mercoledì 15 aprile 2020

Primato della ricerca sulla clinica


Nella storia della medicina è capitato spesso che un clinico sia arrivato a trovare la soluzione di un problema prima che ci arrivasse un ricercatore.
Il caso più emblematico è quello di un problema come le infezioni: un ricercatore (Pasteur) riesce a scoprire che esistono microrganismi in grado di causare infezioni solo pochi mesi prima che muoia il clinico (Semmelweis) che ne ha intuito l’esistenza diciotto anni prima, mettendola in relazione alle numerose morti da sepsi puerperale che si avevano nel reparto di ostetricia dove lavorava.
Non solo: deriso e osteggiato dal mondo accademico dellepoca, prima, e licenziato dal suo primario, dopo, muore in manicomio una dozzina danni prima che nei cadaveri venga documentata la presenza di batteri in grado di causare una sepsi puerperale (aveva sostenuto che ne era responsabile qualcosa che passava dalle mani degli ostetrici, che avevano effettuato autopsie, alle gravide, che poi aiutavano a partorire) e una ventina danni prima che venga riconosciuta la proprietà battericida della sostanza (il cloruro di calce) con la quale sosteneva fosse opportuno lavarsi le mani passando dalla sala autoptica alla sala parto, per evitare la carneficina.
Triste vicenda, ma, a risarcirlo di quanto fu costretto a subire, quarantadue anni dopo la sua morte la città che lo aveva trattato come un pazzo (Budapest), trovandone conferma nel fatto che questo poi lo facesse impazzire davvero, gli eresse una statua. E queste, senza dubbio, son soddisfazioni.
Col senno di poi è facile tifare Semmelweis, ma mettiamoci nei panni del professor Klein, che era il suo primario, e che del mondo accademico dellepoca era autorevole esponente. Sul punto, quello della sepsi puerperale, la ricerca scientifica aveva raggiunto un pressoché generale consenso: era dovuta a umori mortiferi, cera solo qualche dubbio sul donde sortissero. Cera chi sosteneva che fossero prodotti dalla putrefazione di fluidi che ristagnavano nellutero dopo il parto; altri, però, sostenevano che questi umori mortiferi aleggiassero nellaria e ad alcune donne causassero una ritenzione del flusso mestruale, che, ristagnando nellutero, andasse incontro a putrefazione, eccetera, come sopra; da ultimo cera chi pensava che la putrefazione avesse origine da gas e feci di cui lintestino non riusciva a liberarsi perché compresso dallutero gravido. Cazzate, sì, ma solo col senno di poi.
Col senno dellepoca, era fin troppo ovvio che, a chiunque avesse osato azzardare unipotesi diversa, a buon diritto il professor Klein avrebbe potuto dire: «Guardi, lei ha due possibilità: prenda una laurea in medicina, una specializzazione in ostetricia e ginecologia, un dottorato in umori mortiferi, e poi ci confrontiamo. Oppure, più comodo per lei, mi ascolta e alla fine mi ringrazia, perché le ho insegnato qualcosa». Cè da giurarci che da tutte le taverne di Budapest si sarebbe levato un fragoroso applauso al grande Klein (che fa un po ossimoro, ma vabbè).
Questo, nel caso che ad azzardare lipotesi fosse stato un profano, perché, nel caso che ad azzardarla fosse stato un Semmelweis, il professor Klein avrebbe potuto dire, e anche qui a buon diritto: «Lei osa mettere in discussione il grande Virchow?». E qui, come in realtà accadde, Semmelweis aveva solo due scelte: tacere o insistere. Ed è sulla natura di questo eventuale insistere che occorre soffermarci, perché svela il punto di rottura che sempre incombe sul patto da tempo stretto tra ricercatore e clinico.
Noto è su cosa regga questo patto. Il ricercatore formula ipotesi e cerca prove che le possano validarle o invalidarle. Per farlo, ha bisogno, prima o poi, di verificarle sul piano clinico, dove possono trovare o meno la conferma di validità che hanno precedentemente ottenuto in vitro e/o sul topo, sul coniglio o su qualsiasi altro animale da laboratorio che, almeno in relazione a ciò che si intende testare, si ritiene abbia con luomo una affinità tale da rendere affidabili i risultati.
Cè voluto un po di tempo, ma oggi le verifiche sul piano clinico dellipotesi avanzata dal ricercatore sono parametrate in modo tale da far sì che i risultati siano comunemente accettati dal ricercatore e dal clinico. È dal clinico, daltra parte, che vengono posti al ricercatore i problemi che nascono dalla pratica di tutti giorni.
Capita, ad esempio, che il clinico possa trovarsi dinanzi ad una polmonite particolarmente stronza. Dopo aver constatato che gli strumenti fin lì messigli a disposizione dalla ricerca non danno soluzione al problema, gli toccherebbe fare una telefonatina al ricercatore per dirgli: «Senti, avrei un paziente con una polmonite strana, resistente agli antibiotici. Direi sia virale, ma di polmoniti virali così io non ne ho mai viste, quindi...».
Già qui, però, può esserci il primo intoppo, perché al clinico può capitare di uscire fuori dal seminato e, come Li Wenliang, azzardare: «Sembrerebbe una polmonite da coronavirus, ma direi si tratti di un coronavirus mai visto, qualcosa di simile al virus della Sars del 2002, ma un po più fetente...». Nel caso di Li Wenliang, lazzardo coglie nel segno, ma dallaltro capo del telefono può ben sentirsi dire: «Guarda, tu sei oculista e già è tanto che sconfini nella pneumologia, ma metterti pure a fare il virologo, per piacere, no. Mandami un tampone e aspetta la risposta, che spetta a me». Un fragoroso applauso dal vicino mercato del pesce e, visto che la Wuhan del 2020 non è la Budapest del 1847, qualche noia in più dalle autorità. Tranquilli, però, perché anche qui, se lazzardo coglie nel segno, cè la statua. Dopo morto, vabbé, ma non è il caso di star troppo a sottilizzare.
Stessa cosa accade al clinico, chessò, unanestesista (qui con l’apostrofo, perché si tratta di una donna, la dottoressa Malara) che, all’arrivo di un paziente all’Ospedale di Codogno con febbre, dispnea, ecc., né cinese, né proveniente dalla Cina, decide di fargli un tampone perché sospetta possa trattarsi di Covid-19. Non dovrebbe farlo, perché nel caso di specie i protocolli non lo prevedono, e i protocolli sono stati stilati da ricercatori in vari campi (infettivologi, epidemiologi, esperti di statistica, ecc., e tutti di altissimo livello, con un distintivo dell’Oms o dell’Iss appuntato al bavero della giacca), eppure lo fa, a rischio che le detraggano dallo stipendio il costo del tampone, se il risultato depone per una polmonite da pneumococco, però portata in spalla come la statua della Madonna, se ingarra (pare che la statua, in questi casi, sia una costante).
Speriamo capiti eguale sorte al professor Spagnolo, che, senza essere un ricercatore (è primario di cardiochirurgia presso l’Ospedale di Monza), si è permesso di dire che col Covid-19 si muore per tromboembolia polmonare e che dunque un farmaco antitrombolico come l’eparina sia risolutivo, quando somministrato in tempo utile, ad evitare la morte del paziente, che è morte da tromboembolia polmonare provocata dal Sars-coV-2. Suppongo non sia difficile intuire cosa implichino queste affermazioni. Sul piano clinico, darebbero spiegazione di molte cose, in primo luogo del perché i morti da Covid-19 siano nella stragrande maggioranza soggetti che per età e comorbilità sono più portati ad avere una tromboembolia polmonare. I problemi, però, nascono sul piano della ricerca, perché come ha prontamente fatto notare il professor Klein de noantri a chi gli chiedeva un parere su un’ipotesi che non veniva formulata da un ricercatore ma da un clinico: «Le notizie affidabili non arriveranno da un medico anonimo, ma dal New England Journal of Medicine o da The Lancet». E qui c’è da rilevare che, in attesa della eventuale statua, al clinico che si è azzardato a formulare un’ipotesi non sono concessi neppure il nome e il cognome che ha.
Speriamo che il New England Journal of Medicine prenda in considerazione l’eparina, così, se l’ipotesi di Spagnolo si rivelerà una cazzata, potremo tutti tirare un sospiro di sollievo al sapere che la ricerca è riuscita a preservare l’intangibilità del suo perimetro. Questa soddisfazione, però, pare sia destinata ad essere rimandata: al momento il New England Journal of Medicine sta prendendo in considerazione il Remdesivir, e pubblica uno studio sull’impiego del farmaco in 61 pazienti, 8 dei quali esclusi ai fini delle conclusioni sugli effetti. Studio, dunque, sugli effetti del farmaco in 53 pazienti. E gli autori dello studio sono 56. A dimostrazione che la ricerca non lesina energie.



venerdì 10 aprile 2020

«They too are human...»






«Now, if you think that science is an abstract subject free
of sensationalism and distortions, I have some sobering news...
Scientists too are vulnerable to narratives... They too are human
and get their attention from sensational matters...»

Nassim Nicholas Taleb, The Black Swan, 2007




In tuttaltro contesto – era sei o sette mesi fa, recensivo una parodia di Platone alla corte di Dionisio – della scienza dicevo quanto segue:

Nei vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile, verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo sia preferibile a quel «falsificabile» che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla Fälschungsmöglichkeit di cui ci parla Popper). Un vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno pretende di potersi sottrarre, né in forza dell’autorità precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale consenso» di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia l’uso di un termine come «verità» da appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto scientificamente comprovato. Difficile dire con quanta consapevolezza accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di chissà cos’altro nell’assegnare a un dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile, universale) è intrinseco al concetto di «verità», riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a «vero» si preferisce sempre «attendibile», «esatto», «credibile», che di «vero» sono sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà di ciò che esiste in senso assoluto» (Treccani) vantata dalla «verità».

È evidente quanto questo statuto sia stato violato negli ultimi mesi: mai tanto poco pudore, tanta poca umiltà, tanta poca prudenza, da parte di alcuni uomini di scienza chiamati a spiegarci cosa stesse accadendo. Sul piano deontologico, possiamo liquidare la questione col biasimo, ma su quello ontologico siamo chiamati ad essere indulgenti, concedere che «they too are human and get their attention from sensational matters», anchessi immersi in quella «société du spectacle», in cui «le spectacle n’est pas un ensemble d’images, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images», «une vision du monde qui s’est objectivée», «moment historique qui nous contient». In questa dimensione è del tutto comprensibile che, come tutti, «scientists too are vulnerable to narratives», e cioè alle trame che innervano il reale cercando di dargli un senso razionale, perché lidea possa dettar legge al mondo intimandogli di obbedire alla logica (meglio impartigli lordine in tedesco, come si fa coi cani: «Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig»).
Il problema – e problema bello grosso – nasce col dover constatare che le Reazioni umane alle catastrofi (titolo di un libricino tirato giù dagli scaffali in queste ultime settimane, autori Massimo Cuzzolaro e Luigi Frighi, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, 1991) mettono in gioco emozioni: «Secondo Slovic, Fischhoff e Lichtenstein gli atteggiamenti sia individuali che collettivi che spesso si registrano nei confronti della minaccia ambientale (tecnologica o naturale) sono da una parte la tendenza alla “sovrastima” cui spesso corrispondono sentimenti di ansia e di impotenza e per contro la tendenza alla “sottostima” fino agli estremi della totale “denegazione del pericolo”» (pag. 49).
«Scientists too»? Sì, a sentire Slovic, Fischhoff e Lichtenstein parrebbe che la cosa non riguardi solo «policy makers and citizens», ma anche «the entire community of scientists», sicché cè da chiedersi: «If public debates and communications from experts do little to allay fears and, indeed, may exacerbate them, how should we structure public participation?» (Perceived Risk: Psychological Factors and Social Implications, pag. 22). Questione che ovviamente si pone anche in relazione allatteggiamento opposto, quello della «tendenza alla “sottostima”», che tuttavia occorre dire quasi mai arriva agli «estremi della totale “denegazione del pericolo”», se non nelle interpretazioni di comodo.
Di fatto, le interpretazioni di comodo sembrano privilegiare di gran lunga il discorso pubblico degli «scientists» che «do little to allay fears and, indeed», finiscono spesso per «exacerbate them». Il peggio, tuttavia, accade, quando lo «scientist» è uomo di «spettacolo» (qui tra virgolette per rimandare a quanto se nè detto pocanzi), costretto a passare dal sottostimare al sovrastimare, per rispondere alla fluttuante istanza del mainstream.
Eccolo, dunque, quando in Italia il Sars-coV-2 è almeno da tre settimane, dire in favore di telecamere che «oggi in Italia il virus non cè, al momento ha più senso preoccuparsi dei meteoriti» (LAssedio, 20.2.2020 – Nove), e allora possiamo sentirci in una botte di ferro, tanto il governo ha sospeso i voli da e per la Cina, possiamo allegramente pigiarci in 47.000 a tifare per l’Atalanta contro il Valencia, e dopo aver portato il nonno al Pronto Soccorso: tossiva e aveva un po di febbre, ma si trattava senza dubbio di banale influenza (quella che comunque ne ammazza 8.000 ogni anno), il virologone escludeva potesse trattarsi di Covid-19.
Lo stesso virologone che, a vedere una settimana dopo il Sars-coV-2 diffondersi dallo stadio di Bergamo e dal Pronto Soccorso a unintera regione, avallava misure di restrizione del tutto immotivate a fronte di una possibilità di contagio che, come per ogni virus, è in relazione alla carica virale infettante: bastava una sola particella virale a sterminare un condominio. E forse gli si può pure concedere che lintenzione non fosse malvagia, in fondo cera da spostare lansia dal meteorite allepidemia, e bisognava farlo in fretta, ci voleva troppo tempo a spiegare che un R0 uguale a un 2,6 o a un 3,4 si ha solo in condizioni di pieno favore al Sars-coV-2, come quelle – guarda caso – realizzate col dire che «in Italia il virus non cè», certo non con landare a fare jogging.
Di fatto, seppure a fatica, si fa largo tra panico e isteria la ragione che spiega perché proprio la Lombardia, e proprio con quei numeri: al virus si è dato un formidabile moltiplicatore, prima, proprio come si è dato un altrettanto formidabile moltiplicatore alla paura, dopo. Qualcuno, certo, avrà pure fatto un pensierino per approfittarne e farsi regista dello «stato deccezione», Giorgio Agamben non ha tutti i torti, ma in larga misura abbiamo assistito all’inverecondo blaterare di personaggi in cerca di un autore.
E qui, proprio per aver concesso fin troppa indulgenza sul piano ontologico a questo genere di «scientist» che pretende di incarnare la «verità» sia quando sottostima che quando sovrastima, e sempre per servire le ragioni dello «spettacolo», siamo sbalzati con violenza su quello deontologico, dove lo troviamo con la sua ineffabile faccia di cazzo a promuovere un Patto trasversale per la scienza, che della «verità» pretende di essere il vocione autorizzato a zittire chi disturba lo «spettacolo». E su questo piano non basta il biasimo.

martedì 7 aprile 2020

«A fronte della massiccia, crescente diffusione di disinformazione e fake news relative al Covid-19...»




Proprio ieri m’era venuto l’uzzolo di fare un colpo di telefono al buon Mantellini, uno dei sedici chiamati a far parte del Comité de salut public, al quale Andrea Martella, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, aveva dato vita con apposito decreto, lo scorso 29 gennaio, col mandato di «indagare sull’odio in rete» e di «studiare soluzioni per contrastarlo».
Vi pare che il signor Sottosegretario potess’essere all’oscuro del fatto che per la minaccia, l’insulto, la diffamazione e tutte altre forme in cui l’odio si esprime ci sono già il codice penale e la magistratura? Impossibile. Altrettanto impossibile che, non essendone all’oscuro, nelle sue intenzioni ci fosse l’avocare al potere esecutivo quello giudiziario. Era evidente, dunque, che nel mirino ci fosse il mero sentimento d’odio, e contrastare un sentimento, capirete, non è roba da poco.
Non se n’era saputo più nulla, perciò stavo per prendere il telefono e chiedere: «Ohi, Mante, siete operativi? State indagando? A che punto siete? Avete pronta la fattispecie penale in cui ingabbiare il disdicevole sentimento una volta che l’avrete stanato?». Poi ho pensato che ci avrei rimediato la figura di chi in Blade runner importunasse Rick Deckard al sushi-bar chiedendogli: «Ehi, Rick, come va ’sta caccia ai replicanti? Tosti, ’sti bastardi di Nexus-6, eh? Quanti ne avete “ritirati” finora?», e allora ho lasciato perdere.

Neanche un quarto d’ora ed ecco che sotto gli occhi mi passa la notizia che al signor Sottosegretario è venuta un’altra bell’idea: «a fronte della massiccia, crescente diffusione di disinformazione e fake news relative all’emergenza Covid-19», stavolta ha dato vita a una «task force» che fra i suoi compiti avrà l’«analisi delle modalità e delle fonti che generano e diffondono le fake news», il «coinvolgimento di cittadini ed utenti social per rafforzare la rete di individuazione» e il «lavoro di sensibilizzazione attraverso campagne di comunicazione».
«Ottimo!», mi son detto, e subito m’ha preso una voglia matta di «coinvolgimento» nella «rete di individuazione», cosa ben diversa – capirete – dalla delazione di chi urla dal balcone alla gazzella dei Carabinieri: «Lì, dietro l’angolo, correte! C’è uno che passeggia senza cane e senza busta della spesa!». E dunque ero pronto a dare il mio contributo alla lotta contro la disinformazione.
«A pochi giorni dallo scoppio dell’epidemia – avrei voluto segnalare – il Burioni diceva da Fazio: In Italia il virus non c’è, ha più senso preoccuparsi di meteoriti”. Chi aveva febbre e tosse avrà pensato fosse solo influenza e sarà andato tranquillamente ad ungere tutto il pronto soccorso più vicino. E gli organizzatori di Atalanta-Valencia? “Ok, via libera, Burioni dice che non c’è pericolo! Ma stiamo attenti ai meteoriti, ché possono far buche nel manto erboso e falsare la traiettoria dei rasoterra!”. E così sarà andata pure alla Baggina. Il nonnino starnutiva? Non poteva essere Covid-19, il Burioni l’aveva assicurato la sera prima: tutti a dargli una pacca sulla spalla e a dirgli: “Salute!”...»
Perciò mi ero messo in cerca di un e-address, di un numero verde, insomma di un recapito cui far giungere il mio contributo. Niente, non lho trovato. 
Invece mi sono imbattuto in un articolo a firma di Anna Lombroso su Il Simplicissimus, di cui qui riporto la gran parte:

«Verrebbe da sorridere per l’involontario effetto paradosso della ricerca della verità da parte di chi possiede tribune e amplificatori, seleziona le fonti, attribuisce autorevolezza o la demolisce allo scopo di autorizzare disposizioni, accreditare misure, imporre comandi, persuadere che regole inopportune e illegittime siano giustificate dall’intento di agire nell’interesse popolare, e che con tutta evidenza vuole tacitare qualsiasi forma di critica e dissenso in nome dello stato di necessità.
Verrebbe da sorridere per la composizione della task force, fatta tutta di appartenenti alle cerchie riconosciute, accademici della comunicazione e giornalisti, finalmente abilitati a dare addosso, a zittire, a intimorire chi non appartiene a ordini, chi non gode delle difese immunitarie delle caste e di quelle legali delle corporazioni, con tanto di coperture assicurative in caso di sfacciato uso della menzogna.
Verrebbe da sorridere che l’idea sia venuta in seno a un Esecutivo che da due mesi somministra numeri contradditori, manipola dati, adultera statistiche, impartisce direttive impraticabili e confuse, dice e smentisce, chiama a testimoniare la scienza e la sconfessa a intermittenza, riducendo gli esperti al ruolo di opinionisti ben visti se corroborano la scelta apocalittica e oggetto di pubblico anatema se non la certificano.
Verrebbe da sorridere perché in prima linea nella guerra a menzogne e distorsioni ci sono proprio gli addetti ai lavori dei giornaloni che da due mesi contribuiscono a un’operazione di “rappresentazione” spettacolare dell’epidemia in termini sensazionalistici, tra sussurri e grida in sostituzione dell’informazione, con le supposizioni al posto dei dati, dell’acquiescenza a icone improvvisate mai sottoposte a contraddittorio, favorendo l’irruzione dell’immaginario all’interno della realtà, promuovendo una percezione avvelenata dalla paura, condizionata dall’imposizione di quello che vogliono mostrarci le telecamere, dall’allarme generato dai titoli in sovraimpressione, dal confronto rissoso dei pareri discordanti delle “convinzioni” dei tecnici, dalle cifre lanciate come armi a scopo intimidatorio.
Verrebbe da sorridere perché non cambia mai la natura delle censure, che comprende quella finalità “pedagogica” intesa a tutelare una massa immatura, a proteggere un volgo ignorante, a salvaguardare una plebe puerile.
Invece c’è poco da stare allegri, perché si ricompone quel disegno di infantilizzazione del Paese, che perfino per me è un punto dolente, se ogni giorno qualcuno mi chiede di non “scrivere difficile”, di non usare termini che superino quel centinaio di parole in uso nelle scuole, nei social, nella comunicazione istituzionale , nei giornali, di “abbassare” il livello oltre che i toni per uniformarmi ai requisiti che assicurano consenso.
Il processo in Italia ha avuto molti promotori, le televisioni di Berlusconi, certo, ma pure il gergo moderno e dinamico dei “progressisti” prodotto e subito consumato nei Think Tank, la decodificazione aberrante del linguaggio dell’economia e comunque delle scienze inesatte, impiegata per prendere per i fondelli e intimorire un popolino di bamboccioni indolenti, il lessico e la fraseologia della “politica”, volontariamente o involontariamente inadeguata a garantire partecipazione e riconoscimento, soprattutto perché al livello mediocremente elementare della comunicazione fa da controcanto l’esuberanza prolissa e barocca della produzione burocratica e giuridica.
Così mettere il bavaglio oltre che la mascherina a voci fuori dal coro della retorica del terrore, dell’amor patrio, della compassionevole beneficenza, prevede certamente la somministrazione a lungo termine delle favole adatte a un popolo bambino. E non occorre tirare il ballo Propp per sapere che le fiabe seguono schemi precisi e paradigmatici, quelli dell’obbedienza agli ordini e alle regole, la cui violazione comporta rischi mortali, perdersi nei boschi, essere mangiati dai lupi, ingabbiati da streghe che mettono all’ingrasso per arrostire il trasgressore, quelli delle prove da superare per garantirsi la salvezza.
Non ci resta che sperare che qualche Franti superi la stigmatizzazione e qualche Pinocchio si slavi dall’anatema di chi una volta arrivato in cima e per paura di ruzzolare, vuole la riconferma quotidiana del suo status superiore grazie al disprezzo per la “gente”, dimostrato anche con l’ostensione di una funzione educativa e paterna.
Non a caso la morale dell’apologo regressivo che ci viene raccontato ogni giorno è proprio quella di Pollicino, di Cappuccetto Rosso, quella della sottomissione docile e deferente, pena oscuri e mortali esiti, fino all’attenersi a prescrizioni che sono le stesse che hanno accompagnato la nostra infanzia: lavarsi le mani, non frequentare cattive compagnie, voler bene a papà e mamma (ma da lontano), apprezzare muratorini, carbonai e altri eroi anonimi che lavorano per noi, esaltare l’identità patria, voler bene alla bandiera e cantare l’inno nazionale, purché dalla finestra».

E niente, che vi devo dire, m’è passata la voglia di collaborare.

domenica 5 aprile 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (6)


6. Più che del Covid-19, qui ho discusso di come se n’è discusso. La cosa era nuova, se ne sapeva poco o niente, era prevedibile che offrisse i suoi aspetti oscuri alle interpretazioni, che per loro natura sono bellicose, e di fronte al nuovo si bipolarizzano, scendendo in campo intenzionate a vincere o a morire, e dunque non ammettono di essere indebolite da dubbi o critiche: ciò che è nuovo, e oscuro, è in sé e per sé fatale, e dunque, quando arriva, «nulla sarà più come prima» (nulla deve essere come prima), perché ogni destinazione è destino; oppure no, perché il fatale è solo l’artefatto della sorpresa dinanzi all’imprevisto, che a posteriori risulta sempre prevedibile, perché, dimentica del passato, la storia procede di sorpresa in sorpresa e dunque «tutto sarà come prima» (tutto deve essere come prima). Armate dei loro più taglienti argomenti e chiuse nelle loro più luccicanti corazze etico-estetiche, abbiamo visto queste due posizioni, referenti dei rispettivi umori, menarsi di brutto.
Al momento, è la prima che sembra avere la meglio, ma d’altronde va sempre a questo modo, all’inizio. E ve n’era indizio prim’ancora che si venisse alle mani, perché, quando i morti da Covid-19 erano ancor meno di 1.000, già serpeggiava nei talk show la vulgata del fatale come destino sociale: non tutto verrà per nuocere – si mormorava fuori dai denti – la competenza riprenderà la persa autorità, l’emergenza ripristinerà la sacrosanta catena di comando, le plebi torneranno a chiedere pane senza pretendere anche rose, e la guerra ci farà riscoprire l’amor patrio, avremo qualche eroe che illustrerà le smarrite virtù, e «nulla sarà più come prima», nel senso che tutto sarà com’era prima del prima. Cionondimeno, come d’altronde regolarmente segue, il prima del prima fa fatica a diventare il dopo, e alla fetecchia che ci consigliava di leggere le pagine che il Manzoni dedica alla peste già s’appresta la fetecchia che ci consiglia di passare alle pagine che il Manzoni dedica all’assalto dei forni.
Quando non si hanno interessi in gioco in questo genere di guerre (e non parlo solo di interessi materiali, ma anche di quelli psicologici, quelli che lo psicologo pudicamente chiama fattori motivazionali), non si può scendere in campo senza casacca, perché ogni schieramento ti considera far parte di quello opposto, e in più vilmente camuffato da neutrale. A nulla vale esordire, come ho fatto con un tweet del 5 marzo: «State esagerando. Tutti. State esagerando». Guai, poi, a far presente allo schieramento che prende l’iniziale sopravvento che, col trattare il Covid-19 come qualcosa di mai visto prima, «la soluzione diventa problema» (tweet dell’8 marzo). Peggio ancora chiedersi ad alta voce, come ho fatto col primo dei post di questa serie, «perché il Covid-19 sta godendo di una copertura mediatica tanto spropositata?».
Domanda posta male, convengo, perché col crescere del numero dei contagiati (noti) e dei morti (da/con), e ancor più col farne oggetto di unica questione degna di attenzione, era inevitabile offrire il fianco all’obiezione cui qui do voce con le parole di un amico che lascio nell’anonimato: «Continui a credere che sia poco più di un’influenza?». Gli amici sono amici e non si possono mandare a fare in culo, occorre un minimo di gentilezza anche quando ti mettono in bocca cose che non hai mai detto: «E dove l’ho mai scritto? Io mi son chiesto solo perché 8.000 morti per/con influenza ogni anno non abbiamo mai avuto tanta attenzione. E poi, con Dawkins, con Debord, con Jenkins, con Perniola e con Rothkopf, ho cercato di capire le ragioni del perché, ma soprattutto del come, l’attenzione sul Covid-19 si stia prendendo più vite del Covid-19 stesso».
Così dove, riguardo al punto in cui dicevo che il Covid-19 impone(sse) misure di contenimento, sì, ma non autorizza(sse) all’isteria, né a provvedimenti che, per evitare 5-10-20-30.000 morti, possono far morire di fame mezza Italia, un altro amico mi scriveva: «Potevi dirlo in un altro modo, vedrai che quel “morire di fame” ti procurerà noie». Ma sai quanto me ne fotte, caro mio, mai stato sul mercato delle idee, mai avuto bisogno di rendere appetibili le mie e, quando supero i 5.000 lettori a post, comincio a sospettare di aver scritto cazzate.
Tanto stia a premessa di quanto, in questo e nel successivo paragrafo, starà a tentativo di tirare i fili e chiudere col Covid-19 (conto di dedicarmi al saggio su Messerschmidt che sta a stagionare nelle bozze da dieci anni). Qui affronterò due o tre questioni marginali, ma poi nemmeno tanto, relative a termini che userò del settimo e ultimo paragrafo, e sui quali non vorrei passasse qualche fraintendimento. E dunque.

La catastrofe come disegno Nel «complottista», che è «chi tende a interpretare ogni evento come un complotto o parte di un complotto» (Devoto-Oli), v’è un’implicita professione di fede nell’esistenza di intelligenze umane in grado di ordine piani che, nel caso dei «complotti» (da «complicitum» «complictum», che alla lettera è «viluppo», e in senso figurato rimanda a ciò che è «oscuro»), sono sempre assai «complessi» (da «complexum», che alla lettera è «intreccio», ed estensivamente «trama»), come d’altronde si rileva dal considerare che nell’avvolgere di «cum-plico» e nell’intrecciare di «cum-plecto» sta un gran bel togliere linearità a ciò che è «planum». Avrei potuto chiamarla convinzione, ma, se ho preferito parlare di fede, è per la stretta parentela che v’è tra il complottista e il credente. Per entrambi, infatti, tutto ciò che accade («ogni evento») non sarebbe altro che la realizzazione di un disegno destinato a rimanere imperscrutabile a chiunque neghi lesistenza dellintelligenza che lo ha concepito. Intelligenza superiore (poco importa se superiore a quella umana, nel caso del credente, o alla gran parte degli umani, nel caso del complottista), perché in entrambi i casi si tratta di unintelligenza in grado di veder sempre realizzato il suo disegno (in virtù della sua onnipotenza, in un caso, o di un potere comunque efficace, nellaltro).
Si obietterà, e a ragione, che il buon fine cui mira chi ordisce un complotto non ha nulla a che vedere col «buono» che Dio vede in quel che ha creato (per sette volte, nel Genesi, «e vide che era cosa buona»), il che non toglie, tuttavia, che il complottista e il credente vivono entrambi in una realtà che si sono costruiti («ogni evento», l’uno, il Creato, l’altro), ma che ritengono sia stata costruita per loro, e che in entrambi i casi (paranoia, in uno, fede, nell’altro) è inattaccabile. Costruzioni in tutto simili, fatta eccezione per una differenza che però non è da poco: «paranoia is faith with a minus sign in front» (Derick Parsons, Cognitive Behavioral Therapy vs Neurolinguistic Programming, 2019). Nella fede ci si sente sempre al sicuro; nella paranoia, mai. Su Dio puoi fare affidamento sempre (volendo, ovviamente), anche quando ti sottopone a prove tremende; sospetto e diffidenza, invece, non devono mai abbandonarti dentro la trama in cui ti muovi, anche quando in apparenza non mostra pericoli (meno ne mostra, più ne ha: non si ha complotto senza una vittima). E tuttavia il delirio persecutorio non è esclusivo della paranoia del complottista: se alteri l’ordine del suo Creato, Dio ti punisce con diluvi, carestie, cavallette e peste. È il meme della catastrofe naturale per punizione divina, di cui parlavo nel terzo paragrafo. Se, però, il complottista non è stato in grado di offrirci un disegno in cui la pandemia fosse decisa da una Spectre del terrore (non è riuscito ad andare oltre l’incidente del virus costruito in laboratorio per essere impiegato in una guerra batteriologica), il credente (qui inteso come chi allo status quo conferisce gli attributi di Dio e/o della Natura) è stato in grado imporre la vulgata del Covid-19 come evento metasanitario, come polmonite virale che ci parlasse di tutti i nostri mali, e in primo luogo di quelli sociali.

Lo spettacolo della catastrofe Anche senza voler far propria l’ipotesi debordiana dello spettacolo come «Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta», «visione del mondo che si è oggettivata», «momento storico che ci contiene», non sfuggirà a nessuno che la rappresentazione del Covid-19 ha sembrato tendervi fin dallinizio, e in buona sostanza vi è riuscita.
Infatti, il virus c’è; e c’è un’enorme quantità di contagiati (cosa ragionevolmente desumibile fin dall’inizio, ma per fortuna arriva un Imperial College per dirci con estrema precisione che i positivi, in Italia, sono tra il 3,2% e il 26%, tra 1.850.000 e 15.500.000, e ora la desunzione ha solidità scientifica – sì, bravi, è sarcasmo); e ovviamente questo implica che la stragrande maggioranza sia asintomatica, e mai saprà se è positiva o meno al Sars-coV-2 (pochi tamponi, servivano ai calciatori e alle loro signore – sì, bravi, sto insistendo col sarcasmo); e però ci sono i morti, e tanti, ancorché in stragrande maggioranza molto anziani e molto malati (niente sarcasmo, qui, perché bisogna pur morire di qualcosa, ma che si muoia di vecchiaia passi, e passi pure che si muoia di diabete, di acciacchi cardiovascolari e di insufficienza polmonare cronica, ma di vecchiaia, diabete, acciacchi cardiovascolari, insufficienza polmonare e Covid-19 dispiace assai di più; poi, bel bello, arriva il presidente dellIstat e ci dice che le morti per malattie respiratorie «nel marzo 2019 sono state 15.189 e l’anno prima erano state 16.220» e che «incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020», che francamente si poteva pure dire prima); e per evitare che gli asintomatici, che non sanno di essere positivi, vadano in giro ad ungere, aumentando il numero dei morti, sono necessarie misure di contenimento, a pareggiare i conti con quelli che si sono beccati il virus nel pronto soccorso preso d’assalto al primo serpeggiar del panico; e per tappare i buchi di una sanità pubblica, fatti dai tagli dei passati governi di centrodestra e di centrosinistra, qualsiasi governo – di centrodestra, di centrosinistra o di-a-da-in-con-su-per-tra-fra – può solo minacciare lanciafiamme e multe da 3.000 euro a chi passeggia in solitudine, ma senza valido motivo; e tutto questo offre notevoli spunti anche al più sfessato degli sceneggiatori; se tutto questo, insomma, è nei fatti, è naturale che la sua rappresentazione prenda, includa, assorba, ci faccia partecipi come platea, ci chiami in scena a guardare lo spettacolo in cui siamo comparse mute o tutt’al più rumoreggianti sui social, basso continuo della colonna sonora che scorre sotto gli scazzi tra il Burioni e la Gismondi, sotto l’annuncio dell’Apocalisse di don Fanzaga e la speranza di Francesco che il picco della curva si abbia al Venerdì Santo e a Pasqua abbia un miracoloso crollo ad accenderci in testa una pentecostale fiammella di conoscenza.
Un bel nastro di Moebius, non c’è che dire: fatti e interpretazioni hanno la stessa faccia, siamo lo spettacolo che guardiamo, omogeneo a dispetto delle sue contraddizioni interne, perché tutte funzionali al teatro del terrorismo (Jenkins) e allinfodemia del fatale (Rothkopf). Quanto di questo spettacolo non siamo spettatori, ma comparse che per giunta lavorano a gratis, ce lo illustra la famosa circolare aziendale in video di Urbano Cairo, che dello spettacolo non è il regista, ma attore, perché mera rotellina del sistema che embrica informazione-intrattenimento, con pubblicità-consumo e con produzione-capitale. Guardando quel video dovrebbe esser chiaro: cè una tv che, risparmiando in spese per lustrini, può vivere 24 ore al giorno di giornalisti che intervistano giornalisti sulla questione che ha maggiore appeal.

Mia moglie mi sfotte Mia moglie mi sfotte, dice: «Se ti becchi il virus, e muori, sicuramente arriveranno un sacco di prese per il culo a commento dellultimo pippone che avrai postato: che faccio, le cestino o le edito?». Hai voglia a dirle che non sono Don Ferrante, che la peste cè, e la vedo (e dico proprio «peste», così le mostro tutta la mia comprensione per la sua astinenza da coiffeur e pilates).

E ora – come dicevo – cerchiamo di tirare i fili e chiudere.