venerdì 23 agosto 2019

Dormi, Genna’, non ti svegliare





«... una notte profonda circonda e ricopre tutto
di unombra impenetrabile...»
Vincenzo Cuoco, 1806



Martedì, per seguire il dibattito che si teneva a Palazzo Madama, sono venuto meno allabituale pellegrinaggio che ogni 20 agosto, da due o tre lustri a questa parte, mi porta in Piazza Mercato. Probabilmente pellegrinaggio potrà sembrare termine improprio per un quarto dora dauto e appena due minuti di sosta, il tempo di una sigaretta, col gomito appoggiato al finestrino, senza neppure spegnere il motore, ma solo ad ignorare il significato rituale che hanno quei due colpi di clacson prima di andar via e quel «Genna, mannaggia a te!» mormorato tra me e me imboccando Corso Garibaldi, per poi passare in Via Nuova Marina e tornare a casa.
«Genna» è Gennaro Serra di Cassano, che il 20 agosto del 1799 salì sul patibolo eretto in mezzo a quella piazza e, prima di essere decapitato, se ne uscì con la frase che lo promosse a figura di spicco tra i martiri della Repubblica Partenopea, pur non potendo vantare il genio dun Mario Pagano, né il coraggio dun Francesco Caracciolo, né lardore duna Eleonora Pimentel Fonseca, una frase che rivela la rovina che il genio, il coraggio e lardore devono mettere in conto nella disperata impresa di dare liberté, égalité e fraternité a chi invece ha bisogno di feste, farina e forca: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora li vedo festeggiare la mia morte». Zac!
Mannaggia a chi non capisce che ciò che è «bene» per Tizio può non esserlo per Caio. Mannaggia a chi vuol farsi paradosso dellavere interessi di classe, la classe cui appartiene, e tradirli, in nome del generoso sperpero di genio, coraggio e ardore in favore di una classe cui non appartiene, ancor più in favore di una società senza classi. Perché di paradosso si tratta: se sei un nobile, perché ti metti a parodiare una rivoluzione borghese, spendendoti per lemancipazione della plebe? Ben ti sta, Genna, e però meriti rispetto, perché almeno hai saputo morire. E scusa se per questanno non son venuto a renderti omaggio, alla tv davano la diretta di un tumulto di lazzari. Però ti ho pensato, giuro. E ancora penso a te, oggi, perché il Salvini che tra noi spiriti eletti è dato come ridicolo pasticcione, ignobile gradasso, baciatore di crocifissi come il più sanguinario dei briganti a seguito del cardinal Ruffo, è ridato dai sondaggi alla sfaccimma del 38%.
Dormi, Genna, non ti svegliare. Una carezza alle tue ciocche bionde, e un bacio sulla fronte.

martedì 20 agosto 2019

Corrispondenze


[Storia di quello che prometteva d’essere un giallo letterario dai risvolti inquietanti, una di quelle formidabili avventure che...]


27 lug 2019, 05:27
Caro Luigi, ti sottopongo un caso che credo ti interesserà, anche per chiederti consiglio data la tua conoscenza di cose vaticane e di filiere librarie. Laltro giorno è venuto da me un professore di scienze ambientali, anzianotto ma sembra molto in gamba, gioviale, ha fatto consulenza a Obama per tutti gli otto anni etc. e adesso insegna da noi ma credo sia stato assunto per far figura, non risponde a nessun dipartimento ma solo ai capi dellamministrazione. Orbene, questo docente è da anni impegnato in una prova tanto estenuante quanto - fino ad ora - vana: provare a dare un nome o cavare qualche notizia utile su tale Padre Luis Gallet, autore del libro El Padre, storia della sua missione in un villaggio remoto delle lontane aree indigene brasiliane. Il libro è stato scritto negli anni 60, tradotto in varie lingue, da noi edito da Borla, e a detta del docente pur essendo datato è un testo fondamentale per un approccio nuovo alla sostenibilità del mondo globale etc. Ora qui viene il bello: anche se nel libro lui dice di venire dalla diocesi di Nizza - mi sembra - il professore ha fatto ricerche dettagliatissime e di questo Gallet negli archivi della diocesi non cè traccia, così come i nomi delle città francesi nel testo sono tutti inventati di sana pianta. Pare che il libro sia stato fatto sparire, due nuovissime Storie del Brasile non lo nominano, così come altri testi dedicati alla teologia della liberazione, di cui questo libro dovrebbe essere uno dei pilastri fondanti. Insomma, non ci si capisce un cazzo. Questo era uno che è diventato scomodo, troppo preso nella sua missione di prete dassalto? La traduzione in inglese è stata resa come Freedom to starve che diciamo non suona benissimo per una chiesa cattolica impegnata in mille maneggi finanziari e in ancor più numerose intemerate a favore di imprenditori filibustieri sì, ma amici-amici. Io ho suggerito al docente due cose: a) investigare su associazioni cattoliche di sinistra che possono aver avuto a che fare con lui personalmente o con la pubblicazione del libro; b) trovare uno sponsor che gli permetta di avere accesso a qualche informazione nella biblioteca vaticana, magari mettendo sul piatto una certa accondiscendenza verso le posizioni della chiesa nei prossimi interventi del prof che saranno ai massimi livelli - testi che avranno diffusione universale, documenti adottati dalle nazioni unite etc. in un momento in cui la chiesa deve far dimenticare tante brutte situazioni... Tu che dici? Qualsiasi tuo pensiero sarà come sempre prezioso.
***


27 lug 2019, 06:21
Sono a Ischia, dammi il tempo di tornare a Napoli, martedì, per frugare nei miei scaffali, e al massimo entro giovedì ti faccio sapere. Ti abbraccio,
L.


27 lug 2019, 15:21
Grazie, carissimo, un abbraccio anche a te.
***


4 ago 2019, 17:15
Non mi sono dimenticato di te, ma ho avuto imprevisti. Provvederò appena possibile. Ciao.
L.


4 ago 2019, 19:38
Tranquillissimo, nessun problema. Spero imprevisti non sgradevoli. Alla prossima.
***


5 ago 2019, 21:58
Cominciamo col dire che non si tratta di padre Luis Gallet, ma di padre Paul Gallet, e che non è mai esistito per la semplice ragione che è uno pseudonimo, molto probabilmente dello Jean-Marie Perret che si presentò come curatore delledizione di El Padre in Francia. Non avevo il libro, ma ce nera ancora una copia su eBay, mi arriverà venerdì 9. Lo porterò con me a Berlino dove starò per 4 o 5 giorni, solo dalla lettura potrò dirti qualcosa. Il Consolato del Brasile a Napoli, che peraltro ho scoperto essere a meno di 100 metri da casa mia, è chiuso dal 1 agosto al 19 settembre, ma ho inoltrato via email una richiesta di incontro col console accennando, pur vagamente, alla questione. Ti farò sapere. Ciao.
L.


5 ago 2019, 22:22
Allora subito grazie per l’interessamento, ho già girato le informazioni al collega, il quale si starà fregando le mani. Sul nome del missionario sotto pseudonimo ho fatto una cappella io e ti chiedo scusa, dovendo compattare molto materiale in una sola mail mi sono incartato. Per cui grazie ancora e se il collega scopre qualcosa - sarà presto in italia per ricerche - ti tengo informato.
***


8 ago 2019, 21:17
Caro ***, il volume di Paul Gallet mi è arrivato con un giorno di anticipo e mi sono fiondato a leggerlo preso dalla curiosità instillatami dalla tua prima email di questo scambio. Per darti la misura della mia delusione, riporto alcuni brani della tua email. «Questo docente è da anni impegnato in una prova tanto estenuante quanto - fino ad ora - vana: provare a dare un nome o cavare qualche notizia utile su tale Padre Luis Gallet, autore del libro El Padre, storia della sua missione in un villaggio remoto delle lontane aree indigene brasiliane». Mi chiedo se «questo docente» abbia almeno letto El Padre: fin dalla presentazione del curatore, Michel Quoist, e dalla introduzione dello stesso, si fa presente che Paul Gallet è uno pseudonimo, e che dunque ricerche su quel nome non possono materialmente dare notizie significative; altra cosa è cercare di capire chi ci sia dietro quel nome, e qui - con le riserve del caso - io credo di poter avanzare un’ipotesi, ancorché con l’azzardo dato dal non avere a disposizione il testo in lingua originale: Paul Gallet non è altri che lo stesso Michel Quoist, che ha probabilmente elaborato in forma di epistolario le chiacchierate con un (o più probabilmente più d’un) presbitero volontario in Brasile: estremamente indicative in tal senso le consonanze lessicali tra alcuni passaggi delle lettere (per esempio, la circolare n. 4 di pag. 38 et segg.) e il testo dell’introduzione (ma potrebbe trattarsi di un artefatto dato da un’omogeneizzazione lessicale voluta dalla traduttrice, Piera Zamaglino). «Ora qui viene il bello: anche se nel libro lui dice di venire dalla diocesi di Nizza - mi sembra - il professore ha fatto ricerche dettagliatissime e di questo Gallet negli archivi della diocesi non c'è traccia, così come i nomi delle città francesi nel testo sono tutti inventati di sana pianta». Ma è ovvio: è chiaramente affermato dal Quoist che i nomi delle città sarebbero stati «inventati di sana pianta [per] rispettare l’incognito di questa testimonianza» (pag. 9). «Ricerche dettagliatissime»? A che pro con queste premesse? «Pare che il libro sia stato fatto sparire». Ma proprio per nulla: difficile trovarlo in italiano (ti ho detto che su eBay c’era un’unica copia, ora mia), ma in Francia e altrove (soprattutto in lingua inglese) si trova, eccome. «Due nuovissime Storie del Brasile non lo nominano, così come altri testi dedicati alla teologia della liberazione, di cui questo libro dovrebbe essere uno dei pilastri fondanti». Perché dovrebbero nominarlo? Non ha alcun valore documentale sul piano della ricerca storica o di quella sociologica. E perché, poi, dovrebbe essere un pilastro fondante della teologia della liberazione, visto che è privo di ogni elaborazione teologica, sia sul piano della dottrina morale, sia su quello della dottrina sociale? Insomma, caro ***, un falso problema. Purtroppo.
L.


8 ago, 21:48
Mi dispiace moltissimo che tutta questa aspettativa si risolva in una panna montata anche un po’ rancida. Inoltrerò tutto al collega, forse uno dei problemi è che un filino di preparazione storico-letterario-filologica gli sarebbe servita per non darsi così facilmente a tali entusiasmi. Che poi, per rafforzare gli stereotipi, è anche una cosa straordinariamente americana. In ogni caso grazie ancora.
***

[Macché giallo, macché avventura.]

L’argomento invalido è ormai d’uso corrente


L’argomento invalido è ormai d’uso corrente, né uno scrupolo lo segue, né un indugio lo precede.
Si prenda il caso della polemica scoppiata attorno al tweet di Matteo Salvini che, a commento dell’appello di Luciana Littizzetto in favore della Open Arms, recitava: «Secondo voi quanti ne ospiterà a casa sua?». In buona evidenza si trattava di un argomento invalido, del tipo noto come «ad hominem tu quoque». Come tale andava segnalato, dunque, e respinto. E invece?
Invece è capitato che chi voleva – a piacere – difendere il principio umanitario del soccorso al naufrago, ribadire il dovere civile dell’accoglienza del migrante, in subordine all’uno, all’altro o a entrambi sostenere l’appellante, o in subordine a tale sostegno smerdare Salvini, ha pensato di avere avuto una gran botta di culo nel poter replicare che la Littizzetto accoglie, accoglie eccome, e aiuta i bisognosi, non lesina in elemosina e, insomma, è un fulgido esempio di solidarietà umana.
Salvini smerdato? Smerdatissimo, senza dubbio, ma solo in virtù del fatto di aver accolto e rilanciato il suo argomento invalido. Poco male per lui, dunque, che potrà rifarsi, e a buon diritto, su chiunque condivida le opinioni della Littizzetto senza però poter vantare di ospitare una famigliola eritrea o di passare il tempo libero a imboccare focomelici: se la buona ragione si fa forte anche una sola volta del cattivo argomento, condiziona per sempre la sua forza alla possibilità di riavvalersene. Questo, però, al momento, sembra non avere alcun peso, l’importante, per oggi, è aver smerdato Salvini, domani si vedrà.
Poi, però, non manca chi è previdente e mette le mani avanti, caso mai domani un tweet di Salvini dovesse molestargli il «quoque»: sappia, il Merda, che un dì Sofri senior salvò un bimbo dall’inferno dei Balcani, e Sofri junior fece la sua parte, andando a prenderlo a Spalato per portarlo a Pisa. Con la qual cosa la ragione umanitaria, almeno sui suoi account, sta in una botte di ferro.
A margine: sul retro del cartello sul quale era scritto «Ama il prossimo tuo» (Mc 12, 31), issato in piazza contro il Merda, di certo non cera «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati» (Mt 6, 1); uso del Vangelo in tutto simile a quello del rosario. 


mercoledì 14 agosto 2019

Può un mostro essere un cretino?




Un minuto dopo averla fatta, la mossa di Salvini già rivela gli estremi della grandissima puttanata. Provocare una crisi di governo, infatti, non gli dà alcuna garanzia di un voto a ottobre, come desidererebbe, anzi, dun botto, lo ridimensiona a capo di un partito che in Parlamento conta solo il 17%, troppo poco per impedire che chi non vuole le elezioni possa avvalersi di strumenti, peraltro costituzionalmente ineccepibili visto che la nostra è una democrazia parlamentare, per procrastinarle anche di molto: così accade che lormai ex alleato di governo riacquisti una centralità persa da tempo, e che le opposizioni, da tempo condannate allirrilevanza, riprendano un senso, e che lo riprenda perfino il Berlusconi che la Lega ha a lungo scansato come un appestato. Né devessere sottovalutato il rischio che la mossa possa portare, anche a breve termine, ancor più col passare dei mesi, a una consistente perdita di consenso da parte di quellelettorato dallestrema fluidità, incline a premiare un leader, e anche subito dopo a punirlo, per ragioni tutte umorali, prima tra tutte la percezione del suo cinismo, che qui, con la dichiarata intenzione di capitalizzare quanto gli è attribuito dai sondaggi, trova ragione della sanzione morale che la plebe non risparmia mai quando si sente usata: la plebe tollera che un demagogo la usi, ma solo a patto che egli sappia illuderla di esserne solo lo strumento, legittimato a decisioni autonome solo quando coincidenti, ma a posteriori, con quelle in grado di dare una risposta a domande a priori inespresse.
Naturale chiedersi: tutto questo non era prevedibile? Per meglio dire: una mossa così gravida di rischi – e di rischi prevedibilissimi – può esser maturata solo sulla spinta del popolo leghista, come sembra suggerire il proprietario del Papeete? «Matteo ha ascoltato tanta gente in spiaggia. E ha avuto la conferma che questo stava diventando il governo dei “No”. Al contrario, noi siamo gente abituata a fare, a concludere, e invece i 5 Stelle ci stavano facendo perdere troppo tempo» (la Repubblica, 13.8.2019): può essere spiegata a questo modo la decisione di stracciare il contratto di governo coi grillini? Stando ai retroscena diffusi a piene mani dalla stampa in questi ultimi mesi, questo tipo di pressione era in atto da parte di molti degli uomini più vicini a Salvini, tutti espressione di quel profondo radicamento territoriale che fa della Lega una micidiale macchina bellica: dovremmo credere che linvito a rompere venuto da Zaia o da Giorgetti, da Fedriga o da Fontana, sia caduto nel vuoto, quando tempi e circostanze lo rendevano sennato, per essere infine recepito, ma in pieno agosto, quando reiterato dal popolo del Papeete? Nulla si può escludere quando la politica si riduce a peristasi e a borborigmi, ma è credibile un Salvini tutto viscerale? In altri termini: non cè un motivo più serio a spiegare un azzardo tanto temerario?
La brevitas imposta da Twitter rende talvolta involontariamente criptici commenti che andrebbero meglio articolati e argomentati, eccomi allora a dover dare un senso al «fossero in arrivo novità sul Russiagate, si potrebbe dire che questa sia una crisi di governo a orologeria per poter dire che le novità sul Russiagate sono a orologeria»: intendevo dire che Salvini potrebbe essersi deciso alla crisi di governo per affrontare guai in arrivo dal fronte della giustizia nella posizione che meglio si attaglia al vittimismo aggressivo che in lui è insieme strategia e tattica. Ma occorre entrare nel merito, che è di scenario a medio e a breve termine.
Siri, Arata, Rixi, ma poi anche Solinas, Fratus e Romeo, e Garavaglia, Molinari e Tiramani. E soldi, i maledetti soldi: i 49 milioni di Bossi e Belsito, i 65 milioni di Savoini, i 480mila euro che non si sa bene a che titolo finiscano nelle mani di una barista, cognata del commercialista della Lega. E, su tutto questo, larrivo della riforma sulla prescrizione: la crisi di governo allenta il cappio che si sarebbe fatto sempre più stretto attorno al collo di troppi leghisti, e tutti troppo vicini a Salvini. Poi cè la poco nota vicenda dellautorizzazione al sequesto dei pc di Siri e di Perini avanzata dalla Procura di Milano, sulla quale la Commissione parlamentare per le immunità ha discusso appena 48 ore prima che fosse presentata la mozione di sfiducia, rimandando al 30 agosto il termine ultimo per le memorie difensive, che presumibilmente non avrebbero incontrato numeri favorevoli. E parliamo di pc i cui contenuti chiarirebbero la natura dei rapporti con Bannon di là dalla mera affinità di amorosi sensi. Com’è evidente, si tratta di congetture, e congetture prossime all’arzigogolo. Personalmente mi ci sento costretto in ossequio alla vulgata che vuole Salvini, oltre che Merda, astutissimo giocatore, pericolosissimo delinquente, spregiudicato opportunista. Non ci fossero urgenze gravi, gravissime, che nel suo caso non riesco a immaginarmi altrimenti che giudiziarie, tentare una spallata al governo Conte, e adesso, sarebbe stato da cretino. E può un mostro essere un cretino? 

venerdì 26 luglio 2019

La serata era deliziosa


La serata era deliziosa, la cena era squisita, la compagnia era tanto, ma tanto, tanto perbenino, di quelle compagnie che, se a qualcuno, e chissà come, scappa un «cazzo!», le signore arrossiscono facendo finta di non aver sentito e i signori esprimono il loro biasimo con leggeri colpetti di tosse. Poi, d’un tratto, quando tutto fin lì era stato pure troppo amabile, perfino con qualche cedimento all’affettazione, e già si era alla crema catalana, copia perfetta della splendida luna piena, la discussione è caduta sull’audiolibro (chi ha avuto la sciagurata idea di farvi cenno l’ha chiamato audiobook, il che sospetto abbia contribuito in modo decisivo a risvegliare le opposte reazioni alla «cosa nuova», di qua la diffidenza prossima al rigetto, di là la curiosità incline all’entusiasmo, sopite anche in chi è un campione di moderazione), e allora la terrazza è diventata un’arena in cui retiarii e secutores hanno dato il meglio dei rispettivi repertori, insomma, è mancato poco che volassero i bicchieri. Per l’audiolibro, poi. E tra personcine che pure su temi irrimediabilmente divisivi non avevo mai visto negarsi preziose formule di reciproca tolleranza confetturate in leziose glasse di carineria.
Ho provato a stemperare la tensione: «Certo che siete tipi strani, sapete? Pro o contro la riforma costituzionale di Renzi – ho detto – tre anni fa qui era tutto un “comprendo, ma...”, “la tua posizione è legittima, tuttavia...”, “hai ragione, però...”. E lanno scorso, quando cè stata la calata dei barbari, a questo stesso tavolo se nè discusso come si trattasse di un acquazzone ad agosto, e pure chi era più preoccupato annuiva a chi, più tranquillo, diceva: “Vabbè, ma quanto può durare?”. Poi, stasera, quasi vi sgozzate su una questione non assai dissimile da quella che negli anni Cinquanta opponeva chi era affezionato alla stilografica e chi preferiva la biro. E sì che qui non guasterebbe affatto un po di tolleranza e di equilibrio...». Parole al vento, perché ho ottenuto solo che lo sgozzarsi avesse una peraltro breve parentesi sulla stilografica e la biro: «Vuoi mettere la varietà del tratto che si esprime nella pressione sul pennino?», ha detto uno; «Sciocchezze, parliamo di scrittura o di disegno?», gli ribatteva un altro; e «sciocchezze» aveva effetto di una rasoiata.
Estromesso dall’accapigliamento per manifesta insensibilità alla portata della questione – se cioè «Proust va sentito con tutti e cinque i sensi, e la lettura li consente, l’ascolto no» o se «Proust è flusso di memoria e nulla meglio di una voce può dargli scorrimento» – mi sono riservato di venirne a parlar qua, con voi che siete gente daltra pasta, e Proust siete capaci di gustarvelo comunque, e senza fare tante storie, in lingua originale e in italiano, in Braille e a fumetti.
E dunque. Comincerei col dire che audiolibro è termine improprio per la genericità di ciò che è «libro»: è ragionevole credere si possa ridare in audiolibro un saggio, un trattato, un manuale, un dizionario? Non scherziamo, neanche su un tablet potranno accostarsi alla resa che ne dà il cartaceo, che lì sopra sarà raggiunta, e a stento, solo da giornali e riviste: l’avanti-e-indietro che impone la lettura di un saggio (di un saggio serio, voglio dire, a dispetto del definire saggi, oggi, le amene chiacchierate di certi talentuosi intrattenitori), il salto di pagine che è inevitabile nella consultazione di un lemmario, lindispensabile ripetizione a blocchi e sottoblocchi che impone la trattatistica, saranno mai consentiti da un file audio? Ma neanche a farsi venire la ialinosi allabduttore del pollice tra stop e replay. Sicché è bello sentir dire: «Dostoevki mi fa tanta compagnia in auto», ma portaci de Saussure, e poi mi fai sapere.
Non audiolibro si dovrebbe dire, ma audioracconto, audionovella, audioromanzo: solo la narrazione (ancor più, la poesia) consente di affiancare, senza pericolosi scollamenti, testo e ascolto, e anche lì non è da escludere che qualcosa possa andar perso a causa della mediazione tutta arbitraria dell’interpretazione data dalla voce narrante, che invece la lettura lascia al lettore, a suo vantaggio o discapito.
Mi si dirà che però con la musica funziona: c’è uno spartito e c’è l’esecuzione, si può tranquillamente scegliere il Bach che si ritiene più fedele alla notazione. Certo, ma quante versioni di Moby Dick abbiamo/avremo in audiolibro per poter compiere la stessa scelta? Un rischio cè, ma – sia chiaro – è giusto venga data a tutti la libertà di correrlo o meno, e questo rischio è che, dopo aver ascoltato una prima versione del Moby Dick, sarà difficile venga voglia di ascoltarne una seconda, e Melville sarà per sempre uguale a se stesso, cioè al Melville ascoltato la prima volta. Così con il riascolto, che non potrà mai consentire un processo di rielaborazione simile a quello della rilettura.
Anche qui prevedo unobiezione: non accade la stessa cosa con la riduzione di un romanzo in un film? Certo, ma romanzo e film rimarranno sempre ben distinti, mentre un audiolibro giocoforza sostituirà il libro da cui è tratto.
E dunque, sì, ci si accosti a Dostoevski come meglio si creda – sempre meglio che perderselo – ma non si pretenda di poter dire, dopo averne ascoltato un audiolibro: «Ho letto I fratelli Karamazov»Non lhai letto: te lo sei fatto leggere, risparmiando tempo ma perdendo altro, e di più.
En passant, sarebbe corretto riconoscere lantecedente dellaudiolibro nella radionovella brasiliana degli anni Quaranta, dichiaratamente destinata «para aqueles que não têm tempo para ler».

martedì 23 luglio 2019

Le parole sono pietre


Coi tempi che corrono, pensare a un Codice della Comunicazione, alle cui regole debba attenersi chiunque voglia prendere la parola nel dibattito pubblico, pena il privarsene del diritto, è più folle che pensare a «unEuropa libera e unita» nel 1941. Più folle, perché le condizioni che diedero vita al Manifesto di Ventotene oggi mancano.
Scrive Colorni, infatti, che la cosa prese vita in un «ambiente deccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina», mossa da «un processo di ripensamento di tutti i problemi che avevano costituito il motivo stesso dellazione compiuta e dellatteggiamento preso nella lotta». In più, cera che, a lui, a Rossi e a Spinelli, «la lontananza dalla vita politica concreta» era imposta dal confino, e dunque quello «sguardo più distaccato», che avrebbe consentito loro di «rivedere le posizioni tradizionali, ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici [...], quanto in insufficienze dellimpostazione generale», era quanto di necessità virtù. Un altrettale «ambiente deccezione» oggi è inimmaginabile.
A nessuno, infatti, manca il giga necessario per fare – diciamo – «vita politica concreta», e ogni «sguardo più distaccato» è generalmente percepito come imperdonabile insensibilità dinanzi al dovere di schierarsi, nella migliore delle ipotesi, se non come sostanziale solidità col nemico, nella peggiore. In quanto al «rivedere» le proprie «posizioni tradizionali», manco a parlarne: si corre il rischio di essere marchiati a fuoco come opportunisti, conformisti di ritorno, voltagabbana. Intoccabile, poi, è ogni «impostazione generale», se nel parallelo qui proposto così vogliamo definire larmamentario di pregiudizi coi quali si scende in campo, perché mettere in discussione la ragione stessa del twittare pro o contro sovvertirebbe la Weltanschauung che a ogni passero, a ogni corvo e a ogni cinciallegra dà la sensazione di avere occhio di falco, ali daquila e becco di sparviero. Di «rigidissima disciplina», infine, meglio non parlarne in tempi in cui i saggisti hanno pose da romanzieri e, più che articolare concetti, argomentare analisi e sistematizzare tesi, in libricini che raramente superano le 200 pagine frullano citazioni, fatterelli, immagini, suggestioni, con una incoercibile tentazione allintrattenimento.
Ciò nonostante, in ogni dove si è concordi sul ritenere che le parole siano pietre, e che dovrebbero servire a costruire templi e case, a lastricare piazze e strade, piuttosto che ad essere impiegate in brutali sassaiole. Ti avvicini, guardi chi lha detto, e in fronte ha un bernoccolo, e in mano una fionda: piange, sanguina, e intanto prende la mira per restituire il colpo.
Sarebbe ingiusto, tuttavia, farne una questione morale: quando la posta in gioco è uccidere o morire – e poco importa se lo sia davvero o come tale è percepita, perché è la percezione che apre la partita – non si può biasimare che ogni mezzo giustifichi il fine: a fallacia, dunque, fallacia e mezza; mistificazione contro mistificazione, con lattenzione – quando cè – a fare in modo che la mia sia meno scoperta della tua.
E allora a chi potrebbe mai venire la folle idea di credere possibile un Codice della Comunicazione? Solo a chi, come a Colorni, Spinelli e Rossi, è fuori dalla partita. Solo a chi, come loro, nutra lillusione che, affrescata lutopia, a nessuno possa venire in mente di spicconarla. Condizioni incompatibili: chi è fuori dalla partita, lo è proprio perché non nutre più alcuna illusione. 

giovedì 18 luglio 2019

Raffaele Angelo Ventura, La guerra di tutti





«La violenza è già qui, lo è sempre stata» (pag. 289)


Allego in coda a questo post la recensioncella de Le ultime avventure di Gummo che scrissi quattordici anni fa, perché quello che oggi ho da dire su La guerra di tutti mi sarà in gran parte risparmiato. Ma quello era un romanzo (era un romanzo?), una novella (una novella?) – unapocalisse apocrifa, diciamo – diciamo che lAngelo era precipitato in una Patmos assai simile a un bar infestato da giovinotti di belle speranze e precario stipendio, per fare ingoiare un libricino dalle pagine imbevute di allucinogeno a uno pseudo-Giovanni felicemente libero da ogni speranza – e questo invece è un saggio (è un saggio?), peraltro semidichiarato seguito di un altro saggio (ma pure quello: era un saggio?), il fortunato Teoria della classe disagiata, e poi sono passati quattordici anni: chi resta uguale a se stesso dopo quattordici anni? Raffaele Ventura, sì, semplicemente insieme al libricino si è mangiato pure lAngelo, che infatti adesso sta tra Raffaele e Ventura. Direi: La guerra di tutti è semplicemente una glossa de Le ultime avventure di Gummo, una sua riscrittura in favore del lettore che ha problemi con la scrittura allegorica. Dai miei taccuini di quattordici anni fa, riporto un passaggio tratto da unintervista che Ventura concesse a La Voce di Milano il 26 dicembre 2005 (potrebbe essere il 24, la grafia è incerta). Cosera Gummo? «Una storia sul rapporto tra immaginazione e Storia. Linsurrezione delle forme narrative sepolte nellideologia. La metafisica come b-movie. Luigi Castaldi scrive che sono eversivo». Ed è vero che lavessi scritto, ma avevo pure scritto che Ventura si fosse divertito un mondo a prenderci per il culo: travestito da gnostico, ci aveva annunciato il Violent Unknown Event, e subito fatto «bù!», per ritrarsi a ridacchiare del nostro sconcerto. Una scrittura eversiva, dunque, ma come parodia di profezia. Quattordici anni dopo Gummo, il visionario e il grottesco trovano appigli nella realtà e reclamano un riconoscimento, che tutto sommato gli si deve. Rimando perciò alla chiusa del post di quattordici anni fa: «“Come cazzo è possibile che un libro così sia sugli scaffali delle librerie?” chiederebbe l’ingenuo in me. Il cinico in me ha la risposta e con un dito sulle labbra gli fa: “Sssss!”». E così è stato, aveva ragione il cinico: il Terzo Millennio ha bisogno di unapocalisse (non di un disvelamento, sia chiaro, non di una rivelazione: di unapocalisse come stravolgimento che azzera) e Raffaele (Angelo) Ventura aggiorna Gummo e lo manda in libreria. Avrà successo, senza dubbio. Peraltro – e qui sta lunico rimprovero che riesco a muovergli – La guerra di tutti si adegua assai furbescamente allo stile della saggistica odierna: nessuna articolazione, nessuna tesi, dunque neppure lonere dellargomentazione: immagini, citazioni, aneddoti, pettegolezzi letterari, evocazioni, suggestioni, un frullato gradevole, piacevolmente speziato. Insomma, scende giù che è un piacere. E il retrogusto ha l’inquietante che oggi è un must per l’intellettuale à la page. Ebbravo Ventura!

Nota
Ventura fa sapere che il suo secondo nome non è Angelo, ma Alberto. La cosa non impone correzione: se «il momento è vicino» (Ap 22, 10), l’Angelo è indispensabile.

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Raffaele Ventura, Le ultime avventure di Gummo 

Ho letto Le ultime avventure di Gummo di Raffaele Ventura. Ne avevo già letto brevi estratti che, suppongo, l’autore postava sul suo blogPseudepigrapha, mentre il lavoro era in fieri. “Sarà pronto per Natale – scriveva pressappoco il Ventura, uno o due mesi fa – e sarà mandato a chi ne farà richiesta”. Qualche giorno fa, in homepage, l’annuncio dell’invio e in un post-post-scriptum: “Vi prego di trattare il libricino con cura, aprirlo con moderazione, poiché sulla tenuta della colla ho soltanto speranza e immutata stima”. Ecco, ho voluto aprire questa veloce recensione di un libro portentoso (por-ten-to-so) con notizie che danno solo la misura laterale del portento. Sì, un blogger ha scritto un libro autoprodotto; speranza e stima riposte sulla tenuta della colla sono intrepide; il plico della cassetta della posta non ha mittente come gli artigianali confetti di esplosivi; la dedica (“a Cristina”) è tutto un ricamo di rimandi a maniere letterarie che poi saranno tradite e devastate da una intelligenza traditrice e devastatrice… Sì, ma non abbiamo ancora detto niente. E’ come se avessimo detto: l’acqua è bassa, si tocca; la folla è una folla di pezzenti; entrano in acqua uno a uno e si avvicinano al Battista; ne viene avanti uno con due occhi di brace… Così con questo libro, che andrà letto e riletto (mi conosco, mi conosco) fino a polverizzare tutta la colla della costa. “Non ti preoccupare, fa quello che devi fare, sbrighiamo ‘sta formalità” fa Cristo al Battista. Il libro di Ventura dà in felicissima analogia il trasalire che si avrebbe dinnanzi all’Anticristo, mentre si stava lì a battezzare la teoria di automi partoriti dalla fabbrica delle letterature lisergiche, delle fantascienze automatiche, dei testi tratti da b-movies e – toh! – di chi sono questi occhi di brace? Perdinci, siamo nell’Annuncio, noi, che venivano dall’Avvertenza. Sarà per questo che il libro di Ventura è crudelmente natalizio, com’era in qualche modo intuibile dalla considerazione (dal trasalimento) che dietro la barba di Santa Klaus si nasconde Satana, trionfante per “aver scalzato Cristo nel giorno stesso della sua nascita” (così su Pseudepigrapha scriveva l’anno scorso, il Ventura, dando il fondamento alle odierne reprimende del Natale scristianizzato da parte delle gerarchie ecclesiastiche). Quando involontari, gli errori di un libro sono incolpevolmente tratti da un altro libro. Perciò deve esistere un ‘errore originario’, deliberato” scriveva tempo fa sul suo blog, il Ventura, e ogni errore originario ne Le ultime avventure di Gummo è invece deliberatamente – dolosamente, in verità – tratto dalle Scritture. Dick, Burroughs, chi più ne ha, più ne metta – sono le negative, Ventura dev’essersi divertito un mondo a prenderci per il culo. Scriveva tempo fa (ed eravamo ancora all’Avvertenza di un possibile Annuncio): “Dove tutto è sacro, ogni gesto è una bestemmia” (più avanti: “La teodicea perfetta resta sostenere che gli eventi non hanno avuto luogo”). E nelle pagine di Gummo tutto procede per azioni che affollano le scene, i quadri. Sia chiaro, le azioni sono dialoganti, c’è sempre un A. e un B. (C. non datur): l’assonometria squaderna il boudoir, la philosophie che vi si consuma diventa comica gnostica. Molto probabile che il Ventura abbia voluto prendere per il culo anche sé stesso, almeno come gnostico, almeno come contranalogo di gnostico. In Gummo (perciò ne scrivo come affascinato, ma con un ultimo indugiare) ogni cosa rimanda e aderisce – dove c’è una bolla di scollamento, sollevando, c’è carne viva, rossa, non necessariamente dolente, ma sempre urlante. Svia (eccome!) l’apparenza del mosaico con tessere a margini aspri, ma qui l’ontologia, lì l’eschaton, e ancora, più in là, una pocket-theology riescono, più che a dare il sobbalzo, a farne riavere il riverbero, come per mero rimbalzo. La trama è quella di una favola che ogni volta ci spaventa e ci addormenta: la fine del mondo, il Violent Unknown Event, in queste 130 pagine guardato attraverso una dozzina di variazioni. Gummo, il protagonista, ha preso gli abiti dell’Anticristo col quale s’avanza da una bottega dell’usato punk, con qualche orrido accessorio aramaico, greco, perfino latino. Ha un’unghia ritorta che parrebbe istigazione, addirittura eversiva. Poi, chiuso il libro dopo averlo letto in discesa, con accelerazione quadratica (almeno così è stato per me), rimane la sensazione di un impatto terribile, il lettore è in ciascuno dei suoi stessi frantumi. “Come cazzo è possibile che un libro così sia sugli scaffali delle librerie?” chiederebbe l’ingenuo in me. Il cinico in me ha la risposta e con un dito sulle labbra gli fa: “Sssss!”. Sì, ma come cazzo è possibile che un libro così sia sugli scaffali delle librerie? (Malvino, 13.12.2005)

mercoledì 17 luglio 2019

Stop


Da inguaribile bibliomane sono divorato dalla curiosità riguardo ai libri che portava in braccio il ragazzino diventato simbolo dell’odiosa ingiustizia consumatasi con lo sgombero di Primavalle. Mi aspettavo almeno qualche ipotesi dai finissimi analisti che dalle scaffalerie alle spalle di Berlusconi e di Salvini sono stati in grado di desumerne livello culturale, gusto estetico e profilo psicologico, ma pare che stavolta la questione non si ponga, quei libri sono libri e basta, non meritano alcuna indagine, stanno in braccio al ragazzino a far l’effetto che fanno, quello della sacralità del sapere offesa dalla brutalità del potere, ovviamente di quello al di là dei Pirenei, perché quello al di qua è tutt’uno col sapere. Tanto meno è stata sollevata la questione se l’immagine potesse essere stata costruita per sortire l’effetto che ha sortito, e sì che oggi è di moda fare il fact checking pure al bacio che ti dà mamma. È evidente che ogni domanda, ogni dubbio, sarebbe iconoclastia. Non sembrano libri di testo scolastici. Tranne quello rilegato in pelle, che reca appiccicato alla costa un cartiglio come s’usa per i volumi di una biblioteca pubblica, sono tutti in condizione penosa. Sembra materiale recuperato da una discarica, ma tant’e, sono libri, e un angelo li trae in salvo, stop.

martedì 16 luglio 2019

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Si può – per certi versi, si deve – infine, se non da subito – cedere, rinunciare al troppo comodo né-né, e scegliere il menopeggio, e sul menopeggio, benché puzzi solo un po meno del peggio, non ci sono dubbi, sta da quella parte, e da quella parte, allora, cominci ad inclinare, quandecco che, a un niente dal caderci dentro, urlando «datemi una mazza, deh, datemi un coltello, santa è la rissa, dannato è chi ne resta fuori», vedi Gino Strada, e lo senti, e con un disperato colpo di schiena fai giusto in tempo a ritrarti: dio santo, che stavi per fare?


Tagliare


Si parla di carta geografica, quando la rappresentazione grafica del territorio preso in oggetto è in una scala uguale o inferiore a 1:1.000.000, rammentando che la grandezza di una scala è inversamente proporzionale al suo denominatore. Al diminuire del denominatore, quando dunque la rappresentazione diventa più particolareggiata e la scala è tra 1:1.000.ooo e 1:100.000, si parla di carta corografica, mentre con una scala tra 1:100.000 e 1:10.000 siamo alla carta topografica. Di mappa, sebbene il termine venga spesso impiegato per rappresentazioni in scale assai minori, come è nel caso di quella lunare, sarebbe proprio parlare solo per ordini da 1:2.000 in su. Sarà per questo che lacribia con cui Borges confezionava i suoi falsi letterari ci dà mapa, anziché carta, per quella rappresentazione dellImpero in scala 1:1, che dunque «tenía el tamaño del Imperio y coincidía puntualmente con él» (Del rigor en la ciencia)?
La questione meriterebbe un certo interesse, se questo fosse un blog serio. Si dovrebbe partire dal considerare la terminologia in uso nelle opere d’interesse cartografico a disposizione di Borges intorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, per verificare se la distinzione tra carta e mappa in base alla grandezza della scala fosse già in uso allora come lo è oggi. Non guasterebbe a tal proposito una capatina alla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, ma anche alla «Miguel Cané», perché è vero che Borges vi prese servizio solo nel 1938, ma Del rigor en la ciencia non compare nella prima edizione della Historia universal de la infamia, che è del 1935, per entrarci solo nella seconda edizione, che è del 1940. Se questo – dicevamo – fosse un blog serio. Ma non lo è. Il che mi risparmia il volo in Argentina, ma mi costringe in ogni caso a dare spiegazione del perché un post che ha per titolo Tagliare attacchi dando ragguagli sul concetto di scala nella rappresentazione grafica di un territorio.
Do un aiutino? Pensate per un attimo alla comune radice di rappresentazione e di rappresentanza: in entrambi i casi si tratta della riproduzione di qualcosa che è altrove, ma che si fa in modo abbia re-ad-praesentia qui, dove il prae- è quel dinanzi che gli dà più o meno piena corrispondenza al reale. Ci siete? Vabbè, pretendo troppo, meglio porvi la faccenda in altro modo.
Posto che la democrazia rappresentativa fa corrispondere un eletto a un tot di elettori (1:1.000, 1:10.000, 1:100.000, ecc.), non cè contraddizione in termini tra il voler ridurre il numero dei parlamentari e poi dirsi paladini della democrazia diretta, che invece ha lambizione di cavare la volonté générale da una riproduzione dellelettorato in scala 1:1? Se riduci il numero di deputati e senatori, ogni parlamentare rappresenterà un numero maggiore di elettori, con un ulteriore allontanamento dalla democrazia diretta.
Mi si dirà che il M5S è per il vincolo di mandato, e dunque... E dunque un cazzo, perché la riforma costituzionale che intende portare a 400 il numero dei deputati e a 100 quello dei senatori modifica gli artt. 56 e 57, ma non sfiora neppure lart. 67, che dunque continuerà a recitare: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
A mio modesto avviso, è questa lobiezione più sensata che si può rivolgere ai grillini, e parlo da persona che crede nella democrazia rappresentativa, e che si caga letteralmente addosso ogni volta che sente parlare di democrazia diretta. Ovviamente non ignoro le ragioni di chi è contrario alla riforma costituzionale, ma, pur avendo letto tanto sulla questione, ancora non mi è chiaro come il taglio del numero di deputati e senatori apporterebbe una deminutio alla democrazia, se non nel modo in cui la apporta una qualsiasi legge elettorale che abbia una qualsivoglia, e pur bassissima, soglia di sbarramento. Anche senza quella, peraltro, ci saranno sempre elettori che, per lesiguità del numero che esprime la loro scelta, rimarranno senza rappresentante, salvo portare i seggi parlamentari a un numero tanto alto da consentire di conquistarne uno anche a chi abbia avuto solo – faccio per dire – 100 voti: sennò, perché 100 elettori – ma a questo punto anche 50 o 25 – dovrebbero rimanere senza rappresentante?
In mancanza di una scala 1:1 – e dunque in ogni momento di democrazia rappresentativa – ci saranno sempre elettori che non saranno stati in grado di esprimere un proprio rappresentante, e non si potrà certo chiudere un occhio sul fatto che saranno pochi, a voler fare della rappresentatività un principio irrinunciabile.
Anticipo lobiezione di chi mi dirà che, portando a 400 il numero dei deputati e a 100 quello dei senatori, sui 51 milioni e dispari di aventi diritto al voto aumenteranno quelli che non avranno un rappresentante: sorvolando sulla crescente percentuale di astenuti, che non sembra destare analoga preoccupazione, direi che tutto sta nel tipo di legge elettorale che si intende adottare e nel modo di definire i collegi, salvo il considerare non democratici i paesi in cui il rapporto eletti/elettori è più o meno simile a quello che produrrebbe la riforma costituzionale, che comunque dovrà passare al vaglio referendario, e dunque potrà essere bocciata nel caso sia giudicata «un rischio per la democrazia» (Huffington Post) oppure, consegnando il dubbio allinquietudine, qualcosa «che può portarci verso terre ancora incognite» (Il Mattino). E tuttavia, fin dora, è giusto porgere lorecchio a questi allarmi.
Ridurre il numero dei parlamentari è «un rischio per la democrazia» per Gregorio De Falco, quello del «sali a bordo, cazzo!». Tutti condivisibili, gli argomenti coi quali illustra la natura demagogica delliniziativa del M5S, ma sul perché la democrazia corra dei rischi si fa fatica a seguirlo. «Quei numeri sono fissati in Costituzione secondo criteri razionali, allo scopo di ottenere il miglior rapporto tra eletti ed elettori ed al fine di dare sostanza reale al concetto di rappresentanza politica». Quali «criteri razionali», che non siano già saltati dal 1948 a oggi. È cambiato il numero degli aventi diritto al voto, si è uniformata la durata del mandato alla Camera e al Senato, sono completamente cambiate (e un’infinità di volte) legge elettorale e composizione dei collegi.
Ma, poi, cosa renderebbe poco democratico il rapporto di un eletto ogni 114.000 abitanti, come accade in Germania, rispetto al rapporto di un eletto ogni 63.000, come accade in Italia? (Evitiamo di parlare dei Stati Uniti dove 435 membri del la Camera dei rappresentanti e 100 membri del Senato rappresentano 330 milioni di abitanti per non incorrere nellimmancabile «ma è diverso!». Certo, ogni cosa è diversa da ogni altra cosa, come daltronde lo è lItalia di oggi rispetto a quella di 70 anni fa: e allora, di grazia, quali «criteri razionali»?)
Peggio ancora col Babau «che può portarci verso terre ancora incognite»: Massimo Adinolfi, ormai specializzato in argomentazioni a lingua di Menelicche, nemmeno accenna a cosa ci attenderebbe, limitandosi a lamentare che attorno allultima riforma costituzionale, quella che il 4 dicembre 2016 fu ricacciata in gola a Renzi, cera più ansia. Comè che allora si temeva una deriva autoritaria o oggi no?
«Tre anni fa, tutti o quasi avevamo imparato a usare la fatale formula: “il combinato disposto”. Una roba che prima maneggiavano solo i giuristi è diventata, in quel frangente, patrimonio di tutti gli italiani. A tavola capitava che si dicesse: il combinato disposto di primo e secondo piatto mi ha portato sino alla sazietà. Da non credere. Ma era una faccenda seria: era la riforma costituzionale unita alla legge elettorale ciò di cui si paventavano conseguenze nefaste sugli equilibri tra i poteri. Caso vuole però che la legge elettorale non sia nel frattempo mutata, e che dunque ci vorrebbe qualcuno che spiegasse se il combinato disposto, per l’appunto, di Rosatellum e Parlamento snello non comporti effettivi distorsivi sulla rappresentanza parlamentare. Invece: nessuna mobilitazione. Eppure non è uno scherzo: se tu riduci il numero dei parlamentari innalzi indirettamente le soglie di sbarramento a discapito delle formazioni minori».
Qui davvero si è in difficoltà: sta a prenderci per il culo, lAdinolfi, per saggiare quanto siamo atarassici, o gli è saltato il salvavita nella ghiandola pineale? Quello del combinato disposto non era il Rosatellum, ma lItalicum: merda della stessa infima qualità, e tuttavia con differenze sostanziali, andasse a ripassarsele tra un numero da tabarin su Il Foglio e una serata della tournée «Adotta un filosofo». Riesce a immaginarselo, lAdinolfi, un combinato disposto di Italicum scritto da DAlimonte e di Parlamento riscritto dalla Boschi, oggi, con una Lega al di sopra del fatale 37%? Altro che star lì in posa da chiachiello sulle pagine de Il Mattino, sarebbe già in «villeggiatura» a Ventotene, col sole a picchiar duro su quella pettinatura a noce di cocco.
Notevole, però, quel «combinato disposto di primo e secondo piatto», che con due pennellate fa il ritratto al cittadino qualunque che si azzarda a mettere il naso in faccende troppo più grandi di lui, con tragicomico effetto. Dopo Massimo DAlema e Andrea Orlando, Adinolfi è pronto ad essere adottato da Myrta Merlino. Con migliori fortune, cordialmente gli auguriamo.