martedì 19 febbraio 2019

Persuadere e convincere


Anche se sono considerati sinonimi, c’è un’enorme differenza tra persuadere e convincere, come d’altronde è evidente fin dall’etimo: per-, infatti, esprime l’attuazione di un fine, che qui è il -suadere, cioè l’indurre a fare, con quanto di suavis sta nell’induzione di chi induce, ma anche nel fare cui si è indotti (in altri termini, la soavità del persuasore riesce a rendere soave il da fare che spetta al persuaso); con-, invece, esprime la comune vittoria che premia chi ha cercato di convincere e chi infine si è convinto (nel convincimento, anche se solo a posteriori, si scopre che il fine – riconoscere la validità di quanto si intendeva dimostrare valido – era comune a entrambi). Diremmo che, nel primo caso, dopo che si è ottenuta la persuasione, persistono un persuasore e un persuaso, mentre nel secondo, dopo che si è ottenuto il convincimento, viene meno ogni distinzione tra vincitore e vinto.
Se tuttavia persuadere e convincere sono sinonimi, una ragione c’è, anzi, ce ne sono tre: chi cerca di persuadere e chi cerca di convincere hanno medesimo fine nell’ottenere il consenso dell’uditorio; le rappresentazioni del persuadere e del convincere si tengono sulla stessa scena e le parti interpretate sono sovrapponibili; chi è persuaso e chi è convinto fanno quanto consegue dalla persuasione e dal convincimento senza che da quanto fanno, né da come lo fanno, si possa desumere con certezza alcunché di specifico del persuadere o del convincere che lo ha determinato. Se non dal movente, se non dall’azione, se non dagli effetti, da cosa possiamo desumere, allora, quanto fa la differenza che sta nell’etimo?
La tentazione sarebbe quella di appuntare l’attenzione sugli strumenti utilizzati, dando in premessa che la persuasione abbia miglior presa su individui più sensibili alla suavitas di pseudo-argomenti che fanno leva su istinti e fantasie, mentre il convincimento possa ottenere successo solo su individui inclini a far vincere, sempre e comunque, la ragione, contro ogni cedimento a passioni e a pregiudizi. Così facendo, tuttavia, c’è il rischio di incorrere nell’errore di credere che persuasione e convincimento abbiano cogente specificità di strumento, il che non è, come dimostra il fatto che non di rado la persuasione fa appello alla ragione, mentre il convincimento non esclude affatto il richiamo alle emozioni.
Si potrà obiettare che la ragione cui fa appello chi persuade finisce sempre per rivelare la sua aleatorietà in un processo logico che in ultima analisi è dimostrabilmente erroneo; parimenti, sarà sempre possibile dimostrare che le emozioni messe in gioco da chi cerca di convincere non muovono il processo logico, ma ne sono mosse. Obiezioni sostanzialmente valide, ma si concederà che dimostrare l’una e l’altra cosa non sarà sempre facile, e dunque non potrà avere saldo valore dirimente. Nulla, allora, ci consente di distinguere in modo agevole e immediato un tentativo di persuasione da un tentativo di convincimento?
Per Perelman si deve fare attenzione a chi è indirizzato il tentativo: «Il discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere, mentre quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere», perché «un discorso convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da tutti i membri dell’uditorio universale», dacché conseguirebbe – questo non lo dice, ma penso sia lecito inferirlo – che quello persuasivo abbia efficacia solo laddove la particolarità dell’uditorio sia data da una specifica tendenza ad assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di pregiudizi. Diremmo, dunque, che quanto più il discorso sembra rivolgersi a chiunque tanto più alta è la probabilità che siamo dinanzi a un tentativo di convincimento, mentre quanto più sembra rivolgersi a qualcuno tanto più è probabile che siamo dinanzi a un tentativo di persuasione.
Ma questo regge come regola generale? Potrebbe anche reggere, se non fosse che «uditorio da convincere» è concetto assai più astratto di «uditorio da persuadere», perché identificare qualcuno è assai più facile che identificare chiunque, e qui identificare è da intendere in senso letterale: riconoscere un’identità, cioè l’unicamente idem a se stesso, che nell’«uditorio particolare» ha tratti concreti, agevolmente riconoscibili, ma che nell’«uditorio universale» assume forma di idealtipo. Poi c’è che, se il convincimento tende ad annullare le differenze tra individuo e individuo (universalizzandoli) mentre la persuasione tende a rimarcarle (ripartendoli), dopo aver convinto una parte dell’uditorio, una differenza si sarà comunque realizzata rispetto a quella che non si è riusciti a convincere, dando comunque all’«universale» qualcosa di «particolare»: i convinti faranno «partito» non meno dei persuasi.
Sul punto, dunque, neanche Perelman sa darci una regola generale che possa dirsi affidabile, il che, per il rispetto che gli si deve, ci fa disperare possa essercene una: non resta che giudicare caso per caso, senza peraltro poter escludere la possibilità che persuasione e convincimento siano compresenti. Riprendendo, infatti, il noto adagio di Chaignet, secondo cui «a persuadermi è sempre un altro, a convincermi solo me stesso», cè il caso in cui «altro» e «me stesso» coincidono: è quello in cui lindividuo si fa massa.

giovedì 14 febbraio 2019

Cos’è il risentimento?


Cosè il risentimento? Per il Devoto-Oli è l«atteggiamento di avversione o animosità verso qualcuno per unoffesa o un affronto ricevuto», ma la definizione che forse coglie qualche sfumatura in più, cosa di notevole importanza quando si parla di uno stato danimo, mi pare quella del De Mauro, che lo descrive come «sentimento commisto di animosità, rancore e desiderio di rivalsa, provocato da un comportamento altrui ritenuto ingiusto, offensivo o ingiurioso», perché qui l«avversione» è meglio caratterizzata in «rancore»l«atteggiamento» esprime la sua più distintiva peculiarità nel «desiderio di rivalsa», il tratto soggettivo dello stato danimo è significativamente rimarcato dal fatto che posso anche aver solo «ritenuto» di essere stato oggetto di un affronto, non necessariamente averlo realmente «ricevuto»; meglio ancora, però, il Sabatini Coletti, per il quale è quel «sentimento dato da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustazione subìta, sia essa reale o immaginaria», dove «rabbia» e «frustrazione» danno il colore più appropriato al «sentimento», di cui si coglie al meglio il tono sottolineando quanto di essenziale assume dallessere «protratto nel tempo». «Una rabbia che si fa cronica e perdura nel tempo», dunque, come in unintervista di qualche tempo fa lo definì Ian McEwan, che precisò: «Può essere fredda, non esplicitata, oppure diventare calda, fare grande rumore e trasformarsi in violenza».
Tutto ciò mi pare rappresenti al meglio cosa sia il risentimento, ma ancora non ci dice nulla dei moventi, che è chiaro debbano essere diversi nel caso in cui il «torto» subìto, e la «frustrazione» che ne consegue, siano «reali o immaginari». Siamo comunque dinanzi a un meccanismo di difesa, infatti, ma è evidente che nel primo caso ci è lecito mettere in discussione solo il perché della sua scelta, e ovviamente quanto esso poi risulti essere efficace, se e quanto in grado di mettere riparo a un danno concreto, mentre nel secondo siamo chiamati ad indagare sul processo che produce lallucinazione del «torto» subìto e sulla dimensione psicopatologica del momento reattivo. Così, volendo prendere sul serio unaffermazione come «l’Italia è oggi una Repubblica fondata sul risentimento» (*), dobbiamo in primo luogo chiederci: questo risentimento risponde a uningiustizia reale o immaginaria? In altri termini: siamo davanti a un «desiderio di rivalsa» che ha una qualche legittimità o a quanto fa sintomo di unestesa patologia di massa, eventualmente ad un connaturato vizio morale che segna il grosso della nazione? Nel primo caso, siamo costretti a fare i conti con lingiustizia che ha dato moventi al risentimento, considerare se abbia natura contingente o di sistema, individuarne i responsabili, ipotizzare soluzioni alternative alla violenza per rimuoverla...
Un lavoraccio, senza dubbio. Che però si può scansare nel caso in cui il risentimento sia un disturbo psichico o un vizio morale. In tal caso, è tutto facile: la psicoanalisi fornisce ottimi modelli per rappresentarci il risentito, lo apparenta al narcisista ferito e allinvidioso... La tentazione di risparmiare fatica è forte e, voilà, «“risentimento” is the new “invidia”»: così, la rabbia per lingiustizia subìta, che Silvio Berlusconi ci suggeriva di interpretare come invidia, diventa frutto di una disposizione danimo che pesca nel fondo limaccioso della natura umana, dove sonnecchia il mostro dellegoismo. Il gioco è fatto: ogni ragione del risentimento diventa un alibi. E questo è fare un altro torto, muovere unaltra offesa, infliggere unaltra ingiustizia.

domenica 3 febbraio 2019

Introduzione ad un pamphlet




Trovatemi uno cui non piaccia la musica. Non importa se fanciullo o vegliardo, facoltoso o indigente, colto o zotico, non importa se bianco, nero o giallo, e neppure se maschio, femmina o altro: a chiunque chiederete «ti piace la musica?», la risposta sarà immancabilmente un «sì», cui spesso seguirà qualcosa del tipo «certo», «è ovvio», «e a chi non piace?», eventualmente «che cazzo di domanda è?».
Si obietterà che un’eccezione c’è: in Afghanistan, nel 1996, insieme a pittura, scultura, danza, cinema e tv, i talebani non proibirono anche la musica? E questo non è accaduto anche a Mosul, con gli uomini dell’Isis? Per la Sunna la musica crea una sorta di ottundimento dei sensi e corrompe le menti, dunque – sarà l’obiezione – qualcuno c’è a cui la musica non piace. Eccezione apparente, perché i talebani hanno sempre ritenuto indispensabile salmodiare il Corano con quella particolare modulazione vocale, il taghanni, che in sostanza è canto, e dunque musica. In quanto all’Isis, ha mai diffuso un solo video di propaganda che a corredo non avesse una colonna sonora?
È evidente, quindi, che la musica piaccia anche a chi sostiene che andrebbe proibita, e la contraddizione si scioglie nel fatto che gli piaccia solo un certo tipo di musica, che in questo caso è quella dei maqamat ascendenti e discendenti per quarti di tono o per un tono e mezzo, particolarmente adatta ad accompagnare testi in lingua araba.
Diremmo che in questo caso siamo al grado estremo di quella generale propensione a preferire alcuni generi musicali ad altri: grado estremo perché qui se ne tollera solo uno, ma sul gradiente che in altri casi vede tollerarne due, tre, dieci o, molto raramente, tutti. Se infatti a «ti piace la musica?» tutti rispondono «sì», le cose cambiano notevolmente a chiedere «ti piace Richard Wagner?» o «ti piace Iggy Pop?»: lì le risposte saranno le più svariate, nell’ampia gamma che va dal «sì, lo adoro» al «no, mi fa cagare». E tuttavia non c’è dubbio che musica è il preludio del Tristan und Isolde e musica è Lust for life. Altrettanto evidente, allora, che col chiedere «ti piace la musica?» abbiamo sollevato una questione oziosa.
La stessa cosa accade col buonsenso, che, a citare la definizione a mio parere più esaustiva, sarebbe la «capacità naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione dei risultati pratici da conseguire» (Gabrielli, Hoepli 2018): chi mai dirà che non lo apprezza? Di più: chi mai dirà di non averne a sufficienza?
Cartesio dice che «ognuno pensa di esserne così ben dotato che perfino quelli che sono più difficili da soddisfare riguardo a ogni altro bene non sogliono desiderarne più di quanto ne abbiano» (Discorso del metodo), va’ a capire poi se è ironia o è fede in quella ragione che per quelli come lui è innanzitutto percezione immediata e intuitiva, già tutta in nuce a quel «sum» di cui dovrebbe essere capace anche l’ultimo dei fessi. Sta di fatto che anche a Cartesio dà da pensare la grande varietà di idee e azioni mosse da questo buonsenso che «fra le cose del mondo [sarebbe] quella più equamente distribuita», salvo l’essere costretti a stupirsi di «quante diverse opinioni su uno stesso oggetto possono essere sostenute dai dotti, senza che ce ne possa essere mai più di una soltanto che sia vera», trovandone spiegazione nel fatto che «la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che alcuni siano più ragionevoli di altri, ma soltanto da questo, che facciamo andare i nostri pensieri per strade diverse».
C’è modo di mostrare a tutti, fessi e dotti, la sola strada giusta, di modo che il buonsenso possa diventare cosa universalmente condivisa, non già nel solo ritenere di averne a sufficienza, ma anche nel trarne idee e azioni che vengano universalmente ritenute ineccepibili? Almeno per Cartesio, no. E infatti dice: «Non intendo insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per ben giudicare la propria ragione, ma solo far vedere in che modo ho cercato di guidare la mia».
Parrebbe non esserci via d’uscita: tutti ritengono di essere in possesso della capacità di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, ma poi dobbiamo constatare che su nulla troviamo universale accordo, tanto meno in funzione dei risultati pratici da conseguire.
Come è possibile? È presto detto: nel rispondere «sì, è ovvio» a chi ci chiede «ti piace la musica?» c’è di implicito che la sola musica che possa piacermi sia quella che in effetti mi piace; allo stesso modo, nel pensare di avere buonsenso a sufficienza c’è la convinzione dell’ineccepibilità di ciò che si ritiene logico e opportuno.
C’è una bella differenza, si dirà, che è quella relativa al fatto che «piacere» attiene al gusto, cosa eminentemente personale, mentre invece sull’«opportunità» suggerita dalla «logica» non ci dovrebbero essere margini di discrezionalità. In realtà, la differenza si riduce ad un nonnulla considerando che «quod oportet mihi» può non «oportere tibi». Un nonnulla che acquisterebbe, invece, un peso enorme laddove fosse possibile stabilire «quod oportet omnibus». Di fatto, questo non è possibile, perché ogni rappresentazione di «bene comune» è funzionale a legittimare lo status quo esitato da un conflitto tra opposti interessi, facendosi espressione di quell’equilibrio che chi ne è uscito vincitore ritiene possa servire a perpetuare i vantaggi acquisiti con la vittoria. Perciò potremmo azzardarci a dire che la tanto richiamata contrapposizione tra buonsenso e senso comune non sia altro che la prefigurazione di un nuovo conflitto nel progressivo venir meno di un equilibrio che comunque per il momento ancora regge: al buonsenso viene a mancare il potere di imporsi come «quod oportet omnibus» conservando solo quello acquisito dalla consuetudine o dal credito che gli riserva l’ancora dominante autorità morale o politica, con ciò degradandosi lentamente a senso comune; di pari passo, viene progressivamente a imporsi l’istanza di un’opportunità che risponda a più pressanti interessi, animati da una logica che trova modo di affermarsi come meglio rispondente al perseguimento di un «bene comune» che sembra cominciare ad essere diversamente inteso, ma che in realtà risponde solo al fine di dare solidità di assetto a un nuovo ma comunque transitorio equilibrio.
Sto cercando di dire che buonsenso e senso comune sono la stessa cosa, ma colta in due diversi momenti della sua storia? Sì, ma il mio lettore avrà visto che sto largheggiando in cautela, perché anche lui sarà convinto di avere un più che solido buonsenso, e insinuare che tale solidità è aleatoria potrebbe offenderlo. Se il buonsenso, infatti, è la «capacità naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione dei risultati pratici da conseguire», affermando brutalmente che la «natura» è un concetto eminentemente culturale, e dunque storico, cioè del tutto contingente, che «logico» e «opportuno» non designano realtà autoevidenti, che «giusto», «saggio» e «equilibrato» subiscono nel tempo incessanti ridefinizioni – tutte in una: rilevare nel buonsenso il senso comune da venire – avrei qualche speranza di passarla liscia? Come minimo correrei il rischio di beccarmi l’imputazione di relativismo.
Già sento muovermi la più pesante delle contestazioni: «Ma tu non eri quello che credeva nell’infallibilità della logica? Cosa ti impedisce, adesso, di ammettere che il buonsenso non sia altro che il suo buon uso?». Provo a difendermi chiedendo: il significato che è da dare a «logico» nella definizione di «buonsenso» del Gabrielli è quello che procede dagli assiomi su cui regge la logica argomentativa o quello dell’accezione che l’aggettivo acquista come sinonimo di «ragionevole»? E dunque: il buonsenso sta nella persuasione che una ragione riesce ad ottenere in una quota maggioritaria delluditorio chiamato a dare assenso a un certo status quo o nellintrinseca ineccepibilità del procedere argomentativo che supporta la ragione proposta alluditorio? In altri termini: perché il buonsenso non riesce a superare i secoli restando inalterato? Perché nel IV secolo a.C. può darsi come «giusto, saggio ed equilibrato» il dichiarare «logico» e «opportuno» che io possegga degli schiavi, per poi smettere desserlo?
Se ancora non è chiaro questo procedere di senso comune in senso comune attraverso il loro incessante contendersi la palma di buonsenso, conquistandola e perdendola, potrà tornarci utile un articolo che qualche tempo fa è apparso in rete col titolo Come abbiamo perso la guerra del buonsenso, di cui qui non ha importanza dire chi sia lautore, come daltronde non ne ha avuta dire chi ritenesse cosa di sano buonsenso possedere schiavi nel IV secolo a.C.: ha importanza sottolineare quanto disperatamente si possa rimanere aggrappati al senso comune che un tempo poté menar vanto di buonsenso. Stessa disperazione di chi il 5 maggio piangeva «non per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di educazione e di civiltà» (la Repubblica, 6.3.2018); qui, con due etti appena di compostezza in più, «mentre si inseguiva il cambiamento ai piani alti della politica e delle istituzioni […] qualcosa cambiava per davvero. E cosa? Non sarà forse il buonsenso [...] ma è senz’altro il senso comune». In entrambi i casi mi pare evidente che «la guerra del buonsenso» sia considerata persa per la sconfitta di chi ne sarebbe stato, e continuerebbe ad essere, il solo legittimato a rappresentarlo, direi quasi ad incarnarlo, per una sorta di superiorità antropologica: non già il corrente avvicendarsi di vittoriosi persuasori delluditorio in forza di argomenti più efficaci, ma la catastrofe della ragione nella sconfitta di chi la deteneva per unautoinvestitura a vita. Non il fisiologico corso del «ragionevole» che da incontestabile buonsenso diventa sempre più intollerabile senso comune, ma indefettibile e inemendabile senso del vero, del bello e del giusto che collassa nel venir meno della capacità persuasiva dell’élite che ne era espressione.
Come rappresentare questa élite? C’è chi ha provato a farlo a questo modo: «Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri... Le élites sono loro, son quegli umani lì». Poi, al capoverso seguente: «Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente». Anche qui non ha importanza chi sia lautore del virgolettato, piuttosto cè da chiedersi se tra i più di 500 libri che certamente ha in casa ce ne sia almeno uno di Mosca, Pareto o Michels, di Mannheim, Burnham o Djilas, di Hunter, Dahl o Bachrach, insomma anche di uno solo degli autori che da un secolo in qua hanno affrontato il problema delle élites. Ricchi e potenti, chi? Gli insegnanti universitari e i preti? I medici, i giornalisti e gli avvocati? Ma questo è tuttal più ceto medio, se non addirittura medio-basso. Perché darci dellélite una rappresentazione così vicina, perfino coincidente, a quella del ceto medio? Il fine è scoperto nella descrizione che ci è data del sistema che fino a poco tempo fa rendeva il ceto medio il più fedele esecutore delle politiche decise dalle élites. È il sistema che, su queste pagine, ho in due o tre occasioni stretto nella sintesi di «più pietanze alle élite, più avanzi al ceto medio, più briciole ai poveri». La sintesi, qui, è assai più elegante: «La gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere... Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più». Finché ha funzionato, cera un oggettivo interesse del ceto medio a far proprie le ragioni delle élites, che daltronde avevano il loro interesse a rinnovarsi cooptando di tanto in tanto nei loro ranghi chi nel ceto medio eccelleva per meriti, peraltro funzionali alla conservazione dello status quo. Il meccanismo che assicurava stretta relazione tra produzione di pietanze e distribuzione di avanzi consente oggi di insinuare che élites e ceti medi appartenessero alla stessa classe: stesso errore che a Versailles si sarebbe fatto considerando nobili i lacché per la ricchezza delle livree che indossavano. Ma come sono, questi lacché che sembrano conti e marchesi, «osservati da vicino»? «Studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci. Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto, nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi». A chi si attaglia meglio una descrizione del genere, oggi? Ai veri padroni del mondo o a quanti negli ultimi decenni sono riusciti, in un modo o nellaltro, a resistere allimpoverimento del ceto medio cui appartenevano? Una descrizione del genere si attaglia meglio agli otto uomini che posseggono la metà di tutta la ricchezza mondiale o agli otto amici, iscritti al circolo Pd dei Parioli, che prendono laperitivo lamentandosi della bruttura dei tempi?
Sembra sfuggire, qui, che lélite è il cavallo, mentre i pidocchi che sono ospitati nella sua criniera sono del tutto irrilevanti, anche quando presi dal delirio di averne in mano le redini. Sia come sia, il patto è saltato. E perché? Cè stata la crisi economica: «Intanto le élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente. Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per così dire. È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti». Perché stupirsi che tutto questo abbia bisogno di un nuovo buonsenso a dichiararlo «logico» e «opportuno»? E cosa salva dallessere degradato a senso comune quel che ha perso autorevolezza, ma reclama rispetto in forza di una ragionevolezza che ha perso tutte le sue ragioni?
Una domanda come «ti piace la musica?», luso di una categoria come quella del «buonsenso» per rappresentare la storia in progresso o in regresso, il conferimento del titolo di «élite» allodierna versione di quella che Lenin definiva «aristocrazia operaia»: dove voglio andare a parare illustrando linsulsaggine della domanda che nel reparto cd e vinili della Feltrinelli il quarantenne rivolge alla sbarbina per attaccar bottone, la malcelata ansia del filosofo da intrattenimento preoccupato per limprevisto ricambio del pubblico in platea, lassai confusa idea di «élite» che nutre lo scrittore che invece sa descrivere tutte le cento sfaccettature di un aggettivo di Gadda?
Primancora: cosa hanno in comune questi tre infortuni di tutta millantata disinvoltura? Direi che in tutti e tre i casi sia evidente la mancata percezione di uno slittamento del buonsenso a senso comune. Di cosa sia espressione questo slittamento, sè già detto, ma converrà ripeterlo: al mutare delluditorio, un argomento può perdere forza di persuasione. Può conservare tutta la sua validità sul piano dellassiomatica che regge la logica formale, ammesso che prima lavesse, ma perde la capacità di apparire «logico» nellaccezione che gli dà il Gabrielli: perde il potere di dimostrare «opportuno» quel che intende persuadere lo sia in funzione dei «risultati pratici da conseguire». Le ragioni che si fanno carico di rappresentare come «giusto, saggio ed equilibrato» l’interesse diventato preponderante chiedono e ottengono di essere dichiarate ragionevoli. In modo forse un po’ brutale potremmo dire che il buonsenso cambia padrone.
Sento tornare limputazione di relativismo. Se poi ho trovato il mio lettore poco disposto a concedere che ogni norma risponde alla necessità di far sembrare conveniente a tutti ciò che conviene a uno, a pochi o a molti, e solo per quello lasso di tempo in cui si è in grado di ottenerlo, può darsi mi si sia addebitata pure laggravante di una strisciante forma di nichilismo. Cercherò di difendermi da queste accuse producendo un esempio che a mio modesto avviso illustra a dovere la perenne fluidità di quella che Machiavelli chiama «realtà effettuale della cosa», dimostrando quanto sia folle pensare di poterle dare un durevole invaso.
Due o tre settimane fa, una prestigiosa accademia che per unanime parere «si è sempre distinta per lo strenuo impegno a mantenere “pura” la lingua italiana» si è lasciata tentare dal definire «lecita» la «costruzione transitiva di sedere» non vedendo alcun «motivo per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla»: nelleterna contesa tra «prescrittivisti» e «descrittivisti», un punto decisamente a favore di questi ultimi. Dal popolo del web, che è tanto «descrittivista» da esser solito bollare con lepiteto di «grammar nazi» anche il più mite «prescrittivista» si è prontamente, quanto inaspettatamente, levato un coro di proteste che ha costretto il presidente onorario dellaccademia a molto imbarazzate precisazioni, fra le quali spiccava quella di non avere alcuna autorità nell«“emettere verdetti” su determinate espressioni, “prescrivendole” o “mettendole al bando”». In sostanza, nella persona del suo più autorevole rappresentante, laccademia – insieme – rigettava il tradizionale ruolo di arbitro indiscusso nelle controversie in questioni relative all’impiego della lingua italiana e negava che ci fosse violazione nella costruzione transitiva di un verbo intransitivo, tanto più patente per la contraddizione in termini: nello stesso tempo, veniva meno un certo tipo di «élite» e un certo tipo di «buonsenso». A fronte delle istanze di quale uditorio? Il pamphlet che dovrebbe seguire a questa introduzione, ma che non sarà mai scritto, risponderà a questa domanda, con ciò facendo luce – mi auguro – sulle tre questioni cui i nostri tempi ancora stentano a dare soluzione: se la norma debba scendere dall’alto o salire dal basso, se la democrazia sia ancora possibile, se una guerra civile che non faccia neanche un morto possa mai finire.
Prego il mio lettore di mettersi comodo per leggere con la massima attenzione tutto quello che non sto per scrivere.

venerdì 28 dicembre 2018

Animo, boys!


Non sono mai riuscito a penetrare la ratio che imporrebbe allo stato un aiuto alle associazioni di volontariato, foss’anche nella forma di agevolazioni fiscali. Nulla contro il volontariato, sia chiaro: chi è animato dalla nobile intenzione di spendersi in favore di chi versa in condizioni di bisogno ha il sacrosanto diritto di poterlo fare. Tuttavia, perché sulla nobiltà di quest’intenzione non pesi alcun sospetto di un secondo e assai meno nobile interesse, non sarebbe opportuno che le associazioni di volontariato rinunciassero ad ogni forma di sostegno in denaro pubblico? Non va così: il sostegno è preteso, e la pretesa è spesso accompagnata dalla minaccia di sospendere ogni attività di volontariato nel caso in cui il sostegno venga meno. In sostanza, parrebbe che la nobile intenzione dipenda esclusivamente dalla disponibilità dello stato a dichiarare l’incapacità di far fronte a certi bisogni, appaltandone la cura a chi si dichiari disponibile a vicariarne il compito, ma in cambio di qualcosa, sennò la nobiltà di chi dovrebbe vicariare scema. Stanti così le cose, come biasimare il sospetto che chiunque gestisca un associazione di volontariato sia giocoforza motivato da altro che una nobile intenzione? Sospetto che ovviamente non può e non deve sfiorare i singoli volontari, che quasi certamente continuerebbero a spendersi in favore di chi versa in condizioni di bisogno anche al di fuori di un contesto associativo, ma che invece inevitabilmente pesa su chi gestisce l’organizzazione di volontariato facendone dipendere l’impegno dall’ottenere o meno dallo stato ciò che ritiene indispensabile per il prosieguo delle attività.
Si tratta di una questione più volte affrontata su queste pagine, spesso in relazione alle reiterate richieste di sostegno avanzate dalla più consistente «associazione di volontariato» operante in Italia. Dall’uso delle virgolette si sarà inteso che è davvero difficile considerare la Chiesa di Roma come una semplice associazione di volontariato. Sulle motivazioni che sostengono l’attività dei volontari che al suo servizio sono impegnati nelle più svariate forme di aiuto a chi versa in condizioni di bisogno sarebbe odioso anche il minimo sospetto, ma come ritenere infondati quelli belli grossi sulle sue gerarchie alla luce delle continue prove che sulla carità è venuto a costruirsi un gigantesco affare che da secoli ingrassa un vero e proprio mostro? Ne resta per qualche minestrina ai poveri, ma complessivamente lo stato sgancia otto miliardi di euro ogni anno. Un’enormità rispetto a ciò che destina alle altre associazioni di volontariato, che tuttavia, nel loro piccolo e piccolissimo, riproducono la stessa dinamica.
Ora, chissà come, a un governo che si è costruito fama di cosaccio brutto, sporco e cattivo (soprattutto cattivo) era venuta l’idea di fare finalmente chiarezza, lasciando nuda la nobile intenzione. Non è durato più di ventiquattr’ore: alle associazioni di volontariato, e ovviamente alla più grossa, continueranno ad essere assicurati aiuti da parte dello stato, così, tanto per riconfermare la sua incapacità di far fronte ai bisogni di alcuni cittadini, in piena continuità con tutti i governi della Repubblica. A far fare dietrofront è bastato un editoriale di Avvenire e un’intervista al presidente della Cei.
Animo, boys! Sembrano fascisti, ma sono democristiani. Ed è per questo che dureranno. Poi, sì, fate pure. In fondo i più vecchi di voi hanno dato del fascista anche a Fanfani e Andreotti.  

giovedì 27 dicembre 2018

Duole constatare che ne abbiamo perso un altro


Luomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro non godeva delle protezioni che la legge n. 6 dell’11.1.2018 dispone per un «testimone di giustizia», per la semplice ragione che non lo era. Il «pentito» era suo fratello, lui sì pienamente rispondente alla definizione di «testimone di giustizia» che la legge integra allart. 2 con quella di «collaboratore di giustizia», con quanto ne consegue per le misure di massima protezione, previste dallart. 5, di cui egli gode già da tempo. Luomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro, invece, ricadeva nella fattispecie di quelli che allart. 1 sono definiti «altri protetti», per i quali la legge dispone solo misure di sostegno economico, previste dallart. 6.
Giusta o no che sia la legge, che sia alla Camera che al Senato ha avuto relatori del Pd, questo è quanto il Parlamento della scorsa legislatura, in cui Lega e M5S erano minoranza, ha ritenuto fosse giusto assicurare alluomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro: nessun cambio di identità, nessuna scorta armata, solo un assegno di mantenimento e il fitto di una casa lontana dalla piana di Gioia Tauro. Andava avanti così dal 2008, senza che nessuno dei ministri dellInterno (Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti) abbia mai ritenuto fosse necessario qualcosa in più.
Strano che per i killer sia stato tanto facile ucciderlo? Qui direi che la risposta sia estremamente semplice: per niente. La domanda più difficile è unaltra: è in qualche modo rintracciabile nellaccaduto una responsabilità delle forze dellordine o del Ministero dellInterno? Un corsivo su Il Foglio di giovedì 27 dicembre parrebbe averla individuata, e non già nella legge, non già nei ministri dellInterno che si sono succeduti dal 2008 ad oggi, ma in Salvini. Vediamo perché.
«Il lavoro di protezione dei familiari di collaboratori di giustizia è fra i più complicati e compete al Ministero dell’Interno». Giusto.
«Occorre tenere presente che il parente che accetta di condividere la sorte di chi decide di collaborare accende anch’egli un credito con lo stato divenendo un bersaglio dei mafiosi». Giusto anche questo.
«Viene spostato nottetempo prima possibile, prima ovviamente che la notizia sia trapelata». Anche qui nulla da eccepire: non sappiamo se nel 2008, quando luomo che laltrieri è stato ucciso fu spostato a Pesaro, furono impiegate «tre auto, una con due agenti, un autista e un armato, altre due con agenti di un corpo speciale muniti di armi corte e lunghe», come il corsivo dice sia indispensabile, ma questo attiene a quanto era indispensabile dieci anni fa, dovremmo chiedere ad Amato se ci ha pensato.
«Altri hanno già predisposto un appartamento e documenti con nomi nuovi...». Ecco, qui salta la linearità del ragionamento: le misure di protezione che la legge assicurava al «protetto», parente del «collaboratore di giustizia», non prevedevano il cambio di identità, tantè che sul citofono di casa luomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro aveva nome e cognome suoi. Giusta o no che sia la legge, per lui non era previsto dargliene di nuovi.
Ma che altro era indispensabile ed è mancato? «Seguirà una routine di controlli che coinvolgeranno i presidi di polizia del posto di arrivo ma qualcuno della Dia, o del Ros o dello Sco, ogni tanto si affaccerà per verificare che tutto funzioni a dovere». La legge lo prevede per i «testimoni di giustizia», non per gli «altri protetti». Daltronde, anche nel caso dei «testimoni di giustizia», comè possibile impedire che vengano uccisi senza una scorta che li protegga ventiquattrore al giorno? E quanti sono i casi in cui neppure questo è bastato?
E dunque dovè il problema? È presto detto: «quello che è successo a Pesaro mostra che da questo punto di vista siamo nella Nutella fino al collo». Un modo molto fine di far eco alle accuse strumentali mosse a Salvini. Al quale, e a ragione, si possono imputare i peggiori difetti, umani e politici, siglando limputazione, e a ragione, con un bel #salvinimerda, giusto per non essere sfiorati dal sospetto di criptoleghismo, ma in quel che è accaduto laltrieri a Pesaro, di grazia, che centra?
Neanche varrebbe la pena di fare il nome di chi firma il corsivo de Il Foglio dal quale ho tratto i brani salienti, basterebbe la segnalazione dell’ennesimo esempio di come la faziosità distorca i fatti piegandoli a proprio piacimento. Il fatto è che a firmarlo è Massimo Bordin, di cui su queste pagine si è spesso avuto modo di lodare l’onestà intellettuale. Duole constatare che ne abbiamo perso un altro.

domenica 23 dicembre 2018

I ristoranti continuano ad essere pieni



Sei mei fa, l’Istat informava che in Italia 5.058.000 individui vivono in una condizione di «povertà assoluta», mentre altri 9.368.000 in quella di «povertà relativa»: al netto di numeri e virgolette, si tratta di un quinto del paese cui manca il minimo indispensabile per una vita appena dignitosa, il che di solito non lascia terza opzione tra rassegnazione e rivolta.
Tanto finora ha prevalso la prima da renderci perfino inimmaginabile la seconda, consentendoci così di sottovalutarne le possibili conseguenze, e dunque di lasciare senza soluzione la questione, che, sempre secondo l’Istat, va aggravandosi da anni, e senza alcun cenno ad invertire la tendenza. Cè di più: tanto finora ha prevalso la rassegnazione sulla rivolta che in molti nasce il sospetto che quelli dellIstat siano numeri ingannevoli.
Uno è Federico Geremicca, vicedirettore de La Stampa, che qualche giorno fa, a Laria che tira, diceva: «Posso dire una cosa politicamente scorretta? Ho dei grossi dubbi sui numeri di quanti italiani siano in povertà assoluta. È sgradevolissimo dirlo, ma i ristoranti sono pieni». Per chi può permettersi di andare al ristorante sarà argomento indiscutibilmente forte, ma solo fino a quando ai poveri non verrà a noia la rassegnazione, e non già in ragione del pretendere migliori condizioni di vita, che pure sarebbe legittimo, ma del sentire in forse la loro mera sopravvivenza, assalteranno il ristorante in cui Geremicca è riuscito faticosamente a trovare un posto e lo spettineranno più di quanto già lo sia.
Fino ad allora, se mai verrà quel giorno, pare ci si debba rassegnare al fatto che l’idea di povertà non riesca proprio a prendere forma in chi povero non è. Sarà che i poveri si sono affezionati all’invisibilità cui li ha condannati la nostra cattiva coscienza, sarà che il nostro egoismo è così miope da non riuscire a comprendere che le diseguaglianze intollerabili mettono a rischio anche quelle che ci torna comodo tollerare, sta di fatto che la povertà sembra un problema che debba preoccupare solo i poveri. Così, pensare a mettergli due soldi in mano perché continuino a star buoni ci sembra un folle sperpero, mentre in realtà dovrebbe essere considerato un investimento a salvaguardia di quell’ordine pubblico che regge sulla tollerabilità delle diseguaglianze.
Le ragioni che spingono a considerare inutile questo investimento, se non addirittura dannoso, sono note. Quella che pare avere maggior credito è che dare soldi in cambio di niente favorirebbe il parassitismo. Vero, ma si è in grado di creare ex novo, e in tempi brevi, 14.426.000 occasioni di lavoro? Ancora: servirebbe un’enorme quantità di denaro, che giocoforza porterebbe ad un appesantimento della già pesante pressione fiscale sui ceti produttivi, sennò ad un ulteriore incremento del già abissale debito pubblico, con reiterati sforamenti del deficit in manovra di bilancio e quanto ne conseguirebbe in procedure di infrazione da parte della Comunità europea, in perdita di fiducia da parte dei mercati, in crollo del sistema bancario, ecc. Vero anche questo, ma non sarebbe altrettanto catastrofico trovarsi all’improvviso dinanzi a milioni di disperati non più disposti a tollerare la propria condizione? Come lamentarsi del fatto che, rinunciando ancora a darsi alla disperazione, cedano alle promesse di questo o quel demagogo? Più di tutto: come ci si può stupire del fatto che chi non ha neppure lindispensabile sia insensibile al fatto che dargli il necessario comporti un aumento dei tassi di interesse bancario? Come ci si può scandalizzare del fatto che il clima sociale sia pesante, gravido di invidia e di rancore?
Unultima domanda: ma davvero chi ci ha portato a tutto questo nutre lillusione che la caduta del governo giallo-verde possa restituirci lItalia antecedente al 4 marzo? In attesa che prenda forma e acquisti consistenza un soggetto politico capace di farsi seriamente carico dei problemi fin qui sempre elusi, auguriamoci che grillini e leghisti restino saldi al governo: come hanno dimostrato le vicende che hanno portato all’approvazione di quest’ultima manovra, pur faticosamente sono stati in grado di tenere i poveri alla larga dal ristorante in cui cena Geremicca; fallissero prima che sia pronta una soluzione seria alla povertà, allora sì che avremmo da attenderci il peggio, un fascismo vero, contro il quale avremmo solo le «madamine», la Confindustria e la brigata partigiana twittarola.
Ma li avete visti? Ma certo che li avete visti, avete rinfacciato loro di essersi fatti scrivere la manovra dagli euroburocrati di Bruxelles. Che razza di fascisti sarebbero? È la loro dimensione estetica che vi inganna: sono democristiani, fanno politica economica con le toppe, tutto sommato in difesa del sistema. Fateveli piacere per qualche anno, al momento non c’è di meglio.