giovedì 7 marzo 2019

«... se solo si racconta…»


[Oggi questo blog compie 15 anni. Avrei voluto festeggiare ripubblicando qualcuna delle prime pagine di quel marzo del 2004, ma nessuna mi è parsa degna di essere riproposta al lettore. Così mi son deciso per un ritratto, quello di Enrico Pea. Doveva inaugurare un blog che, nelle intenzioni, voleva avere il composto sussiego dellelzeviro. Intenzioni subito tradite, per la polemica. Tanto stia a rimpianto e a rimorso.]



«Ha dei momenti che ti sorprendono per densità, proprietà, violenza, vastità di azzurro, per un’umanità intagliata in una parola tutt’ancora umida di terra, e brillante di rugiada, come un’erba spuntata a ridere nel sole, una mattina bella», scriveva Giuseppe Ungaretti in una lettera a Giovanni Papini nel 1916, dalla sua trincea. Scriveva di Enrico Pea, nato a Serravezza, in quel di Lucca, nel 1881, e conosciuto poco più d’un lustro prima, ad Alessandria d’Egitto. Ma nella stessa lettera avvisava che, «se si mette in testa di essere prelibato, fa il mistico da strapazzo, ed è un affare brutto; ma quando è quello che è, senza pretese, senza intellettualismi, e se solo si racconta…».
Ne aveva da raccontare, Enrico Pea. Ancora analfabeta a quindici anni, in un’Italia dove tanti rimanevano tali a vita, Pea va via dal paesino a fare il guardiano di greggi, e poi il mozzo, per poi emigrare in Egitto, a fare il domestico, il meccanico, il ferroviere, l’importatore di vini, saponi, motori e marmi pregiati, fino alla malattia che lo costringe a lungo in un letto, con una Bibbia del Diodati in mano, ad imparare a leggere e a scrivere, infine, quasi folgorato. Come una specie di Ignazio a Pamplona, lo avvampa la passione, che però è letteraria, grossa d’un entusiasmo da scalpellino e disordinata come un’officina, non senza qualche rovinoso inciampo d’autodidatta.
Per interessamento di Ungaretti che n’è incantato come della riuscita d’un innesto, nel 1910 esce la sua prima stampa, Fole, racconti di vita marinara, come declama il sottotitolo. Ma la scrittura, al momento, pare soltanto accidente, pur negli incubati bagliori d’una lingua avvampante. La passion predominante è, al momento, politica, anzi, come si direbbe oggi, prepolitica, e perciò totalizzante. A quella scrittura, per il momento, crede solo Ungaretti, che continuerà a crederci, con le dette riserve, fino ad impegnarsi sulla parola con Gherardo Marone, direttore della Diana, per la causa del romanzo Moscardino che uscirà nel 1922: «Sarà l’opera più bella che pubblicherai». Sarà senza dubbio il capolavoro di Pea.
Il Pea che nel settembre del 1950 scriverà un terribile «sono al caffè solo solo solo» in una delle sue cartoline postali a Leone Piccioni, massimo studioso della sua penna, al momento è preso invece dal turbine mondano. Crea la Baracca rossa, che è un ritrovo e un caffè letterario e una comune e una sezione ereticissima e un bivacco d’esuli e un falansterio amoroso: insomma un covo di anarchici, ex galeotti e bizzarri promiscui. È lì che Pea affina le sue stregonesche virtù di empatia; penetra nelle altrui confessioni e vi rimesta; raccoglie sfoghi, rassetta umori; impara l’arte inutile ed eccellente dell’incantar l’eterno femminino. Questa magica aria di guru gli resterà appiccicata per tutta la vita e ad ogni tavolino di caffè, ad ogni panchina, la sua parola avrà credito inarrivabile. È di buona statura, con gradevoli tratti del volto, incorniciato da una importante barba nera, occhi da spiritato con dolcezze di furbizia afroditico-mediterranea; ha mobilità di faina, naso per gli affari, che conduce con a volte spregiudicata e sofistica astuzia, probabilmente con qualche facile rudezza.
Alla Baracca rossa fermentano idee, spesso innaffiate di ottimi vinelli della Versilia, in un crepitare confuso e vivissimo di lingue e umori. Né a questo si limita la cosa cui Enrico Pea dà i suoi anni africani: vi si discute di attentati dinamitardi, di azioni di sabotaggio, di solidarietà a lontani fratelli. Vi aleggiano tentazioni evocative, in primis i Demoni di Dostoevski, con esaltatissime blasfemie da poveri anticristi bakuniani e peggio.
Poi torna in Italia, Enrico Pea, e si fa conoscere. È «quello lì» che nel 1918 ha scritto una pièce teatrale dedicata a Giuda, un inno appassionato e allucinato al traditore di Cristo; la cosa ha sollevato scandalo, anche se non sommo, ma neppure senza qualche strascicuccio molesto. Eppure, in quelle battute di scena serpeggia un mezzo motivo borgesiano, per quanto rovinato da un becero anticlericalismo di appennino. È appena nel mezzo del cammin, come si dice, morirà nel 1958, a settantasette anni. Prima di finire i suoi giorni a Forte dei Marmi, avrà un’altra mezza vita da riempire di vagabondaggi, amicizie, rovesci finanziari, nipoti, bronchiti, conversione, decine di libri.
Tra questi, primo d’una trilogia (con Il Volto Santo del 1924 e Il servitore del diavolo del 1929), che alcuni dicono tetralogia (aggiungendo Macoometto del 1942), è il Moscardino che esce nel 1922, ma al quale Pea ha lavorato per almeno un lustro. Del breve romanzo autobiografico, che resta la sua opera maggiore e che Ezra Pound crederà utile tradurre in inglese, Italo Svevo scrive in una lettera a Benjamin Crémieux, nel marzo del 1927, che è «un libro veramente strano e mirabile, certe sue pagine sono di una forza e di unevidenza che fanno invidia».
Ma cos’ha la scrittura di Pea per emanare tanto fascino? È la scrittura del dilettante sublime, sarebbe la più tentatrice delle ipotesi. La parola, in effetti, vi si stende, al contempo, plebea e nobile, in una stravolta dissipazione che è l’ordine suo. Parrebbe asciutta, la parola di Pea, come un rizoma sradicato per essere piantato in aria, come l’epifania d’una edicola votiva in terra di lavoro, apparentemente sorretta dalle vanghe e dalle zappe lì poggiate. Ma è lo stesso Pea che tenta, riuscendovi, di darle il fascino della cosa appena dissotterrata da un amoroso ingenuo.
«Imparare a fare bene qualunque qualcosa è difficile noviziato», scrive in Rosalia; e parla dello scrivere come di uno «stendere le parole sulla carta». Già non è più il Pea africano, ora ha una scrittura linda e solida, ma stralunata e seduttoria; vi risuona l’eco della confidenza mercantile, dell’apostrofe domestica. Cecchi, Bo, Montale, Pratolini e cent’altri ne dicono un gran bene. La barba con gli anni gli si imbianca e arruffa. Sempre in giacca, anche d’estate, anche in groppa alla sua pesante bicicletta, la vecchiaia lo raggiunge a Forte dei Marmi, dove morirà.
Se una fotografia può dire tutto di un uomo, il creatore di Moscardino è dentro una che lo ritrae al Caffè Roma in ottima compagnia. È al centro della foto, seduto tra una ventina di persone, in maggioranza signore, coll’indice levato in aria, non si capisce bene se per un monito; poco oltre Giuseppe De Robertis, Carlo Carrà, Roberto Longhi ed Eugenio Montale. Sarà forse pura suggestione, ma per chi ha letto Moscardino quell’indice levato non è diverso da quello del San Tommaso di Caravaggio che ha finalmente capito Cristo. Il dito è ossuto e quella piaga è irreparabilmente vulva.

mercoledì 27 febbraio 2019

L’ontogenesi ricalca la filogenesi



L’ontogenesi ricalca la filogenesi, si diceva ai tempi in cui si era convinti che lo sviluppo di un embrione riproducesse lo sviluppo evolutivo della specie cui appartiene, poi s’è visto che le cose non stavano esattamente a questo modo. Per l’ingenuo, invece, la regola funziona, eccome: la sua sorte personale ricalca quella di ingenuus, che venne al mondo più di duemilacinquecento anni fa, a Roma, come in-genitus, cioè nato da gente del luogo, figlio di autoctoni, né schiavi, dunque, né liberti, com’era invece per il grosso di quanti pure erano lì, ma giunti d’altrove. Radiose aspettative, quindi, perché con quella sua libertas a un passo dalla nobilitas poteva aspirare a un ruolo di prestigio, e oggi, chissà, avremmo avuto un Ingenuo, e ovviamente un Vice Ingenuo, ai vertici di questo o quell’organo istituzionale.
Perplessi? Non ve nè ragione. Pensate a candidus: dumili origini, un informe candens ad arroventarsi nella fucina di un fabbro, al più poteva sperare di finire nella réclame di un detersivo o di un dentifricio come bianco più del bianco, e invece non ne è venuto fuori un candidato, semmai anche ad altissima carica, e con la possibilità di essere eletto? Non così ingenuus, che prese quasi subito la brutta via dellaccezione estensiva, diventando prima sinonimo di puro, sincero, innocente, per ridursi infine a quel poco più d’un fesso che è oggi.
Se questa è la filogenesi che da ingenuus porta a fesso, l’ontogenesi dellappartenente alla specie la riproduce in modo assai fedele.
[...]


Tanto valga a cappello introduttivo della voce Luigi Di Maio nel tomo di aggiornamento allEnciclopedia Quattrocani.



lunedì 25 febbraio 2019

«Toh, un giapponese!»

Qualcosa del concetto di razza, che gli studi sul genoma umano hanno ampiamente dimostrato privo di ogni fondamento, resta in quello di etnia, chiamato a sostituirlo. Se la razza, infatti, è il «raggruppamento di individui che presentano un insieme di caratteri fisici ereditari comuni» (Treccani), letnia lo è «sulla base di criteri razziali, linguistici e culturali» (ibidem), col persistere, dunque, di ciò che rimanda alla razza, che d’altronde, com’è il primo dei «criteri» sui quali baserebbe l’etnia, è anche il primo dei termini che il Rocci suggerisce per έθνος (seguono moltitudine, torma, gente, popolo, nazione, tribù e stirpe).
Vero è che, proprio per poter sostituire quello di razza, il concetto di etnia ha subìto negli ultimi decenni una significativa ridefinizione, diventando il quid che aggrega individui per la condivisione di un territorio, di una storia, di una cultura, di una lingua, di una religione, e tuttavia è significativo che non si sia riusciti a trovare un termine che includa questi fattori di aggregazione escludendo quello di razza, che in etnia, come si è visto, persiste.
Parrebbe, insomma, che il pregiudizio razziale, sul quale poi il razzismo costruisce i suoi deliri, sia destinato a sopravvivere. Così, mentre la scienza gli nega ogni ragion dessere, la morale lo stigmatizza come odioso, la legge gli vieta ogni forma di espressione, in etnia continua ad aver modo di insinuare che il colore della pelle, il taglio degli occhi o la foggia del naso siano i più attendibili referenti della cultura, della lingua, della religione cui sono abitualmente compresenti.
Abitualmente, sì, ma sempre meno, perché sempre più spesso accade che ci si possa imbattere in chi abbia un taglio degli occhi come a Tokyo è di comune osservazione e dover constatare che il tizio è nato a New York, è americano da tre generazioni, non conosce una sola parola del lemmario giapponese, e non è shintoista, non è buddhista, e a un sashimi preferisce un McChicken.
Di etnia nipponica, il tizio? Solo a voler considerare preminente, sul piano etnico, quel suo tratto somatico, cioè a voler dar voce al pregiudizio razziale, che in nuce ha sempre un atteggiamento e un comportamento razzista, e che in parte – abbiamo visto quanto rilevante – residua nelluso di un termine come etnia. Altra cosa, ovviamente, vedere lo stesso tizio passeggiare in Fifth Avenue con un kimono addosso e una katana infilata nellobi che gli cinge i fianchi: potrò essere del tutto immune dal pregiudizio razziale, ma, se mi scapperà «toh, un giapponese!», il tizio avrà ragione di crucciarsi perché il taglio dei suoi occhi mi impedisce di vedere in lui lamericano che orgogliosamente è, e perché questo impedimento è di natura razzista? Gli sia dato il diritto di crucciarsi, ma, di grazia, cosa intendono comunicare quel kimono e quella katana?
Esempio tirato un po per i capelli? Convengo, sarà meglio considerarne uno preso dal vero.


Chi intervista Mahmood è un tizio dal nome italianissimo, Antonio Distefano, e, come è evidente dal video qui allegato, fa uso di un ottimo italiano, comunque di gran lunga migliore di quello usato da molti razzisti italiani; come fa intendere, è nato in Italia, dunque, in quanto scrittore, direi sia scrittore italiano più di quanto lo fosse Italo Calvino, nato a Cuba; si lamenta della fatica che costa il far capire che è italiano a fronte del pregiudizio razziale che nellalta concentrazione di melanina nel suo derma non riesce a vedere in lui altro che un africano; e ha ragione, cazzarola, ma, di grazia, cosa intende comunicare quella silhouette di Africa che gli pende al collo?

giovedì 21 febbraio 2019

«Stavolta voto Salvini»


A dar retta ai sondaggi, è assai probabile che il M5S arrivi alle Europee con poco più della metà dei voti presi alle Politiche, mentre non è irrealistico che la Lega possa arrivarci prendendone anche più del doppio. Da destra e da sinistra, tuttavia, la polemica di chi è ostile al governo giallo-verde continua ad essere assai più dura verso i gialli che verso i verdi, anzi, direi che verso il M5S sia diventata sempre più aggressiva man mano che i sondaggi registravano, senza peraltro alcun significativo cenno d’inversione di tendenza, un progressivo calo dei consensi in suo favore, dall’oltre il 32% dello scorso 4 marzo all’odierno 23%, mentre verso la Lega, che nel frattempo da poco più del 17% volava al 36%, ha continuato ad essere la polemica di sempre, pigra e ripetitiva, logora degli automatismi verbali dell’atto dovuto.
Non è tutto: mentre la polemica verso il M5S non si faceva scrupolo di consumarsi quasi tutta in disprezzo, quella verso la Lega malcelava l’ammirazione che il figlio di puttana ordinario riserva al figlio di puttana straordinario. È parso, così, che le opposizioni, e soprattutto a quelle di sinistra (qualunque cosa voglia dire «di sinistra», oggi, in Italia), tutte ça va sans dire iperdemocratiche e superantifasciste, sentissero più urgente segnalare al popolo bue quanto i grillini fossero zotici e ignoranti, fessi e presuntuosi, tonti e incompetenti, che analizzare le ragioni per le quali avevano perso consensi per lasciare il governo del paese a una destra di massa, da sempre maggioranza silenziosa, ma già da qualche tempo assai meno, senza più alcun timore né pudore nell’esibire le mille viltà e le mille crudeltà che fanno il dna del piccolo borghese, per arrivare addirittura ad esser fiera di sfoggiarle come virtù civili per accessoriare il vintage di Dio, Patria e Famiglia: prestigiosi editorialisti, brillanti corsivisti, fighissime blogstar, geniali vignettari, sensibilissimi poeti, sussiegosissimi scrittori, impegnatissimi registi – tutti partigiani in servizio attivo permanente, Iddio non faccia mai mancare loro la generosa abnegazione e il rimborso spese – hanno trovato di gran lunga più utile alla patria sbertucciare Toninelli che chiedersi che cazzo stesse succedendo, e perché.

[Sarà scontato, ma forse qui è opportuno precisare che tanto vale per ciò che vedo dalla mia finestra, e solo quando mi ci affaccio, premettendo che in ogni caso non sto al centro del Panopticon: leggo il Corriere della Sera, la Repubblica, Il Foglio, il Giornale, guardo La7, quindi la Gruber, la Merlino, l’allegro carrozzone di Propaganda live, e poi Piazza Pulita, Di Martedì, il tg di Mentana, di tanto in tanto passo a Raitre, per Carta Bianca o Lineanotte, e poi c’è Twitter, quello che resta della blogosfera, in ogni caso devo ammettere che tutto questo mi prende assai meno del passato, e leggo, guardo, ascolto, ma molto più distratto, molto più indifferente, e soprattutto sempre meno motivato a venir qui a commentare quel che mi ha fatto incazzare, perché comunque mi incazzo, ma dura poco, mi bastano due minuti per spegnere l’indignazione per una prova di ipocrisia o di malafede, di sfacciata disonestà intellettuale o di argomentazione a cazzo di cane, in una semidivina misericordia che perdona sentenziando: «Idiota o farabutto, non meriti neppure tre righe».
Diciamo che ridiventare padre in tarda età mi ha strappato al gorgo della passione civile: leggo ogni tanto le passate annate di Malvino e mi stupisco del gusto che mi dava vorticarci dentro. Gramsci ogni tanto inarca il sopracciglio e mi fa: «Odio gli indifferenti» (La città futura, 1917) e io: «Anto’, fa caldo» (spot Nestea, 2001).
Ma come sono arrivato qua? Ah, sì, ero partito dal concedere che sarà impressione errata per attenzione parziale e incostante, ma a me pare strano, molto strano... Un attimo, però, che qui possiamo chiudere le parentesi.]

Non sarebbe naturale avere più paura di Salvini che di Di Maio? Prendendo per buone le opinioni che sui due tipacci circolano ai tavolini dei bar dove si sorseggiano gli aperitivi più democratici e antifascisti, d’un lato abbiamo l’insuperabile marpione pop che riesce a rendere appetibile razzismo e nazionalismo spalmandoci sopra un abbondante strato di Nutella, mentre dall’altro abbiamo un cretino di rara ciucaggine che un’irripetibile botta di culo ha precipitato in un completino blu da ministro: chi dei due dovrebbe essere più pericoloso?
C’è un partito che ha trent’anni. Trent’anni che gli hanno insegnato a saper cavalcare bene l’onda, quando monta, e a non affogare, quando s’infrange. Un partito che in cui militano uomini che da tempo hanno notevole presa su un territorio che è mezza Italia, peraltro quella che fa il 70% del pil. Uomini che hanno maturato notevoli esperienze e competenze relative alla macchina amministrativa dello stato, che sanno muoversi con grande agilità tra leggi e leggine, che ormai conoscono ogni più remota piega degli apparati istituzionali periferici e centrali. Militano in un partito che s’è dato un metodo per selezionare una classe dirigente che ha un notevole livello di esperienza e competenza, e che soprattutto è pienamente fedele al capo, al punto che ogni ipotesi di fronda sta solo in un avverbio scappato a Giorgetti, che fa fifty-fifty con l’ipotesi che la cosa abbia avuto il non obstat del Capitano, dopo essere stata studiata concordata come ballon dessai. La minaccia di un attacco ai gangli dello stato, soprattutto se strisciante, è più verosimile venga da un partito del genere o da una variegata e scomposta accolita di candide mammolette e di tortili citrulli che non ne ingarrano una, neanche per sbaglio? Se veramente incombe il pericolo di una deriva autoritaria, questo pericolo da chi è meglio incarnato? E allora com’è che, sette o otto volte su dieci, è il M5S ad essere nelle affettuose cure di Makkox, negli allarmi di Panebianco, negli esorcismi di Molinari?

Non diversamente sul fronte della «politica politicante» cui a questo giro è toccato fare opposizione. Comprensibile per Forza Italia e Fratelli d’Italia: da Salvini, prima o poi, dovranno prendere ordini, come alleati di governo o, più probabilmente, come ultimi arrivati a ingrossarne il partito. Ma il Pd? Davvero crede, il Pd, che i sei milioni e mezzo di elettori persi da quando il M5S è in campo possano tornare sui propri passi, aprendo loro gli occhi su quanto Di Battista sia ridicolo, e la Taverna cafona, e Rousseau una sorta di Matrix? Pretendono che i transfughi inorridiscano perché col loro voto al M5S hanno consentito che prendesse vita un governo che chiude i porti ai barconi stracarichi di poveri cristi? Ma era quello che Minniti ventilava come soluzione per dare una scrollatina al Trattato di Dublino, e a trovarla soluzione intelligente erano Renzi e Gentiloni, con l’avallo di un gentiluomo come Mattarella («Se gli sbarchi non si fermano, la gestione del fenomeno diventa ingovernabile, insostenibile»). Dovrebbero preoccuparsi perché, votando M5S, hanno consentito che passasse il reddito di cittadinanza, che non piace a Confindustria e fa traballare la Borsa? Sono argomenti che possono funzionare per farli pentire di aver abbandonato il Pd rimproverandogli di aver dimenticato i morti di fame?
È opinione di chi presso lIstituto Cattaneo ha istituito fin dagli anni 90 un Comitato per lo studio della transizione politica – parlo di Piergiorgio Corbetta, coautore tra l’altro di un volume che, in largo anticipo sull’arrivo al governo dei grillini, ne prevedeva la mutazione genetica che oggi abbiamo sotto gli occhi (Il partito di Grillo – Il Mulino, 2013) – che chi pentitosi di aver votato M5S dopo aver votato Pd non tornerà mai indietro: si asterrà oppure – inorridisca chi vuole – dirà «stavolta voto Salvini», e tra le due opzioni – reinorridisca chi è inorridito – la seconda non sarà affatto irrilevante nei numeri (si pensi a quante roccaforti di elettorato tradizionalmente di sinistra sono già da tempo cadute nelle mani della Lega e la cosa non sembrerà lunare). Aver considerato il M5S il «maggior nemico», dunque, si è rivelato essere ulteriore saggio di pessima conoscenza del paese da parte del Pd, cui alla colpa di aver creato le condizioni perché lItalia cadesse nel delirio che oggi la scuote dovrà essere addebitata quella di aver detto no a un governo Fico.
Era nel destino del M5S la crisi che oggi lo stravolge, tutto era già scritto nelle patenti contraddizioni che lo segnavano fin dallinizio, bastava aver studiato la storia del Partito dellUomo Qualunque. Se qualcosa di fascista veramente cera nella cosa grillina, era il sansepolcrismo, ma era evidente le mancasse il quid perché da fascismo-movimento diventasse fascismo-regime. Poteva darglielo solo la Lega di Salvini, ma da una posizione di forza che al momento della nascita del governo Conte non aveva, e che oggi ha. Una ventilata scissione del M5S, che qualche incommensurabile cretino di sinistra spera, potrebbe costituire un pericolosissimo innesco: la parte che deciderà di seguire le sorti di Salvini sarà il Nicolino Bombacci del tanto paventato «ritorno al passato». Vi è piaciuto evocare il «pericolo fascista»? Bene, sono i vostri esorcismi ad avergli dato vita.

martedì 19 febbraio 2019

Persuadere e convincere


Anche se sono considerati sinonimi, c’è un’enorme differenza tra persuadere e convincere, come d’altronde è evidente fin dall’etimo: per-, infatti, esprime l’attuazione di un fine, che qui è il -suadere, cioè l’indurre a fare, con quanto di suavis sta nell’induzione di chi induce, ma anche nel fare cui si è indotti (in altri termini, la soavità del persuasore riesce a rendere soave il da fare che spetta al persuaso); con-, invece, esprime la comune vittoria che premia chi ha cercato di convincere e chi infine si è convinto (nel convincimento, anche se solo a posteriori, si scopre che il fine – riconoscere la validità di quanto si intendeva dimostrare valido – era comune a entrambi). Diremmo che, nel primo caso, dopo che si è ottenuta la persuasione, persistono un persuasore e un persuaso, mentre nel secondo, dopo che si è ottenuto il convincimento, viene meno ogni distinzione tra vincitore e vinto.
Se tuttavia persuadere e convincere sono sinonimi, una ragione c’è, anzi, ce ne sono tre: chi cerca di persuadere e chi cerca di convincere hanno medesimo fine nell’ottenere il consenso dell’uditorio; le rappresentazioni del persuadere e del convincere si tengono sulla stessa scena e le parti interpretate sono sovrapponibili; chi è persuaso e chi è convinto fanno quanto consegue dalla persuasione e dal convincimento senza che da quanto fanno, né da come lo fanno, si possa desumere con certezza alcunché di specifico del persuadere o del convincere che lo ha determinato. Se non dal movente, se non dall’azione, se non dagli effetti, da cosa possiamo desumere, allora, quanto fa la differenza che sta nell’etimo?
La tentazione sarebbe quella di appuntare l’attenzione sugli strumenti utilizzati, dando in premessa che la persuasione abbia miglior presa su individui più sensibili alla suavitas di pseudo-argomenti che fanno leva su istinti e fantasie, mentre il convincimento possa ottenere successo solo su individui inclini a far vincere, sempre e comunque, la ragione, contro ogni cedimento a passioni e a pregiudizi. Così facendo, tuttavia, c’è il rischio di incorrere nell’errore di credere che persuasione e convincimento abbiano cogente specificità di strumento, il che non è, come dimostra il fatto che non di rado la persuasione fa appello alla ragione, mentre il convincimento non esclude affatto il richiamo alle emozioni.
Si potrà obiettare che la ragione cui fa appello chi persuade finisce sempre per rivelare la sua aleatorietà in un processo logico che in ultima analisi è dimostrabilmente erroneo; parimenti, sarà sempre possibile dimostrare che le emozioni messe in gioco da chi cerca di convincere non muovono il processo logico, ma ne sono mosse. Obiezioni sostanzialmente valide, ma si concederà che dimostrare l’una e l’altra cosa non sarà sempre facile, e dunque non potrà avere saldo valore dirimente. Nulla, allora, ci consente di distinguere in modo agevole e immediato un tentativo di persuasione da un tentativo di convincimento?
Per Perelman si deve fare attenzione a chi è indirizzato il tentativo: «Il discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere, mentre quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere», perché «un discorso convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da tutti i membri dell’uditorio universale», dacché conseguirebbe – questo non lo dice, ma penso sia lecito inferirlo – che quello persuasivo abbia efficacia solo laddove la particolarità dell’uditorio sia data da una specifica tendenza ad assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di pregiudizi. Diremmo, dunque, che quanto più il discorso sembra rivolgersi a chiunque tanto più alta è la probabilità che siamo dinanzi a un tentativo di convincimento, mentre quanto più sembra rivolgersi a qualcuno tanto più è probabile che siamo dinanzi a un tentativo di persuasione.
Ma questo regge come regola generale? Potrebbe anche reggere, se non fosse che «uditorio da convincere» è concetto assai più astratto di «uditorio da persuadere», perché identificare qualcuno è assai più facile che identificare chiunque, e qui identificare è da intendere in senso letterale: riconoscere un’identità, cioè l’unicamente idem a se stesso, che nell’«uditorio particolare» ha tratti concreti, agevolmente riconoscibili, ma che nell’«uditorio universale» assume forma di idealtipo. Poi c’è che, se il convincimento tende ad annullare le differenze tra individuo e individuo (universalizzandoli) mentre la persuasione tende a rimarcarle (ripartendoli), dopo aver convinto una parte dell’uditorio, una differenza si sarà comunque realizzata rispetto a quella che non si è riusciti a convincere, dando comunque all’«universale» qualcosa di «particolare»: i convinti faranno «partito» non meno dei persuasi.
Sul punto, dunque, neanche Perelman sa darci una regola generale che possa dirsi affidabile, il che, per il rispetto che gli si deve, ci fa disperare possa essercene una: non resta che giudicare caso per caso, senza peraltro poter escludere la possibilità che persuasione e convincimento siano compresenti. Riprendendo, infatti, il noto adagio di Chaignet, secondo cui «a persuadermi è sempre un altro, a convincermi solo me stesso», cè il caso in cui «altro» e «me stesso» coincidono: è quello in cui lindividuo si fa massa.

giovedì 14 febbraio 2019

Cos’è il risentimento?


Cosè il risentimento? Per il Devoto-Oli è l«atteggiamento di avversione o animosità verso qualcuno per unoffesa o un affronto ricevuto», ma la definizione che forse coglie qualche sfumatura in più, cosa di notevole importanza quando si parla di uno stato danimo, mi pare quella del De Mauro, che lo descrive come «sentimento commisto di animosità, rancore e desiderio di rivalsa, provocato da un comportamento altrui ritenuto ingiusto, offensivo o ingiurioso», perché qui l«avversione» è meglio caratterizzata in «rancore»l«atteggiamento» esprime la sua più distintiva peculiarità nel «desiderio di rivalsa», il tratto soggettivo dello stato danimo è significativamente rimarcato dal fatto che posso anche aver solo «ritenuto» di essere stato oggetto di un affronto, non necessariamente averlo realmente «ricevuto»; meglio ancora, però, il Sabatini Coletti, per il quale è quel «sentimento dato da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustazione subìta, sia essa reale o immaginaria», dove «rabbia» e «frustrazione» danno il colore più appropriato al «sentimento», di cui si coglie al meglio il tono sottolineando quanto di essenziale assume dallessere «protratto nel tempo». «Una rabbia che si fa cronica e perdura nel tempo», dunque, come in unintervista di qualche tempo fa lo definì Ian McEwan, che precisò: «Può essere fredda, non esplicitata, oppure diventare calda, fare grande rumore e trasformarsi in violenza».
Tutto ciò mi pare rappresenti al meglio cosa sia il risentimento, ma ancora non ci dice nulla dei moventi, che è chiaro debbano essere diversi nel caso in cui il «torto» subìto, e la «frustrazione» che ne consegue, siano «reali o immaginari». Siamo comunque dinanzi a un meccanismo di difesa, infatti, ma è evidente che nel primo caso ci è lecito mettere in discussione solo il perché della sua scelta, e ovviamente quanto esso poi risulti essere efficace, se e quanto in grado di mettere riparo a un danno concreto, mentre nel secondo siamo chiamati ad indagare sul processo che produce lallucinazione del «torto» subìto e sulla dimensione psicopatologica del momento reattivo. Così, volendo prendere sul serio unaffermazione come «l’Italia è oggi una Repubblica fondata sul risentimento» (*), dobbiamo in primo luogo chiederci: questo risentimento risponde a uningiustizia reale o immaginaria? In altri termini: siamo davanti a un «desiderio di rivalsa» che ha una qualche legittimità o a quanto fa sintomo di unestesa patologia di massa, eventualmente ad un connaturato vizio morale che segna il grosso della nazione? Nel primo caso, siamo costretti a fare i conti con lingiustizia che ha dato moventi al risentimento, considerare se abbia natura contingente o di sistema, individuarne i responsabili, ipotizzare soluzioni alternative alla violenza per rimuoverla...
Un lavoraccio, senza dubbio. Che però si può scansare nel caso in cui il risentimento sia un disturbo psichico o un vizio morale. In tal caso, è tutto facile: la psicoanalisi fornisce ottimi modelli per rappresentarci il risentito, lo apparenta al narcisista ferito e allinvidioso... La tentazione di risparmiare fatica è forte e, voilà, «“risentimento” is the new “invidia”»: così, la rabbia per lingiustizia subìta, che Silvio Berlusconi ci suggeriva di interpretare come invidia, diventa frutto di una disposizione danimo che pesca nel fondo limaccioso della natura umana, dove sonnecchia il mostro dellegoismo. Il gioco è fatto: ogni ragione del risentimento diventa un alibi. E questo è fare un altro torto, muovere unaltra offesa, infliggere unaltra ingiustizia.