteri, senza di voi, non ci fai nulla», che miete tanti adoranti cuoricini.
«Ribellione e irriverenza»? Non ne vedo traccia. Tanto meno vedo traccia di «mancanza di rispetto per lautorità», anzi, direi si tratti di una esemplare prova di sfacciata leccaculaggine.
Se non è satira, allora, cosè? Per trovare una risposta credo si debba riandare alla lettera con la quale, a giugno, il Presidente della Repubblica esprimeva il suo personale apprezzamento per come la trasmissione condotta da Diego Bianchi aveva «seguito, con sguardo scanzonato ma mai banale, la complicata fase delle consultazioni per la formazione del governo».
Uninvestitura, in buona sostanza. È che durante quella «complicata fase delle consultazioni» nasceva l’ennesimo Partito del Presidente, una costante nella vita politica italiana, giacché ogni settennato ha avuto il suo. Partito assai sui generis, ovviamente, cui un canale di comunicazione extra-istituzionale torna estremamente utile. Tacitamente si saldava il patto: voi mi scaldate la platea e io vi faccio la marchetta, poi, vedremo, può darsi che nel 2022 possano scapparci pure due onorificenze da cavalieri del lavoro. 
Ma può darsi che questa sia una lettura eccessivamente dietrologica. In tal caso si potrebbe ripiegare sul banale, che è il miglior rasoio di Occam. Perché in fondo anche ai tempi di Gronchi al Quirinale cera un gran via vai di donnine del mondo dello spettacolo. Nessuna faceva satira, però. Anzi, si mormorava che il satiro fosse Gronchi.




mercoledì 24 ottobre 2018

Paragonarlo a Scalfaro o a Napolitano è vilipendio?


Visto che la Costituzione contempla la possibilità che il Presidente della Repubblica invii messaggi alle Camere, e che sono le Camere a dover dire lultima parola sulla Legge di Bilancio, della quale il Governo annuncia di non essere disposto a cambiare neppure una virgola, non si capisce perché Mattarella abbia scelto l’Assemblea dellAnci per lanciare il suo richiamo al rispetto dellequilibrio di bilancio, con evidente riferimento allart. 81 della Costituzione, che tuttavia non fa cenno a Sindaci o a Comuni neppure di striscio.
Non si capisce a voler far finta di esser stupidi, perché in realtà si capisce, eccome. Non era importante dove e a chi, ma quando, e dunque perché: il suo richiamo voleva cadere a cavallo della prevedibile bocciatura della Manovra di Governo da parte del Consiglio europeo, e dunque intendeva assumere un peso politico, che poi è la tentazione a cui nessun inquilino del Quirinale ha mai saputo resistere. Pessima abitudine, perché lattività di indirizzo politico non spetta a chi è chiamato ad essere garante del dettato costituzionale.
Si potrà obiettare che in effetti Mattarella è intervenuto per richiamare al rispetto di un articolo della Costituzione. Non cè dubbio, ma lo ha fatto sbagliando momento e modo: altra cosa se avesse scelto di affidare il suo richiamo ad un messaggio alle Camere allorquando queste fossero state in procinto di affrontare la discussione sulla Legge di Bilancio. Ma cosa avrebbe potuto dire in quel messaggio? Cosa avrebbe potuto aggiungere o togliere ad un articolo che, pur pretendendo di imporre chissà cosa al legislatore, in realtà non gli impone niente?
«Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», certo, ma quale Legge di Bilancio dichiara esplicito squilibrio tra le due voci? E, certo, deve farlo «tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico», ma a chi spetta riconoscerle come avverse o favorevoli? In quellarticolo, poi, è fatto divieto di ricorrere allindebitamento? Macché, «il ricorso all’indebitamento è consentito», sebbene «solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico», e «al verificarsi di eventi eccezionali». Ma chi è tenuto a considerare questi effetti, a valutare leccezionalità degli eventi che motivano il ricorso all’indebitamento, e quindi ad autorizzarlo? Le Camere, appunto, nelle quali i giallo-verdi hanno una solida maggioranza.
Mattarella sa bene che le Camere sarebbero sorde a un suo messaggio, e dunque sveste i panni del garante della Costituzione che sta al di sopra delle parti per indossare quelli dellattore politico che scende in campo per opporsi alla linea economica del Governo. Illegittimo, certo, ma ampiamente prevedibile: sono passati tre anni e mezzo da quando è stato eletto al Quirinale, di solito un Presidente della Repubblica non resiste più di tanto nel restare super partes. Cosa prometteva che potesse essere meglio di uno Scalfaro o di un Napolitano?

Mi assale un dubbio: paragonarlo a Scalfaro o a Napolitano è vilipendio? 

martedì 23 ottobre 2018

Di quanta residua Monarchia ha bisogno la nostra Repubblica?


Con un referendum che aveva visto vincere la Repubblica sulla Monarchia per meno di due milioni di voti, è comprensibile che i vincitori volessero evitare che la guerra civile tra fascisti e antifascisti si riaccendesse, previo rimpasto delle parti in campo, tra monarchici e repubblicani. Si risolsero, così, col dare al Presidente della Repubblica un profilo assai simile a quello di un monarca, conferendogli molti dei poteri che lo Statuto Albertino aveva conferito al Re, lasciandogli comunque in simulacro quelli che andavano di fatto al Parlamento, al Governo e alla Magistratura, nella classica tripartizione che andava a rompere lunità del potere autocratico, seppur mitigato da un ottriato. Perfino nella scelta del primo Presidente della Repubblica si preferì puntare su chi potesse vantare notoria fede monarchica, per attenuare il trauma di vedere assiso al Quirinale altri che un Re, e si scelse Enrico De Nicola, che, ritenendo sacrilego usurpare il Quirinale, elesse a sua sede Palazzo Giustiniani.
Come il Re dello Statuto Albertino entrato in vigore nel 1848, anche il Presidente della Repubblica della Costituzione entrata in vigore nel 1948 rappresentava lunità nazionale, promulgava le leggi, scioglieva le Camere, era a capo delle Forze Armate, dichiarava lo stato di guerra, aveva potere di grazia. Di tutto il resto conservava un qualche succedaneo: dove poteva sanzionare le leggi, ora poteva rimandarle alle Camere; dove nominava i giudici, ora diventava Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; dove la sua persona era «sacra e inviolabile», ora il Codice Penale dichiarava «vilipendio» loffesa alla sua persona, al pari di quella alla religione.
La storia non concede controprove, sta di fatto che questi accorgimenti risultarono efficaci a tener buoni i monarchici. Ma oggi – oggi che i nostalgici della Corona sono solo quattro gatti del tutto inoffensivi – ha senso un Presidente della Repubblica che surrogando il potere di nominare un numero illimitato di senatori a vita che lo Statuto Albertino assegnava al Re (art. 33) vede riconosciuta dalla Costituzione la facoltà di nominarne cinque (art. 59)? Ha senso, oggi, che un Presidente della Repubblica possa godere della stessa discrezionalità di veto sulla nomina dei ministri che a Vittorio Emanuele III consentì di far fuori Facta per far posto a Mussolini?
Sull’ipotesi di rafforzare i poteri del Presidente della Repubblica, in un più generale progetto di riforma costituzionale che trasformasse la nostra Repubblica parlamentare in una Repubblica presidenziale, non si è mai gridato allo scandalo, anzi, la questione continua ad essere dibattuta di tanto in tanto, fin dai tempi di Pacciardi. E allora che c’è di blasfemo nell’ipotesi di aprire un dibattito sull’opportunità di ridimensionarli? Beppe Grillo è Beppe Grillo, d’accordo, ma cosa c’è di eversivo nella sua proposta di rivedere le prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato?
Più in generale: di quanta residua Monarchia ha bisogno la nostra Repubblica?