lunedì 21 ottobre 2019

Gesuitismo


LAsia, che Einaudi ha mandato in libreria a giugno nella collana dei Millenni (due volumi, 1616 pagg., 140 euro), raccoglie i primi otto dei complessivi ventisette libri della monumentale Istoria della Compagnia di Gesù di padre Daniello Bartoli (1608-1685), quelli relativi alle missioni di Francesco Saverio (1506-1552) e di Rodolfo Acquaviva (1550-1583). Che dirne? Come sempre accade per lapologetica e lagiografia, occorre armarsi di machete per farsi strada nellaltrimenti impenetrabile selva di imbellettature e iperboli, eufemismi e reticenze, elusioni e preterizioni, che furono una goduria per lamante del survival che fui. A onor del vero, infatti, devo confessare che questa è impressione assai datata, peraltro riguardante solo parte dellopera, quella che nel piano editoriale della Einaudi verrebbe subito a seguire, e cioè quella relativa alle catastrofiche missioni in Giappone: tre volumi del primo Ottocento che, poco più che ventenne, trafugai dalla libreria di suor Geltrude, badessa del Sacro Cuore di Gesù, e zia.
Di lei e del Bartoli, qui, non mette conto dir altro, perché quello che invece mi pare assai più interessante segnalare è quanto Alberto Asor Rosa scrive a margine di una stitica e tarda recensioncella de LAsia apparsa ieri su la Repubblica: «Il gesuitismo, al di là di certe sue prese di posizione ferocemente antiprogressiste, ha contribuito, anch’esso, almeno in Italia, alla costruzione di un’identità nazionale».
Ora occorre dire che «gesuitismo» ha più accezioni, tutte riducibili a due significati: è «il complesso dei metodi, dei sistemi propri dei gesuiti, e in particolare l’atteggiamento e il comportamento di fronte a problemi intellettuali, morali, dottrinali e religiosi, o anche politici, che furono propri dei gesuiti» (Treccani), dove però non si capisce il «furono» per metodi e atteggiamenti che i gesuiti non hanno mai dismesso e che oggi, con un gesuita assiso sul Trono di Pietro, incontrano un ampio, seppur non generale, favore in seno alla Chiesa di Roma; ma sta pure per quel bellintreccio di «doppiezza, falsità, fariseismo, finzione, insincerità, ipocrisia, mistificazione, simulazione, [al servizio della] adozione della casistica per scopi mondani e per accrescere il proprio prestigio e potere nella società contemporanea» (anche qui, Treccani). A quale dei due significati fa riferimento Alberto Asor Rosa nel lamentare lodioso pregiudizio che a lungo ha pesato, e ancora pesa, almeno in certi ambienti, sulla Compagnia di Gesù?
Non è del tutto chiaro, ma in un punto pare sia possibile avanzare unipotesi: è dove ci rammenta che negli anni 70 «rischiai il mio buon nome e, peggio, la mia carriera accademica» nellazzardare un elogio di Daniello Bartoli e della sua Istoria della Compagnia di Gesù. Dove quel «peggio» ci svela la scala dei valori di Alberto Asor Rosa, in cui la «carriera accademica» sta sopra e il «buon nome» sta sotto.

[...]


Con la legge n. 130 del 30 marzo 2001 è venuto a cadere il divieto della dispersione delle ceneri dopo la cremazione, fin lì vigente in forza dellart. 411 del Codice Penale, così riformato. Sia fatta ordunque la volontà della cara salma, laddove ella non voglia riposare in un misurato barattolo. Se già in vita, poi, altro non era che grigio pulviscolo, semmai anche molesto, si potrà ben tollerare possa spandersi ancora una volta, perché lultima.

giovedì 17 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 5



5. «La verità, vi prego, sulla verità» (pag. 7): Hanno tutti ragione? apre parafrasando il Wystan Hugh Auden di La verità, vi prego, sullamore, che nel «vi prego» della traduzione a cura di Gilberto Forti (Adelphi, 1994), seppur con un sovrappiù denfasi rispetto al testo originale (O Tell Me Truth About Love), trova efficace soluzione nel ridarci, da un lato, lo smarrimento a fronte del sentirne dire tutto e il contrario di tutto («... alcuni dicono che fa girare il mondo / e altri che è solo un’assurdità...») e, dallaltro, lurgenza di una risposta cui poter prestar fede, data la centralità, la preminenza, della questione in oggetto.
È parafrasi estremamente suggestiva per due ragioni: innanzitutto, la «verità» in luogo dell«amore» produce una locuzione – «la verità sulla verità» – il cui corrispettivo evoca quell«amare lamore» che in Agostino dIppona (Esposizione sui Salmi, 118, VIII, 3) è una brillante scappatoia al problema posto da un soggetto e da un oggetto dell’amare che sia un «amare in Dio» («la verità sulla verità» risolve allo stesso modo un analogo problema: chi o cosa garantisce il «vero» di una «verità»?); secondariamente, è parafrasi che, in luogo della «verità sull’amore», ci offre un «amore per la verità» che sta nella ragione etimologica della «filo-sofia»Un brillante trucchetto, insomma, per presentarsi al lettore come la persona più qualificata a poter parlare della «verità», per eminenza di interesse e precipuità di pertinenza.
Da persona tanto qualificata ci si aspetterebbe in primo luogo una definizione delloggetto in questione, ma anche qui, come di regola in filosofia, lo si ritiene superfluo, dando scontato che si sappia di cosa si tratti. Cè che però anche qui, come di regola in filosofia, loggetto è estremamente sfuggente, ambiguo, quasi sempre espresso da un termine che sembra fatto apposta per reggere – sia concessa anche a noi una citazione, una tantum – quelle che la mera analisi logica del linguaggio rivela come pseudoproposizioni prive di senso (cfr. Rudolph Carnap, Il superamento della metafisica mediante lanalisi logica del linguaggio).
Cosè, infatti, la «verità»? Non ve nè definizione – tentativo di definizione, per meglio dire – che non si risolva in tautologia. Tautologia esplicita, comè nel definirla «l’essere vero» (De Mauro) o «ciò che è vero» (Treccani), sennò implicita nel ricorso a un sinomino come «realtà», che ce la ridà come «aderenza alla realtà» (Palazzi), «rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva» (Devoto-Oli), «conformità a una realtà obiettiva» (Treccani), dove questa «realtà» rimanda regolarmente al «vero», in quanto «qualità e condizione di ciò che è veramente» (Palazzi).
Quando, poi, dal tentare di definire la «verità» si passa ad analizzare le sue accezioni nei vari ambiti di impiego (filosofico, teologico, psicologico, ecc.), le cose vanno anche peggio, perché sembra si parli ogni volta di una cosa diversa: per un teologo come Tommaso, dovremmo considerla coincidente all’Essere e in pratica assimilabile a Dio; per un epistemologo come Peirce, dovremmo pensare ad essa come al risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo; per un matematico come Gödel, non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile, il che pone il problema di assumere la «verità» come «inverificabile»; facendoci supporre debba aver ragione un logico come Frege, secondo il quale il «vero» è categoria illusoria.
Anche trasferendo interamente il «vero» al «reale», nel disperato e ultimo tentativo di dare un senso alla «verità», le cose non si mettono al meglio, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta per tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà sì comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta. 
È in questo punto, che poi è quello in cui ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il «vero» al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la «verità» sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una «verità» assoluta, che non è necessariamente Dio, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili (si va dai sofismi alle mazzate), e assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, che è tutto illusorio. Ciò nonostante – ma forse dovremmo dire: proprio perciò – sentiamo pigolare da chi, non essendo in grado di abboffarci di mazzate, si rassegna ad abboffarci di sofismi: «La verità, vi prego, sulla verità». Ma a chi vuo piglia pe culo, Adino?

[fine]

lunedì 14 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 4



4. Non è raro che la biografia di un filosofo registri a un certo punto uno scarto anche assai sensibile nel percorso della sua riflessione, per lo più con uno spostamento dell’interesse o una correzione del metodo, ma talvolta anche con radicali revisioni del sistema fin lì edificato. Si tratta di svolte che nel far riferimento alla sua opera impongono di solito precisazioni del tipo «il giovane Hegel», «il secondo Wittgenstein», «l’Heidegger dopo la Kehre», ecc. Accade, così, di avere due filosofi in uno, di cui, giusto per fare un esempio, il primo è categorico, non transige, «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere» (Tractatus Logico-Philosophicus, 7), mentre il secondo chiude benevolmente un occhio sulla chiacchiera metafisica e su ogni altro ambarabà-cicì-cocò, perché trova che «l’essenza è espressa nella grammatica» (Philosophische Untersuchungen, 371): nel mezzo c’è un esaurimento nervoso e, a seguire, un lavoro usurante come quello di maestro delle elementari (non viceversa, come solitamente accade), si può capire.
Con Massimo Adinolfi non si capisce cosa possa essere accaduto tra un «buonsenso» che a dicembre dell’anno scorso è «filosofia non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva» (Leftwing) e nemmeno sei mesi dopo è un cuoppo «infarcito di insensatezze» (Hanno tutti ragione?, pag. 43). Sia chiaro, non c’è contraddizione, perché il «buonsenso» è «la confidenza in una verità a portata di tutti, […] per la quale non sarebbe necessario compiere molti sforzi, non sarebbe necessario molto studio» (pag. 41): se non la fai «elaborare» da un esperto, uno che ne ha la «scienza», uno cui il Principe deleghi la manutenzione dell’«infrastruttura intellettuale» della «coscienza collettiva», la «verità» va a farsi fottere e, voilà, ecco il cuoppo. Contraddizione, dunque, no, ma un sostanziale mutamento dell’umore che impregna il delirio di grandezza comune a ogni filosofo, quello, sì: da un colpo, certo doloroso, inferto dal fatto che «con tutto questo buonsenso non mi ci ritrovo neanche un po’, mentre una buona parte del paese, a quanto pare, ci si ritrova» (Leftwing), e tuttavia sofferto in modo stoico, alla furia che la ferita narcisistica impone come indispensabile riparazione all’oltraggio, e che finisce per mettere in discussione perfino la democrazia, perché in fondo «non c’è democrazia senza populismo» (pag. 47).
In Hanno tutti ragione? non c’è più traccia del piagnucolio di sei mesi prima («diciamo allora, come il poeta, che The Times They Are A-Changin’, anche se il cambiamento non sta avendo il verso auspicato»), piuttosto la ben più lontana eco di un Giuliano Ferrara per il quale una «democrazia possibile» può aversi solo nella fattispecie di «un’oligarchia ben organizzata» (Il Foglio, 22.5.2008), e fa sfoggio, con allegato curriculum («esperienza compiuta al Ministero della Giustizia come consigliere dellallora ministro, Andrea Orlando» – pag. 92) di un bellicosissimo armamentario retorico, quasi ad annuncio: A.A.A. Referenziatissimo scienzato della verità, turris-eburnea-munito, offresi a oligarchia ben organizzata come progettista di infrastrutture intellettuali. Trattativa privata, telefonare ore pasti, astenersi perditempo.
Ovviamente non è il primo e non sarà lultimo dei philosophes engagés. Diciamo che, qui, più che impegno, lengage è ingaggio. I cui termini paiono chiari, come è evidente chi sia la controparte nella trattativa, certamente destinata a buon esito, salvo scazzi sul compenso.


Cosa cè di meglio di un Luigi Bonaparte dopo i torbidi di un 1848? «Democrazia è, anzitutto, suffragio universale: nessuno ne dubita. Ma il fatto che si fonda sul principio “una testa, un voto” non implica affatto che un voto, un’opinione, equivale a un pensiero» (pag. 52). E anche qui, per non lasciare l’affermazione sine argumento, ecco il sostegno ab auctoritate«... così avrebbe detto quel reazionario di Hegel». Dove l’ironia conta di trovarci d’accordo sul fatto che Hegel è Hegel, e dunque «reazionario» è uno sproposito: se questo vale per lui, deve valere pure per chi fa proprie le sue affermazioni, ergo siamo tenuti a considerare una generosa concessione che il voto dietro il quale c’è un pensiero conti quanto quello dietro il quale non ce n’è. Con un’altra interessante implicazione: a un voto il pensiero può essere conferito da chi lo rappresenta, perché la rappresentanza – sostiene Massimo Adinolfi – è legata a tre valori, di cui il più importante è appunto quello della «verità». E cioè? «Nel rappresentante, la mia verità [...] si chiarisce a me stesso meglio di quanto io stesso non possa fare» (pag. 55). Concludendo? «Rappresentare è meglio che essere» (pag. 53). E qui l’infortunio è ancora più increscioso del Mussolini che a pag. 11 «firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato», perché a rigor di logica ci attendavamo un «essere rappresentati è meglio che essere». Ma a scrivere è chi esprime un voto che è già pensiero, e pensiero che non ha bisogno di essere chiarito da chicchessia, e che anzi si candida a chiarire le «verità» altrui. Via, se lo mandate in Parlamento insieme alla Boschi e a Marattin, Adinolfi vi assicura che saprà chiarirvi cosa pensate, risparmiandovi la fatica del tentare di farlo da soli.

[segue] 

domenica 13 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 3


«Ciambellano del nulla, avanzo di segreteria,
ti ricordi com’eri bello quando cercavi una sistemazione?
Professionista dell’amicizia e della compassione.
Sempre meglio di adesso che vai girando come una sciantosa,
che non sei niente, ma fai di tutto per sembrare qualcosa»
Francesco De Gregori, Vecchi amici (1992)



3. Arrivato neanche a un settimo di quanto avrei da dire su Hanno tutti ragione?, ridò voce alla domanda che Bentham immagina gli ponga il lettore: «Se non metteva conto di occuparsene, perché perderci tanto tempo?». La risposta a chi me la ponesse già dopo i primi due dei quindici paragrafetti previsti – tranquillo, lettore, altri due o tre e anch’io mi annoierò, abbandonando il piano d’opera – è la seguente: il libricino mi ha enormemente irritato per la sua sfacciata malafede, peraltro fieramente esibita in quarta di copertina, dove si legge che «Adinolfi prova a fornire argomenti per ricostruire il rapporto tra verità e democrazia».
Ma quando mai c’è stato, questo rapporto? Se hai una «verità», non hai più bisogno di decidere, basta e avanza conformarti ad essa: in più, se è proprio «verità», cioè eterna, universale e incontestabile, questo non vale solo per te, ma per tutti, e per sempre, rendendo superflui ogni confronto, ogni discussione, ogni decisione messa ai voti: rendendo superflua la democrazia, anzi, di più, rendendola sacrilega, perché è evidente che, per sua natura, la «verità» può essere solo antecedente e superiore alluomo o, tuttal più, intrinseca allordine creaturale in cui luomo è inscritto. Quandanche non si tiri in ballo Dio, la «verità» ne surroga il senso, e dunque chi sostiene di possederla, o anche soltanto di avere gli strumenti per meglio approssimarla, si sente in pieno diritto di governare il mondo, e la pretesa sostanzialmente è di stampo teocratico. Poi, certo, a fronte del fatto che avanzare seriamente la pretesa gli costerebbe l’essere fatto bersaglio di fumanti palle di letame, è costretto a schermirla in modo gigionesco, senza tuttavia riuscire a celare lindispettimento per lo «scomodo» che impone il dover sta lì ad argomentare perché la sua «verità» sia la vera Verità, quando è evidente che non può essere altrimenti per il solo fatto che a profferirla è chi ne ha la «scienza».


Iniziando a parlare di Hanno tutti ragione?, ho detto che il mio intento non voleva essere pedagogico, perché le fallacie di cui trabocca sono talmente scoperte da non aver bisogno di essere segnalate come tali. La più evidente è proprio quella che intende dar ragione del perché sia necessario «ricostruire il rapporto tra verità e democrazia», peraltro subito dopo aver concesso che «è indispensabile, per amore della pace e della concordia sociale, rinunciare a una rivendicazione “assoluta” e accettare che le diverse verità vengano relativizzate» (pag. 14): sarebbe necessario perché, «da un lato, condividiamo la convinzione che il processo democratico lascia ciascuno libero di credere qualunque cosa, e prendiamo anzi precauzioni perché nessuna opinione sia imposta in nome della verità; dallaltro, lamentiamo come oggi la verità stessa non sia tenuta in alcuna considerazione» (pag. 17).
Patetico trucchetto, quello di usare un «noi» che intenderebbe denunciare una contraddizione nellassunzione – insieme – di «condividiamo» e «lamentiamo», ma in realtà chi è che davvero può lamentare che una verità assoluta non splenda indiscussa sulle nostre vite, pur condividendo il principio democratico che di ogni «verità» fa unopinione? Solo chi ritiene inammissibile che la propria «verità» possa risultare opinione minoritaria nel confronto democratico, e dunque lo accetta, per dirsene convinto assertore e sostenitore, se la propria opinione ne esce vincente, pronto però a metterlo in discussione, se dalla conta esce perdente.
Pronto, qui, a metterlo in discussione con un broncio che, ai tempi in cui era ancora un blogger, Massimo Adinolfi dichiarava inutile se non svantaggioso, facendo sua una frase di Robert Musil che campeggiava in homepage («Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno»): è evidente che deve aver trovato modo di cavarne qualche vantaggio, daltronde in tempi di crisi il Tempio è sempre stato in grado di reclutare qualche «filosofo in missione per conto di Dio» (definizione che Simone Regazzoni ha affibbiato a Maurizio Ferraris, anche lui orfano della verità detronizzata e decapitata dalla inferocita plebe della post-modernità).

Ma cosa ci dovrebbe far rimpiangere i tempi in cui le società erano illuminate dalle verità dei filosofi (niente virgolette, qui, né per l’una, né per gli altri) del tipo che l’«a-tomo» è inscindibile (Democrito), che «per natura» alcuni sono liberi e altri schiavi (Aristotele) e che in quanto privi di ragione e di coscienza gli animali non provano dolore (Cartesio)? Il fatto che oggi un tizio può permettersi di dire che la terra è piatta. Per inciso, come lo diceva Anassimandro, filosofo.
Dovrebbe essere evidente che non può essere il sapere filosofico a fare la differenza tra puttanata e no, salvo a voler mettere un prima e un dopo nella storia della filosofia, sulla falsariga dell’abisso che separa la democrazia degli antichi da quella dei moderni. Ma conviene al filosofo? Mi spiego: fosse possibile farlo, cosa consentirebbe (sulla base della convinzione che «alcuni hanno ragione e alcuni hanno torto») di poter affermare che il modello geocentrico del cielo aristotelico è inservibile e quello della sua metafisica rimane valido? Basta riandare a quello che abbiamo detto circa il dibattito scientifico e quello filosofico nel paragrafo 1., ribadendo che la filosofia, in quanto «scienza della verità», è costretta a ritrarsi sempre più nell’empiricamente indimostrabile per poter salvaguardare il suo peraltro sempre più ristretto dominio.
Detto più prosaicamente: il filosofo può ormai esser sereno solo quando resta nel teoretico, e cioè in quel campo della conoscenza dove lurgenza del veritativo trova soddisfazione nellastrazione metafisica. È per questo che Hanno tutti ragione? non potrebbe muovere un passo oltre lartificioso paradosso costruito su un «noi» che è democratico e – insieme – anela allassoluto della verità, senza servirsi dei trampoli della filosofia teoretica. Sui quali Massimo Adinolfi si muove con grande disinvoltura per una ventina di paginette, ma solo per ritrovarsi nel punto da cui era partito: «Per difendere la democrazia, non occorre che sia istituito un Ufficio Centrale, che metta a disposizione del pubblico un immaginario Catalogo Completo dei Fatti Accertati, così che almeno una certa porzione di verità sia posta fuori discussione [non sia mai detto che il «vero» si riduca all«accertato», significherebbe vincolare la «verità» alla provvisorietà del dato scientificamente desunto]; è invece necessario che sia viva, nelle istituzioni e in capo ai singoli individui, una solida infrastruttura intellettuale che consente la più ampia, e pubblica, circolazione delle idee, che favorisca il confronto e, se necessario, anche il conflitto delle interpretazioni. Non uffici centrali, quindi, ma giornali, scuole, università, teatri, luoghi, insomma, in cui idee e modi di vedere il mondo possano mescolarsi e se è il caso sfidarsi. Una simile cura deve appartenere al singolo individuo, e alla società nel suo insieme. La prima, individuale, comporta una responsabilità di ordine morale; la seconda, collettiva, comporta una responsabilità di ordine politico» (pag. 37).
Ci è consentito un sospiro di sollievo: il filosofo non è intenzionato a governare il mondo a colpi di randello, chiede solo gli sia data la supervisione della «infrastruttura intellettuale» che informa la morale e la politica. Più che un governatore, un tutore.

[segue]

venerdì 11 ottobre 2019

Intermezzo (Tesi sulla undicesima tesi su Feuerbach)


Per molto tempo i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi. Poi, in modi diversi, recepirono lesortazione di Karl Marx a cambiarlo. Al più riuscirono a scroccare qualche cena al Palais de Élysée, gli altri non andarono più in là di uno sketch sul palco della Leopolda.

giovedì 10 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 2



2. «Questo non è, in senso stretto, un libro di filosofia», avverte Massimo Adinolfi chiudendo lIntroduzione di Hanno tutti ragione? (pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza dubbio, perché il saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e ha perso il controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti e presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon, mi stavo facendo prendere dal milieu abbandonandomi allallegoria con la quale, nel VI libro della Repubblica, Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polis spetti al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di Siracusa, povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le aspettative: ancilla theologiae, nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva padrona; e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione in frustrazione, eccolo nella turris eburnea come sacerdote nel tempio del suo sistema, clerc sempre tentato alla trahison; ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo incardinato nellaristocrazia operaia; infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle, tuttavia, al «filosofo» non si può negare lesercizio della «scienza della verità», che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le opinioni.
E ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta del populismo», mentre sempre più pesanti si fanno gli «affanni della democrazia rappresentativa»; poi c’è la «straordinaria accelerazione tecnologica» che ha comportato «profonde modificazioni dello spirito pubblico» (pag. 7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag. 9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96 paginette con le quali provare a far «argine ai cedimenti di certe infrastrutture culturali» e a «migliorare la qualità della discussione pubblica» (pag. 10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno la «caratteristica gravità» del libro di filosofia, «ma è un libro, tuttavia» (pag. 9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un libro.

Si comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929, anno in cui esce Essenza e valore della democrazia di Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui «Mussolini, al potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag. 11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola religione dello Stato» già con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi – diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di far «argine ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»? Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della democrazia, non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede in valori assoluti. Questa fede conduce irresistibilmente, e ha sempre condotto, a una situazione in cui chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto reclama il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri che sono nellerrore» (Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica). Sottoscriviamo? Piano.
«Di primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo tutti portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag. 14). Ora, la grammatica ci dice che «in effetti» è locuzione con valenza di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come lo è, ad esempio, «in realtà». Si noti che qui «in effetti» non cade su «sia così», ma su un «pensare» che è «di primo acchito»: «in realtà» così si pensa, non è detto che «in realtà» così sia, siamo dissuasi dal precipitarci a sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che afferma Kelsen a un «pensare» che non sia «di primo acchito», ma più ponderato, meglio se assistito, dunque, da un filosofo? È presto detto: quelle di Kelsen sono parole di buonsenso. E che c’è di male nel buonsenso? Che domande.


Qui è necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con «buonsenso». Ma dicevamo: anche sul significato dei termini di più comune impiego ogni filosofo rivendica il diritto di darne uno tutto personale. Conviene, dunque, andare a rileggere cosa scriveva Massimo Adinolfi, poco meno di un anno fa, nel mentre assai probabilmente di lato aveva in fieri Hanno tutti ragione?
È un articolo apparso su Leftwing, in cui il «buonsenso» è la «capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso», definizione che ne dà Cartesio aprendo il Discorso sul metodo, e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere la «bancarotta della filosofia» in quanto «scienza della verità». Quello che però in sostanza si lamenta, e fin dal titolo (Abbiamo perso la guerra del buonsenso), è altro: il «buonsenso» di un tempo era «filosofia non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»; bene, quel «buonsenso» non cè più, è andato a farsi fottere, sconfitto da un «buonsenso» che a Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie di «vero» e «falso» cui era tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia anche un po sua la responsabilità, perché «facev[a] le bucce a cardinale Ratzinger» quando quello se la pigliava con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a Kelsen abbiamo lasciato sedimentare lerrore nella coscienza collettiva. Certo, non siamo dinanzi a «chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto [e] reclama il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri che sono nellerrore»: mancano le palle. 

[segue]