giovedì 10 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 2



2. «Questo non è, in senso stretto, un libro di filosofia», avverte Massimo Adinolfi chiudendo lIntroduzione di Hanno tutti ragione? (pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza dubbio, perché il saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e ha perso il controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti e presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon, mi stavo facendo prendere dal milieu abbandonandomi allallegoria con la quale, nel VI libro della Repubblica, Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polis spetti al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di Siracusa, povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le aspettative: ancilla theologiae, nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva padrona; e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione in frustrazione, eccolo nella turris eburnea come sacerdote nel tempio del suo sistema, clerc sempre tentato alla trahison; ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo incardinato nellaristocrazia operaia; infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle, tuttavia, al «filosofo» non si può negare lesercizio della «scienza della verità», che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le opinioni.
E ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta del populismo», mentre sempre più pesanti si fanno gli «affanni della democrazia rappresentativa»; poi c’è la «straordinaria accelerazione tecnologica» che ha comportato «profonde modificazioni dello spirito pubblico» (pag. 7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag. 9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96 paginette con le quali provare a far «argine ai cedimenti di certe infrastrutture culturali» e a «migliorare la qualità della discussione pubblica» (pag. 10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno la «caratteristica gravità» del libro di filosofia, «ma è un libro, tuttavia» (pag. 9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un libro.

Si comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929, anno in cui esce Essenza e valore della democrazia di Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui «Mussolini, al potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag. 11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola religione dello Stato» già con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi – diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di far «argine ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»? Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della democrazia, non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede in valori assoluti. Questa fede conduce irresistibilmente, e ha sempre condotto, a una situazione in cui chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto reclama il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri che sono nellerrore» (Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica). Sottoscriviamo? Piano.
«Di primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo tutti portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag. 14). Ora, la grammatica ci dice che «in effetti» è locuzione con valenza di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come lo è, ad esempio, «in realtà». Si noti che qui «in effetti» non cade su «sia così», ma su un «pensare» che è «di primo acchito»: «in realtà» così si pensa, non è detto che «in realtà» così sia, siamo dissuasi dal precipitarci a sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che afferma Kelsen a un «pensare» che non sia «di primo acchito», ma più ponderato, meglio se assistito, dunque, da un filosofo? È presto detto: quelle di Kelsen sono parole di buonsenso. E che c’è di male nel buonsenso? Che domande.


Qui è necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con «buonsenso». Ma dicevamo: anche sul significato dei termini di più comune impiego ogni filosofo rivendica il diritto di darne uno tutto personale. Conviene, dunque, andare a rileggere cosa scriveva Massimo Adinolfi, poco meno di un anno fa, nel mentre assai probabilmente di lato aveva in fieri Hanno tutti ragione?
È un articolo apparso su Leftwing, in cui il «buonsenso» è la «capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso», definizione che ne dà Cartesio aprendo il Discorso sul metodo, e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere la «bancarotta della filosofia» in quanto «scienza della verità». Quello che però in sostanza si lamenta, e fin dal titolo (Abbiamo perso la guerra del buonsenso), è altro: il «buonsenso» di un tempo era «filosofia non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»; bene, quel «buonsenso» non cè più, è andato a farsi fottere, sconfitto da un «buonsenso» che a Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie di «vero» e «falso» cui era tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia anche un po sua la responsabilità, perché «facev[a] le bucce a cardinale Ratzinger» quando quello se la pigliava con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a Kelsen abbiamo lasciato sedimentare lerrore nella coscienza collettiva. Certo, non siamo dinanzi a «chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto [e] reclama il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri che sono nellerrore»: mancano le palle. 

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martedì 8 ottobre 2019

Hanno tutti ragione?


«Tutto quello che non sopporto ha un nome»
Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione (Feltrinelli, 2010)

1. È solo alla fine di quella che concede essere stata una «fastidiosa e complicata logomachia» che Jeremy Bentham sembra porsi il problema di poter aver tediato il lettore, e allora gli chiede scusa, spiegando cosa labbia spinto a farlo. Siamo sul finale di A Fragment on Government (1776) e, dopo essersi speso per pagine e pagine nel «laborioso e ingrato» compito di dimostrare perché la dottrina di William Blackstone sia, «peggio che falsa, priva di significato», prevede il rimprovero che gli può esser mosso: «Lhai dimostrato tu stesso che non metteva conto di occuparsene: perché, dunque, perderci tanto tempo?». La risposta rivela un intento pedagogico: «Per fare qualcosa di atto a istruire, ma soprattutto a disingannare lo studioso timido e ammirato; per sollecitarlo ad avere più fiducia nelle proprie forze e meno nellinfallibilità dei grandi nomi; per aiutarlo a emancipare il suo giudizio dai ceppi dellautorità; per insegnargli a distinguere tra linguaggio altisonante e retto significato; per ammonirlo a non accontentarsi di parole...». Qui mi fermo, ma la pagina prosegue per un bel pezzo con analoghe perifrasi di quello che in sostanza è lo stesso intento che molti anni dopo lo spingerà a scrivere il suo Book of Fallacies (1824): disvelare il sofisma che sammanta di autorità.
Nellaccingermi a commentare Hanno tutti ragione? di Massimo Adinolfi (Salerno Editrice, 2019), voglio declinare un tal genere di intento, anche se fin qui anticipo che concluderò dicendo che non metteva conto di occuparsene. Di argumenta ab auctoritate, certo, il libricino trabocca, ma non cè bisogno di demistificarli, perché lautore ha la fierezza, se non di dichiararli tali, di rivelarcene la natura con un insistente ricorso alla citazione («come avrebbe detto Hegel», «Merleau-Ponty la metteva così», «direbbe Heidegger», ecc.), daltronde irrinunciabile da parte di chi nel salottino mediatico è chiamato a interpretare il «filosofo», personaggio che sembra essere diventato un must nel business dellintrattenimento.
Sia ben chiaro che luso delle virgolette per questo ruolo non è denigratorio, perché, in buona sostanza, quelli chiamati a dare unopinione sulla questione del giorno imbottendola di citazioni dotte sono al più docenti di filosofia. Ora nessuno si sognerebbe di definire «artista» un critico darte o uno che insegni Storia dellArte, e tuttavia, anche se me ne sfugge la ragione, con la filosofia non va così: «filosofo» è Diego Fusaro, perché, quando Myrta Merlino gli dà un minuto e mezzo per dire cosa pensa della chiusura domenicale dei negozi, risponde citando Aristotele, Hegel, Marx, Gentile; e «filosofo» è pure Massimo Adinolfi, perché, quando Il Foglio gli chiede cosa pensa di Ronaldo, la risposta è un Perché non possiamo non dirci Cristiano, in cui troviamo Platone, Rousseau, Voltaire e ovviamente Croce.
Perché questa figura prende vita solo adesso? A naso, direi che il «filosofo» da intrattenimento, forte dei suoi argumenta ab auctoritate, nasca per cercare di dare un contrappeso agli argumenta ad populum che sono la nota dominante di tempi in cui nel foro, a là guerre comme a là guerre, la persuasione ormai si fa strada solo grazie agli argumenta ad judicium: siamo a un Armageddon nel quale si fronteggiano i «like» e gli «ipse dixit». Compito ingrato per il «filosofo», che da filosofo (senza virgolette) nasce con la pretesa di governare la polis, ma quasi subito è costretto a ridimensionarla in quella di guidare chi la governa, per finire col doversi accontentare di ispirare il principe, prima, di dare consulenza al ministro, dopo, e di fare lopinionista, venendo alloggi. Opinionista che peraltro soffre dun grave handicap, perché la scienza di cui è chiamato ad intestarsi il titolo di esperto non è una scienza. Ma questa, mi rendo conto, è affermazione che impone un chiarimento.

Nei vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile, verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo sia preferibile a quel «falsificabile» che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla Fälschungsmöglichkeit di cui ci parla Popper).
Un vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno pretende di potersi sottrarre, né in forza dellautorità precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale consenso» di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia luso di un termine come «verità» da appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto scientificamente comprovato.
Difficile dire con quanta consapevolezza accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di chissà cosaltro nellassegnare a un dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile, universale) è intrinseco al concetto di «verità», riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a «vero» si preferisce sempre «attendibile», «esatto», «credibile», che di «vero» sono sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà di ciò che esiste in senso assoluto» (Treccani) vantata dalla «verità».
Cè chi ha saputo trovare le parole giuste per esprimere le ragioni di questa riserva, che anzi ha esteso perfino alluso di «realtà», che sta alla «verità», volendo prestar fede a chi con questi termini ha consuetudine a pranzo e a cena, come l’ente sta all’essere. Qui le riporto da unintervista apparsa su un numero de Le Scienze di qualche anno fa: «La realtà – diceva Leonard Susskind – ci rimarrà sempre incomprensibile. […] Continuiamo a inventare nuovi realismi, […] poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – concludeva – dovremmo sbarazzarci della parola “realtà”, […] trascina con sé cose che non servono a niente». Io mi permetterei di aggiungere che, «oltre alle cose che non servono a niente», ne trascina con sé altre che fanno da ostacolo, che poi è proprio lostacolo che incontra una disciplina come la filosofia, che, da un lato, ha la pretesa di dirsi «scienza» e, dallaltro, come compito si dà – appunto – la «verità»
In Hanno tutti ragione? il «filosofo» si limita a esibire con fierezza il bernoccolo che si è procurato nel tentativo di superare lostacolo, quasi che da quello abbia da sortire una Minerva, ma è in un altro suo scritto che Massimo Adinolfi prefigura lincidente come fine ultimo della filosofia: «Poniamo che la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo che rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in generale, col problema della verità [...] Resta nondimeno difficile immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola, o forse meglio di discorso». E sì, «ma chi non ha mai pensato una volta nella vita che tutta la storia della filosofia non sia che un vuoto chiacchiericcio?» (La verità come compito della filosofia – Nóema, 2/2011). Nulla che il solito vuoto chiacchiericcio a spiegarne il perché. E tuttavia la filosofia non rinuncia al titolo di «scienza della verità», anche se non ha nulla di quanto si è pocanzi detto della scienza.
Su nulla, in filosofia, è dato infatti di trovare un generale e pieno, ancorché transitorio e provvisorio, consenso, nemmeno sul significato dei termini di più comune impiego, cui ogni filosofo infatti rivendica il diritto di darne uno tutto personale (si trovino due filosofi, ad esempio, che diano la stessa definizione di «Dio»). Tanto meno è dato pretendere dai filosofi ununiformità di metodo, giacché a ciascuno è concesso costruirsene uno che possa tornargli di maggior utilità, e sulla cui affidabilità è dunque il solo a poter dire lultima parola. Con tali requisiti è comprensibile perché in filosofia tutte le contese non abbiano mai soluzione, destinate ad essere accantonate per essere periodicamente riproposte, facendo nascere il sospetto che non possano trovare una fine per la semplice ragione che non abbiano un fine, se non quello dellintrattenimento. Poi, certo, cè intrattenimento e intrattenimento, di qua la «pineale» di un Cartesio, la «monade» di un Leibniz o l«evoluzione creatrice» di un Bergson, di là il «nuovo realismo» di un Ferraris, il «turbocapitalismo» di un Fusaro o il concetto di «autorità» secondo Adinolfi, che, a differenza del «nuovo realismo» di Ferraris e del «turbocapitalismo» di Fusaro, ha fin qui fatto poca cassetta e dunque merita un trailer.


Comprensibile, coi limiti esposti prima del siparietto, perché in filosofia non sia possibile di fatto alcun progresso, trattandosi di un ambito in cui nessuna posizione è mai davvero superabile, e questo per laltrettanto semplice ragione che ogni altra posizione non ha mai (né può avere) strumenti validi per dare inconfutabile prova di esserle superiore, perché, al pari della posizione che intendesse superare, è per sua stessa natura indisponibile a un vaglio sulla base di criteri che le sono estranei. Ciò che vale per i campi in cui è la scienza ad essere chiamata per indagare, infatti, non vale per quelli in cui è chiamata la filosofia. Ciò trova ragione nella sostanziale differenza delloggetto dindagine, quandanche sia nominalmente identico: nel primo caso, infatti, loggetto preesiste allindagine come problema, anche se poi è la stessa indagine a ridefinirlo nella procedura che gli dà ipotesi di soluzione; nel secondo caso, invece, loggetto nasce nel momento stesso in cui si inizia ad indagare, non un istante prima, e per la semplice ragione che non corrisponde mai del tutto a ciò che nominalmente lo richiama dalle indagini che su di esso sono state condotte in precedenza.
Si prenda, per esempio, la «materia», che sembrerebbe cosa eminentemente «fisica», ma alla quale la filosofia – almeno una certa filosofia – riesce comunque ad ascrivere una dimensione «metafisica», oppure la «mente», che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella spirale che sovrappone glossa a glossa comè coi gusci di una matrioska, sicché con procedura inversa, per sottrazione di riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro ci ritrovi sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in virtù dellautorità. Quale? Quella che incarna la «verità», o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo», che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta attenzione.  

[segue]

mercoledì 2 ottobre 2019

Coda


«Non c’è niente di meglio, quando si vuol discutere con profitto, che mettersi preliminarmente d’accordo sul significato da dare al termine che designa l’oggetto della discussione», e in quel caso si trattava di un concetto quanto mai sfuggente, per molti versi perfino ambiguo, quello di «autorità» (Dovè finito il principio di autoritàMalvino, 8.1.2017). Sul «totalitarismo» ho commesso lerrore di ritenerlo superfluo, pensando che in discussione fosse un concetto chiaro, quello relativo al sistema politico – cito il Treccani«in cui tutti i poteri sono concentrati in un partito unico, nel suo capo o in un ristretto gruppo dirigente, che tende a dominare l’intera società grazie al controllo centralizzato dell’economia, della politica, della cultura, e alla repressione poliziesca», che poi è definizione appena un po più articolata di quel «dominio assoluto nel campo politico e amministrativo» che Giovanni Amendola ascrisse, nel 1923, al quid che, coniando il termine, chiamò «totalitario».
Si badi bene: la definizione non lascia adito ad alcun distinguo riguardo alle finalità di questo o quel sistema totalitario. In altri termini, non è discussione se la concentrazione del potere e il controllo centralizzato di ogni aspetto della vita sociale abbiano per orizzonte ultimo l’infernale mondo in cui si sia affermata la supremazia della razza ariana o il beato paradiso in terra dove ognuno dà secondo le proprie possibilità e a ognuno è dato secondo i propri bisogni: in oggetto è lo strumento che si dichiara necessario a perseguire il fine, e che nel totalitarismo – qui do ancora voce al Treccani – sta nella «preminenza del partito unico sullo Stato», nel «radicale antipluralismo politico e sociale», nell’«ideologia della “rivoluzione permanente” e del “nemico oggettivo” per tenere alta la mobilitazione del consenso di massa», nell’«impiego massiccio delle tecniche di comunicazione come strumenti di propaganda», e nell’«uso sistematico del terrore come strumento di governo».
E allora, giacché tali elementi sono sempre stati la regola in tutti i suoi precipitati storici, che senso ha farsi venire le paturnie a sentir dire che «il comunismo è un totalitarismo»? Credo di avere la risposta: tra i totalitarismi di cui abbiamo esperienza ce n’è uno – quello comunista – che ad alcuni – comunisti, ma non solo – piace più degli altri, e per le promesse che fa, promesse così belle che varrebbe la pena di chiudere un occhio su quanto è dato come indispensabile perché esse siano mantenute, anche se poi non sono mai state mantenute, neanche quando l’indispensabile si è ottenuto con la forza.
Indispensabile è quel «periodo politico transitorio, il cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato» (Critica del programma di Gotha), perché occorre sia chiaro che «la lotta di classe conduce necessariamente alla dittatura del proletariato» (Lettera a Joseph Weydemeyer): «non può essere altro che», «necessariamente». E quanto dura, questa dittatura? Chi può dire, di fatto ogni precipitato storico del comunismo non è mai riuscito a superare questa fase di transizione. A rigor di logica, se non la prevedeva, nemmeno era comunismo.

lunedì 23 settembre 2019

[...]


L’aequiparatio trova ragione in ciò che è pianamente (aeque) riconoscibile come uguale (par) in A e in B, venendo a perderla quando se ne prendano in considerazione le differenze, senza le quali, d’altronde, non ci sarebbe motivo di chiamare l’uno A e l’altro B. Ne consegue che, nel contestare la legittimità di un’aequiparatio, in discussione dovrebbe essere unicamente ciò che si afferma essere comune ad A e a B: quel che li differenzia non potrà essere addotto come argomento a mettere in discussione quanto si afferma abbiano in comune, e il farlo rivelerà, d’un lato, l’incapacità di produrre un argomento valido a contestare quel che li equipara e, dall’altro, un interesse a eludere, fino a negare, ciò che aeque è par in A e in B.
Precipitando dal cielo della retorica nella polvere sollevata dalla risoluzione del parlamento europeo che ha equiparato nazismo e comunismo, che interesse rivelano le obiezioni che richiamano le differenze tra A e B a fronte della piana evidenza che in entrambi i casi siamo dinanzi a un totalitarismo? Che senso ha il contestare l’equiparazione che si basa unicamente su questo tratto comune adducendo ad argomento ciò che li differenzia sul piano ideologico e su quello storico? Quale interesse cela l’opporre alla piana evidenza che ovunque il comunismo abbia preso il potere ha mostrato il suo tratto totalitario il fatto che sul piano ideologico dichiari intenzioni notevolmente migliori di quelle dichiarate dal nazismo e che su piano storico abbia avuto il merito di contribuire a sconfiggerlo?

giovedì 19 settembre 2019

Zotici


Neanche un euro di debito verso chicchessia, lo zotico, ma una fetta di debito pubblico pesa anche su di lui. Però è zotico, poverino, e bisogna sudare le proverbiali sette camicie per spiegargli la cosa. Alla settima sta per afferrarla, ma unultima resistenza lo frena, e chiede: «E quanto mi costerebbe, sta fetta?». «38.400 euro». Lì, anche se ha capito che il debito pubblico è quello che lo Stato ha cumulato verso quanti gli hanno concesso un credito comprando obbligazioni o titoli a far cassa per coprire fabbisogno, deficit e interessi, lo zotico fa finta di non aver capito. In mancanza di unottava camicia, ci si rassegna: «Ma nessuno te li chiede, sta tranquillo. Si dilaziona, si dilaziona, si dilaziona allinfinito». Anche se il lemma gli manca, lì «dilazionare» lo calma: limportante è che nessuno sazzardi a chiedergli quei 38.400 euro.
Voi che zotici non siete, o almeno non vi reputate tali, evitate di farvi beffe del poveretto, perché non siete troppo diversi per ciò che attiene al debito storico, che sta a quello personale, come il debito pubblico sta a quello privato: non centra niente, ma centra lo stesso, e nemmeno a sudare settantasette camicie si riesce a farvelo entrare in testa. Voglio dire? Voglio dire che a vedere Salvini allopposizione, indubbiamente, sì, si dilaziona, si dilaziona, e si può pure far finta di poter dilazionare allinfinito. Colti e sensibili, so bene, ma zotici lo stesso, perché, come il debito pubblico è cresciuto di malgoverno in malgoverno, così Salvini è Salvini per tutto ciò che è venuto prima, e che era un continuo dilazionare, un continuo tranquillizzarvi facendovi credere che non avreste pagato mai.
Anche stavolta vi piace illudervi che si possa evitare di pagare il debito storico, che pesa su tutti, anche su chi non ha fatto nulla per accrescerlo, anche su chi ha cercato, nel proprio piccolo, di frenarne la crescita. Così, per riprendere l’allegoria che vi ha tanto appassionato nei mesi scorsi, vi illudete che si possa vedere cadere il fascismo senza aver bevuto neppure una goccia di olio di ricino, senza aver preso neanche una manganellata sulla zucca. Perché poi, parliamoci chiaro, che vi hanno fatto, questi quindici mesi di fascismo, tranne che impensierirvi un po’, farvi incazzare, produrvi in esorcismi e scongiuri? Dovete pagare Depretis, Crispi, Giolitti, il biennio rosso e pensate che tutto questo vi sia stato rimesso, zotici? Si dilaziona, certo, si continua a dilazionare, ma il costo degli interessi sul debito storico ricade comunque su tutti. Le guerre che finiscono senza neppure essere cominciate non fanno morti, forse, ma non danno pace, di sicuro.

lunedì 16 settembre 2019

Matteo Salvini - «Bacioni, amici!» - Einaudi 2067





«... ci è permesso pensare
che il suo sacrificio fu perfetto...»
Jorge Luis Borges, Finzioni

«... la verità viene sempre a palla...»
Panella-Battisti, Equivoci amici


Con la pubblicazione dei diari di Matteo Salvini (Milano, 1973 – Rio de Janeiro, 2041) abbiamo finalmente spiegazione delle ragioni che lo spinsero alla decisione cui gli storici hanno fin qui fatto cenno con la locuzione presa a prestito dal titolo della collettanea di autorevoli firme che Il Mulino diede alle stampe a due anni di distanza dai fatti (AA.VV., La grande puttanata, 2021), ed è spiegazione – occorre dire – che per mole e qualità dei documenti raccolti in appendice non consente smentite, rivelando, dietro la maschera grottesca che egli offrì ai suoi detrattori, il volto di un fedele servitore dello Stato, tanto più nobile perché capace di un sacrificio di cui decise di non avere riconoscimento in vita, viste le disposizioni relative alla pubblicazione di queste pagine solo venticinque anni dopo la sua morte. È così che solo oggi, a quasi mezzo secolo da quel lontano agosto del 2019, sappiamo come realmente siano andate le cose. Tanto più preziosa, in tal senso, l’ampia prefazione a questi diari, a cura di Cassiodoro Vicinetti, perché alla ricostruzione dello scenario politico in cui si svolsero i fatti e alla dettagliata cronistoria degli accadimenti, opportunamente richiamati al lettore, accosta le congetture che gli osservatori del tempo imbastirono a motivare quello che da tutti fu considerato un suicidio politico (doviziosa la messe di virgolettati, frutto evidente di una meticolosa ricerca in emeroteca).
Sul crollo della Terza Repubblica nella sanguinosa guerra civile che funestò lItalia tra l’autunno del 2020 e la primavera del 2022 (le stime ufficiali parlano di 6.036 morti) sono stati scritti tanti volumi da poter riempire cinque o sei scaffali, ma, com’era prevedibile, l’attenzione s’è appuntata soprattutto ai momenti salienti di quella che Gianfranco Pasquino definì «la strage dei millennials», sicché i prodromi della grande crisi, che prese i passi proprio dalla «grande puttanata» di Matteo Salvini, sono sempre stati troppo trascurati, sia dalla pubblicistica, sia dalla storiografia. Così la sua figura, gravata dal pregiudizio che finì per pesare sulla sua persona fin tra le fila della Lega, di cui perse la guida nel febbraio del 2020 in seguito alla cosiddetta «congiura dei giorgettiani», è a lungo restata nell’ombra, relegata all’emblematico ruolo dell’«ennesimo fesso che inciampa nella sua ὕβϱις», come sentenziò Massimo Cacciari (Corriere della Sera, 8 gennaio 2020). Quanto oggi emerge dalle pagine di questi diari impone una drastica revisione del giudizio cui tutti fino a ieri ci eravamo uniformati: il Matteo Salvini pubblico era un mero attore in scena, la parte che recitava era in funzione di un disegno che almeno fino al dicembre del 2019 ebbe la compiuta realizzazione prevista, e in favore ultimo delle sorti del Paese, espressione dunque di un altissimo servizio. Se le cose, poi, dun tratto, fuor dogni previsione, presero la piega storta, non glielo si può imputare: oltre a chiarire perché la sua non fu una «grande puttanata», ma una mossa progettata ben diciassette mesi prima, e in solido col Quirinale, il volume che oggi esce per i tipi della Einaudi nella collana dei Millenni ci dà modo di assolverlo in pieno, restituendogli lonore che tanto a lungo gli fu negato. Ma forse sarà il caso di lasciar voce a qualche passo di questi diari.
«4 maggio 2018. A colloquio da Sergio. Piena concordanza di vedute sulla situazione: il risultato delle elezioni mette il Paese in pericolo. O si ritorna alle urne, e allora avremo un M5S al 40%, oppure mettiamo in piedi un governo che lo normalizzi. Do piena disponibilità. Rimandiamo a lunedì per i dettagli».
«7 maggio 2018. Rivedo Sergio. Stavolta è solo per un pelo che riusciamo ad evitare di essere beccati a colloquio, sarà il caso di organizzare in altro modo i contatti. Mi espone i problemi: situazione economica insostenibile, clima sociale incandescente, lEuropa che non aspetta altro si faccia un passo falso con la finanziaria per mandarci la troika, la Libia è in ebollizione e il tappo messo da Minniti minaccia di saltare. Insomma, siamo nella merda. Concordo. Dice che in gioco è tutta la baracca, dobbiamo fare squadra, a ciascuno la sua parte. Concordo. Mi sembra indugiare nellespormi la parte che ritiene spetti a me. Gli risparmio limbarazzo: mi dico disposto a interpretare il nuovo Mussolini, faremo cagare addosso quelli di Bruxelles, poi, dopo le Europee, ci inventeremo una Liberazione e andremo a riscuotere il premio per aver salvato il continente dalla deriva sovranista, flessibilità sul deficit, indulgenza sul debito, revisione del Trattato di Dublino. Mi sembra assai positivamente sorpreso del fatto che avevo intuito dove volesse andare a parare. Dice che mi invierà via email un protocollo dintesa per punti, dovrò rispedirglielo al più presto con le osservazioni del caso. Cerco di stemperare la tensione buttando lì per scherzo un “mi raccomando, su carta intestata del Quirinale, voglio farmi bello coi posteri”. Non coglie lironia e mi risponde: Come preferisci”. Capisco che la merda in cui siamo è proprio merda, e rabbrividisco».
«25 maggio 2018. Tutto è definito al dettaglio, ho pronta la scaletta dei prossimi mesi. Sergio mi ha suggerito di non risparmiarmi, di andarci giù pesante: sarà opportuno che io calamiti il peggio del peggio che si muove nel Paese, per poterlo poi neutralizzare al meglio con la mia caduta”, incanalandolo nella speranza di una rivincita, poi, si sa, se ne perdono di beduini nelle lunghe marce nel deserto. Unaltra preoccupazione che sembra stargli molto a cuore è quella di dare alla Resistenza la sensazione di aver avuto peso sugli avvenimenti programmati, ma capisco che allo scopo ha già il sostegno di altri interlocutori. Gli faccio presente che il rischio di qualche incidente è ineliminabile perché lavoriamo sulla lunghezza dei cinque anni. Mi dice che va affrontato, non abbiamo altra scelta. Anche stavolta cerco di alleggerire la tensione con una battuta: Nella migliore delle ipotesi, ci caverò la figura del fesso; nella peggiore, tu sarai rieletto, tanto ormai con Napolitano si è rotto il tabù”. Mi fissa per un istante come offeso e tentato a dirmi che non se ne fa più nulla, poi mi cita il Borges delle Tre versioni di Giuda. Lhai letto?”, mi chiede. Non lho letto. “E leggilo”, mi fa. Gli prometto che lo farò».
«26 maggio 2018. Ma si può essere così cretini? Che mi vanno a tirar fuori, i grillini? Vogliono l’impeachment. Ma puttana di quella Madonna, dico io, è il caso di mandare tutto in vacca con queste girate di culo? Chiamo Sergio per sapere come muoverci al riguardo. “Niente – mi fa – sono petardi di scavezzacollo. Tu, piuttosto, sorveglia gli incisi, ché tra qualche mese dovrai affidarti al cuore immacolato di Maria-sempre-vergine, altro che puttana”. Non posso che ammirare la flemma. Cazzo, però, ’sti palermitani, che nervi d’acciaio!».
«1° giugno 2018. Si parte. Oggi al giuramento quasi mi scappava un occhiolino a Sergio. Ora comincia la parte più difficile: mese dopo mese accentuare i toni, portare a galla il sedimento profondo, concentrarlo in me... Credo di aver capito cosa intendesse Sergio nel suggerirmi quel racconto di Borges. Sì, vabbè, però mettiamoci un “si parva licet”».
«15 novembre 2018. Ho chiesto un incontro a Sergio per valutare il pericolo posto dai sondaggi sulla tenuta del governo: e se venisse in mente ai grillini di stracciare il contratto per mettere un freno alla perdita di consenso in favore della Lega? “Sta’ tranquillo, non lo faranno mai: delle elezioni anticipate hanno una fifa blù e poi a Fico ho fatto intendere che nel caso tu aprissi alla crisi, soprattutto se le Europee dovessero confermare che hai raddoppiato i voti del 4 marzo, sarebbe la maggioranza che loro hanno in Parlamento a fare la differenza: qualsiasi soluzione avrebbe il mio appoggio pur di sventare il pericolo che rappresenti”».
Tanto basti, lascio il resto alla scoperta del lettore per non guastargli la sorpresa che gli riveleranno le pagine scritte all’indomani delle Europee, quelle dell’agosto e del settembre a seguire e, soprattutto, quelle che coprono l’arco di tempo che va dallo scoppio della guerra civile alla sua precipitosa fuga in Brasile.
Sappiamo come andarono le cose: caduta del governo Conte I; accordo tra Pd e M5S per il Conte II, dopo il via libera di Renzi e Grillo; uscita dal Pd di Renzi nel settembre del 2019; caduta del governo dopo due mesi per il venir meno della fiducia dei parlamentari renziani in occasione della finanziaria; Mattarella costretto a sciogliere le Camere e a indire le elezioni per il 19 aprile 2020; «congiura dei giorgettiani» nel febbraio 2020; elezioni politiche, Lega al 41%, rapidissimo giro di consultazioni, Mattarella dà l’incarico a Giorgetti per la formazione del nuovo governo annunciando le sue dimissioni all’indomani del giuramento; torbidi di piazza il 25 aprile, con 7 morti a Milano, 11 a Roma, altrettanti a Firenze e ben 28 a Bologna. Il resto lo sapete.


venerdì 13 settembre 2019

Calcolo erroneo, deficit culturale, tara antropologica





Comprendo le ragioni di chi ritiene costituzionalmente ineccepibili i passaggi che hanno portato al varo del governo Conte: siamo una democrazia parlamentare, è in Parlamento che va cercata una maggioranza di governo, alle urne si ritorna solo se non ci sono i numeri per dar vita ad un esecutivo; e poi è al Quirinale che spetta scegliere a chi dare l’incarico di formare un governo, prendendo atto dei risultati elettorali, certo, e raccogliendo le indicazioni offertegli dai partiti, certo, ma, a dispetto del malinteso che il maggioritario ha insinuato in tanti, Palazzo Chigi non va di diritto al leader del partito che ha preso il maggior numero di voti perché sulla scheda elettorale si candidava a «Premier», che peraltro è termine assai improprio in luogo di «Presidente del Consiglio»; ergo, il governo Conte ha piena legittimità costituzionale.
Quale governo Conte, il primo o il secondo? Entrambi, perciò non lo specificavo. Anche quello sostenuto da Lega e M5S aveva legittimità costituzionale, e non ha senso dire – ancor più insinuare – che fosse meno piena di quella che ha il governo sostenuto da Pd e M5S per il fatto che stavolta, a sostenere l’esecutivo, sono i due partiti che sono arrivati al primo e al secondo posto per numero di voti avuti il 4 marzo 2018, mentre la volta scorsa il governo nasceva con l’appoggio dei partiti arrivati al primo e al terzo: quando c’è maggioranza parlamentare, quali che siano le forze a comporla, tale legittimità è sempre piena. Né essa può essere messa in discussione quando due governi di diverso o addirittura opposto segno politico si danno lo stesso presidente del consiglio: a renderla indiscutibile è il fatto che in entrambi i casi abbia una maggioranza parlamentare a conferirgli il mandato. Altro discorso a dare ascolto alle ragioni di chi ritiene che il governo Conte tradisca il voto uscito dalla urne il 4 marzo 2018.
Quale governo Conte, il primo o il secondo? Entrambi, perché l’accusa è stata mossa sia al governo sostenuto da Lega e M5S (la Lega si era presentata come parte di una coalizione, che ha abbandonato subito dopo il voto; il M5S si era dichiarato indisponibile a qualsiasi alleanza, con chicchessia), sia a quello sostenuto da Pd e M5S («mai col Pd», diceva il M5S; «mai col M5S», diceva il Pd).
Vogliamo considerarlo un torto consumato ai danni degli elettori? Nel caso, dobbiamo considerare più grave quello consumatosi nel giugno 2018 o quello consumatosi nel settembre 2019? Dipende: più grave il primo, per il Pd; più grave il secondo, per la Lega; gravi entrambi, a pari demerito, per FI e FdI. In entrambi i casi, tuttavia, l’operazione era costituzionalmente legittima, perché i parlamentari che votano la fiducia ad un governo appartengono a partiti che durante la campagna elettorale fanno promesse, pronunciano impegni, illustrano programmi, ma da eletti non hanno vincolo di mandato e singolarmente o in gruppo, anche in un gruppo coincidente a quello del partito nelle cui liste erano candidati, rappresentano la nazione in toto, non parte di essa, e dunque decidono «in nome di», non «per conto di».

Il mio lettore è un costituzionalista nato, chiedo scusa se fin qui l’ho tediato con rilievi che gli saranno apparsi tanto scontati da risultare banali. Credo che però valesse la pena di richiamarne la ratio per mostrare quanto essa possa risultare astrusa a una larga parte del paese, per un dato che, pur incontestabile, è difficilmente accettabile nelle sue più ovvie implicazioni, a cominciare dal dato che gli è speculare. Il dato: risultati elettorali alla mano, dal 1948 ad oggi, la sinistra non è mai stata maggioritaria in Italia e, anche quando ha raccolto il massimo consenso, tra le sue varie componenti si sono sempre palesate profonde divisioni e tali aspri contrasti da non consentirle mai il governo del paese. Speculare a questo dato: in questo paese la destra esiste, e nelle sue diverse, ambigue, contraddittorie declinazioni è maggioranza, e tuttavia la sinistra, pur nelle sue diverse, ambigue, contraddittorie declinazioni, ha sempre preferito considerarla un problema, un’anomalia, l’espressione di una volontà popolare che era lecito, anzi doveroso (del dovere che tiene a bada scostumatezza e sconvenienza), ritenere frutto di calcolo erroneo, deficit culturale, tara antropologica: sfondando forse una porta aperta, credo si possa dire che la sinistra non è mai stata capace di riconoscere piena legittimità politica alla maggioranza (relativa o assoluta) del paese.
Col non riuscire mai a raccogliere la maggioranza dei consensi era del tutto naturale, dunque, che per lunghi decenni, quelli della cosiddetta Prima Repubblica, alla sinistra spettasse stare all’opposizione, ma covando una comprensibile frustrazione. Sarà stato per una connaturata refrattarietà della maggioranza degli italiani ai suoi ideali e ai suoi programmi? Sarà stato perché la divisione del mondo in blocchi ne faceva l’inintroiettabile fattore K, pena un golpe alla cilena? Lasciamo perdere, restiamo al dato di fatto: la sinistra non è mai stata maggioritaria in Italia, e tuttavia è stata in grado di far credere lo fosse grazie al reclutamento di quella «aristocrazia operaia» (scrittori, giornalisti, artisti, ecc.) incaricata di conferirle «egemonia culturale», progetto cui Togliatti diede vita all’indomani della spartizione del mondo che a Yalta destinò l’Italia al blocco occidentale: chiusa la via a una conquista del potere con le cattive maniere, rimanevano solo quelle buone. Che ebbero egregi risultati, occorre dire, al punto da dettare regole inflessibili sul modo di leggere la storia e, più in generale, in grado di flettere qualsiasi intelligenza che aspirasse ad aver voce nel dibattito pubblico ad un galateo che non consentiva sgarri: chi metteva in discussione le indiscutibili certezze della sinistra poteva accomodarsi nelle fogne. Chi osasse metterle in discussione, d’altra parte, almeno di sponda era fascista, perché il fascismo altro non era che strumento del capitale, sicché in ultima analisi fascista era chiunque si piegasse alle logiche del capitalismo, anche se schermendosi col riformismo. Pendant: «uccidere un fascista non è reato», ma questo come ultima opzione, potendosi accontentare anche del fatto che il fascista (rectius: chiunque mettesse in discussione ideali e programmi della sinistra) non s’azzardasse a dar segno di vita, stesse zitto, risultasse invisibile. Durò a lungo, e diede buon frutto, ma costò una dispercezione del reale destinata a infliggere dolorose frustrazioni: com’è che certe idee, certi valori – le nostre idee, i nostri valori – trionfano pure sulle quattro mattonelle tra cesso e bidet, e poi anche stavolta la Dc si è pigliato il 32%, i suoi cespugli un buon 8%, e un altro 8% se lo è pigliato il Msi, mentre il Psi – che sinistra non è, via – la volta scorsa se n’è pigliato altrettanto e stavolta anche di più? In altri termini: com’è che tutto il nostro sforzo pedagogico, il nostro amabile paternalismo, non impediscono che tanta parte del paese resti preda del calcolo erroneo, infognata nel deficit culturale, segnata dalla tara antropologica? Straziante eco del povero Gennaro Serra di Cassano: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora li vedo festeggiare la mia morte».

Tutto questo – mi si dirà – fino alla caduta del Muro di Berlino, poi – mi si dirà – la sinistra è riuscita a vincere, sennò che altro sarebbero i governi Prodi? E Renzi? E Gentiloni? Sarebbero centro-sinistra – dico io, lasciando a voi decidere sulla natura del trattino – e, guarda caso, portando uomini della sinistra a capo di qualche dicastero (con D’Alema perfino alla Presidenza del Consiglio) solo grazie all’essenziale apporto di quel centro che, col proporzionale della Prima Repubblica, era stato il baricentro della politica italiana e, col maggioritario della Seconda, fu lacerato in due, metà di qua, metà di là, in attesa di ricomporsi alla prima occasione in cui destra e sinistra mostrassero, di qua o di là, di qua e di là, tratti di cedimento rispetto alle loro tradizioni culturali o più prosaicamente rispetto al loro consenso. Ma intanto il cedimento su quale lato erodeva più prestigio culturale e più consenso? Con la «morte delle ideologie» si descriveva in realtà un fenomeno che ne vedeva morire solo una, quella che aveva nutrito almeno due o tre generazioni di politici di sinistra; quelle di destra (perché a destra, da sempre, ce n’è più d’una) indugiavano nelle fogne, dando da credere che di lì non si sarebbero mai mosse, se ancora poi erano vive. Bastava appena un po’ di proporzionale, la comparsa sulla scena politica di un intruso che vantava di «non essere né di destra né di sinistra» e che così maturava l’alibi di potersi alleare indifferentemente con l’una e con l’altra, e il gioco era fatto: la logica della democrazia parlamentare, a lungo negletta, tornava a esigere rispetto, e a ottenerlo, insinuando il sospetto che le regole costituzionali perpetuassero la conventio ad escludendum che le aveva ispirate per impedire che maggioranza del paese potesse esprimere un governo «fascista», cioè perfettamente impermeabile a ideali e programmi di sinistra.
Eravamo così al percepito «furto di sovranità» che oggi è agitato dalla destra a fini propagandistici e che la sinistra autorizza a percepire come tale per le ragioni che esprime in favore di unalleanza col M5S, fino a un mese fa dichiarata inammissibile: occorre dilazionare il più possibile nuove elezioni, che al momento è presumibile darebbero il governo del paese alla Lega, è necessario che il prossimo inquilino del Quirinale non sia espresso da un Parlamento in cui la maggioranza sia di destra.
Sante preoccupazioni, ma giacché non cè articolo della Costituzione che esplicitamente vieti lelezione di un Presidente della Repubblica che non sia di centro o di sinistra, né ce n’è uno che esplicitamente vieti a Salvini di diventare Presidente del Consiglio, questo preoccuparsi assume forma dell’imbroglio, del tentativo di conservare un primato – culturale in senso lato, prima che politico in senso stretto – ampiamente perso nel paese, e sul paese.
Voilà, le fallaci «ragioni del nemico» acquistano un incredibile potenziale di credibilità. Con quanto di pericoloso ne trascende. Perché ai lazzari che sghignazzano al cadere della testa di Gennaro Serra di Cassano è facile far credere che i giacobini siano al soldo della Francia e che il Borbone, prima che re, è padre.

domenica 8 settembre 2019

«Quello che non ti perdonerò»


Vorrei anch’io dire qualcosa sulla lettera aperta che Fabio Sanfilippo ha indirizzato a Matteo Salvini dalla sua pagina Facebook, ma astenendomi dal montare con la tavola da surf sull’onda di indignazione che ha sollevato, lasciando il moralismo ai professionisti della disciplina sportiva, per concentrarmi invece su cosa può essere venuto meno nel trattenersi dal lasciarsi andare a una interemerata tanto infelice, sulla quale era facilmente prevedibile che sarebbe piovuto il biasimo di tutti.
Non mi si fraintenda, anch’io considero odioso tirare in ballo una bambina di sei anni, anch’io ritengo poco decoroso da parte di un dipendente Rai il cedimento a toni tanto livorosi, e poi sarà una fisima, ma credo che il termine nemico sia sempre da evitare quando di mezzo c’è la politica, perché autorizza l’avversario a dare il peggio di se stesso, senza con ciò far guadagnare su di lui alcun vantaggio. Se non indugio su questi punti, però, non è nemmeno perché ritengo che “la «notizia» del giornalista Rai che invita Salvini al suicidio è al massimo da trafiletto in basso a pagina 23”, come scrive Massimo Mantellini: io credo che nello sbocco di bile di Fabio Sanfilippo la «notizia» ci sia, e meriti rilievo, perché emblematica dell’errore commesso dai detrattori di Matteo Salvini, prima nel mostrificarlo, e ora nel ritenerlo un uomo finito.
In entrambi i casi, l’errore sta nell’averlo ridotto e nel continuare a ridurlo a un caso personale, inscrivendo il consenso montante di ieri e la battuta d’arresto di oggi nella traiettoria di una parabola biografica, mentre invece ciò che ha fin qui rappresentato, e che senza di lui avrebbe solo da attendere un altro interprete, è questione sociale, culturale, politica: Matteo Salvini non è l’attore, ma è l’agito di ciò che è sempre stato maggioritario in Italia, a dispetto e a disperazione delle anime buone e belle, tra le quali, a scanso di ogni equivoco, m’annovero; Matteo Salvini è stata solo l’occasione, peraltro solo incidentale, per rendere vana la riprovazione morale che costringeva al mugugno privato quello che oggi non ha più ritegno, e anzi dà fiera esibizione di sé; col revival della logora formula Dio-Patria-Famiglia, Matteo Salvini si offerto come parafulmine degli strali che dagli anni Sessanta in poi hanno fulminato i cattivi pensieri che non hanno mai smesso di alimentare la sotterranea rete interpersonale di questo paese col pregiudizio e la superstizione, il cinismo e l’opportunismo, lo stato di eccezione che si fa legge sospendendo il diritto e la doppia morale che fa da crinale tra amico e nemico.
Fenomeni del genere – Matteo Salvini, dico – non nascono per caso, trovano condizioni predisponenti e precursori per venire alla luce dopo più o meno lunga incubazione, e soprattutto rispondono a bisogni diffusi, ancorché inespressi. Ecco perché, come ho già scritto su queste pagine, vanno capiti, studiati, compresi per i bisogni che rappresentano e gli interessi di cui si fanno latori, piuttosto che limitarsi a condannarli. E una traccia l’ho data: sfogliate le annate de Il Foglio tra il 2004 e il 2012, troverete l’evocazione di un Matteo Salvini, che però non ci si aspettava tanto truce, e infatti il feroce antisalvinismo che oggi sfoggia il giornale fondato da Giuliano Ferrara può ben essere letto come rimozione dell’evocazione.
Ma torniamo alla lettera aperta di Fabio Sanfilippo, che a mio modesto avviso fornisce un’altra traccia, fin qui ignorata da tutti, che dà ragione della sterile rabbia che ha nutrito e nutre l’antisalvinismo militante e, insieme, della sconcertante idiozia del considerare finito un uomo cui sondaggi, dopo tutto e nonostante tutto, continuano ad accreditare il 33% dei consensi: parlo del passaggio in cui si legge «quello che non ti perdonerò è di aver plagiato la mente di due miei nipoti», che rivela tutto l’orrore del vedere contaminata dagli argomenti di Matteo Salvini la sfera familiare, quella che si presumeva ne fosse protetta da bisogni e interessi opposti.
«Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me», diceva Giorgio Gaber (in realtà la frase fu presa in prestito da Giampiero Alloisio): qui siamo a un passo dal «Salvini che è in me», ed è perciò che possiamo essere indulgenti col povero Fabio Sanfilippo, limitandoci ad imputargli l’incapacità di accostarsi alle «ragioni del nemico», ritraendosene col solo utile, tutto fortuito, che «con i miei figli non ci sei riuscito, cazzo». Quello del caporedattore di Rai Radio1 non è il vile maramaldeggiare su un vinto, ma l’inconscio presagire che le «ragioni del nemico» sono ancora vive.

lunedì 2 settembre 2019

L’arte del possibile


Apparentemente è singolare che potere abbia due accezioni dai significati tanto distanti. Dun lato, infatti, il verbo esprime forza, dominio, efficacia, dunque piena, attuale e attiva padronanza degli effetti di una volontà, che nella rappresentazione data dal suo participio presente fa del soggetto un potente. Dallaltro, invece, il verbo esprime eventualità, probabilità, opportunità, con evidente aleatorietà del controllo che la volontà del soggetto è in grado di esercitare su ciò che tutt’al più è possibileSolo apparente, però, questa distanza, perché il possibile non dà coincidenza di volere e potere nello stesso soggetto, che invece si ha nel potente, e questo è reso emblematico dalluso che potere ha in un ambito come quello politico. Se dun lato, infatti, sappiamo che esiste un potere politico legittimato al governo della cosa pubblica, dallaltro, quando questa legittimità è in costruzione, ci sentiamo ripetere che «la politica è larte del possibile»: arte, si badi bene, che è mestiere, tecnica, invenzione, ma anche destrezza, artificio, stratagemma. È attraverso questarte che il possibile si fa potere, né può farne a meno per conservarsi tale, se è vero che il potente ha da saper essere – per dirla con Machiavelli – leone e volpe, e cioè saper far uso di forza e di astuzia. Per ciò che attiene alla forza, il Principe sè dovuto adeguare ai tempi: è stato costretto a cercarne legittimità alluso nel mandato, per di più accontentandosi di limitarne il monopolio allastratta possibilità dellimpiego, peraltro vincolato alla necessità di darne una giustificazione moralmente obbligata. Ma, per ciò che attiene alla astuzia, cosa poteva cambiare? Qui nessuna giustificazione poteva dare legittimità alla simulazione e al tranello, alla menzogna e al venire meno alla parola data, che giocoforza hanno continuato a essere impiegati, privi di una copertura morale. Daltronde – per dirla con Croce – onestà in politica è altra cosa che onestà comunemente intesa: se sha da fare il possibile per il potere, non si pongano ostacoli allarte, si facciano lavorare in pace gli artisti.
Al netto dellironia, questi sarebbero i fondamentali. Che evidentemente mancano al pur buon Francesco Costa, che si duole del «livello di cinismo» toccato dai protagonisti sulla scena politica italiana, tutti, senza eccezioni: «Oggi tutti s[o]no pronti a fare qualsiasi cosa, ma davvero qualsiasi cosa, pur di vincere o pur di non perdere, consapevoli che in una guerra tra bande non si può arretrare e che gli ultras di ogni fazione sono sordi a qualsiasi ragionamento. Siamo entrati nell’era in cui tutto è possibile, ma tutto-tutto» (*). Coi fondamentali a disposizione poteva risparmiarsi la geremiade: è sempre stato così, di più – oggi – cè solo che tutto è molto più accelerato, e dunque cinismo e opportunismo non riescono a trovare la copertura che in passato era data loro dalla lentezza dei passaggi; in più, tutto è molto più trasparente perché è venuto meno il momento dellintermediazione che largomento frapponeva tra movente e agito. In sostanza, non sono venuti meno onore e coerenza: è venuto meno il tempo necessario a surrogarli in un discorso pubblico sufficientemente credibile. Per esempio, passano ben due anni tra la solenne sottoscrizione del cosiddetto «patto della staffetta» e il venir meno al suo rispetto da parte di Craxi, e in quel mentre cè tempo perché possa farsi argomento il pretesto della «continuità», e questo consente al segretario del Psi di stornare in modo assai efficace il giudizio morale dal suo rifiuto di lasciare a De Mita, come pattuito, la Presidenza del Consiglio: veniva meno alla parola data, ma aveva avuto modo di costruire un argomento tra movente e agito. Quanto tempo passa, invece, tra l#enricostaisereno e il passaggio della campanella da Letta a Renzi?